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Propaganda ISIS: “Uccisi 10 militari in Mozambico”ma non c’è nessuna conferma dai governi

Speciale per Africa ExPress
Sandro Pintus
7 luglio 2023

“Il distretto di Mocimboa da Praia è stabile e libero da attacchi terroristici”. Questo dichiarava il 26 giugno il ministro mozambicano della Difesa Cristovao Chume ai giornalisti.

Dopo una settimana, il 3 luglio, L’Amaq Press Agency, agenzia di stampa dello Stato islamico (ISIS), pubblicava foto e video di un attacco in Mozambico. È avvenuto a Cabo Delgado, provincia mozambicana sotto attacco jihadista dal 2017. Il luogo è Macomia, 140 km a sud di Mocimboa da Praia.

propaganda mappa del nord Mozambico
Mappa del nord Mozambico con il luogo dell’agguato (Courtesy GoogleMaps)

I tweet sull’attacco

La notizia è stata ripresa via twitter da Daniel Michombero-Batubenga, giornalista freelance congolese, e da Daniele Garofalo analista specializzato in terrorismo e jihadismo.

Mentre il 26 giugno il ministro mozambicano della Difesa Cristovao Chume ha dichiarato ai giornalisti che il distretto di Mocimboa da Praia, nella provincia settentrionale di Cabo Delgado, è stabile e libero da attacchi terroristici.

Realtà o propaganda?

Nei tweet Michombero-Batubenga scrive che a Macomia un gruppo dello Stato islamico ha pubblicato le foto dopo un attacco. Ha causato la morte di una decina di soldati ruandesi. Il gruppo ha rivendicato la responsabilità dell’attacco e diversi altri soldati ruandesi sono stati catturati insieme alle armi.


Contenuto simile il tweet postato da Garofalo. “L’agenzia di stampa Amaq ha rilasciato una dichiarazione e un video di 0:50 minuti. Rivendica il pesante attacco di #IS-MOZ contro i militari #SADC con con morte di ruandesi e mozambicani.

Il giornale online Carta de Moçambique, cita Amaq come fonte e parla di imboscata jihadista dove sono morti 10 militari mozambicani. C’è anche un numero indefinito di feriti e diverse armi andate finite in mano ai terroristi che hanno pubblicato la foto dei documenti dei soldati.

Nessuna conferma è arrivata dal governo mozambicano. Dalle immagini dei tweet non si riconoscono né le armi catturate né le divise dei militari ruandesi.

È possibile che sia propaganda ISIS-Mozambique (Al Sunnah wa-Jammà-ASWJ) classificato dal Dipartimento di Stato USA come “terroristi globali particolarmente pericolosi”.

I militari ruandesi e SADC a difesa del Nord

Dall’ottobre 2018 inizio degli attacchi jihadisti a Cabo Delgado, l’ong Cabo Ligado ha registrato 4.700 morti dei quali oltre 2.000 civili. Gli attacchi di Al Sabbah wa-Jammà hanno causato oltre 800.000 sfollati.

Circa 2.000 militari ruandesi stanno aiutando il Mozambico contro i gruppi jihadisti da luglio 2021. Sono stati chiamati dal presidente mozambicano Filipe Nyusi che ha siglato un accordo bilaterale con l’omologo ruandese Paul Kagame e la mediazione di Emmanuel Macron.

propaganda armi
Armi e materiale militare catturate dopo ì’agguato ISIS-Mozambico

Anche i 16 Paesi della Comunità di sviluppo dell’africa australe (SADC) stanno aiutando il Mozambico a Cabo Delgado dall’agosto 2021. Circa 3.000 soldati sono presenti con la Missione dei Paesi dell’Africa australe in Mozambico (SAMIM). Il contingente maggiore è quello sudafricano con circa 1.800 soldati.

Giacimenti di gas abbastanza sicuri

Oggi, oltre al distretto di Mocimboa da Praia, anche Palma sembra sicura e stanno tornando gli abitanti. Palma è la città dei giacimenti di gas con i cantieri TotalEnergies (ancora chiusi) assediata a marzo 2021 dai jihadisti per una settimana. Off-shore ci sono i giacimenti dove opera ENI che non hanno subito l’impatto jihadista. Il primo carico di GNL è stato spedito in Europa nel novembre 2022.

Sandro Pintus
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Contro il terrorismo jihadista arrivate truppe ruandesi nel nord Mozambico

Destinazione Europa: dal Mozambico partito il primo supercarico ENI di gas naturale

Orrore in Mozambico, 12 bianchi decapitati dai jihadisti durante l’assedio di Palma

 

Israele: quando quelli che sono state vittime si trasformano in carnefici

Speciale per Africa ExPress e per Senza Bavaglio
Eric Salerno*
7 luglio 2023

La parola “pogrom”, spaventa, fa venire i brividi. L’ho sentita pronunciare per la prima volta da mia madre, ebrea russa, nata e cresciuta poco a nord di Cernobyl in una cittadina che si chiama Chojniki, nella regione di Gomel in Bielorussia. Un centinaio di anni fa, un piccolo esercito di cosacchi avevano attaccato la comunità ebraica che si abitava. Una mia zia fu decapitata. Altri rimasero feriti.

Non sono mai riuscito ad avere da mia madre un racconto dettagliato ma alla fine tutta la mia famiglia lasciò la regione, chi verso San Pietroburgo, chi verso l’Estremo oriente, chi come lei negli Stati Uniti.

Coloni israeliani danno fuoco alle case dei villaggi Al-Lubban, Al-Sharqiya e Turmus Ayya

Pochi giorni fa, il termine pogrom è stato usato da molti israeliani e rilanciato sulla prima pagina dell’autorevole “Washington Post” e di altri giornali: denunciavano il comportamento di loro compatrioti nei confronti della popolazione palestinese dei territori occupati.

Dalla notte del 20 giugno alla notte del 21 giugno, centinaia di coloni protetti dall’esercito fecero irruzione nei villaggi di Al-Lubban, Al-Sharqiya e Turmus Ayya dando fuoco a case dove si trovavano intere famiglie, incendiando e saccheggiando e dando fuoco alle loro automobili.

Ci sono stati feriti, nessuno è morto ma il senso dell’incursione ha ricordato quello che molti ebrei europei subivano anno dopo anno nella Russia dello Zar e nei paesi limitrofi: “Non vi vogliamo”. “Andate via”. “Cercate un’altra casa, un’altra patria”. “Questa è la terra degli ebrei”.

Se è vero che la maggior parte dei responsabili diretti del pogrom erano “coloni” degli insediamenti nei territori occupati, è vero anche che la politica del governo di estrema destra guidato da Benjamin Netanyahu sta generando un clima di violenza che può portare anche oltre all’aggressione nei confronti degli abitanti palestinesi delle loro città e dei numerosi campi profughi che furono creati dopo la fondazione di Israele per coloro che furono costrette a lasciare le loro case e terreni.

Militari israeliani fanno irruzione nel campo per profughi a Jenin

L’altra notte nel campo profughi appoggiato alla città di Jenin, i soldati israeliani che vi avevano fatto incursione “per eliminare terroristi e le loro basi” – la giustificazione – avrebbero suggerito agli abitanti di scappare, di andare altrove, di trovare altre case. Non un’ordine, ha spiegato poi l’Autorità militare, ma un suggerimento mentre i bulldozer e altri mezzi meccanici devastavano le strade del campo, distruggevano la rete idrica e molte delle case.

Come per ogni guerra, anche per quelle che hanno portato alla creazione dello Stato d’Israele ci sono molte versioni riguardo il comportamento dei protagonisti. Gli stessi studiosi israeliani, anche sulla base di documenti rilasciati dagli archivi di Gerusalemme, parlano di “crimini di guerra”.

Quasi tutti – israeliani e arabi – sono d’accordo su un fatto: l’esodo dei palestinesi da case e terra fu involontario. Nakba è la parola con la quale è conosciuto soprattutto l’esodo forzato della popolazione araba palestinese durante la guerra del 1947-48, al termine del Mandato Britannico, e durante la guerra arabo-israeliana del 1948, dopo la fondazione dello Stato di Israele.

Ed è il nome con il quale i palestinesi si riferiscono anche a quello che è accaduto dopo la guerra araba-israeliana del 1967 quando decine di migliaia di palestinesi raggiunsero i loro amici e parenti in Cisgiordania e a Gaza, molti nei campi profughi come quello di Jenin.

Molti degli estremisti israeliani che sono al governo, sperano di liberarsi dei palestinesi rimasti per avere Israele, come “stato ebraico”, dal Mediterraneo al fiume Giordano. Nei cassetti del ministero della Difesa di Tel Aviv, ci sarebbero già i piani per realizzare questa nuova Nakba.

E i palestinesi, giovani e meno giovani, che denunciano con preoccupazione le parole dei soldati israeliani che incitavano o suggerivano di “allontanarsi” dal campo di battaglia di Jenin, dalle loro case.

C’è, però, un’antica filosofia in Medio Oriente: il tempo è relativo. Tornano spesso alla mente le parole di un anziano palestinese – oggi credo non ci sia più – seduto nel salotto della sua casa non molto distante da Jenin. Era triste e disperato ma non rassegnato. Credeva nella logica della storia che si ripete. “Gli ebrei  – disse – sono tornati qui dopo duemila anni. Anche noi possiamo aspettare. Prima o poi riprenderemo le nostre case.

Eric Salerno*
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*Nato a New York nel 1939 da un’ebrea russa sfuggita alle guardie bianche zariste e da un comunista calabrese scampato dal fascismo, rifugiandosi in Usa nel 1922 ed espulso nel 1950 dal maccartismo; Eric si è trasferito in Italia a 13 anni e ha lavorato 10 anni per “Paese Sera”. Nel 1967 è passato a “Il Messaggero”, in qualità di inviato speciale e capo del servizio esteri, interessandosi ai problemi del Terzo Mondo e del Medio Oriente. A lungo corrispondente da Gerusalemme. Ha pubblicato Guida al Sahara (1974), Fantasmi sul Nilo (1979), Genocidio in Libia. Le atrocità nascoste dell’avventura coloniale (1979), Rossi a Manhattan (2001), Israele, la guerra dalla finestra (2002) Mosé a Timbuctù (2006), Uccideteli tutti (2008), Mossad base Italia (2010), Dante in Cina (2018).

Ritorna la calma a Sfax dopo violente manifestazioni contro i migranti con un morto tunisino

Africa ExPress
Tunisi, 6 luglio 2023

Da tempo Sfax, grande centro portuale sulla costa orientale della Tunisia, è teatro di scontri tra residenti e migranti subsahariani, che affluiscono sempre più numerosi da tutto il continente per tentare di imbarcarsi verso Lampedusa, la porta d’entrata dell’Europa.

Tunisino morto a Sfax durante violenti scontri tra residenti e migranti

Negli ultimi giorni i disordini si sono intensificati. I residenti accusano i migranti di crimini e violenze, mentre gli “irregolari” presenti a Sfax, denunciano continui attacchi razzisti.

Durante gli scontri di lunedì scorso un tunisino è stato ucciso. Secondo alcuni testimoni oculari la vittima, un 41enne, sarebbe stata accoltellata da tre persone di origini subsahariane. I presunti colpevoli sono stati arrestati dalla polizia. La procura di Sfax ha aperto un’inchiesta e le indagini sono ancora in corso.

Ramadan Ben Omar del Forum tunisino per i diritti economici e sociali ha dichiarato alla Reuters che questa settimana la polizia avrebbe portato centinaia di migranti, tra loro anche donne e bambini, in una zona militare chiusa lungo il confine desertico con la Libia.

Ben Omar ha poi aggiunto che attivisti per i diritti umani  hanno riferito che molti migranti sono stati picchiati ed espulsi dai loro alloggi.

In alcuni video postati sui social network, si vedono agenti di polizia che inseguono decine di migranti tra gli applausi dei residenti locali, prima di caricarli sulle auto delle forze dell’ordine.

Altri filmati mostrano molte persone di origini subsahariane a terra, con le mani sulla testa, circondate da residenti con bastoni, in attesa dell’arrivo della polizia. La redazione di Africa ExPress non ha potuto controllare l’autenticità di questi video.

Mentre Moez Barakallah, un deputato di Sfax, ha detto che le autorità avrebbero fornito cibo e medicinali ai circa 1.200 migranti deportati dalla città verso aree vicine ai confini con la Libia. Il parlamentare ha poi aggiunto che funzionari della sicurezza di frontiera hanno preso in carico questi poveretti.

Quest’anno c’è stata un’impennata di migrazioni attraverso il Mediterraneo dalla Tunisia. Per contrastare il crescente numero di partenze dalle coste della ex colonia francese, l’Unione Europea ha chiesto interventi da parte del governo di Tunisi. Ma a tutta risposta il presidente Saied ha replicato a Bruxelles che la Tunisia non intende assolutamente essere la Guardia di frontiera per conto di altri Paesi e non accetterà mai l’insediamento di immigrati.

Tunisia: migranti tentano la traversata dalla Tunisia verso Lampedua. Rischiano la vita per un futuro migliore

Nel febbraio di quest’anno il capo di Stato, Kaïs Saied, aveva dichiarato: “L’arrivo di masse incontrollate dal sud del continente africano hanno come obiettivo di trasformare la Tunisia in un Paese solo africano e staccarla dalle nazioni arabo-musulmane”. Da allora le violenze e gli attacchi razzisti nei confronti di persone di origini subsahariane sono in continuo aumento. I fuggiaschi vengono accusati di crimini di ogni genere e di rubare il lavoro ai locali.

Il mese scorso, centinaia di residenti della città portuale hanno protestato contro la presenza di migliaia di migranti e hanno chiesto alle autorità di espellerli, non vogliono che Sfax diventi dimora per i rifugiati.

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Discorso del presidente tunisino contro i migranti subsahariani e scoppia l’odio razziale

 

Guerra continua in Sudan: la popolazione in ostaggio dei due generali in conflitto

Africa ExPress
4 luglio 2023

La guerra in Sudan continua senza sosta e la gente in fuga muore. Il mondo occidentale ha quasi dimenticato questo conflitto tra i due generali, di Abdel Fattah al-Burhan, presidente del Paese, e Hamdan Dagalo, meglio noto come Hemetti, leader delle Rapid Support Forces (RSF), iniziato il 15 aprile 2023.

Khartoum, capitale del Sudan: la guerra non conosce tregua

Domenica mattina pesanti combattimenti tra le forze armate sudanesi e le RFS hanno nuovamente scosso la capitale Khartoum, mentre domenica mattina, sin dalle prime ore del mattino il conflitto si è concentrato a Omdurman, la città gemella della capitale sull’altra sponda del Nilo. Secondo testimoni oculari le forze armate sudanesi hanno lanciato offensive aeree contro i paramilitari delle RSF. Mentre in un’altra parte della città si sono uditi colpi di artiglieria pesante.

L’associazione dei medici sudanesi ha accusato RSF di aver fatto irruzione sabato nell’ospedale di Shuhada, uno dei pochi ancora in funzione nel Paese, e di aver ucciso un membro dello staff, fatto ovviamente negato dai paramilitari.

Mentre l’agenzia governativa, Unità per la lotta alla violenza contro le donne, ha fatto notare proprio sabato che sono in forte aumento le violenze sessuali. Finora sono stati registrati ufficialmente 88 casi, ma nella realtà sono sicuramente moti di più.

La maggior parte delle vittime ha puntato il dito contro i miliziani delle RSF. I gravi fatti si sono verificati a Khartoum, El Geneina e Nyala, capoluogo del Darfur meridionale..

I morti non si contano più,  si parla di oltre 3.000 dall’inizio del conflitto. Secondo l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM), 2,2 milioni di persone sono e quasi 645.000 sono fuggite oltre confine per mettersi in salvo. Mentre, secondo le Nazioni Unite, in tutto il Paese 25 milioni di persone necessitano di aiuti umanitari e protezione.

“La situazione è grave e difficile per gli sfollati, che si trovano bloccati in nove campi nello Stato del Nilo Bianco, al confine con il Sud Sudan.”, ha detto la ONG francese Medici senza Frontiere (MSF).

Lo spazio aereo resta chiuso in tutto il Paese fino all’10 luglio prossimo, eccezion fatta per i voli degli aiuti umanitari, ha spiegato in un comunicato l’Autorità per l’aviazione civile del Sudan.

Intanto sono stati sospesi il mese scorso i colloqui a Gedda, sponsorizzati da Stati Uniti e Arabia Saudita. Un tentativo di mediazione da parte dei Paesi dell’Africa orientale è stato respinto dal presidente del Sudan, che ha accusato il Kenya di non essere imparziale.

La scorsa settimana, invece, al-Burhan e il vicepresidente del Consiglio sovrano,  Malik Agar, hanno detto di essere disposti a accettare una mediazione da parte della Turchia o della Russia. Finora però non sono stati annunciati negoziati ufficiali.

Il ministro degli Esteri russo Lavrov a destra e il vicepresidente del Consiglio sovrano del Sudan Malik Agar

La settimana scorsa Agar si è recato in Russia, dove ha incontrato il ministro degli Esteri Sergej Lavrov. In tale occasione il capo della diplomazia russa ha sottolineato che Mosca è molto preoccupata per quanto sta accadendo in Sudan. Il suo governo è pronto a fare la propria parte perché si possano creare le condizioni per normalizzare la situazione.

Va però ricordato che i mercenari russi della società Wagner ha stretti legami con le RSF di Hemetti e si sospetta che i contractor sostengano le truppe dell’ex vicepresidente sudanese via la vicina Repubblica Centrafricana.

Intanto arrivano grida disperate dalla popolazione del Darfur, dove nel 2003 l’ex dittatore Omar al-Bashir ha armato e scatenato contro le minoranze etniche non arabe le milizie janjaweed. La pulizia etnica causò la morte di oltre 300 mila persone e la fuga di 2,5 milioni di sfollati.

La Corte Penale Internazionale aveva poi accusato l’ex presidente e altri suoi complici di crimini di guerra e contro l’umanità. A tutt’oggi al Bashir, deposto nel 2019 proprio da al-Burhan e Hemetti, non è stato consegnato al Tribunale dell’ONU dell’Aja in Olanda.

Le notizie che arrivano dalla regione sono terrificanti. Dabanga News riporta che alcuni rifugiati arrivati nei campi per profughi in Ciad, hanno accusato i miliziani delle RSF di aver deliberatamente ammazzato 20 bambini a Genina, capoluogo del Darfur occidentale. Proprio nella città e nei suoi dintorni – scrive Dabanga – dall’inizio del conflitto sono morte almeno 8.000 persone. Molte salme si troverebbero ancora sulle strade della città, altre sulla via verso il Ciad. “Intere famiglie sono state sterminate per motivi etnici”, ha raccontato ai reporter un profugo che ora si trova nel Paese confinante.

Profughi sudanesi in Ciad

Lo stringer di Africa ExPress in Darfur ci ha informato che per scappare da Genina i fuggiaschi sono costretti a pagare il pizzo ai miliziani di RSF, che, pur avendo cambiato nome, gran parte di loro sono ex janjaweed. E anche oggi stanno effettuando ciò che gli è più consono: pulizia etnica. Diavoli a cavallo li chiamavano allora, perchè stupravano le donne, ammazzavano gli uomini e rapivano i bambini.

Il nostro stringer ha poi aggiunto che alcuni anziani ipovedenti sono stati mandati dai paramilitari in un edificio con la promessa che sarebbero stati al sicuro. Ma, una volta rinchiusi, la palazzina è stata incendiata.

Africa ExPress
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Khartoum, evacuato l’orfanotrofio dove i neonati sono morti di fame

In Sudan la democrazia può attendere: in Darfur gli RSF ammazzano il governatore

Khartoum: troppi morti per strada: il rischio di gravi epidemie trasforma la popolazione in “becchini volontari”

 

 

Dopo oltre 40 anni ricompare in Uganda il licaone (cane africano), specie in via di estinzione

Africa ExPress       
Kampala, 2 luglio 2023

Gli esperti e gli addetti ai lavori non fanno che parlare di questo avvenimento particolare: il 26 giugno scorso, un ranger del Parco nazionale della Valle di Kidepo, nell’estremo nord-est dell’Uganda, ha avvistato una coppia di licaoni, cani selvatici africani, particolarmente pelosi e dai disegni particolari. Si pensava fossero ormai scomparsi in quella parte dell’Africa. Ma eccoli nuovamente, riapparsi dopo oltre 40 anni.

Il licaone (Lycaon pictus), ricomparso in Uganda dopo 40 anni

Il ranger li ha visti la mattina presto, lungo la strada del parco nazionale, mentre stava accompagnando alcuni clienti per un safari.

Ora ci si chiede se i licaoni, che non si erano più visti in Uganda dagli anni Ottanta, sono venuti nel parco per stabilirsi lì, o se si tratta solo di due esemplari in movimento, in transito, provenienti da altre regioni, come il Sud Sudan.

Charles Tumwesigye, vicedirettore dell’ Uganda Wildlife Authority (UWA),  ritiene che il parco sia un luogo favorevole in termini di sicurezza per questi animali.

Scorcio del Parco Nazionale della Valle di Kidepo, Uganda

“Abbiamo assistito a un significativo spostamento di animali dal Sud Sudan verso il parco di Kidepo, poiché l’Uganda è più sicura del Sud Sudan. Un’altra ragione della ricomparsa dei cani selvatici sta nel fatto che gli allevatori di bestiame intorno ai nostri parchi si sono allontanati. All’epoca, quando perdevano uno o due capi di bestiame, attaccavano i cani selvatici. Quindi pensiamo che per tutte queste ragioni gli animali siano tornati, e faremo tutto il possibile per mantenerli qui”, ha assicurato il vicedirettore di UWA.

Anche se ora i licaoni sono ora ricomparsi in Uganda, sta di fatto che sono una specie a alto rischio di estinzione. Nel 2020, l’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura ha stimato che in tutto il mondo ne esistono solo 6.000 esemplari. La specie continua a diminuire a causa della riduzione del loro habitat, dei conflitti con le attività umane e delle malattie infettive.

Ogni licaone ha un mantello unico, caratterizzato da una pelliccia irregolare e screziata con macchie di rosso, nero, marrone, bianco e giallo. Hanno grandi orecchie arrotondate e quattro dita per zampa, a differenza dei cani domestici, che ne hanno cinque su quelle anteriori e quattro su sulle posteriori.

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I caschi blu preparano i bagagli: in Mali resteranno le tempeste di sabbia, i terroristi e la Wagner

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
1° luglio 2023

Ieri mattina il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha messo un punto finale al mandato della Missione integrata multidimensionale di stabilizzazione dell’ONU (MINUSMA) a partire dal 30 giugno 2023.

Fine della missione di pace dell’ONU in Mali. MINUSMA prepara i bagagli

L’istituzione ha chiesto di avviare immediatamente la cessazione delle operazioni e il trasferimento dei compiti, nonché la riduzione e il ritiro del personale per completare il processo entro il 31 dicembre 2023.

La risoluzione 2690 (2023), presentata dalla Francia, membro permanente del Consiglio di Sicurezza dell’ONU insieme a Russia, Gran Bretagna, Stati Uniti e Cina, è stata adottata all’unanimità. E’ stato inoltre deciso che fino al 30 settembre 2023 MINUSMA è autorizzata a rispondere alle minacce imminenti di violenza contro i civili e a contribuire alla fornitura di assistenza umanitaria sotto la guida di civili.

La liquidazione di MINUSMA inizierà il 1° gennaio 2024 e per tutto il periodo sarà mantenuta un’unità di guardia per proteggere il personale, le installazioni e le proprietà della Missione. Alcune delegazioni hanno chiesto al governo militare di transizione del Mali di rispettare l’accordo sullo status dei caschi blu fino alla partenza dell’ultimo militare della missione.

E’ chiaro che la missione ONU in Mali, che comprende 11.676 militari, 1.588 personale di polizia, 1.792 civili (859 nazionali – 754 internazionali, compresi 179 volontari delle Nazioni Unite), per un totale di 15.056 non può partire dall’oggi al domani. E va anche ricordato che durante i quasi 10 anni di permanenza nella ex colonia francese hanno perso la vita 196 caschi blu.

La richiesta del ritiro immediato della missione ONU è stata presentata al Consiglio di Sicurezza del Palazzo di Vetro dal ministro degli Esteri maliano, Abdoulaye Diop, lo scorso 16 giugno e ha sorpreso un pochino tutti. E, sul tavolo dei lavori erano già pronte varie opzioni per la riorganizzazione di MINUSMA; Bamako ha scelto invece diversamente: ha voluto che i caschi blu facessero i bagagli per lasciare il Paese quanto prima.

Sala del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, New York

Le tensioni tra l’ONU e il governo militare di transizione sono aumentate con l’arrivo dei mercenari russi di Wagner nel 2021. Da allora varie restrizioni governative hanno ostacolato le operazioni aeree e terrestri di MINUSMA. E non si esclude che Berlino, che solo a maggio aveva prolungato la permanenza delle proprio truppe in Mali fino a fine maggio 2024, riporti a casa i propri uomini al più presto. Ma, secondo quanto ha detto il portavoce del ministero della Difesa tedesco, Arne Collatz, “Un ritiro caotico e frettoloso come quello dall’Afghanistan non si deve ripetere. Abbiamo imparato la lezione. Una smobilitazione troppo veloce causerebbe costi elevatissimi”.

La missione dell’ONU non risponde alle aspettative del governo di Bamako, vuole contrastare il terrorismo in modo diverso, che va oltre la dottrina della missione di pace delle Nazioni Unite. Insomma una forza più robusta, più offensiva che non contesti la violazione dei diritti umani. MINUSMA e esperti dell’ONU hanno documentato in numerosi rapporti non solo le violenze jihadiste, ma anche quelle dell’esercito maliano e dei suoi partner russi, mercenari di Wagner. Informazioni, secondo Bamako, imbarazzanti per la popolazione e potenzialmente rischiose in caso di procedimenti giudiziari contro i leader politici e militari maliani e russi.

La goccia che senza ombra di dubbio ha fatto traboccare il vaso è il rapporto che riguarda l’operazione militare di Moura nel 2022. Nel rapporto pubblicato lo scorso maggio, il Palazzo di Vetro accusa le forze maliane e i combattenti stranieri del massacro di 500 persone.

Paramilitari russi del gruppo Wagner in Mali

Ma sia Mosca che Bamako hanno sempre negato la presenza di mercenari russi. Si tratterebbe di personale addetto all’addestramento delle truppe maliane per combattere i terroristi. Già nel 2021 Reuters aveva fatto sapere che il governo ha stipulato un contratto diretto con Wagner, pagando circa 10,8 milioni di dollari al mese per i suoi servizi.

Il potente ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov, durante una conferenza stampa ha però precisato: “Il futuro dei contratti firmati tra vari Paesi africani e il gruppo mercenario Wagner è una questione che riguarda i governi che hanno concluso tali accordi”.

Mentre martedì scorso, il presidente russo Vladimir Putin ha dichiarato che Wagner è stato “completamente finanziato” dallo Stato. Ha anche precisato che circa 86 miliardi di rubli (circa 940 milioni di dollari) sono stati pagati al gruppo tra maggio 2022 e maggio 2023. Non è stato però chiarito quali prestazioni comprendono.

Secondo quanto riportato dal quotidiano statunitense Politico, le agenzie di stampa statali russe TASS e Ria Novosti, avrebbero raccontato che Putin, durante un incontro con i funzionari del ministero della Difesa, avrebbe sottolineato: “La manutenzione dell’intero Gruppo Wagner è stata interamente finanziata dallo Stato. Il ministero della Difesa, il bilancio statale, ha finanziato completamente questo gruppo”. Dunque Putin avrebbe riconosciuto per la prima volta che il gruppo Wagner, fondato nel 2014 da Yevgeny Prigozhin, gode di stanziamenti di fondi pubblici.

Cornelia I. Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
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Rapporto dell’Onu accusa: forze armate e combattenti stranieri responsabili del massacro di 500 persone in Mali

Bamako chiede all’ONU: “Ritirate immediatamente i caschi blu”

 

 

Braccio di ferro USA-Mozambico: dopo lo scandalo da 1,9 mld l’ex ministro Chang sarà estradato in America

Speciale per Africa ExPress
Sandro Pintus
1° luglio 2023

“Probabilmente sarà qui (in USA, ndr) tra metà e fine luglio. Ci vorrà tempo, ma sarà estradato”, lo ha dichiarato Hiral Mehta, assistente del procuratore degli Stati Uniti presso la Corte federale di Brooklyn, all’agenzia Bloomberg.

Sembra quindi terminato il braccio di ferro tra Washington e Maputo per l’estradizione di Manuel Chang, ex ministro delle Finanze mozambicano.

Braccio di ferro Manuel Chang
Manuel Chang nell’aula del tribunale di Johannesburg, Sudafrica

Oltre quattro anni e mezzo in galera

Una sfida legale durata ben quattro anni e mezzo e vinta dagli Stati Uniti anche con l’aiuto della Società civile mozambicana.

Manuel Chang era stato arrestato – su richiesta degli Stati Uniti – all’aeroporto internazionale di Johannesburg durante un transito verso Dubai il 29 dicembre 2018.

Gli USA avevano chiesto l’estradizione perché “ha approfittato del sistema finanziario degli Stati Uniti e ha frodato gli investitori statunitensi”. Qualche giorno dopo è arrivata la richiesta di estradizione dal governo mozambicano.

Quattro tentativi di estradizione falliti

Per ben quattro volte il governo mozambicano si è opposto all’estradizione negli USA perché voleva processare il suo ministro “a casa”.

In Mozambico la Società civile non ha mai creduto che ci sarebbe stato un processo che avrebbe fatto venire a galla la verità. Oltre a Chang, personaggio di primo piano nello scandalo erano coinvolti, Ndambi Guebuza,  figlio dell’ex presidente Armando Guebuza, e alti personaggi dei Servizi.

Perfino l’attuale presidente Filipe Nyusi, ministro della Difesa durante la presidenza Guebuza, doveva sapere. Si capisce perché a Maputo faceva più comodo il processo a Manuel Chang “in casa”

L’ultima sentenza che nel 2021 dava l’estradizione a Maputo è stata bloccata. Il Forum per il monitoraggio del bilancio (FMO), un ombrello che raccoglie varie ong mozambicane si è opposto. Opposizione accolta dal giudice.

Lo scandalo finanziario “debiti occulti”

Chang è uno dei personaggi chiave, tra i responsabili dello scandalo finanziario da 1,9 miliardi di euro chiamato “debiti occulti”.

È lui che ha firmato per avere i prestiti concessi dal Credit Suisse e dalla banca russa VTB. Questo denaro, ufficialmente, doveva servire per l’ammodernamento della flotta di pesca al tonno e 700 mila euro sono spariti nel nulla.

A causa di questo scandalo, che coinvolge le più alte cariche dello Stato, è crollata l’economia mozambicana impoverendo circa due milioni di cittadini.

mappa manovre militari Sudafrica Russia Cina
Mappa dell’area delle manovre militari di Sudafrica, Russia e Cina (Courtesy GoogleMaps)

L’ultima carta di Chang

I legali dell’ex ministro mozambicano si appellano al sesto emendamento della Costituzione americana. Recita: “In tutti i processi criminali l’accusato avrà diritto a un processo rapido e imparziale da un giurì dello Stato”. Puntano sui quattro anni e mezzo già scontati in prigione. Troppo lunghi, e chiedono l’annullamento dell’accusa negli USA.

Secondo la difesa, Chang “…è stato imprigionato in un labirinto kafkiano di interminabili procedimenti amministrativi e giudiziari che durano fino ad oggi”.

La sfida si riapre ma gli osservatori affermano che il Sudafrica, dopo le manovre militari navali con Cina e Russia che non sono piaciute all’Occidente, deve compiacere agli Stati Uniti. Forse, per il presidente sudafricano, Cyril Ramaphosa, è arrivato il momento di consegnare Manuel Chang ai giudici americani.

Sandro Pintus
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Società civile mozambicana blocca estradizione dell’ex ministro corrotto Manuel Chang dal Sudafrica a Maputo

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I 100 anni Henry Kissinger e le sue “imprese” in Afghanistan, Iraq, Libia, Siria e in tutta l’Africa

Con questo articolo Angus Shaw, uno dei più competenti
ed esperti giornalisti dell’Africa meridionale,
comincia a scrivere
anche per Africa Express. Angus per parecchi anni
è stato corrispondente dell’Associated Press
da Harare.
Pubblica i suoi articoli sul blog https://www.angus-shaw.com/

Angus Shaw*
Harare, 28 giugno 2023

Povero vecchio Henry Kissinger. Ha appena compiuto 100 anni e si lamenta che non è troppo tardi per punirlo, magari con l’Aja e la galera, per le sue malefatte politiche e belliche, insieme a Tony Blair, George W. Bush e i loro simili per l’Afghanistan, l’Iraq, la Libia e la Siria e il resto di tutte le cose brutte degli ultimi tempi.

Ultimamente, il diplomatico e negoziatore più importante della fine del secolo scorso si è espresso sullo stato del mondo, sull’Ucraina e sulle manovre bellicose della Cina per riprendersi Taiwan.

Una delle più recenti fotografie di Henry Kissinger

L’uomo ci piaceva molto quando è sceso qui per mediare la pace dopo la disordinata partenza degli americani dal Vietnam. Affascinante e simpatico, ma con il cuore duro nel proteggere gli interessi statunitensi che avevano causato tante stragi in tutto il pianeta, pensavamo.

Ian Smith dice a Kissinger: “Ok, sono pronto e disposto a portare a termine questa operazione”. Si trattava di trasferire il potere dalla minoranza bianca alla maggioranza nera

Il suo problema era l’Africa, punto e basta. Non lo capiva affatto. Eravamo un nido di coccodrilli diverso da quello cui era abituato. Mettere le carte sul tavolo, mescolarle e attendere i risultati.

Per dirla con le loro stesse parole, in questo documento redatto, “si mettono nel piatto tante fiches” per ottenere un risultato. Troppo intelligente, abbiamo pensato.

Nella vignetta Henry Kissinger fa l’equilibrista su uno stagno pieno di coccodrilli. Da un lato (a sinistra) compare il primo ministro del Sudafrica, John Vorster, e dall’altro un giovane Ian Smith.

Nada, nada. Non ha funzionato. Ian Smith, ex primo ministro dell’allora Rhodesia e John Vorster, ex presidente sudafricano, erano troppo recalcitranti, così come la controparte. Dopo essersi scottato così tanto in Vietnam, Kissinger aveva lasciato il suo libretto degli assegni al sicuro in un armadio di scheletri da qualche parte a Washington.

Era il 1976 e portò le foto satellitari del terreno su cui stavamo combattendo. Ogni burrone, ogni gola, ogni insediamento, ogni montagna, ogni foresta, ogni cespuglio per l’occultamento di un combattente che ora stava fiorendo dopo le piogge stagionali. Si potevano persino vedere dallo spazio le medaglie sul petto di un generale. Che meraviglia, esclamarono gli americani.

A noi fotografi e scribacchini, membri del cosiddetto Quarto Potere, che seguivamo ogni mossa africana di Henry, sembrava una bolla di sapone.

I suoi uomini dei servizi segreti si portavano acqua e cibo da casa con gli aerei da carico C 130, perché non volevano farsi venire la cacca dal pascolo africano.

Due limousine Lincoln Continental immatricolate a Washington furono trasportate dai suddetti C 130 tra l’ultima e la successiva destinazione del Segretario di Stato.

Pretoria, Lusaka e, sulla via del ritorno a mani vuote, Kinshasa per vedere Mobutu Sese Seko, ex dittatore, e recuperare qualcosa dal viaggio. Mobutu era un tirapiedi della CIA che aveva più soldi in banche straniere dell’intero debito nazionale del suo Paese.

Il poster che pubblicizzava il mach di boxe tra George Foreman e Muhammad Ali (Cassius Clay) organizzato a Kinshasa nel 1974. Ali fu costretto a ritirarsi dal pugilato dopo essersi rifiutato di combattere nella guerra del Vietnam

In Congo, noto come Zaire, l’entourage di Henry ci raccontò la storia forse apocrifa di The Rumble in the Jungle, l’incontro dei pesi massimi tra Muhammad Ali e George Foreman, andato in scena a Kinshasa due anni prima. Si dice che Ali abbia guardato dalla sua lussuosa suite d’albergo le fogne a cielo aperto e le baracche di Kinshasa e abbia scrollato le spalle: “Sono contento che mio nonno abbia preso quella maledetta barca di schiavi”.

Visitando gli “Stati in prima linea” schierati contro i loro vicini governati dai bianchi, Kissinger incontrò i presidenti e i leader della guerriglia che ospitavano.

Il presidente del Botswana Sir Seretse Khama era stato operato in Sudafrica con un pacemaker. Probabilmente il pacemaker era stato messo sotto controllo e gli uomini di Vorster avrebbero potuto ascoltare “l’intera riunione”, commentarono gli americani.

L’apartheid durò altri 20 anni. La mediazione in Medio Oriente ha avuto i suoi alti e bassi che durano ancora oggi.

La politica estera americana promossa da Kissinger ha portato a molti spargimenti di sangue e lacrime, oltre che in Vietnam e in Cambogia: dall’invasione di Timor Est da parte dell’Indonesia, sostenuta dagli Stati Uniti, alle guerre civili alimentate dagli Stati Uniti in El Salvador, Guatemala e Honduras.

Lo sboccato Richard Nixon, il suo capo, ha notoriamente respinto l’idea di essere gentile con le persone in America Latina per conquistare i loro cuori e le loro menti. “Prendeteli per le palle e i loro cuori e le loro menti li seguiranno”, disse Nixon.

Dopo che il Watergate costrinse Nixon a dimettersi, Kissinger dovette dare una lezione al novello presidente di turno Gerald Ford e gli ricordò l’importanza dell’influenza globale dell’America, citando FDR sul dittatore nicaraguense Spinoza che gli piaceva ma non gli piaceva. “Sarà anche un figlio di puttana, ma almeno è il nostro figlio di puttana”.

Il mio album fotografico di Kissinger:

Kissinger nell’ufficio del presidente Nixon
Kissinger sul ponte sulle cascate Vittoria

 

Kissinger con Kenneth Kaunda, allora presidente dello Zambia
Kissinger con Julius Nyerere, allora presidente della Tanzania
Henry Kissinger e Joshua Nkomo, il grande rivale di Mugabe nel movimento nazionalista, che alla fine è stato fregato da Mugabe
Ian Smith che arriva a casa del primo ministro sudafricano John Vorster per incontrare Henry Kissinger
Henry Kisinger in suadente ammirazione di Dolly Parton

A quell’epoca, ricordate, girava una canzone country e western di Maclean che faceva più o meno così…

Vorrei vedere il coyote che mangia un road runner, vorrei vedere Evil Kneival fatto a pezzi, ma soprattutto vorrei vedere le tette di Dolly Parton. Morbide e rotonde, non fanno rumore. Con le mani in tasca, penso solo ai razzi di Dolly.

Angus Shaw*
angusshaw@icloud.com

*Angus Shaw nato 1949 da coloni scozzesi nella Rhodesia, ad Harare, quando si chiamava Salisbury, ha ottenuto risultati accademici modesti e, rimasto orfano in tenera età, è andato a scuola in Inghilterra ma non ha proseguito gli studi avendo bisogno di lavoro e di reddito.
Viaggiando in autostop in Europa come studente dell’Africa meridionale, ha sentito per la prima volta l’odore dei gas lacrimogeni durante la rivolta studentesca del 1968 a Parigi, la prima di molte altre esperienze come reporter in Africa nei 50 anni successivi.
E’ entrato a far parte del Rhodesia Herald nel 1972. Nel 1975 è stato arruolato nelle forze di sicurezza rhodesiane, ma ha disertato per fare un reportage sugli esuli nazionalisti a Lusaka e Dar es Salaam.
In questo periodo ha coperto una dozzina di Paesi africani, principalmente per l’agenzia di stampa statunitense Associated Press dal 1987 fino alla pensione. Nel febbraio 2005 è stato incarcerato per aver fatto un reportage su Robert Mugabe durante il declino dello Zimbabwe. È autore di tre libri: The Rise and Fall of Idi Amin, 1979, Kandaya, 1993, una cronaca del servizio di leva nella guerra per l’indipendenza dello Zimbabwe e Mutoko Madness, 2013, un memoire africano.
È stato insignito del prestigioso premio Gramlin per la stampa statunitense. Angus Shaw vive ad Harare.

Sierra Leone: secondo mandato per il presidente uscente ma l’opposizione grida ai brogli

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
29 giugno 2023

La commissione elettorale ha dichiarato lunedì scorso Julius Maada Bio vincitore già al primo turno con il 54,17 per cento delle preferenze, delle presidenziali, che si sono svolte sabato in Sierra Leone. E, senza perdere tempo, Bio, leader del raggruppamento politico, Sierra Leone People’s Party (SLPP), ha prestato giuramento martedì per il suo secondo e ultimo mandato presidenziale.

Sierra Leone: Julius Maada Bio, rieletto presidente

I candidati alle presidenziali devono raggiungere il 55 per cento dei voti al primo turno per evitare il ballottaggio.

Il candidato del maggiore partito all’opposizione, All People’s Congress (APC), Samura Kamara – già sconfitto alle presidenziali del 2018 – è arrivato secondo con il 41,16 delle preferenze. Kamara, ex ministro e economista, ha fortemente contestato il risultato elettorale. Anzi, ha detto di rifiutare “categoricamente” i risultati della commissione elettorale, e di considerarli “non credibili”. “Mi ergerò al di sopra di questa farsa e mi impegno a continuare a lottare per una Sierra Leone migliore”, ha aggiunto infine.

Sì, il 59enne presidente uscente, un ex militare, è stato subito investito del prestigioso incarico, malgrado gli osservatori europei in Sierra Leone avessero dichiarato di aver rilevato “incongruenze statistiche” nei risultati della tornata elettorale, pubblicati dalla commissione.

La missione degli osservatori dell’Unione Europea ha invitato mercoledì la Commissione a pubblicare quanto prima i dati per ogni seggio elettorale, per consentire l’esame pubblico dei risultati.

I risultati hanno anche mostrato un numero sorprendentemente basso di schede non valide in tutto il Paese e un’affluenza molto alta, superiore al 95 per cento in almeno tre distretti, la media in tutto il Paese si è attestata dell’83 per cento.

Mohamed Kenewui Konneh, capo della commissione elettorale sierraleonese, ha fatto sapere che tutti risultati saranno caricati sul sito web appena possibile. “Ma ci vorrà del tempo”, ha aggiunto.

In una dichiarazione congiunta di mercoledì, Stati Uniti, Gran Bretagna, Irlanda, Germania, Francia e Unione Europea hanno sottolineato  di essere preoccupati per la mancanza di trasparenza nel processo di tabulazione, inoltre hanno fatto notare che problemi logistici hanno ostacolato il voto in alcune aree. Infine hanno aggiunto: “Esortiamo tutti a dare prova di moderazione, a rispettare lo Stato di diritto e a impegnarsi in un dialogo pacifico per risolvere le controversie”.

Il processo elettorale in Sierra Leone, martoriato da una terribile guerra civile dal 1991 al 2002, è stato piuttosto turbolento e gli osservatori temevano violenze. Ma i risultati sono arrivati alla vigilia della festa musulmana di Eid Al-Adha, una delle più importanti di tutta l’Africa occidentale, che tradizionalmente rallenta le attività.

Sierra Leone: elezioni 2023

Gli aventi diritto al voto sono stati circa 3,4 milioni, chiamati alle urne per scegliere tra 13 candidati in lizza per la poltrona più ambita. Sabato si è votato anche per eleggere il parlamento e i consigli locali. I relativi risultati non sono ancora stati pubblicati.

Nonostante alcuni incidenti, la giornata elettorale è stata piuttosto calma. Domenica sera, però, una donna è stata uccisa nel quartier generale dell’opposizione mentre le forze di sicurezza cercavano di disperdere la folla.

Malgrado le sue ricchezze del sottosuolo, la Sierra Leone è ancora oggi uno tra i Paesi più poveri al mondo e la piaga della corruzione, presente su tutti livelli, impedisce investimenti e sviluppo, inoltre, la già debole economia soffre ancora oggi della terribile guerra civile (1991-2002), costata la vita a oltre 120 mila persone.

Bio aveva partecipato come giovane ufficiale ad un colpo di Stato il 29 aprile 1992 per rovesciare Saidu Momoh. Dopo il golpe, gli ufficiali avevano dato in mano il potere a un giovanissimo capitano, Valentine Strasser, di soli ventisei anni.

Nel gennaio 1996 Maada Bio, allora vicepresidente, aveva cacciato il suo compagno d’armi con un colpo di Stato “democratico”. Era restato al potere per pochi mesi, perché dopo le elezioni presidenziali di marzo, aveva consegnato lo scettro a Ahmad Tejan Kabbah, un anziano funzionario delle Nazioni Unite.

Ironia della sorte, quando Bio era a capo della giunta militare per due mesi, aveva nominato Samura Kamara, il suo avversario di oggi, a capo del ministero delle Finanze.

Negli anni a seguire Bio era emigrato negli Stati Uniti e si era laureato in relazioni internazionali. Nel 2005 tornato nel suo Paese e si era buttato nella politica. Si era iscritto al Sierra Leone People’s Party e diventato il loro candidato alle elezioni presidenziali del 2012. Come oppositore di Ernest Baï Koroma, il presidente uscente, si era aggiudicato solamente il trentasette per cento delle preferenze.

Mentre nel 2018 Bio aveva vinto le presidenziali al secondo turno contro Kamara, il suo avversario di sempre.

Cornelia I. Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
@cotoelgyes
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Prigozhin vs Putin: le guerre si vincono combattendo, non in TV o sui giornali

Speciale Per Africa ExPress
Francesco Cosimato
Milano, 28 giugno 2023

Ora che è passato qualche giorno, possiamo analizzare freddamente gli avvenimenti secondo cui in Russia, lo scorso sabato, ci sarebbe stato un tentativo di colpo di stato che avrebbe visto protagonista il Capo di Wagner, Eugeny Prigozhin. Tale tentativo sarebbe stato risolto dalla mediazione del presidente bielorusso Lukashenko.

Il presidente russo, Valdimir Putin, a sinistra e il capo del gruppo paramilitare Wagner, Eugeny Prigozhin

Tali affermazioni, ampiamente riportate dai media occidentali, si prestano ad una serie di considerazioni che non sono banali.

I mercenari vengono utilizzati da molti Stati, anche occidentali, ma, in Russia, ricoprono un ruolo ormai divenuto evidente, per cui sono degli organismi governativi a tutti gli effetti.

Per tale ragione mi pare del tutto improbabile che possano ribellarsi a chi li paga o rilasciare dichiarazioni farneticanti se non rientrano in un gioco delle parti che serve a coprire attività d’altro genere, soprattutto nel campo dell’attività informativa difensiva. Dubito fortemente che vi sia stata una sorta di “ribellione” contro il presidente Putin.

La presunta ribellione non ha avuto effetto sui combattimenti in atto perché questa compagnia di ventura privata non era in una fase di combattimento, ma in una fase di riorganizzazione. Come abbiano fatto tanti autorevoli commentatori a ritenere che l’iniziativa ucraina ne usciva rafforzata, non posso saperlo con precisione, ma mi pare che sia frutto di un vizio ideologico e di una tentazione propagandistica.

Durante tutto il bailamme mediatico, ore ed ore di notizie e dibattiti, nessuno si è accorto del fatto che si è dato l’avvio allo spostamento in Bielorussia di un complesso di forze valutato in 25000 effettivi, lo abbiamo scoperto a fine giornata, senza peraltro capire gli eventuali effetti sulle operazioni militari future.

Si noti che Kiev non è molto distante dal confine bielorusso e questo rischieramento si presta ad una eventuale contromanovra da nord.

Le guerre si possono combattere sui media, ma non si possono vincere in TV o su internet, la rete è piena di informazioni false o fuorvianti, tutte tese esclusivamente ad influenzare la pubblica opinione, ma il tempo, inesorabilmente, distrugge le certezze che ogni giorno vengono subdolamente inoculate nella nostra mente.

I media mainstream non fanno informazione.

Una parte assai sgradevole delle analisi che si svolgono sulla figura di Putin è quella che ne vorrebbe stabilire il grado di saldezza al potere, forse non è chiaro a molti tra i leoni da poltrona nei salotti televisivi che, se anche cambiasse il vertice, non cambierebbe il sistema di potere.

Vogliamo avere Medvedev al posto di Putin? Preferiremmo il capo dei servizi di Putin? Cambierebbe qualcosa in meglio? La cosa non pare foriera di buoni risultati.

In conclusione di questa disamina, debbo pronunciare una frase ovvia: le guerre si vincono combattendo, non esistono altri metodi. Siccome le nazioni che stanno aiutando l’Ucraina non sembrano in grado di partecipare al conflitto, sia per mancanza di personale, sia per mancanza di munizioni, sia per volontà politica, è evidente che la guerra sta inutilmente logorando l’Europa, sia nella componente russa, sia in quella ucraina, sia in quella dell’Europa occidentale, dobbiamo infatti ricordare che l’Europa va dall’Atlantico ai monti Urali.

L’Occidente che vuole vincere per procura, perché non vuole rinunciare alla sua vita agiata, tra telefonini e serie TV, è destinato a consumarsi come una candela , oltre all’ignominia di aver sponsorizzato una guerra per procura.

Francesco Cosimato*

*Generale in congedo con una quasi quarantennale esperienza militare, quattro missioni all’estero e molte attività internazionali. Già Public Affairs Officer in seno alla NATO. Presiede un Centro Studi strategici (www.centrostudisinergie.eu)