EDITORIALE
Dalla Nostra Inviata Speciale Federica Iezzi Dayr al-Balah (Striscia di Gaza), 2 ottobre 2024
L’impunità di cui gode Israele e la devastazione subita dalla popolazione di Gaza non poteva portare che ad una perdita di legittimità internazionale.
Ed ecco che Israele, mentre continua a ferire Gaza, estende le sue operazioni in Libano, con gli stessi metodi, gli stessi massacri, la stessa distruzione, convinto dell’incrollabile sostegno dei suoi donatori occidentali – tra cui Washington, Parigi e Berlino – complici diretti della sua azione.
E se i Paesi occidentali sono corresponsabili dei crimini israeliani, altri, come la Russia o la Cina, non hanno adottato alcuna misura per porre fine a una guerra il cui perimetro si allarga pericolosamente ogni giorno, e rischia di estendersi oggi in Yemen e Siria e domani in Iran.
Ma chi è lo Stato israeliano sulla scena locale e regionale? Quello che distrugge di più, che stupra di più, che tortura di più, che aggredisce una popolazione assediata che non ha nessun posto dove fuggire. Tuttavia, questa realtà non oscura il fatto che lo Stato israeliano sta perdendo. O almeno che, con la strategia attuale, non c’è modo di vincere alcuna guerra.
In questo contesto l’aggettivo paria suona sempre più forte. Sono più che evidenti la frattura della società ebraica israeliana, la crisi economica senza speranza, l’isolamento internazionale, la posizione contro un’occupazione illegale di gran parte della comunità ebraica non-israeliana e il potenziale delle giovani generazioni di palestinesi come fattori chiave nel crollo della ideologia israeliana.
Se si può uccidere impunemente, allora si può mentire senza conseguenze? Le regole non scritte di tolleranza e moderazione, i controlli e gli equilibri costituzionali sono più un miraggio che i pilastri della democrazia per Israele.
E’ con cenere, sangue e macerie che gli abitanti di Gaza hanno tentato disperatamente di ritornare sulla mappa delle inquietudini globali e di ricordare la loro agonia a un mondo che li dimentica.
L’oppressione quotidiana prende posto su rovine e desolazione. Ancor più del parossismo di violenza, rappresentato dal bombardamento di una popolazione, essa mostra l’intoppo in cui è sprofondata la politica di occupazione israeliana, con la complicità attiva dell’Occidente. Terrorizzare, destrutturare, ridurre alla dipendenza: il quadro è univoco.
La perversa logica che governa i bombardamenti oggi è quella di vendicarsi della popolazione civile per azioni di resistenza. Questo ha un nome: punizione collettiva. E appartiene, nel diritto internazionale, alla categoria dei crimini di guerra.
E ancora, di fronte a queste gravi e ripetute violazioni, gli occidentali rimangono incredibilmente passivi. Ciò dimostra come l’opinione pubblica e gli Stati, da questa parte del pianeta, siano paralizzati dalle azioni di Israele.
Israele si trova in un vicolo cieco, ma ciò non significa che smetterà di dirigersi verso il baratro. Le élite dei sistemi di apartheid sono tanto più pericolose quanto più vengono messe alle strette. Un massiccio e univoco incremento delle sanzioni e una reale consapevolezza da parte della Comunità Internazionale sono mandatorie oggi per un radicale cambio di rotta.
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Speciale per Africa ExPress Alessandra Fava 1° ottobre 2024
“Divide sunniti e sciiti et impera”: è questo il senso del discorso del premier israeliano Benjamin Netanyahu alle Nazioni Unite venerdì scorso. La stampa italiana si è focalizzata sull’accusa di antisemitismo lanciata contro le Nazioni Unite, viste le 174 sanzioni contro Israele dal 2014 a oggi. Ma il succo del discorso è invece plasmare un nuovo Medio Oriente, partendo dalle contrapposizioni religiose tra chi è contro o a favore della bomba atomica all’Iran. Bomba atomica che Israele ha da anni, ma sottotraccia.
Il nuovo Medio Oriente che immagina Netanyahu è fatto di alleanze tra Egitto, Sudan, Arabia Saudita e India (the Blessing, cioè Benedetti) con scambi di tecnologia, intelligenza artificiale e flussi di turisti. E questi sono i Paesi che combattono per il bene.
Dall’altra parte, sicuramente votati al male, ci sono tutti i Paesi (The curse, cioè i maledetti) a maggioranza sciita: Siria, Libano, Iraq e Iran che formano, secondo il governo israeliano, un fronte compatto agli ordini dell’Iran.
“Il mio Paese sta combattendo per la sua sopravvivenza – ha detto il premier alle Nazioni Unite -. Abbiamo sette fronti di guerra aperti in cui Israele si sta difendendo contro l’Iran”. I sette fronti sarebbero: uno, Hamas che “ha invaso Israele il 7 ottobre” e altri sei agli ordini dell’Iran e cioè, gli sciiti dalla Siria, gli houti dallo Yemen, Hamas che combatte a Gaza, Hezbollah che attacca dal Libano, gli sciiti che bombardano dall’Iraq e i terroristi palestinesi in Giudea e Samaria: “Ho una notizia per voi: stiamo vincendo”, ha urlato poi dal palco Netanyhau.
Quindi gli attacchi dei fronti non sono legati al fatto che Israele ha fatto una strage a Gaza come vendetta contro l’attacco di Hamas nel sud di Israele dove sono morte 1.500 persone. La risposta israeliana in un anno di guerra ha ucciso oltre 40 mila persone a Gaza, di cui la stragrande maggioranza civili e in prevalenza donne e bambini che con l’organizzazione di Hamas hanno poco a che fare.
Non parla del fatto che con gli attacchi gli houti e gli altri Paesi chiedevano e chiedono il cessate il fuoco a Gaza. Tutti poi garantivano di sospendere il lancio di bombe in caso di pace. Secondo la propaganda governativa sarebbero guerre mosse da nemici di Israele che vogliono la sua fine. I bombardamenti dell’IDF (Israel Defence Force, l’esercito israeliano) e le missioni speciali in Siria, Libano e Iran per uccidere anche esponenti di Hamas (vedi Haniyeh a Teheran) non vengono menzionati. Secondo l’establishment israeliano, l’Iran è il nemico numero uno perché “ad aprile per la prima volta ha attaccato direttamente Israele con 300 droni e missili”.
Ma torniamo al nuovo Medio Oriente cui Africa ExPress aveva già dedicato un articolo, perché la stessa mappa, The Blessing, Netanyahu l’aveva mostrata già in un discorso alle Nazioni Unite il 22 settembre 2023, quindi ben prima dell’attacco del 7 ottobre 2023. Il progetto dunque nasce da lontano, dalle contrattazioni degli ultimi quattro anni con l’Arabia Saudita finalizzate a concludere gli Accordi di Abramo, sotto gli auspici degli Stati Uniti.
A settembre (discorso completo: https://www.timesofisrael.com/full-text-of-netanyahus-un-address-on-the-cusp-of-historic-saudi-israel-peace/) Netanyahu disse che “La pace tra Israele e Arabia Saudita creerà un nuovo Medio Oriente” e “oggi ho portato un pennarello rosso per marcare una grande benedizione. La benedizione (The Blessing, nel cartello mostrato all’ONU, ndr) di un nuovo Medio Oriente tra Israele, Arabia Saudita e i suoi vicini”.
Parole rievocate a oltre un anno di distanza la settimana passata: “Questa è la mappa che avevo presentato lo scorso anno. La mappa della benedizione – dice ora il premier -. La mappa mostra Israele e i partner arabi che formano un ponte terrestre che collega l’Asia e l’Europa. Tra l’Oceano Indiano e il Mar Mediterraneo, attraverso questo ponte, poseremo linee ferroviarie, condutture energetiche e cavi in fibra ottica, e questo servirà a migliorare l’esistenza di 2 miliardi di persone”.
“Ora guardate questa seconda mappa. È la mappa di una maledizione (The Curse, ndr). È la mappa di un arco di terrore che l’Iran ha creato e imposto dall’Oceano Indiano al Mediterraneo. L’arco maligno dell’Iran ha chiuso le vie d’acqua internazionali – quindi scatta la domanda retorica – Volete scegliere la mappa della benedizione della pace e della prosperità per Israele, i suoi partner arabi e il resto del mondo? Oppure quella della maledizione con cui l’Iran e i suoi alleati diffondono carneficina e caos ovunque? Israele ha già fatto la sua scelta. Abbiamo deciso di portare avanti la benedizione. Stiamo costruendo una partnership per la pace con i nostri vicini arabi, combattendo le forze del terrore che la minacciano”.
Da notare che quindi i Paesi sciiti sono tutti cattivi e terroristi (anche se misteriosamente nel fronte pacificato rientra il Sudan nel bel mezzo di una furibonda guerra) e quelli sunniti sono tutti buoni.
Divide et impera: Netanyahu sta sfruttando la contrapposizione tra le due confessioni musulmana (sciiti e sunniti) per acuire le distanze. Fingendo per altro di ignorare l’esistenza di minoranze importanti: ad esempio in Iraq il 61 per cento della popolazione (oggi si calcola 46 milioni di persone) è sciita ma il 34 per cento è sunnita, ci sono il 2 per cento di cristiani e altre minoranze religiose.
Il discorso del premier israeliano quindi più che altro è una preghiera all’Arabia Saudita che insieme alla Giordania dalla guerra di Gaza ha raffreddato i rapporti con Israele. “Per realizzare veramente la benedizione di un nuovo Medio Oriente, dobbiamo continuare il percorso che abbiamo tracciato con gli Accordi di Abramo quattro anni fa – continua il premier – Soprattutto, ciò significa raggiungere uno storico accordo di pace tra Israele e Arabia Saudita. E avendo visto le benedizioni che abbiamo già portato con gli Accordi di Abramo, i milioni di israeliani che hanno già volato avanti e indietro attraverso la penisola arabica sopra i cieli dell’Arabia Saudita verso i paesi del Golfo, il commercio, il turismo, le joint venture, la pace, vi dico, quali benedizioni porterebbe una tale pace con l’Arabia Saudita. Sarebbe un vantaggio per la sicurezza e l’economia dei nostri due Paesi. Stimolerebbe il commercio e il turismo in tutta la regione. Aiuterebbe a trasformare il Medio Oriente in un colosso globale.”
In questo colosso globale, ci sta una guerra contro l’Iran per cambiare sistema di governo (“le nazioni del mondo dovrebbero supportate gli iraniani che vogliono liberarsi di questo regime satanico”), del Libano non è chiaro che cosa succeda e non c’è posto per lo Stato Palestinese. Infatti persino Abbas viene accusato di appoggiare Hamas ed essere un terrorista: “continua a finanziare terroristi che ammazzano israeliani e statunitensi”. E quindi per Gaza in futuro magari passa anche il nuovo canale Ben Gurion in concorrenza con quello di Suez.
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Dal Nostro Corrispondente Sportivo Costantino Muscau
1° ottobre 2024
Quando manca il gatto (keniano), i topi (etiopi) ballano. Alla cinquantesima maratona di Berlino, domenica, da Nairobi non è pervenuta la leggenda Eliud Kipchoge, 5 volte vincitore. E allora un ventiquattrenne proveniente da una regione di grandi talenti, l’Oromia, Milkesa Mengesha, non si è fatto pregare.
Ha aperto le danze vincendo la prima importante maratona della sua carriera ed esaltando l’atletica del suo Paese, dominatore assoluto a Berlino. E dando all’Etiopia l’ottavo successo dal 1999, mentre le vittorie kenyane sono 17.
Secondo di 7 fratelli, Milkesa corre per il Sebetaclub e a detta del sito Elite Running team è “un carnivoro e ha un grande desiderio: visitare Roma”.
“Sapevodi essermi preparato duramente – ha commentato il vincitore, che ha intascato 22600 dollari –. Sono contento di aver migliorato il record personale. Per fortuna ero considerato un outsider e questo mi ha tolto delle pressioni. L’unica paura era che mi succedesse come a Londra in aprile, quando mi sono ritirato per un guaio fisico”.
Più che una razzia è stato un saccheggio quello compiuto dai corridori etiopi l’ultima domenica di settembre, sotto la porta di Brandeburgo. Milkesa primo col tempo di 2.03.17 ha battuto in volata il keniano Cybrian Kotut, 32 anni, ma il terzo il quinto e il settimo vengono dalle parti di Addis Abeba.
Nella gara femminile il dominio del grande Paese del Corno d’Africa è stato totale: Tigist Ketema, 26 anni, ha trionfato con un tempo impressionante di 2 ore, 16 minuti e 42 secondi (premio: 20 mila dollari). Alle sue spalle ben tre connazionali Mestawut Fikir, 24 anni, Bosena Mulatie , 22, e Aberu Ayana, 31. La giovane etiope è un volto nuovo nella specialità. A gennaio, era esplosa a Dubai, aveva fatto il tempo di 2.16.07 ( e conquistando 80 mila dollari) e nel 2023 aveva corso la maratona di esordio più veloce di sempre per una donna. “Speravodi fare meglio – ha commentato – ma sono ugualmente soddisfatta e molto contenta di essere venuta a Berlino. Con l’aiuto di Dio sono stata in grado di vincere questa gara”.
Tigist porta un tocco italiano nella manifestazione tedesca: è allenata dal tecnico etiope Gemedu Dedepu, della scuderia di Gianni De Madonna. Al gruppo di campioni di questo manager appartiene anche il keniota Kotut Cybria, allenato da Claudio Belardinelli. Il vincitore invece ha come manager Hussein Makke, che cura anche altri campioni etiopi come Barega, Chebet, Girsma…
In genere dopo la BMW BERLIN-MARATHON (questa la denominazione ufficiale) si parlava di record maschili e femminili, perché si tratta dei 42,195 km più veloci al mondo. E gli organizzatori speravano di festeggiare con qualche impresa eccezionale i 50 anni di “passione, di pura emozione di una piccola gara nata nella foresta di Grunewald e divenuta una maratona globale”. Insomma, volevano una giornata indimenticabile, un festival unico.
E in parte loè stata: oltre 58 mila gli iscritti di 161 nazioni, dai 286 del 1974 (1700 gli italiani), 4 gli atleti che hanno corso sotto il muro delle 2 ore e 4 (terza volta nella storia e prima a Berlino) e ben 22 runners sotto le 2 ore e 8 minuti. Era successo solo un’altra volta.
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Speciale per Africa ExPress Cornelia I. Toelgyes
30 settembre 2024
Infuria la battaglia a Khartoum. Nelle prime ore di giovedì scorso, le forze armate sudanesi (SAF) hanno lanciato una nuova offensiva per riconquistare la capitale. Dopo una fase di stallo durante il periodo delle piogge, sia SAF che RSF si sono riarmate e riorganizzate, in vista di una nuova fase del conflitto.
Abdel Fattah Abdelrahman al-Burhan, il de facto presidente e capo dell’esercito, è arrivato due giorni fa nella zona e con un gesto ha fatto capire alle sue truppe della necessità di sconfiggere i paramilitari delle Rapid Support Forces (RFS), capeggiate da Mohamed Hamdan Dagalo “Hemetti”, e poi ha aggiunto: “Non abbiamo molto altro da dire”.
SAF sta continuando la sua offensiva nell’area della capitale iniziata a sorpresa giovedì scorso e finora i governativi sono riusciti a riconquistare tre ponti sul Nilo. Dopo essere entrati nella parte settentrionale di Khartoum passando da Omdurman (agglomerato di Khartoum), gli scontri si sono intensificati poi in un’area strategica al centro della metropoli sudanese, vicino al palazzo presidenziale e il comando generale delle forze armate. Secondo alcune fonti, durante i bombardamenti indiscriminati di domenica, che hanno colpito anche case private, sarebbero morte almeno 6 persone; i feriti sarebbero una decina, tra questi anche 4 bambini.
Da quanto si apprende da alcuni quotidiani locali online, altri scontri tra le RFS e SAF sono avvenuti anche a Bahri, uno dei tre agglomerati di Khartoum.
I residenti che vivono in quartieri ancora sotto il controllo delle RSF, da un lato sperano che l’esercito riesca a cacciare i paramilitari, dall’altro però sono spaventati dai combattimenti e temono ripercussioni sulla popolazione civile. Sono stanchi della guerra, iniziata quasi un anno e mezzo fa.
Intanto questa mattina gli Emirati Arabi Uniti hanno accusato SAF di aver bombardato la loro ambasciata a Khartoum. Il ministro degli Esteri di Abu Dhabi ha sottolineato che l’edificio ha riportato danni seri.
Il governo sudanese ha respinto le accuse e ha puntato il dito contro le RSF, definendo l’attacco alla sede diplomatica degli EAU come “un atto vergognoso e vile”. In precedenza Khartoum ha rinfacciato ripetutamente a Abu Dhabi di aver fornito armi e supporto agli uomini di Hemetti. Imputazione sempre negata dalle autorità emiratine. Ma gli esperti dell’ONU ritengono che le accuse avanzate dal Sudan siano credibili.
Sabato sera molta gente è scesa nelle strada in diverse città del Paese e persino al Cairo (Egitto), dove c’è una massiccia presenza di migranti sudanesi, per incoraggiare l’esercito che sta tentando di liberare lo Stato di Khartoum dall’assedio delle RSF.
L’assalto attuale potrebbe essere una delle operazioni più significative dell’esercito dall’inizio della guerra, scoppiata il 15 aprile 2023. Infatti sin dalla prima fase del conflitto, le RSF stanno controllando saldamente gran parte della città. I paramilitari di Hemetti sono stati accusati di aver commesso gravi abusi contro la popolazione civile della capitale, come il saccheggio di mercati e ospedali, costringendo molti residenti a fuggire per poter confiscare le loro case, per non parlare delle brutali violenze sessuali che hanno dovuto subire moltissime donne e ragazze.
Finora tutti tentativi di mediazione messe in campo dalla comunità internazionale per raggiungere un cessate il fuoco tra i belligeranti, sono sfociate in un nulla di fatto. Eppure al-Burhan giovedì scorso si è presentato all’Assemblea generale dell’ONU come un presidente impegnato per porre fine al conflitto. Intanto si continua a combattere per la vittoria, che pace non è.
Port Sudan: incoraggiamenti della popolazione
all’esercito sudanese
Durante questa infinita guerra, entrambe le parti in causa hanno commesso abusi che potrebbero equivalere a crimini di guerra. Secondo quanto hanno sostento qualche settimana fa gli esperti di una missione delle Nazioni Unite, le potenze mondiali dovrebbero inviare forze di pace e ampliare l’embargo sulle armi per proteggere i civili.
Raramente i conflitti africani trovano spazio nelle prime pagine dei giornali occidentali, eppure in Sudan si sta consumando uno dei peggiori disastri umanitari a memoria d’uomo. Secondo i dati di ACLED (Armed Conflict Location and Event Data Project), ONG con sede negli USA, che si occupa di raccolta dati, analisi e mappatura dei conflitti nel mondo, da aprile 2023 a settembre 2024 sarebbero morte 23.636 persone. Cifra certamente sottostimata. I feriti sarebbero oltre 33.000. In base ai dati di OIM (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni) e UNHCR, gli sfollati sono almeno 8,1 milioni e più di 1,5 milioni di persone hanno cercato protezione nei Paesi limitrofi. E quasi 25 milioni di persone necessitano assistenza umanitaria.
Il 54 per cento degli sfollati sono minori sotto i 18 anni. Nei campi il cibo spesso non basta. Le mamme sono costrette a cercare erbe e fogliame per alimentare i piccoli. Una manciatina a testa, giusto per ingannare il vuoto nello stomaco.
E come se guerra, morte e fame non bastassero, da qualche mese è scoppiata anche un’epidemia di colera. Finora sono stati registrati ufficialmente oltre 15.000 casi, mentre più di 500 pazienti sono morti a causa della malattia. E come diceva Giovanni Pascoli nelle sue Prose: “Piove sul bagnato: lagrime su sangue, sangue su lagrime”.
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Reuters David Lewis, Jessica Donati e Kaylee Kang DAKAR, 24 settembre (Reuters)
Dopo essersi introdotti, inosservati, nella capitale del Mali settimane fa, i jihadisti hanno colpito poco prima delle preghiere dell’alba. Hanno ucciso decine di studenti in un’accademia di formazione della polizia, hanno preso d’assalto l’aeroporto di Bamako, incendiando anche il jet presidenziale.
L’attacco del 17 settembre è stato il più sfrontato dal 2016 in una capitale del Sahel, una vasta regione arida che si estende nell’Africa subsahariana a sud del deserto del Sahara.
Generalmente i terroristi operano nelle zone rurali, dove hanno ucciso migliaia di civili e hanno costretto milioni di persone a fuggire dalle proprie case in Burkina Faso, Mali e Niger, ma hanno dimostrato che possono colpire anche il cuore del potere.
Messo in ombra dalle guerre in Ucraina, Medio Oriente e Sudan, il conflitto nel Sahel raramente occupa le prime pagine dei giornali, eppure sta contribuendo a un forte aumento della migrazione dalla regione verso l’Europa, in un momento in cui i partiti di estrema destra anti-immigrati stanno guadagnando spazio e alcuni Stati dell’UE stanno rafforzando le loro frontiere.
La rotta dei migranti
Secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM), la rotta verso l’Europa che ha registrato il maggior incremento quest’anno è quella che passa per le nazioni costiere dell’Africa occidentale e raggiunge le isole Canarie in Spagna.
I dati di OIM mostrano che il numero di migranti arrivati in Europa dai Paesi del Sahel (Burkina, Ciad, Mali, Mauritania, Niger, Nigeria, Senegal) è salito del 62 per cento, vale a dire a 17.300 persone nei primi sei mesi del 2024 rispetto alle 10.700 dell’anno precedente. Le Nazioni Unite e l’OIM hanno attribuito questo forte incremento ai conflitti e ai cambiamenti climatici.
Aree di addestramento
Quindici diplomatici ed esperti hanno dichiarato alla Reuters che i territori sotto il controllo dei jihadisti rischiano di diventare aree di addestramento e piattaforme di lancio per ulteriori attacchi a città importanti come Bamako, o a Stati limitrofi e a obiettivi occidentali, nella regione o altrove.
La violenza jihadista, in particolare il pesante tributo imposto alle truppe governative, è stata uno dei fattori principali dell’ondata di colpi di Stato militari che dal 2020 ha colpito i governi sostenuti dall’Occidente: Burkina Faso, Mali e Niger e Paesi al centro del Sahel.
Le giunte militari hanno poi sostituito la collaborazione militare francese e statunitense con quella russa, ma soprattutto si sono affidati ai mercenari di Wagner, che continuano a perdere terreno.
“Non credo che i regimi del Mali, del Niger e del Burkina resisteranno per sempre. Alla fine uno di loro cadrà o uno di loro perderà altre importanti fette di territorio, cosa già avvenuta in Burkina Faso”, ha dichiarato Caleb Weiss, redattore di Long War Journal ed esperto di gruppi estremisti.
“Allora avremo a che fare con uno Stato jihadista o con più Stati jihadisti nel Sahel”, ha affermato Weiss.
Hotspot del terrorismo globale
Le potenze occidentali che in precedenza avevano investito nel tentativo di sconfiggere i jihadisti, hanno lasciato ben poche competenze sul campo, soprattutto da quando la giunta del Niger ha ordinato agli Stati Uniti di abbandonare una importante base di droni a Agadez.
Le truppe statunitensi e la Central Intelligence Agency (CIA) usavano i droni per rintracciare i jihadisti. Le informazioni venivano poi condivise con gli alleati, i francesi – che lanciavano attacchi aerei contro i miliziani – e con forze armate dell’Africa occidentale.
Ma gli americani sono stati cacciati dopo aver irritato i golpisti del Niger, rifiutandosi di condividere le loro informazioni e mettendoli in guardia sulla collaborazione con i russi. Gli Stati Uniti sono ancora alla ricerca di un posto dove riposizionare le proprie risorse.
Nel 2024, 224 attacchi al mese
“Nessun altro ha colmato la lacuna per quanto riguarda un’efficace sorveglianza o supporto aereo, quindi i jihadisti vagano liberamente in questi tre Paesi”, ha spiegato Wassim Nasr, ricercatore senior presso il Soufan Center, un think tank con base a New York.
Un’analisi di Reuters dei dati del gruppo statunitense di monitoraggio delle crisi Armed Conflict Location & Event Data (ACLED) ha rilevato che il numero di eventi violenti che coinvolgono gruppi jihadisti in Burkina Faso, Mali e Niger è quasi raddoppiato dal 2021.
Dall’inizio di quest’anno, si sono verificati in media 224 attacchi al mese, rispetto ai 128 del 2021.
Insa Moussa Ba Sane, coordinatore regionale per migrazioni e sfollati della Federazione Internazionale delle società di Croce Rossa e Mezzaluna Rossa (FICR), ha dichiarato che i conflitti sono uno dei fattori principali della crescente migrazione dalla costa dell’Africa occidentale, con un numero sempre più elevato di donne e famiglie lungo questa rotta.
“I conflitti sono alla base del problema, insieme agli effetti del cambiamento climatico”, ha detto Ba Sane, spiegando come le inondazioni e la siccità stiano contribuendo alle violenze e spingendo l’esodo dalle aree rurali a quelle urbane.
_______________________________________________________________ VIOLENZA JIHADISTA NEL SAHEL: 2024
In Burkina Faso, forse il Paese maggiormente colpito, i jihadisti affiliati ad al-Qaeda hanno massacrato centinaia di civili in un solo giorno, il 24 agosto, nella città di Barsalogho, a due ore dalla capitale Ouagadougou.
L’Institute for Economics and Peace (IEP) di Sydney ha dichiarato che il Burkina Faso ha raggiunto per la prima volta quest’anno la vetta del Global Terrorism Index, con un aumento delle vittime del 68 per cento, cioè a 1.907, che corrisponde a un quarto di tutte le morti legate al terrorismo nel mondo.
Secondo le Nazioni Unite, circa la metà del Burkina Faso è ora fuori dal controllo del governo, un fattore che contribuisce all’impennata dei tassi di sfollamento.
“I due grandi gruppi terroristi veterani stanno guadagnando terreno. La minaccia si sta diffondendo geograficamente”, ha dichiarato Seidik Abba, presidente del think tank CIRES di Parigi, riferendosi ad Al Qaeda e allo Stato Islamico.
Un gruppo di esperti delle Nazioni Unite che monitora le attività delle due organizzazioni stima che il JNIM (Jama’at Nusrat al-Islam wal-Muslimin) , fazione allineata ad al-Qaeda più attiva nel Sahel, conti 5.000-6.000 miliziani, mentre 2.000-3.000 sarebbero legati allo Stato Islamico.
“Il loro obiettivo dichiarato è stabilire il dominio islamico”, ha dichiarato Nasr del Centro Soufan.
I jihadisti usano una miscela di coercizione e l’offerta di servizi di base, compresi i tribunali locali, per installare i loro sistemi di governo sulle comunità rurali che da tempo lamentano l’assenza dei governi centrali, deboli e corrotti.
“Venite con noi. Lasceremo in pace i tuoi genitori, le tue sorelle e i tuoi fratelli. Vieni con noi e ti aiuteremo, ti daremo dei soldi”, ha detto un uomo del Mali, descrivendo i suoi incontri quando era ancora adolescente con i jihadisti che hanno attaccato il suo villaggio. “Ma non puoi fidarti di loro, perché uccidono i tuoi amici davanti a te”.
Il giovane è fuggito e ha raggiunto le Isole Canarie l’anno scorso, per poi trasferirsi a Barcellona. Ha richiesto l’anonimato, per timore di rappresaglie nei confronti della sua famiglia che vive ancora in Mali.
Scenario di lancio
Secondo i rapporti di esperti dell’ONU, i due gruppi terroristi operano in aree diverse, a volte combattendo tra loro, ma hanno anche stretti patti di non aggressione localizzati
In base ai fascicoli degli esperti, i gruppi ricevono un certo sostegno finanziario, addestramento e guida dalle rispettive leadership globali, ma impongono anche tasse nelle aree che controllano e si appropriano di armi dopo gli scontri con le forze governative.
I governi europei sono divisi su come rispondere al conflitto. I Paesi dell’Europa meridionale che accolgono la maggior parte dei migranti, sono favorevoli a mantenere aperti i canali con le giunte golpiste, mentre altri si oppongono per questioni di non rispetto dei diritti umani e di democrazia, hanno dichiarato alla Reuters nove diplomatici della regione.
Un diplomatico africano ha affermato che l’UE deve rimanere impegnata perché la questione migratoria non scomparirà nel prossimo futuro.
Anche se l’Europa dovesse concordare un approccio condiviso, da un lato non ha la capacità militare e le relazioni politiche necessarie per aiutare i Paesi saheliani, dall’altro canto le giunte golpiste della regione non vogliono alcun contributo occidentale, hanno sottolineato i diplomatici interpellati da Reuters.
“Non abbiamo alcuna influenza sui gruppi estremisti in questi Paesi”, ha dichiarato il generale Ron Smits, capo delle forze speciali olandesi.
L’altra grande preoccupazione per le potenze occidentali è la possibilità che il Sahel diventi una base per la jihad globale, come l’Afghanistan o la Libia in passato.
“Tutte queste organizzazioni di estremisti violenti aspirano a attaccare gli Stati Uniti”, ha dichiarato questo mese ai giornalisti il generale Michael Langley, capo del Comando Africa degli Stati Uniti (AFRICOM).
Tuttavia, altri funzionari ed esperti affermano che finora i gruppi non hanno ancora dichiarato alcun interesse a compiere attacchi in Europa o negli Stati Uniti.
Will Linder, un ufficiale della CIA in pensione che gestisce una società di consulenza sui rischi, ha affermato che gli attacchi a Bamako e Barsalogho dimostrano che tutti gli sforzi delle giunte militari di transizione del Mali e del Burkina Faso per rafforzare la sicurezza, stanno fallendo.
“La leadership di entrambi i Paesi ha davvero bisogno di nuove strategie per contrastare le insurrezioni jihadiste”.
David Lewis, Jessica Donati e Kaylee Kang
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Il collega e amico Giovanni Porzio, ex inviato di Panorama,
nel 2002 aveva intervistato, unico giornalista italiano,
lo sceicco Hassan Nasrallah.
Riproponiamo oggi il suo articolo pubblicato allora.
Giovanni Porzio Per Panorama Beirut, 20 aprile 2002
Gli israeliani, che da anni gli danno la caccia, lo vorrebbero vivo o morto. La CIA e il Pentagono l’hanno incluso nella lista dei ricercati per attività terroristiche compilata dopo le stragi dell’11 settembre.
Ma lo sceicco Hassan Nasrallah, segretario generale di Hezbollah, non si nasconde. La testa avvolta nel turbante nero dei discendenti del Profeta, al suo fianco la bandiera gialla del Partito di Allah, con il mitra e lo slogan Rivoluzione islamica libanese, riceve gli ospiti al quarto piano di una palazzina di Haret Hreik, un popoloso quartiere sciita alla periferia meridionale di Beirut: più dei miliziani armati di Kalashnikov e delle torrette di guardia con i vetri blindati è la densità delle abitazioni civili a fargli da scudo.
Lo sceicco, succeduto nel ‘92 ad Abbas Musawi, ucciso da un missile con la stella di David, gode di un prestigio indiscusso tra gli sciiti del Paese dei cedri e di un seguito crescente tra i palestinesi di Gaza e della Cisgiordania: suo figlio Mohammed, caduto a 18 anni al fronte, è uno dei 1.375 martiri della resistenza, che dopo 22 anni di guerriglia nel Libano del sud ha costretto gli israeliani, nel maggio 2000, a ritirarsi da una terra araba occupata.
Un’ impresa mai riuscita ai palestinesi, ai siriani, agli egiziani, ai giordani. Nelle ultime settimane i miliziani di Hezbollah hanno continuato a bombardare con i razzi Katyusha le postazioni militari di Tel Aviv, facendo salire pericolosamente la temperatura al confine libanese, dove i caschi blu dell’Onu, in previsione di un possibile allargamento del conflitto, sono in stato di massima allerta.
In questa intervista esclusiva con Panorama, la prima rilasciata a un giornalista occidentale dopo l’11 settembre, Nasrallah spiega quali sono gli obiettivi e le strategie di Hezbollah.
Sceicco Nasrallah, per quale motivo avete intensificato gli attacchi contro Israele?
“Prima di tutto voglio precisare che le nostre operazioni armate sono limitate alla zona delle fattorie di Sheba: un territorio libanese occupato militarmente da Israele. E dunque non sono altro che la legittima continuazione della resistenza. Le ragioni dell’attuale escalation sono due: dimostrare la nostra solidarietà al popolo palestinese nel momento in cui subisce la feroce aggressione israeliana; e far sapere al primo ministro israeliano, Ariel Sharon, che siamo in grado di colpire lo Stato ebraico e di combatterlo, se necessario”.
Ma ci sono stati attacchi al di fuori dal perimetro di Sheba, anche contro i kibbutz…
“Noi controlliamo il sud, ma non possiamo prevenire le azioni isolate dei giovani palestinesi dei campi profughi, dove regnano l’esasperazione, la miseria e la rabbia”.
Non si rischia così di provocare un allargamento del conflitto?
“Non credo che ci sarà una nuova guerra in Libano. E in ogni caso Israele non ci fa paura: l’abbiamo già sconfitto una volta”.
Avete o avete avuto in passato rapporti con l’organizzazione di Osama bin Laden?
“I membri di Al-Qaeda sono estremisti sunniti: la loro mentalità e la loro ideologia sono diverse dalle nostre. In Libano, nella valle della Bekaa, non li abbiamo mai visti. Hanno sempre operato lontano da qui: tutti sanno che sono nati con i soldi della Cia, quando gli Stati Uniti finanziavano i mujahiddin afghani contro l’Armata Rossa. Credo che ci siano più militanti di Al-Qaeda negli Usa che in Medio Oriente!”
Qual è il suo giudizio sulla lotta al terrorismo internazionale guidata da George Bush?
“Un pretesto per imporre la supremazia americana in Medio Oriente e nel mondo. Basta leggere le surreali dichiarazioni della Casa Bianca: secondo Bush Sharon è “un uomo di pace” che lotta contro il terrorismo! Neppure la destra del Likud osa fare simili affermazioni”.
Che cosa pensa delle operazioni dei kamikaze palestinesi e, più in generale, della situazione nei territori occupati?
“Da tempo re Abdallah di Giordania lancia avvertimenti inascoltati: la repressione e i massacri rischiano di provocare un esodo oltre il Giordano con conseguenze devastanti per il regno. E con il rischio, anzi la certezza, di veder nascere nuove schiere di kamikaze. I martiri sono l’unica arma dei palestinesi contro l’occupazione della loro terra. Non hanno alternative. Ma perché la comunità internazionale, invece di indignarsi per gli attentati suicidi, non fa nulla per costringere Israele a evacuare le zone occupate, a rispettare la convenzione di Ginevra sui prigionieri di guerra e le risoluzioni dell’Onu? Gli israeliani trattano i palestinesi come i nazisti trattavano gli ebrei, ma nessuno cerca di fermarli.
Voi, però, fornite armi e munizioni ai palestinesi. Tre militanti di Hezbollah sono stati arrestati in Giordania con un carico di mitra e di granate.
“Riteniamo legittimo aiutare la resistenza palestinese anche con l’invio di armi attraverso il confine giordano. Ma tengo a precisare che non abbiamo mandato nessuno dei nostri combattenti in Palestina”.
Eppure su molte case di Gaza sventolano le vostre bandiere…
“I palestinesi vedono in Hezbollah il simbolo della resistenza vittoriosa contro Israele”.
Hezbollah ha sempre avuto legami indissolubili con Teheran. Se lei fosse in Iran, si schiererebbe per il riformista Khatami o per il conservatore Khamenei?
“È un errore ridurre la complessa struttura della società iraniana a uno scontro tra modernisti e conservatori. Nella gestione del potere ci sono diversi contrappesi, c’è un equilibrio democratico tra le diverse istituzioni. Khamenei è la suprema guida spirituale, Khatami la guida politica. Ed entrambi sono eletti e sostituibili”.
È possibile una soluzione politica in Palestina?
“Non con Sharon: il suo obiettivo è ghettizzare i palestinesi a Gaza e nei bantustan della West Bank, espellerli in Giordania o costringerli a emigare sotto la spinta dei carri armati e della diperazione economica. Ma se sarà così, noi reagiremo”.
Nelle vostre mani ci sono quattro israeliani: tre militari catturati al confine e un uomo d’affari che accusate di spionaggio per il Mossad. Sono ancora vivi? E che cosa chiedete in cambio della loro liberazione?
“Ci sono 17 libanesi in prigione in Israele. E altri 150 sono scomparsi durante l’occupazione del Libano del sud. Non intendo dare informazioni sullo stato di salute dei nostri prigionieri se Israele non farà un gesto: vogliamo almeno notizie sulla sorte dei desaparecidos. Se sono morti, i loro famigliari hanno diritto di sapere dove sono sepolti e di reclamare le salme”.
Lei è nel mirino di Israele, della Cia, del Pentagono. Si sente in pericolo?
“Sono tranquillo. Il giorno in cui dovrò lasciare questa terra è già stato scritto nel grande libro di Allah”.
Giovanni Porzio pozzo.giovanni@gmail.com
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Speciale per Africa ExPress Cornelia I. Toelgyes
27 settembre 2024
Qualche giorno fa la giunta militare di transizione del Burkina Faso, al potere dal 30 settembre 2022, ha sostenuto di aver nuovamente sventato un golpe.
Il ministro della Sicurezza di Ouagadougou, Mahamadou Sana, durante un intervento alla TV del 23 settembre scorso, ha rassicurato la popolazione che diversi migranti burkinabè residenti all’estero sarebbero già stati arrestati mentre erano in Burkina Faso. Ha poi precisato che nel complotto, volto a destabilizzare il Paese, sarebbero implicati gruppi terroristici, militari e uomini politici che opererebbero dalla Costa d’Avorio. Il ministro per la Sicurezza ha puntato il dito anche su Paul Henri Sandaogo Damiba (golpista del gennaio 2022, poi detronizzato da Traoré il settembre successivo) e alcuni ex ministri. “Sono attori del caos, sostenuti da alcuni servizi di intelligence occidentali”, ha poi aggiunto Sana.
Peccato che il ministro abbia dimenticato di precisare che già alcune settimane fa il dicastero degli Esteri ivoriano avesse convocato lo chargé d’affaire accreditato a Abidjan, come ha confermato anche il giornalista francese Serge Daniel, durante una diretta su France24. “Le autorità ivoriane – ha detto il reporter – avrebbero mostrato al diplomatico burkinabé prove inconfutabili come Ougadougou stesse tentando di destabilizzare la Costa d’Avorio”.
In un suo recente articolo Le Monde riporta alcune precisazioni importanti: già a gennaio un gruppo composto da una cinquantina di burkinabé, residenti in Costa d’Avorio, sarebbero stati portati in pullman a Ouagadougou per essere addestrati nel campo di Ouezzin-Coulibaly di Bobo-Dioulasso, città nella parte sud-occidentale del Paese, e a Ouagadougou. I giovani sarebbero stati controllati dalle autorità del Burkina Faso, sotto la supervisione di Lama Fofano, che a tutt’oggi si troverebbe nel Paese.
Fofano, ex ribelle e ex gendarme ivoriano, sarebbe un uomo di Guillaume Soro, a sua volta ex primo ministro e ex presidente dell’Assemblea nazionale di Abidjan e oggi uno dei maggiori oppositori del capo di Stato della Costa d’Avorio, Alassane Ouattara. Soro, in esilio dal 2019, verso la fine del 2023 è stato accolto dalle giunte militari di transizione del Sahel e fino a poco tempo fa risiedeva a Niamey, capitale del Niger. Tutti tentavi di riavvicinare Ouattara a Soro sono falliti.
A luglio, una decina di persone appartenenti al gruppo che è stato formato nel Paese limitrofo, sono state intercettate dai servizi ivoriani e arrestati, una volta ritornati dall’addestramento in Burkina Faso.
Con la salita al potere del golpista Traoré, le relazioni tra Ouagadougou e Abidjan, due Paesi storicamente molto legati, si sono progressivamente deteriorate e non di rado si verificano addirittura scaramucce lungo il confine.
A fine aprile 2024 il ministro della Difesa ivoriano, Tené Birahima Ouattara, ha incontrato il suo omologo burkinabé, Kassoum Coulibaly, a Niangoloko, città del Burkina Faso a pochi chilometri dal confine con la Costa d’Avorio, per tentare di appianare le divergenze. I colloqui sono approdati in un nulla di fatto.
Anzi, solo una settimana dopo Traoré aveva mosso accuse pesanti: “I burkinabè che vogliono destabilizzare il nostro Paese non hanno nemmeno bisogno di nascondersi in Costa d’Avorio, con le cui autorità abbiamo seri problemi. A luglio, il capo golpista ha ripetuto le stesse accuse, aggiungendo che a Abidjan è stata creata una centrale per destabilizzare il Burkina Faso.
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Speciale per Africa ExPress Antonio Mazzeo
25 settembre 2024
Ad un anno esatto dall’avvio della genocida campagna militare di Israele contro la popolazione palestinese della Striscia di Gaza, la holding italiana regina della produzione di sistemi bellici e le aziende israeliane delle cyber war si daranno appuntamento a Roma per una super convention internazionale.
Martedì 8 e mercoledì 9 ottobre il “Nuvola Convention Center” capitolino ospiterà Cybertech Europe 2024, il più grande evento continentale dedicato alla “sicurezza cibernetica”.
Ad organizzare la kermesse giunta alla settima edizione, la “piattaforma di networking” Cybertech Global (quartier generale a Tel Aviv) con la collaborazione del gruppo Leonardo S.p.A. e della società di consulenza internazionale Accenture, “con capacità avanzate in campo digitale, cloud e security”.
Giganti dell’informatica
Tantissimi gli sponsor di Cybertech Europe 2024: tra essi spiccano il colosso del complesso militare-industriale francese, Thales (attivo principalmente nel settore aerospaziale e dell’elettronica); i giganti dell’informatica e delle nuove tecnologie, Google e Cisco; uno dei leader statunitensi nella produzione di componenti elettroniche, Arrow; importanti aziende internazionali produttrici di software e sistemi di sicurezza informatica, le californiane Palo Alto Networks e SentinelOneInc. e l’israeliana CheckPoint Software Technologies Ltd; le società italiane DGS S.p.A. di Roma (specializzata nella progettazione e implementazione di servizi e soluzioni per la sicurezza) e Telsy Elettronica e Telecomunicazioni S.p.A. di Torino (di proprietà del gruppo TIM).
“Cybertech Europe 2024, la conferenza e l’esposizione presenteranno soluzioni all’avanguardia provenienti da diverse aziende nel panorama dinamico della cybersecurity”, spiegano gli organizzatori. “L’evento è il punto di riferimento per creare connessioni significative, per acquisire conoscenze dai pionieri del settore e per navigare collettivamente nell’intricato futuro cibernetico”.
“La Cybertech conference quale confronto globale su problemi quali minacce e pericoli che stanno colpendo l’intera collettività, offre ai suoi partecipanti l’opportunità di accostarsi al mondo cyber per mezzo dei maggiori prominenti esperti del settore”, si legge nella brochure di presentazione. “Vetrina delle innovazioni tecnologiche d’avanguardia e nuove prospettive, la conferenza ruoterà attorno alle ultime novità in materia di protezione e sicurezza informatica andando a trattare argomenti che spazieranno tra la difesa attiva, (…)le tecnologie di nuova generazione (dalla machine-learning– sistema d’apprendimento automatico – alla telemedicina ed alla computazione quantistica), gli investimenti nel mondo cyber, 5G telecomunicazioni, la sicurezza dello spazio, dell’aviazione e marittima”.
All’eventoromano prenderanno parte personalità governative, del mondo dell’industria e della ricerca. Tra essi spiccano l’amministratore delegato e direttore generale del gruppo Leonardo, Roberto Cingolani;il sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri, Alfredo Mantovano; l’addi Accenture, Teodoro Lio; il direttore generale dell’Agenzia Nazionale per la Cybersicurezza, Bruno Frattasi; il segretario generale dell’Organizzazione Europea per la Cyber Security (ECSO), Luigi Rebuffi; il Deputy CIO della NATO per la Cybersecurity, Mario Beccia; il direttore del Servizio di polizia postale, Ivano Gabrielli; il responsabile dell’unità di sicurezza dell’Agenzia dell’Unione europea “Lisa” per la gestione operativa dei sistemi IT con sede a Tallin (Estonia), Luca Zampaglione; il responsabile del Dipartimento per l’Innovazione tecnologica del ministero di Giustizia, Ettore Sala; il capodipartimento per la transizione ecologica del ministero dell’Ambiente, Laura D’Aprile; il direttore di AGEA, l’Agenzia per le erogazioni in agricoltura, ente di diritto pubblico sottoposto alla vigilanza del ministero dell’Agricoltura, Fabio Vitale; il direttore dei sistemi operativi del dipartimento della Protezione Civile, Umberto Rosini.
I vertici dell’esercito
Tra i partecipanti ai workshop ci sono pure i vertici di alcuni reparti delle forze armate italiane (il generale di brigata Michele Sirimarco, alla guida del CUFAA – Comando delle unità forestali, ambientali e agroalimentari, cioé i Carabinieri forestali; il colonnello Pietro Lo Giudice del comando per le Operazioni Spaziali della Difesa); un rappresentante della European Union AviationSafety Agency (EASA), Gian Andrea Bandiera; il responsabile dell’Unità per la sicurezza tecnologica dell’Agenzia Spaziale Italiana (ASI), Alberto Caponi; il direttore generale di Roma Capitale, Paolo Aielli; il capo del Polo Strategico Nazionale, Paolo Iannetti (si tratta della società partecipata da TIM, Leonardo e Sogei, che fornisce infrastrutture digitali e servizi cloud alla Pubblica amministrazione, secondo quanto previsto dal PNRR).
Nel nutrito elenco dei relatori compaiono inoltre ben dieci tra manager e dirigenti del gruppo Leonardo (Lorenzo Mariani, Carlo Gavazzoni, Raffaella Luglini, Giorgio Mosca, Andrea Biggio, Andrea Campora, Alessandro Massa, Enrico Giacobbe, Gabriele Cicognani, Filippo Cerocchi): Gianluca Varisco di Google Cloud; la general manager per i processi di automatizzazione di Siemens Italia, Stefania Svanoletti; l’israeliano Netanel Amar, cofondatore e amministratore delegato di Cynet Security;i responsabili del settore cyber security di Rete Ferroviaria, Riccardo Barrile; del Gruppo Terna, Pietro Caminiti; di Italgas S.p.A., Alessandro Menna;di LutechSp.A. Lorenzo Mazzei;del Gruppo Ferrero, Filip Nowak; la giornalista di Repubblica, Barbara Gasperini; il direttore del Master sulla Cyber Security dell’Università Medico-Bio Campus di Roma, Roberto Setola.
Ospite d’eccezione
Ospite d’eccezione (e assai ingombrante) di Cybertech Europe 2024 sarà il noto imprenditore israeliano Joseph “Yossi” Vardi, uno dei pionieri dell’industria di software, internet, telefonia cellulare e delle tecnologie elettro-ottiche dello Stato di Israele (nel suo curriculum vitae afferma di aver fondato e/o diretto più di un’ottantina di aziende che operano nel campo tecnologico, energetico, ecc. tra cui Tekem, Alon Energy e Granite Hacarmel), già console per gli Affari economici di Israele a New York, ex direttore generale del ministero dell’Energia ed ex presidente dell’Israel National Oil Company.
In passato “Yossi” Vardi è stato pure membro del consiglio di amministrazione di OilRefineries Ltd. (società del settore petrolifero oggi acquisita dal Bazan Group di Haifa), nonché consigliere o direttore generale della Banca di Israele, dell’Israel Securities Authority e della Development Corporation for Israel. Come da prassi nel complesso militare-industriale-finanziario-accademico israeliano, il potente imprenditore è stato membro dei Cda delle più prestigiose e militarizzate università nazionali: The WeitzmanInstitute,l’HebrewUniversity, The Open University e l’istituto tecnologicoTechnion.
Vardi vanta infine rapporti di consulenza e collaborazione con la WorldBank, il Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite UNDP; il World Economic Forum e con alcune delle più importanti società transnazionali (Motorola, Amazon, AOL, Siemens Albis, ecc.).
Joseph “Yossi” Vardi interverrà alla kermesse romana in qualità di presidente di “Cybertech Conference”, il gruppo di networking che ha promosso l’appuntamento con Leonardo. Fondata nel 2014, “Cybertech Conference” organizza annualmente conferenze ed esposizioni sulle tecnologie cibernetiche nelle principali capitali internazionali (Roma,Tel Aviv, New York, Dubai, Tokyo, ecc.).
All’edizione 2023 di Cybertech Europe (tenutasi al “Nuvola Convention Center” il 3 e 4 ottobre, un paio di giorni prima dell’attacco di Hamas e della sanguinosa controffensiva delle forze armate di Israele contro di Gaza), si è registrato un numero record di espositori: oltre 90 tra aziende e start up provenienti da tutto il mondo, in particolare da Israele: AimBetter, Cinten, ItsMine, Orchestra Group, Perception Point, Rescana, Seraphic Security, Sling e Symmetrium”, “Altre società più affermate, come Checkpoint, CyberArk, Cybergym, SentinelOne, Terafence e XM Cyber.
L’anfitrione dell’evento
Anfitrione di Cybertech Europe 2023 è stato l’imprenditore e giornalista israeliano, Amir Rapaport, fondatore ed amministratore delegato di CyberTech Global, nonché analista militare di importanti quotidiani e periodici nazionali.
AmirRapaport è stato tra i fondatori del mediagroup ArrowmediaIsrael Ltd., specializzato nella creazione e gestione di siti internet e nell’organizzazione di eventi e fiere. ArrowmediaIsrael Ltd. è nota tra i vertici delle forze armate e di manager delle industrie belliche internazionali per la pubblicazione del bimestrale in lingua inglese ed ebraica Israel Defense che analizza le politiche militari-industriali di Tel Aviv e del Medio Oriente. Israel Defense cura anche un quotidiano online di informazione su difesa e sicurezza.
Il 28 dicembre 2023, in piena guerra contro Gaza, la West Bank, il Libano, la Siria e lo Yemen, il ministro degli Esteri di Israele, Eli Cohen, ha conferito un riconoscimento speciale al fondatore di Cyberteched Israel Defense, per il “Suo straordinario contributo alle relazioni internazionali ed economiche dello Stato israeliano”.
“Graziead Amir Rapaport, l’immagine di Israele si è affermata come leader globale nel campo dellatecnologia e delle cyber conferenze in diverse parti del mondo”, si legge tra le motivazioni dell’encomio. “Queste conferenze sono il frutto della vigorosa attività di Amir Rapaport. Esse contribuiscono significativamente alla reputazione di Israele quale hub dell’innovazione e della tecnologia, solidificando la posizione della cybersecurity quale settore guida in Israele. Le conferenze servono quale punto focale di attrazione ed incontro per i senior policymakers nel campo della cybersecurity in ogni Paese in cui hanno luogo i suoi eventi”.
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Speciale per Africa ExPress
Riccardo Girola
Milano, 24 settembre 2024
Lo scorso 18 settembre, il Mossad e l’IDF hanno messo a segno in diverse località del Libano e della Siria, un sofisticato attacco multiplo senza precedenti. Nell’esplosione dei cercapersone attivati a distanza dagli israeliani sono rimaste coinvolte almeno 4 mila persone, tra cui diversi bambini: i feriti sono più o meno quattrocento, di cui parecchi in gravi condizioni, e almeno 14 i morti, di cui 2 bambini. Feriti anche l’ambasciatore iraniano a Beirut, Mojtaba Amani, leggermente, e alcuni miliziani colpiti in Siria.
Un vero e proprio attacco terroristico attraverso la manomissione di 5000 cercapersone (“pager”), in dotazione principalmente ai miliziani di Hezbollah. Questo dispositivo piuttosto desueto era preferito ai moderni smartphone per la difficoltà di intercettarli anche dalle avanzate tecnologie israeliane.
Il Mossad e lo Shin Bet hanno diversi precedenti riguardo metodi di azione insolita e piuttosto discutibile, si ricorda l’operazione “Ira di Dio” che nel 1972 portò alla morte il rappresentante dell’Olp in Francia, Mahmud Mashari. Il suo cellulare, in cui era stato piazzato un ordigno da un agente del Mossad fintosi giornalista, fu fatto detonare a distanza. Anche Yahya Abd al Latif Ayyash, volto noto di Hamas conosciuto come “l’ingegnere” morì per via dell’esplosione del suo telefono personale.
La partita dei 5000 pager manomessi è di produzione taiwanese, più precisamente dell’azienda Gold Apollo, la quale si appoggia a BAC Consulting, un’azienda ungherese per il confezionamento e la distribuzione dei dispositivi.
Il presidente e fondatore della Gold Apollo, Hsu Ching-Kuang, chiarisce che la manifattura e il design sono affidati esclusivamente all’azienda Ungherese BAC.
Hsu ha espresso preoccupazioni riguardo alle irregolarità nelle rimesse e ammette però di essersi accorto dell’utilizzo dei pagers da parte di Hezbollah: “Non siamo una grande azienda ma siamo responsabili; e ciò è imbarazzante”.
Diversi professori di cybersecurity e analisti come Michael Horowitz hanno evidenziato quanto sia improbabile causare tali esplosioni esclusivamente attraverso un cyber attacco che porterebbe al surriscaldamento e conseguente esplosione della batteria; dunque è evidente l’intercettazione e la manomissione dei pager da parte dei servizi segreti israeliani prima dell’approvvigionamento alle milizie libanesi. Il giorno seguente all’esplosione dei cercapersone si sono aggiunte anche quelle dei walkie-talkie che hanno provocato la morte di almeno 9 persone e il ferimento di più di 300.
La CNN riporta che questi due attacchi sono stati pianificati e messi in atto dai servizi di intelligence, il Mossad, dall’esercito israeliani. Di quest’ultima azione ancora non si sa ancora la causa ma si ipotizza un modus operandi simile a quello dei pager.
Ora è utile chiedersi a quale scopo il Mossad e l’IDF hanno deciso di svelare un simile metodo di attacco senza precedenti.
Michael Horowitz ha fornito delle ipotesi: 1. Israele ha voluto anticipare una possibile azione militare di Hezbollah dato il conflitto al confine dei due Stati. 2. Attraverso l’esplosione dei cercapersone i miliziani si sarebbero sentiti più intimoriti e spiati, così da condizionarli nelle proprie azioni militari. 3. Un miliziano di Hezbollah potrebbe essersi accorto della manomissione al proprio cercapersone, di conseguenza prima che l’informazione potesse diffondersi hanno anticipato l’attacco. La risposta più accreditata ad oggi è l’ultima.
Il leader del Partito di Dio Hassan Nasrallah non ha esitato ad addossare le colpe di questo attacco terroristico ad Israele, aggiungendo: “Questo è puro terrorismo. Questi sono crimini di guerra o per lo meno una dichiarazione di guerra”.
Mentre le parole di Nasrallah venivano trasmesse un gruppo di caccia israeliani è volato a bassa quota sopra Beirut rompendo la barriera del suono. Sono inoltre proseguiti i bombardamenti nel sud del Libano.
L’Iran ha manifestato solidarietà ai suoi alleati sciiti promettendo “una risposta devastante dell’asse della resistenza e la distruzione di questo regime sanguinario e criminale”.
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La Turchia non molla, ritenta ancora di mediare tra Somalia e Etiopia. Le tensioni tra i due Paesi sono alle stelle, dopo un accordo siglato all’inizio di quest’anno dalle autorità di Addis Abeba e quelle di Hargheisa (capitale del Somaliland) per l’utilizzo del porto di Berbera.
Le tensioni tra i due Paesi non tendono a placarsi, specie dopo le recenti accuse del ministro degli Esteri somalo. In un comunicato del 20 settembre scorso ha incolpato l’Etiopia di aver inviato, senza alcuna autorizzazione, due camion carichi di armi nella regione semi-autonoma del Puntland.
Dopo aver ospitato due incontri a Ankara tra alti funzionari somali e etiopi, nel tentativo di risolvere la crisi tra i due Paesi, un terzo meeting, previsto per giovedì scorso, è stato cancellato.
Ora il ministro degli Esteri turco, Hakan Fidan, prima di fissare un nuovo incontro tra le parti, vuole avere colloqui separati con gli alti funzionari somali e etiopi che partecipano ai negoziati.
Va ricordato che il Somaliland, ex colonia britannica ha proclamato l’indipendenza dal Regno Unito il 26 giugno 1960 (si chiamava Stato del Somaliland), e, dopo 5 giorni si è unita alla Somalia Italiana, indipendente dal 1° luglio dello stesso anno. Dopo lo scoppio della guerra civile somala il 30 dicembre 1990, e il conseguente collasso della Somalia, il 18 maggio 1991 il Paese si è ritirato dall’unione. Ma il suo governo non è stato riconosciuto dalla comunità internazionale, tanto meno dalla Somalia.
La Turchia è presente in Somalia da anni. Nel 2017 ha costruito la sua più grande base militare all’estero. E l’anno precedente il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, ha aperto la nuova ambasciata sul lungomare di Mogadiscio, la più imponente e più moderna sede diplomatica turca in tutta l’Africa.
A fine luglio, il Parlamento di Ankara ha approvato una mozione presidenziale per il dispiegamento di forze armate in Somalia per due anni, a sostegno della sicurezza contro il terrorismo e altre minacce, nell’ambito di un accordo di cooperazione economica e di difesa tra Turchia e Somalia, siglato all’inizio di febbraio 2024. Ankara fornirà a Mogadiscio anche un sostegno per la sicurezza marittima per poter difendere le proprie acque territoriali.
Il governo di Ankara è impegnato in Somalia da oltre 10 anni nella formazione, assistenza e consulenza, per garantire sicurezza, stabilità e per contribuire alla ristrutturazione delle forze di difesa e di sicurezza del Paese per combattere il terrorismo.
Sebbene Addis Abeba e Mogadiscio siano in netto contrasto per la questione del Somaliland, l’Etiopia è ancora presente in Somalia con le sue truppe nell’ambito della Missione di Transizione dell’Unione Africana, il cui mandato scade alla fine dell’anno. Il governo somalo ha chiesto espressamente che i soldati etiopici lascino il Paese entro quella data.
I rapporti tra i due Paesi sono talmente tesi che ad aprile Mogadiscio ha persino espulso Muktar Mohamed Ware, ambasciatore del governo del primo ministro, Abiy Ahmed. Il ministero degli Esteri ha anche ordinato la chiusura di due consolati: uno nella regione semi-autonoma del Puntland e il secondo in quella secessionista, il Somaliland, che ha siglato il MoU (Memorandum of Understanding, cioè protocollo di intesa) con Addis Abeba.
Ora anche l’Egitto si sta riavvicinando alla Somalia. Nell’agosto scorso i due Paesi hanno firmato un accordo di sicurezza e alla fine dello stesso mese Il Cairo ha inviato già i primi aiuti militari a Mogadiscio. L’arrivo di due aerei egiziani, contenenti armi e munizioni è stato confermato a Reuters da fonti diplomatiche e da un alto funzionario somalo.
Poche ore fa funzionari portuali e militari somali hanno fatto sapere che una nave da guerra egiziana ha consegnato un altro carico di armi, tra questi armi antiaeree e artiglieria pesante.
Mogadiscio ha definito l’accordo tra l’Etiopia e il Somaliland un attacco alla sua sovranità e ha dichiarato che lo bloccherà con tutti i mezzi necessari. Dal canto suo, anche l’Egitto, in contrasto con l’Etiopia da anni per la costruzione di una vasta diga idroelettrica sulle sorgenti del fiume Nilo, il GERD (Grand Ethiopian Renaissance Dam), ha ugualmente condannato l’accordo con il Somaliland. E il presidente egiziano, Abd al-Fattāḥ al-Sisi si è pure offerto di inviare le sue truppe in Somalia, nell’ambito di una nuova missione di pace.
Insomma gli attori stranieri presenti nella nostra ex colonia sono molteplici e non si può escludere che ci siano anche forze di sicurezza eritree. A luglio il presidente somalo, Hassan Sheikh Mohamud, ha incontrato per la seconda volta quest’anno Isaias Aferworki. Con il peggioramento delle relazioni tra Eritrea ed Etiopia dopo la fine del conflitto nel Tigray, i legami tra Somalia ed Eritrea sono diventati sempre più importanti. Non va dimenticato che qualche anno fa Mogadiscio aveva inviato ad Asmara migliaia di soldati per addestramento militare. In seguito Isaias aveva costretto i militari somali a combattere accanto ai suoi uomini durante la sanguinosa guerra in Tigray, nella parte settentrionale dell’Etiopia.
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