Speciale per Africa ExPress Cornelia I. Toelgyes 2 maggio 2023
Una decina di giorni fa si è consumata l’ennesima carneficina di civili in un villaggio nel nord del Burkina Faso.
Secondo il racconto dei sopravvissuti, la mattina del 20 aprile, un gruppo di uomini armati in divisa, hanno circondato il villaggio di Karma e alcuni residenti, felici di vedere i soldati, sono usciti dalle proprie abitazioni per accoglierli. La loro gioia, i loro sorrisi, sono presto stati spenti dai colpi di arma da fuoco.
Per tutta la mattina, i militari sono passati di casa in casa, hanno buttato giù le porte, cercando di stanare chiunque si fosse nascosto nelle proprie abitazioni.
Solo 3 giorni dopo l’”esecuzione sommaria”, il procuratore di Ouahigouya, capoluogo della regione del Nord, ha confermato la morte di 60 residenti, ma secondo un comunicato dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti umani, i civili ammazzati sarebbero ben di più. L’agenzia dell’ONU parla di ben oltre cento persone scomparse, in seguito a un attacco perpetrato da uomini armati e con la divisa in dotazione all’esercito burkinabé, accompagnati da ausiliari paramilitari.
Il governo ha fermamente condannato “questi atti spregevoli e ha dichiarato di seguire da vicino l’evoluzione dell’inchiesta”, aperta dal procuratore di Ouahigouya, per far luce su queste barbarie e per perseguire penalmente tutte le persone coinvolte. Finora il procuratore ha parlato di “persone che indossavano le uniformi delle forze armate “, quindi non si conosce la loro identità. Sono davvero militari? O terroristi che hanno rubato le uniformi? Saranno le indagini a stabilirlo.
Il Collettivo contro l’Impunità e la Stigmatizzazione Comunitaria (CISC), una ONG burkinabé, ha fatto sapere qualche giorno fa di aver documentato e registrato 136 corpi senza vita a Karma, tra loro 50 donne e 21 bambini (anche neonati di meno di 30 giorni).
Il 25 aprile scorso, la portavoce dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, Ravina Shamdasani, ha chiesto che venga aperta “un’indagine completa e indipendente sull’ultima orribile strage di civili in Burkina Faso”. La portavoce ha ricordato che l’uccisione di Karma è stata “una delle tante altre segnalazioni di attacchi a civili da parte delle forze armate e dei VDP (Volontari per la Difesa della Patria) negli ultimi mesi”.
Se i fatti saranno confermati, si tratta del peggiore massacro ad opera delle forze armate dal 2015, cioè da quando il Burkina Faso, in particolare la parte settentrionale del Paese, è in preda a una spirale di violenza, attribuita a gruppi jihadisti legati ad Al-Qaeda e all’organizzazione dello Stato Islamico, che ha causato oltre 10.000 morti tra civili e militari e circa 2 milioni di sfollati.
Il 19 aprile scorso, il presidente della giunta militare di transizione,Ibrahim Traoré, salito al potere con un colpo di Stato nel settembre 2022, ha firmato un decreto per una mobilitazione generale contro il terrorismo della durata di un anno. Tale precetto consente alle autorità di adottare misure eccezionali in nome della sicurezza nazionale. Dunque anche i giovani dai 18 anni, ritenuti idonei, potranno essere arruolati.
Un piano per reclutare altri 5mila soldati da utilizzare contro l’insurrezione jihadista che attanaglia il Paese, è già stato annunciato lo scorso febbraio. A metà aprile il ministro della Difesa ha lanciato un appello al personale militare in servizio e in pensione, affinché consegni le uniformi inutilizzate, perché potrebbero essere utili per le nuove leve.
Meno di una settimana fa sono stati ammazzati 33 militari burkinabé, 12 i feriti. Un folto gruppo di uomini armati, presumibilmente jihadisti, hanno attaccato il distaccamento militare di Ouagarou, nella provincia di Gourma, nell’est del Burkina Faso. Durante i combattimenti sono stati uccisi anche 40 terroristi, secondo quanto è stato riportato in un comunicato delle forze armate.
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Da Radio Dabanga
Genina (West Darfur), 1° maggio 2023
Ibrahim Ali Hussein, sceicco del campo Kerending per gli sfollati di El Geneina, nel Darfur occidentale, ha dichiarato ieri a Radio Dabanga che almeno 180 persone sono state uccise in attacchi a Genina la scorsa settimana. La situazione è descritta come estremamente pericolosa e molti sono già fuggiti in Ciad.
Ieri, un’associazione di medici locali ha stimato in 191 il numero dei morti. I residenti hanno riferito che i grandi scontri in città sembrano si siano fermati; continuano però i saccheggi, le uccisioni e altre forme di illegalità.
In un’intervista a Radio Dabanga, Sheikh Ibrahim ha dichiarato che almeno 178 persone sono state uccise e 65 ferite durante gli attacchi della scorsa settimana, ma che altre due persone sono morte per le ferite riportate sabato a causa della mancanza di strutture sanitarie operative. La maggior parte dei centri, infatti, ha dovuto chiudere. Così i feriti si affollano nell’unico ancora disponibile, ha spiegato Ibrahim.
A causa degli attacchi al personale medico e agli ospedali e della generale mancanza di sicurezza, Medici Senza Frontiere (MSF) ha dovuto interrompere la maggior parte delle sue attività nel Darfur occidentale.
Sabato hanno riferito che l’ospedale didattico di El Geneina è stato saccheggiato. In una dichiarazione sui social media, il vice responsabile di MSF per le operazioni in Sudan, Sylvain Perron, ha affermato che “è assolutamente inaccettabile vedere l’ospedale didattico di El Geneina e altre strutture sotto attacco. Siamo profondamente preoccupati per la sicurezza del personale sanitario e delle nostre squadre nel Darfur occidentale”.
“Molte persone sono intrappolate nel mezzo di questa violenza mortale” e ha aggiunto che le équipe di MSF “non sono state in grado di raggiungere l’ospedale”.
MSF ha riferito che sta ancora fornendo assistenza medica alle strutture di Kereinik, di Rokoro nel Darfur centrale, Um Rakuba e Tinedba a El Gedaref e Ed Damazin nello Stato del Nilo Blu.
Estremamente pericoloso
Diversi residenti sono stati uccisi o feriti mentre andavano a prendere acqua e cibo e ci sono state segnalazioni di stupri e violenze di genere, ha raccontato lo sceicco.
Sui social media sono stati postati drammatici racconti che mostrano come a Genina la situazione sia “estremamente pericolosa” .
I luoghi di ritrovo sono stati bruciati e attaccati. Un leader del campo per sfollati di Aba Dhar ha riferito che uomini armati hanno assalito i luoghi di raccolta degli sfollati nel centro della città e li hanno completamente dati alle fiamme, costringendo migliaia di civili a fuggire attraverso il confine con il Ciad.
Senza la presenza di forze di polizia o di sicurezza nell’area, le milizie armate “hanno invaso il mercato cittadino e le istituzioni governative in un modo senza precedenti”, ha dichiarato all’agenzia di stampa sudanese Ayin.
L’Assistente del Commissario per i Rifugiati in Darfur, El Farsha Mujibur El Rahman Yagoub, ha dichiarato a Radio Dabanga che a Genina sono stati bruciati almeno 20 rifugi per gli sfollati, tra cui il Centro El Zahra, il Tribunale del Sultano, il Centro Dar Masalit e il Centro del Ministero della Pianificazione.
La situazione umanitaria è estremamente complessa, poiché non ci sono ripari o alloggi e anche i mercati sono stati bruciati. Yagoub ha anche riferito che un medico è stato ucciso e che c’è una grave carenza di personale sanitario e di medicinali.
Ayin ha parlato anche con Inaam El Nour, direttrice di Women for Change, che ha raccontato che la sua casa è stata circondata da uomini armati schierati con la RSF (Rapid Support Forces,i golpisti di Mohamed Hamdan Dagalo “Hemetti”, ndr) che l’hanno costretta a fuggire. “Hanno minacciato di uccidermi, non mi sento ancora al sicuro”, ha detto. Martedì scorso a tarda sera, alcuni dei suoi parenti sono stati ammazzati davanti alla loro casa.
In fuga verso il Ciad
In mezzo alle violenze, ondate di rifugiati continuano a spostarsi da Geneina verso le aree a sud della città ciadiana di Adre. Gli inviati di Radio Dabanga in Ciad hanno dichiarato che i nuovi rifugiati si trovano nei villaggi di Taktakli, Darta, Gidenta e Denta, dove le condizioni umanitarie sono pessime.
L’Assistente Commissario Yagoub ha lanciato un appello al Presidente del Ciad Mahamat Idris Déby e al Presidente del Consiglio Sovrano e Comandante delle Forze Armate Sudanesi, il generale Abdelfattah El Burhan, affinché si coordinino per aprire corridoi sicuri per i rifugiati.
In un’intervista a Radio Dabanga, Yagoub ha chiesto alle forze ciadiane di intervenire per evacuare i feriti da Genina. Ha detto che morti e feriti sono centinaia: “E’ impossibile contarli.
Un rifugiato sudanese sarebbe stato ucciso in Ciad nel campo per profughi di Farchana per gli sfollati in Ciad, tra Abeche e Genina, mercoledì scorso. Un corrispondente di Radio Dabanga ha affermato che le milizie armate si trovano sul lato sudanese della valle.
Scontri non puramente “tribali
A Genina gli scontri sono cominciati già lunedì, ma si sono intensificati nei giorni successivi.
Secondo un comunicato pubblicato venerdì dall’Unione Dar Masalit (Masalit è una popolazione locale non araba la cui lingua utilizza caratteri latini, ndr), i paramilitari del Rapid Support Forces hanno lanciato un violento attacco giovedì mattina. “Questo attacco ha provocato un gran numero di vittime nelle aree residenziali”, si legge nel documento.
“L’intero mercato di Genina, il quartier generale della polizia di Stato, la sede del servizio di intelligence generale, il dipartimento del traffico e le strutture sanitarie sono stati saccheggiati”. Anche l’ospedale generale diella città è stato attaccato e devastato “il tutto davanti alla 15esima divisione di fanteria, che non ha mosso un dito per proteggere i civili innocenti”.
L’esercito ha denunciato le violenze come “tribali”. È vero che in passato le RSF sono state reclutate prevalentemente dalla tribù di pastori arabi Rizeigat, da cui proviene il comandante delle RSF Mohamed “Hemeiti” Dagalo, e che molti degli sfollati provengono dai Masalit, una tribù di agricoltori africani non arabi.
Tuttavia, l’Unione Dar Masalit ha spiegato che gli attacchi condotti dall’RSF non sono conflitti tribali. “Le componenti sociali del Darfur occidentale hanno vissuto in armonia e solidarietà”, si legge in una dichiarazione, e spiega che gli attacchi dell’RSF sono una continuazione dei precedenti attacchi dei Janjaweed*.
L’organizzazione ritiene le istituzioni statali “pienamente responsabili” delle uccisioni, degli incendi e dei saccheggi a Genina. “Le persone in Darfur possono vedere che sono aizzate l’una contro l’altra dal sistema di milizie che ha distrutto le loro vite per tanti anni, e ora sta distruggendo le vite delle gente a Khartoum”, ha scritto su Twitter l’analista Eddie Thomas.
Civili armati
Diverse notizie riferiscono che i civili di tribù non arabe, come i Masalit, sono stati armati per contrastare gli attacchi della RSF. I residenti locali hanno sentimenti contrastanti riguardo a questo nuovo sviluppo. Il residente Osam Bushara ha detto ad Ayin che “è positivo perché aiuta i civili a proteggere le loro proprietà e le loro vite. Tuttavia, un aumento degli armamenti aumenta anche la violenza tra i civili. Potremmo vedere molta più guerra di strada”.
“La polizia ha armato le persone in modo che i civili potessero proteggersi”, ha spiegato El Nour all’agenzia di stampa, ma ora gli individui armati vagano per la città. “I bambini portano armi”.
Nella capitale del Darfur meridionale, Nyala, sono state lanciate iniziative popolari e la gente si è armata per proteggere i propri quartieri dai saccheggi delle RSF.
Radio Dabanga
* Le RSF sono state istituite dal regime di Al Bashir nell’agosto 2013 e sono nate dal formale ma non sostanziale scioglimento dalle milizie Janjaweed, che hanno combattuto per il governo sudanese in Darfur sin dallo scoppio della guerra nel 2003 ed erano composte in gran parte da tribù di pastori arabi.
I Janjaweed sono ritenuti responsabili del genocidio contro i contadini Darfuri e altri gruppi non arabi/africani. Li chiamavano “diavoli a cavallo” che bruciavano i villaggi, uccidevano gli uomini e rapivano i bambini durante la guerra in Darfur.
L’Rsf è ritenuto responsabile delle atrocità commesse negli anni passati nelle regioni del Kordofan e del Darfur ed è anche ampiamente condannato per il suo ruolo nel colpo di stato militare del 25 ottobre e nelle successive violenze contro i manifestanti pro-democrazia.
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All’inizio della terza settimana di guerra tra i due generali, scoppiata il 15 aprile scorso, anche questa mattina pesanti combattimenti hanno scosso la capitale del Sudan.
Le forze armate del presidente, Abdel Fattah Abdelrahman al-Burhan, si sono affrontate nuovamente con i paramilitari Rapid Suport Forces (RSF) capitanate da Mohamed Hamdan Dagalo, meglio noto come Hemetti, nel centro di Khartoum. In particolare la battaglia infuria nei pressi del quartier generale dell’esercito, malgrado la tregua accettata da entrambi, in scadenza oggi in serata. Raid aerei sono stati effettuati a Omdurman, città gemella della capitale, al di là del Nilo.
Secondo gli ultimi dati, i morti civili sarebbero oltre 500, mentre i feriti 4.600 e più, quasi 5.000 secondo fonti indipendenti. Gli ospedali sono al collasso e gran parte fuori servizio. Proprio poche ora fa ICRC (Comitato Internazionale della Croce Rossa) ha annunciato sul suo account Twitter che è appena arrivato un carico di 8 tonnellate di materiale sanitario d’emergenza a Port Sudan. Il problema ora è come farlo arrivare nella capitale e soprattutto come distribuirlo giacché nelle strade infuria la battaglia.
Il segretario delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, ha lanciato un nuovo appello perché i belligeranti si siedano al tavolo dei negoziati per fermare il bagno di sangue. “Non è giusto continuare a combattere per il potere, quando il Paese sta cadendo a pezzi”, ha aggiunto.
La peggiore guerra civile
Mentre l’ex primo ministro sudanese, Abdalla Hamdok, teme che il conflitto possa sconfinare in una delle peggiori guerre civili del mondo se non verrà fermato tempestivamente.
Inews, giornale britannico online, ha raccontato due giorni fa di aver appreso da consulenti per la sicurezza, incaricati di assistere gli stranieri in fuga, e da fonti locali, che mercenari russi Wagner a Port Sudan erano presenti durante l’evacuazione. Anche l’intelligence britannica ha confermato di aver avvistato i contractor nel principale porto del Paese.
I Wagner al porto
Port Sudan è strategico per gli uomini di Evgenij Prigozhin, il capo della società di mercenari Wagner e uomo d’affari molto vicino a Vladimir Putin. I suoi uomini da lì spediscono l’oro e altri minerali preziosi estratti dalle miniere sudanesi verso il Medio Oriente e altre destinazioni. E non va dimenticato che durante la sua ultima visita nel Paese africano, il ministro degli Esteri russo, Sergeij Lavrov, ha ottenuto l’autorizzazione di costruire una base navale proprio a Port Sudan.
Secondo un’inchiesta di qualche tempo fa, pubblicata dal quotidiano britannico Telegraph, negli ultimi anni la Russia avrebbe esportato dal Sudan centinaia di tonnellate di oro.
Esportazione d’oro
Anche se le statistiche ufficiali non evidenziano spedizioni importanti del prezioso metallo oro verso la Russia, un dirigente, che ha voluto mantenere l’anonimato, impiegato di una delle più grandi compagnie aurifere sudanesi, ha raccontato che il Cremlino è il più grande attore straniero nell’enorme settore minerario del Paese.
Il 19 aprile 2023 i Wagner sono stati avvistati su piccole imbarcazioni mentre stavano pattugliando le acque nei pressi di una nave da guerra dell’Arabia Saudita, poi usata per la prima evacuazione di cittadini del regno wahabita e di diversi stranieri, personale diplomatico e alti funzionari di istituzioni internazionali.
Altre due fonti hanno confermato a inews di aver visto in circolazione gli uomini di Wagner nella città portuale sudanese anche mercoledì scorso.
Uomini bianchi armati
Ma non finisce qui. Ormai è stato riferito da più fonti che bianchi armati stanno partecipando attivamente alla battaglia in corso. Sono stati segnalati lunedì notte a Omdurman, la città gemella della capitale sull’altra sponda del Nilo, impegnati in uno scontro a fuoco. In Sudan i Wagner sono i soli bianchi ad essere in possesso di fucili automatici.
Anche se il patron del gruppo privato russo ha negato categoricamente un coinvolgimento nel conflitto, pare evidente – come ha riportato la CNN in un ampio reportage ben documentato da fotogrammi ripresi da droni – che Wagner abbia rifornito le RSF di missili per aiutarli a combattere le forze armate sudanesi.
Pulizia etnica in Darfur
Intanto da giovedì scorso cinque movimenti armati darfuriani, firmatari dell’accordo di pace di Juba, hanno schierato centinaia di combattenti per mettere in sicurezza la città di El Fashir, capoluogo del del Darfur settentrionale.
Il dispiegamento delle forze è volto a proteggere i civili dagli attacchi delle milizie arabe, cioè i janjaweed, che sostituiscono la spina dorsale dei Rapid Support Forces. Le RSF, inoltre, procedono con i loro attacchi a Genina, nel Darfur occidentale. Ormai è accertato che è in Darfur si tenta di ricominciare la pulizia etnica degli arabi a danno delle popolazioni locali di origine africana.
Gli osservatori temono che il conflitto in corso tra l’esercito e il gruppo paramilitare, composto appunto dalle tribù arabe del Darfur, possa portare a un coinvolgimento dei gruppi armati nella regione.
Subito dopo lo scoppio dei combattimenti in Sudan, Minni Minnawi, ha dichiarato di fermare il disarmo delle sue milizie. Minnawi, leader di una fazione del Sudan Liberation Movement, firmatario del trattato di pace con il governo di transizione nell’agosto 2020, e nel maggio 2021, è stato nominato governatore del Darfur due anni fa.
L’ex ribelle ha contestato il reclutamento e la mobilitazione militare in Darfur. “Questo è assolutamente inaccettabile – ha dichiarato Minnawi il 17 aprile scorso -. Il reclutamento di nuovi combattenti in Darfur costituisce una violazione dell’accordo di pace stipulato con il governo nel 2020″.
Va ricordato che il movimento di Minnawi ha combattuto a fianco di Haftar in Libia, insieme ad altri gruppi del Darfur. I 5 principali movimenti della regione (SLA-MM: Sudan Liberation Army, fondato Minni Minnawi; GSLF Sudan Liberation Forces; SLA-TC, gruppo una volta guidato dall’ex ribelle di Al-Hadi Idris; SLA-AW presieduto da Abdul Wahid; SRAC Sudanese Revolutionary Awakening Council, hanno ricevuto non solo soldi, ma anche supporto logistico.
Fino a ieri Minnawi e Al-Hadi Idris (membro del Consiglio sovrano) erano legati a Hemetti, uno degli ex-leader dei tagliagole janjaweed. Un tempo, quando erano guerriglieri, Hemetti era il loro peggior nemico e ha massacrato parecchi darfuriani.
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Mentre in Sudan tutte le tregue pattuite quotidianamente sono immediatamente violate e gli scontri proseguono quindi interrottamente, i paramilitari golpisti della Rapid Support Forces sono tornati alla loro vecchia principale occupazione: la pulizia etnica.
In Darfur, dove sono nati, sono cresciuti e si sono sviluppati e si chiamavano janjaweed prima di essere integrati nella RSF per ripulirne l’immagine, hanno ricominciato ad attaccare i villaggi delle etnie africane, bruciando le capanne ammazzando gli uomini e distruggendo ogni cosa. I morti sono almeno 96 e i feriti un paio di centinaia. In quell’area l’obbiettivo sono i masalit, popolazione musulmana sì ma non araba, che vive a cavallo tra Sudan e Ciad. Si pensi solo che la loro lingua è scritta in caratteri latini e non arabi.
A Genina, capitale della tribù, il sultano dei masalit, Saad Abd al-Rahman Bahr al-Din, ha definito la situazione “catastrofica” e ha tracciato un quadro desolante: “I feriti non possono raggiungere ciò che resta degli ospedali e delle cliniche e i corpi che giacciono nelle strade non possono essere seppelliti a causa dei continui attacchi”.
Martedì alcuni uomini armati in sella alle loro moto e in SUV di grossa cilindrata hanno assaltato diversi villaggi e circondato diversi campi per sfollati. Gli attacchi hanno provocato un numero imprecisato di morti e feriti. Molti altri sono fuggiti.
Il sultano ha lanciato un appello alle organizzazioni umanitarie affinché forniscano assistenza urgente alle persone colpite dagli scontri tribali.
Ha poi aggiunto che potrebbe anche riconsiderare l’accordo “Gilani” firmato dal Sultanato di Dar Masalit nel 1919-1921 con Francia e Gran Bretagna, secondo il quale Dar Masalit si sarebbe unito al Sudan nel 1922. In poche parole, non esclude azioni separatiste future.
Anche oggi è stata ignorata la tregua. I due generali, Abdel Fattah al-Burhan, presidente del Sudan e comandante delle forze armate, da un lato, e Mohamed Hamdan Dagalo, chiamato Hemetti, vicepresidente del Paese e capo dei paramilitari golpisti delle Rapid Suport Forces, dall’altro, avevano aderito a un cessate il fuoco, prolungato di altre di 72 ore.
Eppure la capitale e la vicina città di Bahri sono state nuovamente teatro di violenti scontri. Raid aerei, colpi di artiglieria pesante e mitragliatrici hanno fatto tremare gli abitanti.
Un aereo turco, addetto all’evacuazione, è stato colpito mentre era in fase di atterraggio all’aeroporto militare di Wadi Saeedna a pochi chilometri da Khartoum. Il ministero della Difesa di Ankara ha confermato, sottolineando che l’aereo è riuscito a atterrare; nessuno è stato fortunatamente ferito.
Vista l’insicurezza aerea gli USA hanno noleggiato diversi bus per portare i propri cittadini, che hanno chiesto di essere evacuati, a Port Sudan. L’amministrazione di Biden ha scelto il percorso stradale, in quanto può essere monitorato con i droni dall’esercito USA.
La partenza del personale diplomatico e delle loro famiglie è avvenuto con un blitz quasi una settimana fa. In un primo momento il governo americano non ha programmato la messa in sicurezza degli altri suoi cittadini. Non è stato subito chiaro quanti fossero presenti nel Paese al momento dello scoppio della guerra e quanti tra loro volessero realmente partire, visto che molti hanno doppia nazionalità, quella sudanese e quella statunitense.
Secondo il New York Times, una evacuazione a volte comporta anche conflitti personali, alcuni aggravati da requisiti burocratici, che possono lasciare le famiglie di fronte a decisioni strazianti.
Finora sono falliti anche tutti tentativi messi in campo dalla comunità internazionale e dei Paesi vicini per far tacere le armi e portare alla ragione i due contendenti.
Mercoledì sera, l’esercito ha annunciato di aver accettato di inviare un rappresentante a Juba, la capitale del vicino Sud Sudan, per colloqui con la RSF; una iniziativa dell’IGAD, un’organizzazione politico-commerciale formata dai Paesi del Corno d’Africa. Dal canto loro, i paramilitari non hanno nemmeno commentato tale proposta.
Martin Griffith, sottosegretario generale dell’ONU per gli Affari umanitari e coordinatore degli aiuti d’emergenza, in un tweet di poco fa ha fatto sapere che continuano i saccheggi negli uffici dell’organizzazione a Kharoum, Nyala (Sud Darfur) e Genina (West Darfur). Ha poi aggiunto: “Fatti inaccettabili e vietati dal diritto umanitario internazionale”.
La guerra tra i due generali sta limitando la distribuzione di cibo in un Paese dove un terzo dei suoi 46 milioni di abitanti dipende dagli aiuti umanitari. Ora, secondo il World Food Programme, le violenze in atto potrebbero far sprofondare altri milioni di persone in stato di necessità alimentare.
Almeno 20.000 persone sono fuggite in Ciad, 4.000 in Sud Sudan, 3.500 in Etiopia e 3.000 nella Repubblica Centrafricana. E l’ONU è molto preoccupata: se i combattimenti continueranno, potrebbero chiedere protezione nei Paesi limitrofi fino a 270 mila persone.
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Speciale per Africa ExPress Cornelia I. Toelgyes
28 aprile 2023
A Mayotte, il più povero dei Dipartimenti francesi d’oltremare, è iniziata la controversa operazione “Wuambushu” (che significa “ripresa” in maorese), finalizzata all’espulsione di massa degli stranieri irregolari e alla distruzione delle baraccopoli. I cittadini comoriani “illegali” saranno deportati in barca ad Anjouan, l’isola comoriana che dista solo 70 chilometri da Mayotte.
Migliaia di persone, per lo più comoriani, ma anche persone provenienti da altri Paesii africani, sono attratti come da una calamita da Mayotte, da quel fazzoletto di terra francese, in mezzo all’Oceano Indiano, diventato il 101º dipartimento francese nel 2011. Come tale, la valuta ufficiale dell’isola è l’euro.
Da diversi giorni, le autorità francesi stanno dispiegando ingenti risorse logistiche e umane per rimuovere i migranti senza permesso di soggiorno dalle baraccopoli di Mayotte, nell’ambito di questa controversa operazione di sgombero. Sono stati mobilitati circa 1.800 agenti di polizia e gendarmi; centinaia di rinforzi sono arrivati direttamente dalla Francia.
Dall’alba di ieri mattina, il prefetto di Mayotte ha annunciato il proseguimento delle operazioni di lotta alla delinquenza, alle baraccopoli e all’immigrazione clandestina. E a Koungou (nel nord), alcuni insediamenti informali sono stati rasi al suolo dalle ruspe per far posto alla costruzione di una scuola professionale.
Ma a tutt’oggi regna una gran confusione sulla ripresa delle espulsioni verso le Comore. La compagnia di navigazione SGTM si è rifiutata di garantire le traversate fino a nuovo ordine, nonostante la riapertura dei porti nell’Unione delle Comore. Lunedì scorso il governo di Moroni ha respinto una nave con una sessantina di migranti a bordo, oggetto di rimpatrio forzato.
Solamente ieri, le autorità portuali comoriane hanno annunciato che le imbarcazioni provenienti dal vicino Dipartimento francese sono nuovamente autorizzate ad attraccare, dopo una sospensione di alcuni giorni. I comoriani rimpatriati potranno sbarcare a condizione che siano in possesso di un documento d’identità. Per evitare la deportazione, tali carte vengono spesso distrutte una volta giunti nel Dipartimento francese.
Mercoledì scorso l’Assemblea nazionale delle Comore ha condannato l’operazione Wuambushu di Mayotte. I deputati hanno sottolineato il loro sostegno al capo di Stato Azali Assoumani, attualmente anche presidente di turno dell’Unione Africana, nomina che è stata fortemente appoggiata proprio da Parigi. Lunedì scorso il regime di Moroni si è rifiutato di accogliere i concittadini espulsi da Mayotte. Il parlamento ha però anche esortato il loro presidente di avviare negoziati diretti con il suo omologo francese, Emmanuel Macron.
Nelle ultime settimane, Moroni ha ripetutamente chiesto a Parigi di annullare l’operazione Wuambushu, istituita dal ministro degli Interni francese Gérald Darmanin.
Le Comore si sono impegnate, in un accordo firmato nel 2019, a “cooperare” con Parigi sui temi dell’immigrazione in cambio di 150 milioni di euro in aiuti allo sviluppo. E, con il beneplacito di Moroni, nel 2022 la Francia ha rimpatriato ben 23.380 comoriani.
Lo Stato insulare dell’Africa Orientale posto all’estremità settentrionale del Canale del Mozambico, a differenza di Mayotte, ha votato per l’indipendenza, che ha ottenuto dalla Francia nel 1975. E’ composto da tre isole, Grandi Comore, Mohéli e Anjouan. La quarta isola, Mayotte, ha sempre rifiutato di far parte dell’Unione delle Comore ed è rimasta fedele alla Francia, cioè territorio d’oltremare. Ma lo Stato insulare chiede che Mayotte ritorni a far parte dell’Unione. Anche le Nazioni Unite hanno ritenuto nullo il referendum del 1976 e in più risoluzioni non vincolanti, hanno chiesto la restituzione dell’isola alle Comore.
Gli abitanti delle Comore vivono in un paradiso terreste ma sono tra i più poveri del mondo. L’economia si basa sull’esportazione di chiodi di garofano, vaniglia e qualche altra spezia profumata. Nell’arcipelago si sopravvive grazie alle rimesse di parenti e amici che lavorano in Francia o in Mozambico. E molti comoriani cercano di raggiungere Mayotte, cioè l’Europa, in cerca di una vita migliore, rischiando la propria vita. Morti non solo nel Mediterraneo, ma anche qui, nel Canale di Mozambico. Morti dimenticate da tutti.
Ma anche gran parte degli abitanti del Dipartimento francese, che comprende due isole principali, Grande-Terre et Petite-Terre, vivono in condizioni precarie, non hanno ottenuto dalla Francia i benefici e il tanto sperato progresso.
La povertà è endemica, le disuguaglianze sociali sono abissali. Le infrastrutture sono assolutamente insufficienti. La popolazione residente legalmente è passata da 40 mila nel 1978 a quasi 290.000 mila. Cifra sicuramente sottostimata. Il 50 per cento della popolazione è straniera, tra loro il 95 per cento proviene dalle vicine Comore, un terzo degli abitanti sono migranti “illegali”.
Sull’isola nascono giornalmente da 25 a 30 bébé e metà della popolazione ha meno di 18 anni. Le scuole non bastano. Nel 2018 è stato stanziato mezzo miliardo di euro per la costruzione e la ristrutturazione di edifici scolastici, collegi e licei, ma sono insufficienti. Mancano oltre mille aule per le scuole primarie. E, secondo uno studio del 2020, se il flusso migratorio si mantiene a questi livelli, si stima che nel 2050 gli abitanti potrebbero arrivare a 750 mila.
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Speciale per Africa ExPress Sandro Pintus 27 aprile 2023
Sono 90, finora, i morti della setta cristiana Good News International Church (Chiesa internazionale della Buona Novella). Tra questi, almeno otto bambini ma potrebbero essere molti di più. Una decina di morti erano in una fossa comune. Tutti sono morti di fame. Il leader della setta, Paul Mackenzie Nthenge, prometteva loro che “per incontrare Gesù” bisognava morire di fame.
Il terribile fatto di cronaca è successo nel distretto di Kilifi, sud del Kenya, tra Mombasa e Malindi.
Il profeta
Mackenzie, 51 anni, predicatore della comunità – che si definisce profeta – è stato arrestato il 14 aprile grazie a una soffiata. Riguardava informazioni sulle tombe comuni nel villaggio di Shakahola, contea di Kilifi, in un terreno di 325 ettari di proprietà del leader della setta. Sul posto indicato la polizia ha scoperto un orrore inaspettato.
Japhet Koome, ispettore generale della polizia keniota, ha dichiarato che otto persone sono state trovate vive ma in pessime condizioni di salute e sono decedute. Trentaquattro sopravvissuti sono stati portati all’ospedale di Malindi.
Secondo la Croce Rossa keniota, 200 persone sono state segnalate come disperse. Si sospetta che facciano parte dei decessi causati da Nthenge. Intanto è stato arrestato per complicità Zablon wa Yesu, il suo più stretto collaboratore. Il profeta è accusato di plagio ed è indagato per aver influenzato i suoi seguaci “a morire di fame per incontrare il Gesù”.
Il ministro degli Interni keniota, Kinthure Kindiki, ha dichiarato che, secondo il diritto internazionale, Paul Mackenzie Nthenge e i suoi sostenitori possono essere accusati di genocidio.
Un padre che ha perso i tre figli
Yimbo ha perso tre figli. “Si chiamavano Vincent Lihanda , 21 anni; Godwin Maxwell, 17; e Collins Lijodi di 14 – ha raccontato al quotidiano keniota Nation -. Tre anni fa, Lihanda è scomparso. Un giorno, durante una telefonata, la madre lo ha convinto a tornare. Ma arrivato a casa era determinato a lasciare la scuola per dedicarsi alla predicazione del Vangelo”.
Due mesi dopo sono scomparsi anche gli altri due ragazzi. L’uomo ha denunciato la sparizione alla polizia senza successo. Ha scoperto in seguito che erano stati convinti, dallo zio suo fratello, a seguire la setta di Shakahola.
“Ogni tanto telefonavano da numeri sconosciuti per chiedere soldi ma quando chiamavamo noi, quei numeri non rispondevano – continua Yimbo -. Era difficile riuscire a vederli perché eravamo in piena pandemia Covid-19. Poi mi è stato detto che i miei ragazzi erano morti”.
Alcuni sopravvissuti della setta conoscevano i figli di Yimbo. Hanno raccontato che il 15 marzo hanno cercato di fuggire dalla comunità ma sono stato catturati e strangolati. Poi sono stati sotterrati in una fossa comune. Per averne conferma si sta aspettando l’esame del loro DNA.
Good News International Church
Di questa setta Africa Express ha già scritto riguardo all’indagine Gold Mafia dell’emittente TV qatarina Al Jazeera. Fondata da Uebert Angel, telepredicatore evangelico che – come Mackenzie – si definisce profeta, è presente in 15 Paesi con 85 sedi. E Shakahola potrebbe essere una delle 85 sedi della setta.
Angel, al secolo Uebert Madzanire, cittadino britannico-zimbabweano, già ambasciatore nominato dal presidente dello Zimbabwe Emmerson Mnangagwa, è stato licenziato. È coinvolto nel contrabbando d’oro e nel traffico di denaro sporco tra Zimbabwe, Sudafrica e Dubai.
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“Mwanga”, il più prestigioso liceo femminile di Kolwezi, capoluogo della provincia di Lualaba nel Katanga, regione della Repubblica Democratica del Congo, è stato investito da un terribile incendio. Finora non sono state registrate vittime, ma i feriti sono molti, ben 132, tra loro 8 in modo grave.
Kolwezi viene spesso soprannominata come “capitale mondiale del cobalto”. Tutta la zona intorno alla città è ricca di siti minerari di rame, cobalto e altri e gran parte della mano d’opera è costituita da bambini.
Le fiamme si sono divampate lunedì mattina, quando diversi studenti si trovavano già nelle aule. Alcuni testimoni hanno però riferito che già durante la notte hanno visto del fumo sopra la scuola, in particolare vicino ai dormitori.
I responsabili dell’istituto avevano cercato di domare l’incendio immediatamente, ma lunedì mattina, il fuoco ha ripreso inaspettatamente, fino a raggiungere lentamente le aule scolastiche, dove erano già presenti alcune studentesse.
Prese dal panico, le ragazze sono si sono letteralmente buttate giù dl primo piano dell’edificio. Alcune studentesse hanno inalato fumo e sono svenute, altre sono rimaste ferite e altre ancora traumatizzate.
Immagini e video con scene terribili sono circolate subito sui vari social network, creando spavento e subbuglio in tutta la città.
Secondo quanto riportato dall’ufficio scolastico provinciale, tra i feriti ci sono anche tre insegnanti.
Il ministro degli Interni della provincia di Lualaba ha rassicurato che non ci sono stati morti, tutti i feriti sono stati portati nei diversi ospedali e centri medici della città.
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La capitale Khartoum, teatro di feroci scontri dal 15 aprile, è ora anche a elevato rischio biologico.
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità che ha lanciato l’allarme, una delle parti in conflitto ha preso il controllo di una struttura sanitaria nazionale dove si conservano gli agenti patogeni del morbillo e del colera per le vaccinazioni. I tecnici della struttura, che ospita anche la più grande banca del sangue del Paese, sono stati mandati via.
OMS ha poi sottolineato che la prolungata mancanza di elettricità rende impossibile la corretta gestione del materiale nel laboratorio. Il complesso scientifico non è lontano dal centro della città e si trova nei pressi dell’aeroporto.
Gran parte delle strutture sanitarie di Khartoum non funzionano attualmente a causa della mancanza di personale, della carenza di medicinali, di interruzioni di corrente o di attacchi.
Mentre continuano le evacuazioni degli stranieri in Sudan, la guerra nel Paese non conosce tregua. Poco fa il ministro degli Esteri di Riad ha fatto sapere che alle 05.00 ora locale è arrivata alla base navale di King Faisal, Gedda, la nave “Amana”, battente bandiera saudita con a bordo oltre 1.600 persone di almeno 50 nazionalità diverse.
Malgrado l’annunciato cessate il fuoco di 72 ore mediato dagli Stati Uniti con le parti in causa, si continua a sparare. A Omdourman, città gemella della capitale al di là del Nilo è stata usata l’artiglieria pesante. Insomma la battaglia per la conquista del potere tra le forze armate sudanesi guidate da al-Burhan, presidente del Consiglio sovrano e capo di Stato e le Forze di Supporto Rapido, il cui leader è Dagalo, detto Hemetti, nonché vicepresidente del Paese, proseguono.
L’ex dittatore Omar al Bashir, spodestato nell’aprile 2019 proprio da al-Barhan e Dagalo, non è più in galera. Almeno, secondo quanto ha raccontato Ahmed Haroun, alto funzionario durante il regime islamista, che in una dichiarazione fatta ieri all’emittente Sudan’s Tayba TV, ha detto che al Bashir ha lasciato la prigione di Kober insieme a altri funzionari che si assumeranno la responsabilità della propria protezione.
Al-Bashir, al momento del “rilascio dei suoi”, non era presente nella prigione di massima sicurezza di Kober. Si trovava in ospedale già prima dello scoppio di questa lotta spietata tra i due contendenti.
Intanto crescono a vista d’occhio i prezzi di carburante e dei beni di prima necessità. La situazione umanitaria è vicino alla catastrofe, tenendo conto anche del fatto che gran parte degli ospedali della capitale è inaccessibile.
E’ gravissima anche la situazione dei migranti. Il Sudan, è un hub della migrazione. Specie per coloro che non sono in possesso di regolari documenti, il Paese è diventato un incubo. Molti, soprattutto eritrei scappati da una feroce dittatura, cercano di spostarsi verso Kassala. I costi dei bus sono diventati proibitivi e il passaggio dai molti check-point, controllati dai paramilitari delle RSF, è un vero incubo.
Tesfa News, giornale on line simpatizzante della dittatura di Asmara, ha affermato che il governo di Isaias Aferwerki “sta facilitando l’evacuazione di centinaia di cittadini dalla capitale Khartoum attraverso il valico di frontiera di Arbateasher-Kassala”. Certo, gli uomini di Isaias non stenderanno un tappetto rosso all’arrivo dei fuggitivi. Per i più si apriranno le galere del regime.
Anche a Geneina, capoluogo del Darfur occidentale, la tregua mediata dai civili non ha retto. Edifici governativi, utilizzati come rifugi dagli sfollati, sono stati bruciati e si sentono spari in tutta la città, soprattutto nella periferia, El Jamarik, dove è situata la principale base dell’RSF.
Sembra invece reggere il cessate il fuoco nel Darfursettentrionale, dove un’associazione civile, “Comitato per i buoni uffici” è riuscita a mediare una “tregua illimitata” con le forze armate e le RSF.
E a Nyala, capoluogo del Sud Darfur, si è persino svolta un’iniziativa popolare, lanciata da giornalisti e attivisti della società civile. Parecchia gente è scesa nelle strade per chiedere STOP alla guerra.
Di fatto da sabato nella città regna la calma, la corrente elettrica è stata ristabilita e i residenti hanno ripreso a uscire per rifornirsi dei beni di prima necessità.
Gli abitanti del Darfur temono che il conflitto scoppiato nella capitale, possa peggiorare la situazione in tutta la loro regione.
Va ricordato che sia Dagalo che al-Burhan hanno lavorato a fianco a fianco in Darfur nel periodo della terribile guerra civile, durante la quale sono morte almeno 300mila persone e diversi milioni hanno dovuto lasciare le proprie case.
L’attuale presidente ha fatto carriera nell’esercito in Darfur. Hemetti, invece, è stato un leader di una milizia janjaweed, che ha combattuto in sostegno del governo durante la guerra.
Nonostante i ripetuti accordi di pace, i conflitti tribali non si sono mai placati completamente, anzi negli ultimi due anni le violenze sono persino aumentate. E Ahmed Gouja, giornalista e attivista per i diritti a Nyala, ha dichiarato alla Reuters: “Se la situazione continuerà, se verranno uccisi comandanti militari che fanno parte di tribù influenti, ci sarà l’anarchia. Ci sarà una mobilitazione tribale”.
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Speciale per Africa ExPress Sandro Pintus 25 aprile 2023
Il generale Muhoozi Kainerugaba, figlio del presidente dell’Uganda, Yoweri Museveni, ha fatto l’ennesimo scivolone che ha messo ancora in imbarazzo il padre, ora 79enne.
“Chiamatemi pure ‘putiniano’ se volete, ma noi, l’Uganda, invieremo soldati per difendere Mosca se mai dovesse essere minacciata dagli imperialisti!”. Questo ha postato su twitter Kainerugaba, che è consigliere per le Operazioni speciali ed ex comandante delle Forze terrestri.
“Call me a ‘Putinist’ if you like, but we #Uganda will send soldiers to defend Moscow if it is ever threatened by the imperialists!”
The son of the President of Uganda said that his country is ready to defend Moscow from the imperialists. pic.twitter.com/tfnopscYs7
Un tweet che ha sicuramente fatto molto rumore nonostante il padre-presidente gli avesse intimato di cancellare il suo profilo dal popolare social. Pubblicato il 30 marzo scorso, ancora oggi ha vasta eco e sicuramente piace a Putin che in Africa gli aumenta il consenso sull’occupazione dell’Ucraina contro le posizione dell’Occidente.
After we create our East African Federation. President Museveni will be President, Afande Ruto will be Vice President, My brother Uhuru will be Foreign Affairs Minister. I just want to be CDF of the East African forces. pic.twitter.com/4hDOjP7Fn8
Nonostante il “cinguettio filo-putiniano” sia sparito dal web, è diventato virale in patria. Ma mentre era leggibile è stato ripreso, copiato e ri-twittato da tutti i media facendo il giro del continente africano e poi del pianeta Terra.
L’alto ufficiale ugandese ha continuato a twittare. “…L’Occidente sta perdendo tempo con la sua inutile propaganda pro-Ucraina. Russia, Cina, Africa, India e Sud America vinceranno in Ucraina. Il 75 per cento dell’umanità vincerà contro il 15 per cento”.
Kainerugaba in passato aveva postato tweet inappropriati o discutibili che avevano irritato anche il padre. Tra questi l’auspicio dell’unificazione di Uganda e Tanzania con l’annessione (militare?) del Kenya per la creazione dell’ “Federazione dell’Africa Orientale”. Un’esternazione che il 4 ottobre 2022 ha causato la sua rimozione dalla carica di comandante generale
Le pressioni del Presidente lo avevano convinto a chiudere l’account Twitter, disattivato il 12 aprile 2022. Ma l’astinenza dal social network è durato solo quattro giorni.
Le cento vacche offerte a Giorgia Meloni
A Muhoozi piace Giorgia Meloni. Tutti ricordiamo il tweet per la premier italiana dopo le elezioni del 25 settembre scorso. Per congratularsi con la leader di Fratelli d’Italia, il 2 ottobre, il figlio imprevedibile di Museveni aveva scritto di volerle offrire 100 vacche Nnkole.
Muhoozi come Trump
Secondo France24, i tweet di Muhoozi somigliano a quelli di Donald Trump. Lo dice Douglas Yates, docente di Politica africana all’American Graduate School di Parigi intervistato da France24. “Molti leader pensano di potersi comportare come Trump e dire tutto quello che vogliono – ha affermato Yates all’emittente francese -. Tutti loro impareranno un giorno, come Trump, che le parole hanno conseguenze e contano”.
Il partito personale come Berlusconi
Intanto Muhooziha creato MK Movement il suo partito con le iniziali del suo nome. Ha canali radio-televisivi dedicati e si prepara alle elezioni del 2026 per sostituire il padre dopo quarant’anni di dittatura. Il suo avversario è il cantante Bobi Wine, che ha perso la sfida alle ultime consultazioni elettorali del 2021.
E su Twitter volano gli stracci. “Figlio brutale” di un “dittatore arrogante” ha twittato Bobi Wine. “Questo buffone! Kabobi, ci incontreremo alle elezioni del 2026 – ha risposto -. Tu non sei NULLA! Sei sempre stato NULLA! Gli ugandesi ti insegneranno la tua posizione”.
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Speciale per Africa Express e per Il Fatto Quotidiano Massimo A. Alberizzi Milano, 25 aprile 2023
In Sudan infuria la battaglia tra l’esercito governativo e le milizie paramilitari che hanno tentato un colpo di Stato. Il centro di Khartoum è ridotto a un cumulo di macerie e non si vede la luce alla fine del tunnel della guerra.
Alleanze fragili
Il caos sudanese ha portato in evidenza la fragilità delle alleanze internazionali messe a dura prova, appena, se ne presentata l’occasione, dagli interessi economici privati e pubblici. Nell’ex protettorato anglo-egiziano si scontrano le ambizioni di due generali: Abdel Fattah al-Burhan, presidente del Consiglio Militare Sovrano di Transizione, e il suo omologo e vicepresidente dello stesso Consiglio, Mohamed Hamdan Dagalo, uno dei cinque uomini più ricchi del Paese. I due, che hanno costruito la loro carriera all’ombra del dittatore e altro generale Omar al-Bashir, nel 2019 l’hanno rovesciato.
Al-Burhan è capo dell’esercito, cioè guida le forze armate, Dagalo, conosciuto con il soprannome di Hemetti, è il comandante delle Rapid Support Forces, una milizia paramilitare formata da bande di arabi, i cosiddetti janjaweed, tagliagole, banditi, saccheggiatori, dediti all’abigeato, la cui consistenza è valutata in centomila uomini.
Janjaweed razziatori
Janjaweed è un neologismo, un nomignolo storpiato, che nell’arabo sudanese significa “Diavoli sterminatori a cavallo”. Sono diventati famosi all’inizio degli anni 2000 quando è scoppiata la guerra in Darfur. Arrivavano di notte come furie a dorso di cavalli o cammelli nei villaggi africani, davano alle fiamme le capanne, uccidevano gli uomini, stupravano le donne e rapivano i bambini. Razziavano gli armenti, arricchendosi a dismisura. Insomma, banditi fiancheggiatori della dittatura. I loro leader erano capibanda ignoranti e illetterati, come per altro lo è Dagalo che, per esempio, chiama il ministro dell’istruzione, “ministro della lettura”. Si calcola che la guerra in Darfur abbia provocato almeno 300 mila morti.
I due generali ora si accusano vicendevolmente di non aver voluto cedere il potere a un governo civile. Ma la verità probabilmente sta nel fatto ce nessuno dei due voleva integrare i loro eserciti, come era nei patti. E poi, soprattutto, nessuno voleva cedere il controllo delle risorse minerarie naturali, prime tra tutte le miniere d’oro.
Al-Burhan e Dagalo non combattono da soli, dietro di loro c’è una moltitudine di attori internazionali che fanno la loro parte. Alcuni apertamente, altri più discretamente; sono in tanti ad essere impegnati nello scacchiere.
Guerra a distanza
Stati Uniti e Russia in Sudan sono occupati in una guerra a distanza. A nessuno di loro pare che importi granché (se non a parole) della gente che muore. Washington sostiene non troppo velatamente il generale Abdel Fattah al-Burhan, nonostante che abbia ceduto l’uso di alcuni porti del Mar Rosso a Mosca e ai suoi mercenari. In cambio del sostegno americano – sostengono osservatori indipendenti e Khartoum – avrebbe promesso la revoca di qualunque concessione ottenuta senza il beneplacito della Casa Bianca.
Ma il generale presidente è appoggiato anche dal partito islamista e dai nostalgici del vecchio dittatore Omar Al Bashir che sperano di riprendersi quegli importanti privilegi perduti con la sua defenestrazione.
Coinvolto Israele
Lo scacchiere si complica quando tra i sostenitori di Al Burhan si trova anche Israele che stava per normalizzare i suoi rapporti con il Sudan, speranza naufragata con lo scoppio della guerra civile.
Dalla parte del presidente è schierato anche l’Egitto e il suo leader Abd al-Fattāḥ Al Sisi che a casa sua sbatte in galera gli islamisti. Dalla stessa parte anche Unione Europea, Gran Bretagna, Uganda che chiedono il passaggio a un governo civile e vorrebbero l’integrazione dei paramilitari nell’esercito regolare.
Il capo dello spionaggio
Un ruolo ambiguo lo recita l’Italia che addestra nella base militare di El Obeid i paramilitari dei tagliagole janjaweed del Rapid Support Forces, per ammissione dello stesso generale Dagalo Hemetti, loro capo.
Africa ExPress e il Fatto avevamo già denunciato che una delegazione ad alto livello dei servizi segreti italiani il 12 gennaio 2022 si era recata a Khartoum e aveva incontrato Dagalo con il quale aveva pianificato il programma di addestramento.
Abbiamo scritto che a guidare quella delegazione era il colonnello Antonio Colella, invece l’ufficiale faceva solo parte della delegazione, il cui capo era addirittura il direttore dell’AISE, Agenzia informazioni e sicurezza esterna, cioè lo spionaggio italiano, il generale d’armata Giovanni Caravelli. Presidente dell’AISE ora è Giorgia Meloni.
Presente “Ara Pacis”
Nella delegazione era presente anche la presidente e fondatrice dell’NGO Ara Pacis, Nicoletta Gaida, accusata dai francesi di essere “troppo vicina ai servizi segreti italiani”. Ufficialmente gli italiani hanno assegnato alle milizie janjaweed il compito di controllare i confini con la Libia per impedire il passaggio dei migranti. Incarico che è stato eseguito con violenza, soprusi e violazioni dei diritti umani congeniali a quelle bande di tagliagole.
Dall’altra parte della barricata, cioè a fianco di Dagalo, troviamo prima di tutto i mercenari del gruppo Wagner e il suo fondatore Yevgeny Prigozhin, secondo gli americani, legato a corda doppia al Cremlino. Se gli italiani hanno addestrato le sue milizie, i russi le hanno armate. Sembra assurdo invece, direbbe Humphrey Bogart, “questa è la geopolitica, bellezza!”.
Miniere d’oro
Secondo gli americani, Prigozhin, ha offerto armi ai paramilitari, ma naturalmente anche lui a parole si spende per la pace e addirittura si dice pronto a mediare tra le parti. Prigozhin ha ottenuto da Dagalo le concessioni delle miniere d’oro e i suoi uomini possono lavorare in pace grazie alla sicurezza assicurata dal territorio dai miliziani.
Dagalo negli anni scorsi ha anche inviato un contingente dei suoi uomini in Yemen e così a casa sua ha incassato il sostegno di Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti e naturalmente della Cina la cui penetrazione in Africa è diventata sempre più palpabile.
Ormai nel continente il piccolo commercio è tutto nelle mani dei cinesi i cui metodi di conquista sono completamente diversi da quelli Occidentali. Pechino concede prestiti per costruire opere faraoniche, poi quando il debito dei Paesi diventa insostenibile per saldarlo si fa dare la gestione di porti, aeroporti, banche e altre infrastrutture economiche. I ristoranti cinesi di Khartoum sono gli unici in cui si può bere alcool senza paura di essere messi in galera dalla polizia.
C’è anche il libico Haftar
Altra sorpresa è la collocazione a fianco di Dagalo del generale libico Kalifa Haftar, che comanda il parlamento di Tobruk in opposizione al governo di Tripoli. In patria Haftar gode del sostegno di Russia, Egitto ed Emirati, oltre ad avere un debito di riconoscenza con la CIA che l’ha scoperto e poi creato. Ma anche i kenyoti che assicurano di essere neutrali, in realtà pendono dalla parte di Dagalo.
Piccola annotazione finale riguardante l’evacuazione degli italiani da Khartoum. L’italia sostiene di aver caricato sull’aereo anche cittadini stranieri “perché noi non lasciamo indietro nessuno”. Sembra però che anche gli altri non abbiano lasciato indietro gli italiani giacché il secondo gruppo di connazionali è volato dalla capitale sudanese a Gibuti con un aereo spagnolo. Eppure i C130 Hercules italiani erano due. Che fine ha fatto il secondo? I sospetti indicano un’avaria. Non vorremmo che impossibilitato a volare sia stato abbandonato da qualche parte.
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