Speciale per Africa ExPress Sandro Pintus 8 giugno 2023
“Ogni 26 minuti un elefante viene ucciso da un bracconiere”. È la stima, messa nero su bianco, del Fondo mondiale per la natura (WWF). L’Ong ambientalista lancia un grido d’allarme sulla situazione catastrofica che sta vivendo l’elefante africano.
Secondo il WWF, ogni anno si stima che 20 mila elefanti vengano massacrati per l’avorio. Una strage che non ha mai fine soprattutto a causa del bracconaggio. Con questi numeri, tra due decenni, l’elefante africano sarà estinto.
Cento anni fa erano 12 milioni
Gli elefanti, nel grande continente africano, un secolo fa erano stimati in 12 milioni di esemplari. Oggi se ne contano 415 mila. In cento anni è stato perso il 95 per cento del più grande animale terrestre del pianeta.
Le due specie africane
In Africa ne esistono due specie: l’elefante di savana (Loxodonta africana) e l’elefante di foresta (Loxodonta cyclotis).
Il primo è classificato come “specie in pericolo”; situazione peggiore per l’elefante di foresta inserito tra le specie in “pericolo critico”. Significa che è considerato a elevato rischio di estinzione a breve termine.
Il conflitto uomo-elefante
Se la principale minaccia è il bracconaggio alimentato dal mercato nero dell’avorio, non si deve sottovalutare il conflitto uomo-elefante.
La deforestazione, portata avanti dalle comunità locali per avere terra coltivabile, causa la diminuzione dell’habitat dei pachidermi. Questi invadono le coltivazioni umane e ne mangiano i prodotti causando un antagonismo infinito per la sopravvivenza di entrambi.
Questo conflitto, in Kenya tra il 2010 e il 2017, ha portato alla morte di 200 persone. Per difendere i villaggi sotto assedio di pachidermi cosiddetti “problematici”, ogni anno sono uccisi dalle autorità tra 50 e 120 elefanti.
Il progetto “Una foresta per gli elefanti”
A maggio scorso è terminata la campagna di raccolta fondi del WWF per la realizzazione del progetto “Una foresta per gli elefanti”. Un progetto nel territorio del Tridom, area di foresta pluviale tra Gabon, Camerun e Repubblica del Congo, dove si trova il parco di Ntokou Pikounda.
Secondo il WWF è l’ultimo avamposto per la conservazione degli elefanti di foresta per “azioni di studio e monitoraggio e il rafforzamento del sistema antibracconaggio”.
Il WWF e le denunce contro la conservazione
Da diversi anni Survival International, ong per i diritti dei popoli indigeni, denuncia la “conservazione” del WWF.
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Speciale per Africa ExPress Luciano Bertozzi
Giugno 2023
Si è appena conclusa la Missione Italiana Bilaterale di addestramento (MIADIT) in Somalia, giunta alla diciottesima edizione. Nelle le dodici settimane di training sono stati formati quattro plotoni della polizia federale somala, oltre poliziotti e gendarmi gibutiani. In un decennio di attività sono sono stati preparati complessivamente circa 7.000 agenti di polizia.
I nostri carabinieri hanno preparato gli agenti di polizia durante diversi corsi come Antiterrorismo e lotta alla criminalità organizzata, Formed Police Unit (FPU), Addestramento per unità cinofile, Addestramento Forze speciali, Tecniche di polizia giudiziaria per personale femminile.
La missione, nata da accordi bilaterali Italia-Somalia e Italia-Gibuti, affidata ai carabinieri, ha l’obiettivo di creare le condizioni per la stabilizzazione della Somalia e dell’intera Regione del Corno d’Africa, mediante l’addestramento della Somali Police Force (S.P.F.) e l’accrescimento delle capacità operative delle forze di sicurezza della Repubblica di Gibuti.
I corsi sono orientati a trasmettere conoscenze e abilità operative utili alle operazioni di difesa, stabilizzazione e controllo del territorio, al fine di incrementare la capacità di contrasto al gruppo terroristico al-Shebab. L’ex colonia è sconvolta, dalla guerra da decenni.
La polizia somala è da molti anni oggetto di denunce del segretario generale dell’ ONU, in quanto arruola e utilizza minorenni, crimine sanzionato dal diritto internazionale. Si è macchiata anche di altri reati come uccisioni di bambini e stupri.
Anche il recente provvedimento di proroga delle missioni militari all’estero non ha modificato il sostegno italiano a Mogadiscio, senza particolari obiezioni, peraltro confermato dagli incontri fra la presidente del Consiglio dei Ministri, Giorgia Meloni, e l’omologo somalo e i ministri della Difesa dei due Paesi.
Nell’ex colonia sono presenti, in base al citato provvedimento governativo di proroga, quasi settecento soldati italiani, con un costo annuo di circa 65 milioni di euro, (rispetto ai 50 milioni del 2021): EUTM Somalia, per formare i soldati di Mogadiscio, con circa centosettanta connazionali e con un costo annuo di circa 16 milioni di euro.
Va anche sottolineato che l’esercito somalo, sempre secondo le Nazioni Unite, utilizza bambini soldato, si è macchiato di stupri ed ha ucciso bambini; EUNAVFOR Atalanta per combattere la pirateria nelle acque antistanti il Paese, con duecento marinai, una nave e due aerei, con un costo di 27 milioni; la Missione Bilaterale di Addestramento delle Forze di Polizia somale e gibutine (MIADIT), operata da 115 Carabinieri, con un costo di 7,3 milioni; infine la base di Gibuti,, che si affaccia sullo strategico stretto di Bab el Mandeb (tra il Mar Rosso e l’Oceano Indiano), con la presenza di 147 uomini e con un onere di 13 milioni.
In passato le predette missioni, nonostante le gravi violazioni dei diritti umani, sono state approvate dai parlamentari, con rare eccezioni. La risposta italiana a tali denunce è stata, infatti, un assordante silenzio delle istituzioni e dei maggiori organi d’informazione.
Un governo che viola i più elementari diritti umani, invece, non dovrebbe godere di aiuti militari italiani, peraltro concessi senza porre alcuna condizione. Non solo, con un Paese ricco solo di armi abbiamo stipulato un accordo di cooperazione militare. L’Italia che ha un debito morale per il periodo coloniale, dovrebbe lavorare per la pace e non per alimentare guerre e violenze.
A causa della sospensione degli aiuti umanitari in Tigray, la malnutrizione acuta dei bambini è in forte aumento, si parla del 28 percento, ha affermato Mengsh Bahreslassie, coordinatore dell’Alimentazione e della Nutrizione dell’Ufficio sanitario regionale del Tigray.
L’esperto ha aggiunto che specialmente i piccoli sotto i cinque anni necessitano di alimenti nutrienti come frutta e latticini. “I bimbi stanno morendo proprio per la mancanza di questi cibi”, ha spiegato Mengsh.
Addis Standard (quotidiano online etiopico) ha riportato che dall’inizio della guerra, nel novembre 2020, sono morti almeno 2.850 bambini per malnutrizione acuta, tra questi, 230 dopo l’accordi di pace siglato nel novembre 2022. I dati non comprendono la parte occidentale e alcune zone del Tigray meridionale.
Già lo scorso novembre, le Nazioni Unite hanno fatto presente che, secondo alcune stime, nel Tigray il 30 per cento dei bambini soffre di malnutrizione acuta, mentre più di cinque milioni di persone necessitano di assistenza alimentare. Nel fascicolo è stato sottolineato che gli aiuti umanitari arrivati nella regione sono insufficienti per soddisfare i bisogni della gente.
Ora è tutto chiaro, o quasi. I vertici del Programma Alimentare Mondiale (PAM) in Etiopia, Claude Jibidar e la sua vice, Jennifer Bitonde,si sono dimessi in seguito a un’indagine sulla deviazione degli aiuti.
Il PAM però ha rilasciato un comunicato sul suo account Twitter, affermando che i vertici dell’Ufficio in Etiopia non hanno rassegnato le dimissioni. Il direttore, Claude Jibidar, è attualmente in congedo, ma resta un dipendente dell’agenzia ONU. Entrambi i vicedirettori nazionali, tra cui Jennifer Bitonde, rimangono al loro posto.
A maggio è stata aperta un’inchiesta interna, come riporta The New Humanitrian (agenzia di stampa indipendente e senza scopo di lucro, che si concentra su storie umanitarie in regioni che sono spesso dimenticate, ndr), e da allora è stata sospesa la distribuzione degli aiuti nella regione. I risultati dell’indagine dovrebbero essere resi noti fra qualche giorno.
Lo scandalo è scoppiato quando sono giunte segnalazioni, secondo le quali grandi quantità di cibo, destinato alle popolazioni del Tigray settentrionale, è stato trovato nei mercati per essere venduto.
Non solo PAM, anche USAID (Agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo Internazionale) ha sospeso l’attività in Tigray, dove milioni di persone dipendono dall’assistenza umanitaria, finchè non sarà fatta chiarezza su questi fatti gravissimi.
La direttrice esecutiva di PAM, Cindy McCain, che ha assunto la guida dell’agenzia ONU in aprile, ha dichiarato che i responsabili dovranno rispondere dei loro atti.
Un operatore umanitario in Etiopia, che ha scelto l’anonimato per questioni di sicurezza, ha spiegato: “Ci sono sempre stati ritardi e distrazioni nella consegna di cibo. E’ evidente che qualcosa non funziona nel sistema “.
Secondo quanto riporta Martin Plaut, ricercatore del Corno d’Africa e ex giornalista della BBC, USAID ha scoperto che gli aiuti umanitari venivano venduti sui mercati locali, dapprima in Tigray (Alamata) e successivamente anche in altre zone dell’Etiopia, tra queste anche Gambella e la regione Somala. La maggior parte della deviazione degli aiuti sarebbe avvenuta dopo il cessate il fuoco di gennaio in Tigray.
In un primo tempo PAM ha cercato di incolpare i beneficiari o le ONG che hanno collaborato con l’agenzia dell’ONU. Altri hanno ipotizzato che una parte fosse stata saccheggiata dagli eritrei o da agenzie che lavorano con i governi locali. Argomentazioni ritenute però senza fondamenta, poiché è stato dimostrato che gli aiuti sono stati prelevati direttamente dai magazzini governativi o venduti dai mulini.
“È una distrazione di aiuti di dimensioni mai viste prima. Coinvolge i governi a livello regionale e federale. I militari dell’esercito etiopico (ENDF) e del TPLF (Tigray People’s Liberation Front) sono stati ripresi dalle telecamere mentre prelevavano il grano dai mulini. Peggio ancora, avevano in mano contratti firmati dai mugnai. Anche se questo fenomeno è stato scoperto inTigray, coinvolge almeno 8 regioni del Paese”, ha fatto sapere un’altra fonte a Martin Plaut.
E’ risputo che talvolta gli aiuti umanitari vengono venduti dalla povera gente nei mercati. Anche noi di Africa ExPress abbiamo trovato sacchi di riso con l’insegna “Donated by the people of USA”, esposti sulle bancarelle a Lagos, Nigeria anni fa. Ma ciò che si è verificato in Etiopia, nel Tigray, va ben oltre. Corruzione a 360 gradi a discapito della popolazione in ginocchio, lasciata ora anche senza aiuti, reduce di una guerra terribile, in un territorio colpito anche da gravi cambiamenti climatici.
Dal Nostro Inviato Sportivo Costantino Muscau
Nairobi, 6 giugno 2023
Con la medaglia d’oro alle Olimpiadi di Rio de Janeiro, nel 2016, illuminò (letteralmente) il suo sperduto e sconosciuto villaggio, al buio da sempre.
Con il record del mondo sui 1500 metri stabilito il 2 giugno a Firenze, ha assicurato una casa in muratura e un automobile alla sua famiglia, appiedata da sempre e da sempre alloggiata in una baracca di lamiera.
Potenza dell’Atletica.
Faith Chepngetich Kypiegon, 29 anni, mammina volante nera, è veramente prodigiosa. Due volte campionessa del mondo, due volte campionessa olimpica, dal 2 giugno scorso è anche primatista mondiale su quella distanza con il tempo di 3’49”11.
La prima donna a scendere sotto la soglia dei 3 minuti e 50” sul chilometrò e mezzo. Secondo molti esperti – scrive Nicole Jeffery sul sito World Athletics – è la più grande atleta della storia nella media distanza. E intende andare avanti dando l’assalto al record ottenuto a Firenze, nel meeting di Monaco a luglio e poi cercando di vincere il terzo titolo mondiale in agosto a Budapest. Senza trascurare la terza olimpiade, quella di Parigi nel 2024.
È anche una delle 5 figure mondiali ad aver dominato in tutte le categorie della sua specialità.
E’ tutto? No, perché Faith ha stupito anche per un altro motivo. Nel 2018 la sua carriera sembrò interrompersi e declinare per aver deciso di avere una figlia, Elyn, nata a giugno. Dopo 18 mesi riprese ad allenarsi e a vincere.
Il 2 giugno, al termine della gara record mondiale di Firenze, ha dichiarato: “Dedico questa conquista a tutte le mamme del mondo, in particolare a quelle che fanno sport. La mia esperienza dimostra che tutto è possibile, La maternità rende più forti”.
Potenza di Faith. Nel 2016 dopo la conquista dell’oro olimpico brasiliano, era riuscita a far arrivare l’elettricità allo sconosciuto villaggio Ndabibit (a 200 km a nord di Nairobi), senza luce dal 1980, anno in cui era sorto.
I genitori, Samuel Coech Kypiegon, e Jane Chepkosgei, avevano lanciato un appello al capo dello Stao, allora Uhuru Kenyatta:”Presidente fa’ in modo che possiamo vedere in tv le imprese di nostra figlia, collega il nostro villaggio alla rete elettrica”.
Incredible per il Kenya: in soli 9 giorni avvenne il miracolo. Venne attivata e collegata una linea di distribuzione, che liberò il villaggio dall’oscurità.
Non solo: ai genitori di Faith venne regalato pure il televisore. Ora, la figlia campionessa ha promesso di costruirgli una casa normale e di regalargli pure una vettura!
Insomma basta avere Fede (Faith) e i miracoli sì compiono.
Ma lo sport in Kenya è anche vergogna. In questi giorni l’Agenzia antidoping del Kenya (ADAK) ha sospeso tre atleti: lo sprinter Samuel Imeta, stella nascente della velocità mondiale, Zena Jemutai e Jarinter Mawia.
E con loro fanno 20 i corridori “ beccati” quest’anno con sostanze illecite in corpo (una settantina negli ultimi 5 anni).
Samuel Imeta, 24, anni, soldato dell’Esercito, soprannominato Kifaru, rinoceronte, è stato campione mondiale degli Under 20 sui 100 metri ed è accreditato di un tempo di inferiore ai 10 secondi. A sentire l’accusa, Samuel sarebbe risultato positivo agli steroidi, alla fine di febbraio, quando sui 100 metri segnò il memorabile tempo di 9”94.
Zenah Jemutai, 20 anni, è un altro astro all’orizzonte dei 3 mila metri femminili, ma la sua carriera ora è a rischio per il Triamcinolone Acetoide (un antinfiammatorio proibito dal 2014, che aiuta a perdere peso, ma non potenza).
Jarinter Mawia Mwasua, 26 anni, campionessa continentale degli 800 metri, invece sarebbe stata positiva alla Eritropoietina, ormone che favorisce la produzione dei globuli rossi e aumenta la resistenza allo sforzo.
Fra gli altri esponenti del mondo dell’Atletica sospesi provvisoriamente dall’Agenzia antidoping di Nairobi, ci sono – citiamo i più validi e conosciuti -” Evangeline Makena, 25 anni, (10 km), Maximilian Imali, 27, (corsa campestre) , Gladys Nthenya Musyoki, (400 m), Agnes Mumbua, 27 , (5 mila e 10 mila metri), Hannah Mwangi, 24, (400 ostacoli), John Gikonyo, 25, (400 metri), militar soldato come Samuel Imeta, Collins Koros, 33, (fondista), Bernard Cheruyot Chepkwony, 31, (1500 e mezza maratona), Amos Kiprotich, 34, (maratona), Stephen Kipchirchir KIplagat, 30, (maratona), Erik Kiptoo, 27, (400 ostacoli), John Kariuki Gikonio , 25, (400 ostacoli).
Non mancano però rappresentanti di altri sport, come David Yamo (Basket), Elphas Emong (Rugby) e Rashid Issa, ex campione keniano di body building.
Ai primi di aprile, David Howman, il presidente dell’Athletics Integrity Unit (AUI) , organismo indipendente creato per contrastare il dopaggio, aveva lanciato l’allarme: “È ormai evidente che il doping in Kenya sta diventando sempre più organizzato e numerosi casi mettono in luce il coinvolgimento di persone con competenze mediche”.
Appena due giorni fa, l’ex campionessa mondiale degli 800 metri, Janeth Jepkosgei, 39 anni, ha supplicato i giovani selezionati a rappresentare la contea Nandi a non scegliere il doping come “way of life. Questo fenomeno sta uccidendo lo spirito dell’Atletica. Utilizzate il vostro talento naturale, correte con quello che Dio vi ha donato”.
Speciale per Africa ExPress Cornelia I. Toelgyes 5 maggio 2023
Venerdì scorso i paramilitari di Rapid Support Forces (che una volta si chiamavano janjaweed) hanno occupato il Museo Nazionale del Sudan. Lo ha riferito il vicedirettore Ikhlas Abdellatif secondo cui il personale della struttura non è attualmente al corrente di quanto succede all’interno. Ha infatti interrotto qualsiasi attività con lo scoppio del conflitto. Anche la polizia addetta alla sorveglianza dell’immenso patrimonio archeologico culturale custodito nel museo, ha dovuto abbandonare la postazione.
Si teme però che il materiale storico possa aver fatto la fine della biblioteca universitaria nazionale che a metà maggio è stata occupata dalle milizie e defraudata da manoscritti rari e poi data alle fiamme, facendo sparire una delle più importanti fonti della memoria storica della cultura sudanese.
Secondo informazioni non confermate i paramilitari del RSF sono ritirati dal museo nazionale, che si trova sulle rive del fiume Nilo, al centro di Khartoum, vicino alla banca centrale, un’area dove si sono svolti alcuni combattimenti molto intensi.
Sabato, hanno pubblicato un video, girato in alcune sale che ospita antiche mummie e altri preziosi manufatti, negando di aver danneggiato la collezione, invitando persone o organizzazioni di entrare per eventuali verifiche.
Nel filmato si vedono anche alcuni miliziani mentre coprono con lenzuola le mummie esposte, chiudendo poi i sarcofagi bianchi nelle quali sono contenute. Non è però ancora chiaro chi e quando siano state scoperte le preziose reliquie.
Tra le migliaia di reperti di inestimabile valore, ci sono mummie imbalsamate risalenti al 2.500 a.C., oltre a ceramiche e antiche pitture murali e manufatti che vanno dall’età della pietra fino all’epoca cristiana e quella islamica, ha spiegato l’ex direttore Hatim Alnour.
Roxanne Trioux, che fa parte di un’équipe archeologica francese al lavoro in Sudan, ha dichiarato di aver monitorato le immagini satellitari del museo e di aver visto potenziali segni di un inizio di incendio già prima di venerdì. “Al momento attuale non conosciamo l’entità dei danni all’interno”, ha sottolineato l’archeologa francese.
Il cessate il fuoco tra le forze armate sudanesi e Rapid Support Forces (RSF), iniziato il 22 maggio, è scaduto sabato sera.
Grazie alla mediazione di Stati Uniti e Arabia Saudita, i combattimenti si erano leggermente attenuati, permettendo così un accesso, seppur limitato, degli aiuti umanitari. Come in precedenza, anche questa tregua è stata spesso violata. E, purtroppo, i colloqui per una estensione del cessate il fuoco sono stati interrotti a Gedda venerdì scorso.
Domenica gli scontri tra le parti in causa – le forze armate del presidente Abdel Fattah al-Burhan, capo del Consiglio sovrano e di fatto capo di Stato dell’ex condominio anglo-egiziano da un lato e le RSF, capitanate da Mohamed Hamdan Dagalo, meglio conosciuto come Hemetti, si sono intensificati in diversi quartieri della capitale Khartoum. Anche nel Darfur settentrionale, come hanno riferito alcuni attivisti, nuove violenze hanno causato la morte di almeno 40 persone.
Testimoni hanno riferito che i pesanti combattimenti di venerdì e sabato hanno portato il caos a Kutum, una delle città principali e un importante centro commerciale del Darfur settentrionale.
L’esercito ha smentito che le RSF, gli ex janjaweed milizie tribali arabe del Darfur, che avrebbero preso il controllo di Kutum.
Secondo quanto hanno riferito alcuni testimoni oculari, un aereo militare si sarebbe schiantato a Omdurman, città gemella della capitale, oltre la sponda del Nilo. Finora le forze armate non hanno rilasciato commenti sull’incidente.
La lotta per il potere, scoppiata in Sudan il 15 aprile, ha innescato una gravissima crisi umanitaria: gli sfollati sono più di 1,2 milioni di persone mentre altre 400.000 hanno cercato protezione negli Stati confinanti, i morti sono oltre 1.800.
La Mezzaluna Rossa sudanese ha fatto sapere che sono state seppellite 180 salme non identificate: 102 nel sud di Khartoum e 78 nel Darfur. Dall’inizio della guerra, il 15 aprile, gli operatori umanitari e i volontari hanno avuto difficoltà a recuperare i corpi “a causa dei vincoli di sicurezza”.
Oltre agli americani e ai sauditi, anche l’Unione Africana – che ha sospeso il Sudan nel 2021 – e l’Autorità intergovernativa per lo sviluppo (IGAD) – blocco regionale dell’Africa orientale del quale fa parte il Paese – si sono dette pronte ad attuare una roadmap per il Sudan. Sabato, Yousif Izzat, inviato speciale di Hemetti, ha incontrato il presidente del Kenya, William Ruto, a Nairobi. Lo ha dichiarato lo stesso leader kenyota sul suo account Twitter.
Nonostante l’annuncio di sanzioni statunitensi contro l’esercito e i paramilitari, i combattimenti con armi pesanti non si arrestano, i saccheggi proseguono e il numero di sfollati continua ad aumentare. A Khartoum, i civili sono privi di acqua potabile e devono far fronte a carenze di denaro e interruzioni di corrente. Gli autisti degli autobus che operano tra Khartoum e le province hanno dichiarato sabato di essere “bloccati dalle autorità alle porte della capitale”.
Ben 45 milioni di abitanti del Sudan necessitano si assistenza umanitaria, gli aiuti che arrivano per via aerea sono bloccati alla dogana e al personale internazionale viene negato il visto per supportare gli operatori locali, sfiniti o rintanati nelle loro case a causa dei combattimenti. Dall’inizio del conflitto sono stati uccisi diciotto operatori umanitari.
Venerdì scorso, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha prorogato la missione integrata di assistenza alla transizione delle Nazioni Unite in Sudan (UNITAMS), una missione politica speciale, per fornire sostegno al Sudan, per soli sei mesi. Volker Perthes, capo di UNITAMS, non è più il benvenuto nel Paese. La settimana scorsa, al-Bourhane ha chiesto che venisse sostituito. Ma Antonio Guterres, segretario generale dell’ONU, ha espresso la sua “assoluta fiducia” in Perthes.
Non è semplice fare il giornalista in Africa. Si rischia la vita non solo per le guerre, i conflitti, il terrorismo o le violenze in genere. Talvolta anche la natura, bellissima, magnifica ed eccitante, gioca brutti scherzi.
Ecco cosa è accaduto a questo collega durante una diretta televisiva. Siamo in Sierra Leone o in Zambia, non è ben chiaro. Il giornalista ha appena parlato magnificando la natura: “Hah, Our forest is nice, our forest is a gift”, cioè “La nostra foresta è bella, la nostra foresta è un regalo”, ma dalla chioma degli alberi rigogliosi e incontaminati, gli piove addosso un serpente.
La scena, ripresa in diretta, compresa la fuga con la telecamera accesa, è esilarante, ma sono imprevisti del mestiere. In Africa.
Speciale per Africa ExPress Sandro Pintus 4 giugno 2023
I nostri antenati di Homo sapiens, 153 mila anni fa vivevano nella punta estrema dell’odierno Sudafrica. Secondo gli esperti si tratta di una scoperta da record tra le tante rinvenute in Africa negli ultimi decenni.
Lo conferma Charles Helm, ricercatore associato presso l’African Center for Coastal Paleoscience alla Nelson Mandela University in Sud Africa.
Lo studio dell’equipe internazionale di Helm, è stato pubblicato sulla rivista Ichnos lo scorso 24 aprile. La preziosa impronta è stata scoperta nel Garden Route National Park. Si tratta di un parco nazionale nella regione della Garden Route delle province sudafricane di Western Cape e Eastern Cape.
Il gruppo di scienziati ha lavorato su sette aree, note come ichnositi. Si trovano a est della punta meridionale del continente africano, a qualche decina di chilometri nell’entroterra della costa.
Luminescenza stimolata otticamente
Per comprendere il periodo delle tracce impresse hanno utilizzato la Luminescenza stimolata otticamente (OSL). “La costa meridionale del Capo è un ottimo posto per applicare la OSL – hanno spiegato gli scienziati -“.
“I sedimenti sono ricchi di grani di quarzo, che producono molta luminescenza. La forte luce, il vento rimuovono i segnali di luminescenza preesistenti rendendo stime affidabili dell’età”.
“Le impronte possono fornire un’indicazione degli esseri umani che viaggiavano su queste superfici come individui o gruppi. Indicano anche prove di alcune delle attività in cui si sono impegnati” – hanno scritto i ricercatori -.
In diverse parti dell’Africa, Asia ed Europa sono state scoperte le impronte più antiche di altre specie di ominidi. L’ultima scoperta sudafricana ora detiene il record della traccia più antica dell’Homo sapiens che si è evoluto in Africa circa 300.000 anni fa.
Impronte di ominidi di 3,6 mln di anni
In Africa nel sito di Laetoli, in Tanzania, oltre 40 anni fa i paleoantropologi hanno trovato impronte di 3,66 milioni di anni fa. Ci sono oltre 100 sentieri conservati nelle rocce, nella cenere e nel fango.
Sono tracce lasciate dai nostri antenati ominidi, il gruppo che comprende esseri umani estinti e i nostri antenati strettamente imparentati.
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Dal Nostro Corrispondente Sportivo Costantino Muscau
Nairobi, giugno 2023
“Dio mi ha scelto per lanciare un messaggio contro il razzismo. Mi sento onorato di essere stato colui che ha illuminato le vite degli altri e ha dato loro speranza. Inizialmente avevamo programmato dì boicottare le Olimpiadi. Poi qualcuno ci disse: se non ci andate voi, andrà qualche altro. E allora decidemmo per la clamorosa pacifica protesta sul podio col saluto di Potere nero.“
Un saluto che ha segnato una svolta nella lotta contro il razzismo, è diventata un’icona del XX secolo, ma che è costato la carriera a chi lo ha fatto.
Ci sono delle persone che rischiano tutto per valori fondamentali, non negoziabili, immarcescibili, eterni.
Una di queste è John Carlos, 77 anni, nero americano, oggi con una candida barba che gli incornicia il mento affilato.
Dopo quasi 55 anni, John Carlos approfitta di una visita in Kenya per ricostruire retroscena, origine e spiegazione di un atto eroico passato meritatamente alla storia.
John Carlos il 16 ottobre 1968, ai XIX Giochi Olimpici di Città del Messico, veniva premiato con la medaglia di bronzo, conquistata nella finale dei 200 metri. Il suo compagno e collega Tommie Smith riceveva la medaglia d’oro.
Durante la cerimonia, mentre veniva eseguito l’inno americano, entrambi piegarono la testa e alzarono un pugno guantato di nero. Entrambi erano scalzi. Il gesto era in solidarietà con il movimento dei diritti civili americani.
Immediatamente, senza tanti complimenti, vennero cacciati dallo stadio, sommersi da insulti, sputi, lancio di oggetti vari. (“Una scena che avevo vissuto come premonizione 15 anni, prima, da bambino”, ha confessato Carlos nel suo recente viaggio in Kenya).
Senza perdere un attimo il Comitato Olimpico Internazionale, presieduto dal controverso Avery Brundage, li espulse da quelle Olimpiadi e da quelle a venire. Banditi a vita dal mondo dello sport nazionale e internazionale.
Solo la comunità nera americana li celebrò come eroi per aver sacrificato la gloria personale a favore di una giusta, giustissima causa: quella contro la discriminazione razziale che all’epoca dilagava (non è che mezzo secolo dopo la situazione sia così rosea…).
Solo nel 2005 l’università statale di San José raccolse i fondi per erigere una statua in loro onore e nel 2016 il presidente Barack Obama e il suo vice John Biden tributarono loro alla Casa Bianca quell’ onore negato nel’68.
“Con quel saluto John ha fatto molto per cambiare il mondo in un epoca in cui il razzismo negli USA era violento”, ha commentato l’altro giorno, Charles Asati, 77 anni, il keniano medaglia d’argento nella staffetta 4×400, nella stessa Olimpiade messicana, e medaglia d’oro a Monaco ‘72. “Non ci vedevamo dal 1968”, ha aggiunto raggiante Asati, abbracciando il coetaneo a Nairobi.
“In verità- ha raccontato John in due lunghe interviste rilasciate a The Daily Nation e alla NTV – avevamo pianificato di boicottare i giochi messicani. Però ci dispiaceva buttare via la preparazione effettuata; e poi qualcuno ci fece notare che chi avesse preso il nostro posto non avrebbe rappresentato ciò che avevamo in mente di compiere. In effetti vincere era solo un modo per partecipare alla cerimonia, della medaglia in sé ci interessava abbastanza poco.
Così decidemmo di andare in Messico. Finita la gara mi sono detto “John è giunto il momento di fare ciò per cui sei venuto qui”. Non potevo perdere le lezioni di un impegno non violento contro le ingiustizie e la segregazione apprese da Malcom X, che avevo frequentato da giovane per un anno e mezzo, o quella di Martin Luther King, che aveva incontrato appena 10 giorni prima del suo assassinio. Tommie si è dichiarato d’accordo e quel che è successo lo sapete tutti”.
Ci sono però dei dettagli finora poco noti (o dimenticati) che riguardano la simbologia racchiusa in quel gesto.
“Ci togliemmo le scarpe per far presente che nel più potente Paese del mondo tanti poveri camminavano scalzi; le calze nere rappresentavano l’America nera; la collana di perline al collo era per ricordare che tanti neri erano stati linciati. Tommy si coprì la testa con una sciarpa nera per esaltare l’orgoglio nero, io nascosi la divisa della nazionale con una camicia nera, perché mi vergognavo dell’America. Lasciai lo stadio un po’ sconvolto, giovane come ero, ma ben consapevole di essere stato scelto da Dio per fare quello che avevo fatto”.
Speciale per Africa ExPres Cornelia I. Toelgyes
3 giugno 2023
Il Senegal è stato investito da una ondata di violenze dopo la condanna a due anni di carcere per “corruzione di giovani” di Ousmane Sonko, il maggiore oppositore del presidente Macky Sall, e leader del raggruppamento politico Pastef-Les Patriotes (Les Patriotes du Sénégal pour le travail, l’éthique et la fraternité).
Secondo quanto affermato dal ministro degli Interni, Antoine Felix Abdoulaye Diome, non appena è stata resa nota la sentenza, sono scoppiati violenti disordini in diverse città del Paese. Nove persone sono state uccise negli scontri tra la polizia antisommossa e i sostenitori dell’oppositore. Ma secondo l’ultimo bilancio ufficiale, i morti sarebbero ben 10.
Dakar e Ziguinchor, città della Casamance della quale Sonko è sindaco, sono state teatro dei maggiori scontri tra le forze dell’ordine e i supporter del leder del raggruppamento politico Pastef-Les Patriotes.
I giudici hanno condannato il principale esponente dell’opposizione senegalese a due anni di carcere con l’accusa di “corruzione dei giovani”, pena che lo renderà ineleggibile alle elezioni presidenziali del febbraio 2024. È stato, invece, assolto dalle accuse di minacce di morte e stupro, per le quali il pubblico ministero aveva chiesto dieci anni di reclusione.
All’epoca Sonko era stato accusato da Adji Sarr, ex dipendente del centro massaggi Sweet Beauty, di stupro ripetuto tra il dicembre 2020 e il febbraio 2021. All’epoca la giovane aveva 21 anni. Ndèye Khady Ndiaye, il proprietario del centro massaggi, è stato invece condannato a due anni di reclusione per “incitamento alla dissolutezza”. Insieme a Sonko, dovrà pagare ad Adji Sarr circa 30.000 euro come risarcimento danni.
Il ministro ha confermato che le autorità hanno limitato l’accesso ai social network, in particolare Facebook, WhatsApp e Twitter, per evitare, secondo Diome, “la diffusione di messaggi sovversivi e di odio”.
“Questo verdetto di condanna è la fase finale di un complotto ordito da Macky Sall e dai suoi scagnozzi”, ha dichiarato l’ufficio nazionale del Pastef in un comunicato stampa pubblicato giovedì pomeriggio, invitando il popolo senegalese a scendere in piazza e chiedendo alle forze dell’ordine e all’esercito di schierarsi dalla loro parte.
A Dakar molti negozianti hanno lasciato abbassate le saracinesche e molte scuole sono rimaste chiuse giovedì, quando decine di sostenitori di Sonko hanno iniziato a protestare contro il verdetto. I giovani, che costituiscono la principale base elettorale dell’oppositore di Sall, si sono radunati intorno all’università della capitale, bloccando la strada d’accesso con pneumatici incendiati, pietre e pali.
Gruppi di manifestanti hanno lanciato pietre contro la polizia, che, ha risposto con gas lacrimogeni. Diversi autobus della facoltà di medicina, del dipartimento di storia e della principale scuola di giornalismo del Paese, sono stati incendiati e alcuni uffici sono stati saccheggiati.
Anche venerdì la situazione è rimasta instabile a Dakar e nel campus universitario molti studenti hanno fatto i bagagli per rientrare a casa dopo le violenze. Le lezioni sono state sospese fino a nuovo ordine.
In altri quartieri di Dakar gli scontri sono proseguiti fino alla tarda notte tra l’1 e il 2 giugno. Venerdì molti negozi non hanno aperto i battenti. Le scuole sono rimaste chiuse.
A Ziguinchor sono morte 3 persone. Molti edifici statali e regionali e scuole sono stati saccheggiati. La situazione è tornata alla calma ieri mattina, ma a mezzogiorno la tensione era nuovamente ben tangibile.
I dieci morti riecheggiano gli scontri del marzo 2021, all’inizio del procedimento giudiziario contro Ousmane Sonko e Adji Sarr.
Dopo la sua condanna, l’oppositore è rimasto in silenzio. Attualmente è bloccato nella sua residenza (a Dakar), blindata dalle forze dell’ordine. Ieri il ministro della Giustizia, Ismaïla Madior Fall, ha ripetuto più volte che Sonko potrebbe essere arrestato da un momento all’altro, e, ha aggiunto: “In uno Stato di diritto una sentenza penale deve essere eseguita”.
Poiché Ousmane Sonko non è stato presente durante il processo, uno dei suoi avvocati, Bamba Cissé, ha detto che non potrà ricorrere in appello contro la condanna. Ma, come ha sottolineato il Ministro della Giustizia, ci sarebbe un’altra opzione: se il leader del partito Pastef si dovesse costituire, potrebbe essere nuovamente processato dallo stesso tribunale. Potrebbe quindi essere aperto un nuovo processo.
Aggiornamento:
Il numero delle vittime è salito a 15 e nella capitale l’esercito è stato dispiegato in diversi quartieri della città. il portavoce del ministero degli Interni, Maham Ka, ha fatto sapere poco fa che venerdì, 2 giugno sono state uccise altre sei persone: quattro nella regione di Dakar e due in quella di Ziguinchor.
Oggi pomeriggio diverse centinaia di senegalesi hanno manifestato anche a Parigi, nel quartiere Trocadéro a sostegno di Ousmane Sonko e in omaggio alle vittime delle dimostrazioni in Senegal.
Dalla Nostra Corrispondente Paola Rolletta
Bissau, 2 giugno 2023
Domenica prossima, gli elettori della Guinea Bissau sono chiamati a scegliere 102 nuovi rappresentanti del Parlamento, sciolto a maggio dello scorso anno.
Oggi nel Paese di Amilcar Cabral, il principale artefice dell’indipendenza della Guinea-Bissau e delle isole di Capo Verde, ma anche uno dei più importanti ideologi e politici dell’intero processo di decolonizzazione africana dei primi decenni della seconda metà del secolo scorso, si è chiusa la campagna elettorale. In lizza 20 partiti e due coalizioni.
Se per molti l’alto numero di partiti in lizza è segnale di forte frammentazione politica che aumenta l’instabilità e pregiudica il processo di strutturazione dello Stato di Diritto, per altri rappresenta uno passo necessario all’implementazione della democrazia in Guinea Bissau. Gli analisti, però, sottolineano come la realtà sia ben altra e che solo quattro o cinque dei partiti in lizza hanno possibilità di contendersi la vittoria elettorale.
Per i bissau-guineensi, ma anche per gli osservatori, queste settima tornata elettorale a livello legislativo è particolarmente importante dopo che, dallo scorso anno, il Paese è ricaduto in una situazione di instabilità, minando i timidi sforzi della lotta contro la povertà estrema, in cui versa la maggior parte della popolazione.
Secondo il rapporto della Commissione Economica per l’Africa delle Nazioni Unite (ECA), la Guinea-Bissau è tra i dieci Paesi più poveri del continente africano, con quasi il 70 per cento dei suoi poco più di 2 milioni di abitanti sotto la soglia di povertà.
Dopo una profonda crisi interna, il partito fondato da Amilcar Cabral, il Partito Africano per l’Indipendenza della Guinea e di Capo Verde (PAIGC), ha deciso di non concorrere da solo, ma si è alleato ad altre forze politiche di istanza democratica creando la coalizione Piattaforma dell’Alleanza Inclusiva “PAI – Terra Ranka”. Una scelta importante, che inaugura una nuova stagione in Africa di apertura ascolto e sinergia nel quadro troppo spesso monolitico dei partiti politici che hanno contribuito alle indipendenze dei Paesi africani, soprattutto lusofoni.
La Commissione Nazionale Elettorale (CNE) ha accreditato 180 osservatori internazionali per il controllo delle operazioni di voto. Vigileranno su un territorio di 36 mila chilometri quadrati.
La Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale (CEDEAO), guidata da Jorge Carlos Fonseca, ex Presidente della Repubblica di Capo Verde, avrà il maggior numero di osservatori, con 101 partecipanti, seguita dall’Unione Africana, capitanata dall’ex capo di Stato del Mozambico, Joaquim Chissano, con 28, dalla Comunità dei Paesi di Lingua Portoghese (CPLP) con 27, dalla Francofonia e dalla Missione di Osservazione Elettorale della CPLP (ROJAE) con sette ciascuno. Parteciperanno anche Russia, con cinque osservatori, e dagli USA con uno.
Anche il Venezuela ha inviato una missione indipendente. La preoccupazione di tutti verte nella non affatto scontata accettazione dell’esito delle votazioni da parte dei molteplici soggetti coinvolti nel processo elettorale. Occorre sia garantita la pacifica formazione di un governo, che sulla base di un legittimo mandato, possa rimettere in moto il processo democratico e di sviluppo della Guinea-Bissau per i prossimi quattro anni.
Preoccupazione non da poco, visto che la campagna elettorale è stata segnata da un intervento a gamba tesa dell’attuale capo di Stato, Umaro Sissoco Embalo, che, non meno di due settimane fa, ha affermato che non nominerà primo ministro il leader del PAIGC, Domingos Simão Pereira (DSP), se la coalizione PAI-Terra Ranka dovesse vincere l’elezioni.
Le radici di tale dichiarazione affondano nelle ultime elezioni presidenziali di fine 2019, quando al primo turno, Domingos Simões Pereira, candidato presidenziale del PAIGC, risultava primo con il 40,1 per cento dei consensi proprio contro Umaro Sissoco Embalò, allora candidato del Movimento per l’Alternanza Democratica (MADEM) secondo classificato con appena 27,6 che però al ballottaggio riuscì a ribaltare il risultato vincendo con il 53,5.
Le accuse di brogli denunciate dal PAIGC nel 2019 non sono state accolte né dalla Commissione Nazionale Elettorale, che non ha accettato di procedere al riconteggio delle schede, né da parte degli osservatori della CEDEAO, né delle Nazioni Unite, e neanche da parte dell’Unione Europea.
“Abbiamo avuto problemi con il materiale di propaganda elettorale che è rimasto bloccato alla frontiera – commenta a Africa-Express, Domingos Simões Pereira. – Ci hanno impedito di usare i nostri simboli, la nostra bandiera. Lo abbiamo fatto presente alle Nazioni Unite, agli osservatori internazionali, all’inizio della campagna elettorale. Abbiamo fiducia che saranno imparziali e vigileranno durante le votazioni e soprattutto durante lo spoglio”.
“Lo so che è controverso, ma già ho sentito dire che gli organi della Comunità Internazionale riescono a esistere perché sono inefficaci, perché se fossero efficaci già non esisterebbero – continua l’attuale leader del PAIGC -. La Comunità Internazionale dovrebbe essere partner per lo sviluppo della Guinea Bissau a tutti i livelli, anche per quanto alla sua stabilità politica. La precondizione è che siano rispettate le nostre leggi, anzitutto la nostra Costituzione. Ma quando uno Stato aggredisce le libertà fondamentali dei propri cittadini, non dovrebbero essergli riconosciute le condizioni per essere interlocutore della Comunità Internazionale”.
Durante la campagna, il limitato spazio pubblico è stato dominato da discorsi chiari sulla necessità di una riforma costituzionale per chiarire i limiti del Presidente della Repubblica e del Capo del Governo. “La nostra Costituzione è chiara. Il Governo deve rispondere delle sue azioni al Parlamento, e in caso di dubbio, si ricorre alla Corte Suprema.Il Presidente della Repubblica dovrebbe facilitare il funzionamento e non uscire dai limiti imposti dalla nostra Carta – commenta ancora Domingos Simões Pereira -. Non credo che sia una questione di costituzioni buone o cattive, il problema principale sono gli uomini. Se le elezioni si svolgeranno in modo trasparente, vinceremo tutti noi. Vincerà la democrazia”.
La popolazione però sembra sia rassegnata e abbia poca fiducia nel cambiamento. Soprattutto sente che la voce della gente non è ascoltata e si sente condannata ad essere una “emergenza silenziosa”, in un continuo altalenare, che non dà tregua alla povertà, la madre di tutte le guerre, anche quelle definite etniche.
Flora Gomes, grande regista guineense descriveva così questo sentimento: “Mi sento come se stessi su un’altalena a dondolare nel continente africano. Certe volte, percorrendo tutta la vastità da una punta all’altra, agitato dagli eventi, la mia prospettiva sull’Africa diventa cinica e scettica e ho solo voglia di scappare. Ma dove? Altre volte, quando il movimento calmo e regolare mi fa vedere lo sguardo innocente di un bambino, la sua immaginazione, udire le sue risate miste a quelle delle donne più vecchie, e vedere il sudore degli uomini mischiato alla polvere di imperi antichi, preferisco allora rimanere in questa altalena. E capisco perché i ragazzini amano tanto le vertigini”.
Secondo il regista, la Comunità Internazionale dovrebbe cooperare con la Guinea-Bissau per recuperare il controllo delle frontiere – con più di 80 isole, dove lo Stato non è mai arrivato – e aiutare i cittadini al controllo sull’operato di chi li governa. Perché anche la Guinea-Bissau deve essere considerata decisiva per il raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’agenda 2030 delle Nazioni Unite, soprattutto l’obiettivo 16 che affronta il tema del rafforzamento istituzionale (normativo, giurisdizionale e tecnico) per la promozione a livello globale dello Stato di Diritto, i Diritti Umani e la Giustizia.
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