Massimo A. Alberizzi
Mogadiscio, 4 dicembre 2006
Sembrava tutto pronto per la mia esecuzione. L’ambientazione (la pista deserta dell’aeroporto di Mogadiscio), i sicari (i ferociî islamici) e la vittima, come negli ultimi film sul tema, io. Ma alla fine tutto è andato bene. Ora so cos’è il terrore.
Tutto avviene in un lampo. Siamo davanti all’ufficio della Dallo Airlines, una compagnia aerea privata di Gibuti. Sono con due colleghi freelance, Emanuele Piano e Marco Ricchello, la loro prima esperienza nella capitale somala devastata fino a pochi mesi fa dalla guerra civile. Siamo qui per vedere come le Corti Islamiche che l’hanno presa in mano cacciando i signori della guerra che la dominavano l’hanno rimessa in sesto.
Con noi c’è Ali Edmondo, figlio di un veterano simpatizzante degli italiani. Lui, vecchio amico, che è rientrato dall’Olanda per partecipare assieme alle Corti islamiche alla ricostruzione della Somalia, ci fa da guida e interprete.
All’ufficio della Daallo abbiamo appena riconfermato il volo che a metà settimana dovrebbe portarci indietro a Gibuti. Quando in macchina salta un ragazzino, avrà avuto 16 o 17 anni e intima ad Ali in somalo: La corsa è finita, andiamo in albergo. La nostra guida, poco più di 50 anni barbetta e capelli brizzolati, gli mostra documenti e permessi, ma non serve a niente. Il ragazzino, Ahmed, è testardo, pretende di riportarci a casa e da quel momento lo avremo sempre alle costole. Siamo appena entrati in cortile che sgommando entrano 4 enormi fuoristrada da cui saltano fuori una ventina di uomini. Sembrano tutti disarmati, anche se sotto magliette e camicie, mostrano dei rigonfiamenti poco rassicuranti.
Uno di loro, papalina in testa e caffettano nero mi viene incontro. I suoi modi sono gentili, ma il ghigno e i gesti spicci sono piuttosto inquietanti: Come ti chiami? Massimo. E altro nome? Alberizzi. Vieni con noi, monta in macchina. Dammi il passaporto. È in camera. Mi spediscono in camera, la 202 del Sahafi Hotel, lo storico albergo dei giornalisti che però, sfrattato dal vecchio edificio dove stormi di reporter hanno seguito la guerra ai tempi della missione dell’Onu (1992-1995), da qualche anno ha cambiato palazzina.
Ottengo anche il permesso dalla guardia che mi segue come un’ombra di passare dal bagno. È a quel punto che, solo per un attimo, lontano da occhi indiscreti dal cellulare, mando un messaggio a Marina Rini, una collega che sta a Nairobi: Le Corti mi stanno arrestando. Avvisa tutti. Quell’sms è partito per miracolo. I messaggini dalla Somalia non funzionano quasi mai. Questo invece, chissà come, è partito.
Torno in cortile. Mi fanno salire su una grossa jeep scura. Quello dal caffettano nero, che sembra il capo, si sistema davanti. Sono dietro di lui. Accanto a me un uomo delle corti, capo coperto con uno scialle bianco. Parla italiano. Si chiama Hassan. Sorride e mi rassicura: Stai tranquillo non ti succederà niente, vogliono solo farti delle domande. Sto morendo di paura, gli confesso. Sì, si vede, sorride.
Il macchinone prende la strada dell’aeroporto seguito da almeno altri 3 fuoristrada. Entra nei cancelli e si avvia verso la pista. Tutto è deserto. Il posto ideale per un’esecuzione, penso. Una convinzione che si radica ancora di più quando le altre auto, che si sono affiancate alla nostra dopo che ci siamo fermati, vengono invitate ad andarsene: è banale. Meglio non avere troppi testimoni quando si fanno queste cose. E poi a un paio di centinaia di metri c’è il mare. Ed è pieno di squali famelici (Mogadiscio è famosa per la pericolosità delle sue spiagge, ndr). Facile sbarazzarsi del cadavere. Non mi sfiora comunque la mente, neanche per un attimo, l’ipotesi di un rapimento a scopo di estorsione.
Il panico però è passato. Subentra una sorta di rassegnazione, anche se il cuore batte a mille e rivela una tensione altissima. La domanda che ti poni in continuazione è cosa mi devo inventare per uscire fuori da questa situazione? Ma non riesci a trovare alcuna soluzione logica. Stai tranquillo – continua benevolo e rassicurante Hassan – non ti sarà fatto alcun male. Ma non mi convince. Intanto l’inviato speciale italiano per la Somalia basato a Nairobi, Mario Raffaelli, avvisato da Marina Rini, ma anche Emanuele e Marco, i due colleghi rimasti al Sahafi, hanno mobilitato mezzo mondo: i capi delle corti islamiche, i miei amici somali, le Nazioni Unite, la Farnesina, la viceministra Patrizia Sentinelli, l’Unità di Crisi, e ovviamente, il Corriere della Sera. Prima di cominciare l’interrogatorio il capo del gruppo riceve una telefonata. Ne riceverà altre durante il colloquio. Capirò solo dopo la conclusione della vicenda che erano tutte di gente preoccupata per la mia sorte.
In auto restiamo in tre. Lui davanti, io dietro e Hassan accanto a me. “Mi presento, sono Mahad dei servizi di intelligence delle Corti Islamiche – esordisce in inglese porgendomi un tesserino verde plastificato nuovo di pacca, con il suo nome e cognome e una serie di stemmi -. Qual è il tuo giornale”?
“Il Corriere della Sera, the main Italian daily newspaper”, rispondo. Il resto del colloquio si svolgerà in italiano, attraverso l’interprete.
“Tu hai scritto qualcosa che non andava scritto. Delle bugie. Sai quali? Prova a ricordare”, è la prima domanda di Mahad, che poche settimane dopo scoprirò essere più conosciuto con il suo soprannome, Karatè, data la sua passione per le arti marziali.
“Ho scritto decine e decine di articoli sulla Somalia, non posso ricordare tutto. Di che argomento si tratta? “bofonchio. “Lo devi sapere tu, pensaci bene”. L’intimidazione mi fa tornare un po’ battagliero. Hassan è sempre gentile e mi fa pensare, nonostante la situazione pericolosa, al caro, vecchio e pacioso Mike Buongiorno che ti fa le domande a Lascia o Raddoppia. Ogni volta che Mahad apre bocca comincia la sua traduzione con: “Il tuo amico ti chiede”. Una formula che mi infastidisce, ma so che Mahad appartiene al clan aer (me l’ha sussurrato Ali Edmondo, anche lui aer, prima che mi portassero via) e i somali, quelli che mi conoscono, per via delle mie frequentazioni, con Starlin Arsh, in particolare un’intellettuale somala dalle capacità fuori dal comune uccisa in un agguato a Nairobi nel 2002, considerano aer anche me. Buona cosa. Il suo tono in fondo è amichevole tanto che riesco perfino a pormi la domanda: non soffrirò mica della sindrome di Stoccolma?î
“Tu hai sbagliato qualcosa. Che cosa?”. Altra domanda insidiosa. Vattelappesca, penso. Rispondo: “Vediamo per capitoli. Si tratta forse delle interviste ai vari capi islamici?” Dissertiamo così sui miei colloqui con Shek Sharif Shek Ahmed, il capo dell’esecutivo delle corti islamiche, una sorta di Primo ministro. L’ho incontrato due volte. No, quest’obbiettivo non c’entra nulla.
“Per caso gli articoli sulla presa e la violazione del cimitero degli italiani da parte delle corti islamiche?” Evito di pronunciare la parola fondamentalisti. No, neanche quello.
Capisco dove vuole arrivare: alla presenza degli eritrei in Somalia a fianco delle Corti Islamiche. Ma non gliela do vinta subito: “Forse la presenza di ospiti stranieri a Mogadiscio?” Azzardo alludendo ai presunti terroristi di Al Qaeda che, secondo gli americani (ma non si sa se sia vero o solo propaganda) hanno trovato rifugio in Somalia. No, errore. Non si tratta di quello. Mahad butta là: “Hai parlato di truppe straniere sul suolo somalo?”
“Certo, degli etiopici che sono entrati verso Baidoa o Galkayo”, ribatto con sicurezza. “No, non quelli. Altri stranieri a fianco delle Corti”.
“Ah – fingo di cadere dal pero – gli eritrei!”. “Bravo”, si congratula quasi Mahad, mentre io capisco che siamo alla fine. Infatti mentre pronuncio la parola eritrei, mi torna il panico. Un anno fa era arrivata un’informativa al Corriere secondo cui i sicari dell’ex colonia italiana sul Mar Rosso avrebbero voluto farmi la pelle durante un viaggio in Somalia. “Ne ha parlato – Hassan Turki, (uno dei capi, forse il più duro, di tutte le corti islamiche somalia)”, cerco di giustificarmi. “Abbiano il discorso di Hassan Turki e non ma mai parlato di eritrei”, mi gela Mahad.
“Siete certi? A me pareva di no, ma posso sbagliarmi. Non ha fatto un lungo discorso sugli stranieri che combattono con le corti quando ha preso Chisimaio?”, chiedo come se cadessi dalle nuvole, ma avendo ripreso un po’ di sangue freddo.
“Perché hai scritto che ci sono gli eritrei? Tu li hai mai visti”? Temo proprio che questa potrebbe essere la domanda conclusiva, preludio della esecuzione. Mentre cerco di abbozzare una risposta plausibile, tipo “c’è scritto in tutti i documenti dell’Onu”, Mahad riceve una telefonata. Scoprirò dopo che è quella risolutiva. Dall’altra parte del filo c’è Shek Hassan Daher Aweis in persona, il capo della shura, il parlamento islamico della Somalia, anche lui aer.
Attivato da Mario Raffaelli, da Ali Iman Shermarke, capo della radio televisione Horn Afrik, un altro mio buon amico che sarà ammazzato dagli islamici meno di un anno dopo, e da una massa di aer moderati tra cui Hibo Yassin (una ragazza aer per parte di madre, che vive a Nairobi) e l’avvocato Zaccaria (suo consigliere particolare) l’uomo che gli americani additano come terrorista e che oggi invece rappresenta l’ala moderata dell’islamismo somalo non ha esitato a prendere il telefono e ad ordinare a Mahad di riportarmi immediatamente in albergo.
Quando l’uomo in papalina e camicione finisce la conversazione, l’atmosfera cambia. Con un sorriso smagliante mi dice: noi abbiamo i tuoi articoli, ma tu hai riconosciuto la tua colpa, quindi ti riportiamo in albergo.
Ma non è finita. La Shura viene riunita d’urgenza e, racconta chi era presente, comincia un lungo scontro tra gli oltranzisti che, sventolando la copia di tre miei articoli, vorrebbero gettarmi in una cella in attesa di ulteriori indagini su questo giornalista-spia, e i moderati, attenti a non sciupare il volto umano che faticosamente il regime islamico sta tentando di costruire.
La discussione è feroce. C’è chi, brandendo i miei articoli, propone di farmi fuori subito. Nella mia stanza al Sahafi dove la tensione è alle stelle si accavallano le notizie più diverse portate da emissari: “Vi stanno per arrestare”, “Emanuele e Marco possono andare, tu dovrai restare”, “domani vi espellono”.
Il proprietario dell’albergo, Mohamud Jirdeh Husseini, che conosco da anni, e il gestore Adbullahi, ex caposcalo della Somali Airlines ai tempi della dittatura di Siad Barre, sembrano sinceramente preoccupati per la mia sorte.
La speranza si riaccende quando arriva l’informazione che un aereo delle Nazioni Unite con a bordo il capo del dipartimento umanitario dell’Onu, Eric Laroche, arriverà a Mogadiscio l’indomani mattina. Raffaelli chiama Laroche e chiede per noi il suo aiuto: “Bene, io sono disposto a caricarli – è la risposta – ma le Corti devono essere d’accordo nel lasciarli andare”, risponde il capo dellíOnu.
La shura discute e il risultato non è affatto scontato finché Shek Hassan – mi racconteranno più tardi – riprende la parola in un’atmosfera confusa che qualcuno dei presenti ha definito incandescente. Nel silenzio generale ammonisce: “Massimo è sotto la mia protezione personale. Guai a chi lo tocca”. Poi per calmare i più agguerriti contro di me: “Procuratevi altri articoli e continuate le indagini”. Poi manda nella mia stanza l’avvocato Zaccaria: “Non si sa per quanto tempo riuscirà a farsi obbedire. Devi filar via”. Già filar via. E come se non mi lasciano uscire da quest’albergo.
Nonostante questa garanzia della protezione personale di shek Hassan, la notte passa insonne e la mattina arriva la notizia che gli oltranzisti sono tornati alla carica: fino alla fine delle indagini il giornalista del Corriere non può lasciare il Paese. Arresti domiciliari in hotel. Ma subito dopo arriva l’assicurazione dell’avvocato Zaccaria: andrete tutti via. Ma non sa rispondere alla domanda: Perché non ci portano nella sede dell’Onu come ci avevano promesso, ma ci tengono qui in albergo?.
Sembra che i nostri protettori non siano proprio del tutto in controllo della situazione e questo ci inquieta assai. Temono gli shebab (in arabo gioventù), cioè i ragazzi delle milizie islamiche fondamentaliste e talebane che non tollerano non solo gli occidentali, ma neppure i moderati. A Mogadiscio tutti ne hanno terrore.
Alle 15 ci portano in aeroporto ed è un altro calvario: prima di partire un paio d’ore di attesa in una piccola stanza con il capo dell’immigrazione, Muktar, che non solo non ci vuol ridare i passaporti, ma neanche i nostri biglietti aerei: li vorrebbe tenere come bacshish, la mancia.
I documenti ci vengono consegnati all’ultimo minuto e, quando ci dicono di andare, la scaletta viene raggiunta a tempo di record. In cima solo il tempo di girarsi un attimo e salutare: arrivederci Mogadiscio.
Massimo A. Alberizzi
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