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Cosa è successo davvero con Wagner in Africa?

Angus Shaw*
Harare, 28 giugno 2023

Gli attenti osservatori di cose russe sono confusi. Cosa è successo davvero con Wagner?

Vladimir Vladimirovich Putin, figlio di un Vladimir, ha dovuto ammettere di aver pagato Yevgeny Victorovich Prigozhin, figlio di un Victor, per aver sempre fatto trucchi sporchi per lo Stato russo.

Il terribile Alexander Grigoryvich Lukashenko, figlio di un certo Grigory, sostiene di aver dato rifugio al leader mercenario in Bielorussia per evitare che Putin lo uccidesse. Il capo dei Wagner afferma di non aver mai avuto l’intenzione di rovesciare Putin e ucciderlo. L’alleanza occidentale sostiene che il tentativo di colpo di Stato, l’ammutinamento o qualsiasi altra cosa sia stata, ha reso Putin ancora più pericoloso. O forse no?

Tutto chiaro come il fango. Lo Zimbabwe è rimasto insolitamente silenzioso riguardo alle ultime baggianate messe in giro. Lukashenko è stato in visita di Stato qui all’inizio dell’anno, promettendoci trattori e attrezzature agricole, e se n’è andato con un leone africano imbalsamato da un tassidermista come regalo simbolico della nostra amicizia leonina che risale ai tempi dell’Unione Sovietica.

Zimbabwe: Il presidente della Bielorussia, Aleksandr Lukashenko ricevo in dono un leone imbalsamato

Non c’è stata la nostra consueta propaganda locale che ha parlato dei nostri amici di lingua russa che combattono contro il neo-imperialismo capitalista del complesso militare-industriale dell’Occidente, che spenderebbe i suoi guadagni illeciti in Ucraina e farebbe ancora più soldi sfornando nuove armi per gli ucraini.

Tutti i Paesi dell’alleanza NATO stanno spendendo molto tempo e denaro per l’Ucraina. In un’intervista televisiva, a David Owen, ex segretario agli Esteri britannico durante la lotta di liberazione dello Zimbabwe e ora considerato un anziano statista, è stato chiesto perché l’Occidente non abbia risparmiato tutti questi soldi e sforzi facendo semplicemente assassinare Putin.

“Non facciamo più questo genere di cose”, ha detto Owen. Sono finiti i tempi in cui ci si sbarazzava di persone come il cileno Salvador Allende. E in effetti, l’ultima figura nella loro sfera d’influenza che i britannici hanno pensato di “far fuori” è stato Idi Amin in Uganda.

Invece hanno scelto di sostenere materialmente l’invasione di rappresaglia dell’esercito tanzaniano in Uganda, che ha rovesciato Amin dopo che questi aveva invaso il nord della Tanzania. .

Quando i britannici hanno ripetutamente fallito nel negoziare pacificamente una soluzione al conflitto dello Zimbabwe, è stato lasciato a russi e cinesi il compito di addestrare e sostenere i nostri combattenti per la liberazione, in modo da sostenere i propri interessi “geopolitici” durante la Guerra Fredda.

Erano il cosiddetto mondo progressista che cercava l’uguaglianza e la giustizia per tutti gli oppressi. Ma sappiamo che i russi e i cinesi non amano molto i neri e non li hanno mai amati. Anche il loro curriculum in materia di diritti umani non regge a un attento esame.

Le testimonianze del loro disprezzo per gli africani sono numerose. Il campus universitario dove gli studenti neri studiavano a Mosca era conosciuto localmente come “Parco dello zoo”.

Un ex guerrigliero racconta come sono stati trattati lui e i suoi compagni quando sono arrivati a Mosca per l’addestramento militare nel cuore dell’inverno russo. Viaggiarono a bordo dell’Aeroflot. Si erano imbarcati dall’afoso Zambia vestiti con magliette e jeans di cotone logori.

Gli ufficiali russi che li hanno accolti, indossavano quei loro caratteristici colbacchi che avvolgono le orecchie ed enormi cappotti di pelliccia. Hanno fatto marciare le reclute attraverso ghiaccio e neve fino alle caviglie. Li hanno così condotti agli autobus in attesa.

I ragazzi tremavano come se avessero delle crisi epilettiche e i loro denti battevano e sferragliavano a temperature sotto lo zero, senza che venisse lanciata loro nemmeno una coperta. “Pensavo che l’inferno fosse caldo”, ha raccontato più tardi uno degli ragazzi africani compagno d’addestramento del nostro combattente Eldon.

La Cina non era molto meglio. Gli africani erano segregati dai cinesi comuni e i loro istruttori “ci trattavano come cani”, aveva raccontato uno di loro in una lettera a casa.

Quando Robert Mugabe fece il suo primo viaggio in Cina dopo che lo Zimbabwe aveva finalmente conquistato l’indipendenza, un collega andò con lui nel gruppo di giornalisti neri. All’arrivo, a ciascuno dei giornalisti fu assegnato un badante-traduttore cinese. Quello assegnato a Elton ha chiesto: “Posso toccare i tuoi capelli? Voglio vedere se sono fatti di filo” Al nastro dei bagagli il badante si era informato: “Dove sono i tuoi tamburi?” Cosa vuoi dire?, aveva risposto Elton. “Non è così che comunicate tra di voi in Africa?”

Minatore in una miniera di rame, gestita da cinesi in Africa

Le cose sono cambiate nel villaggio globale di oggi, ma il risentimento rimane. Russi e cinesi ci stanno fregando in ogni aspetto dei loro investimenti nell’industria mineraria, nell’agricoltura, nell’edilizia, e così via. È risaputo che i datori di lavoro cinesi trattano i lavoratori neri come i colonialisti di un tempo.

Un recente articolo apparso sulla stampa locale racconta che un uomo d’affari cinese ha distrutto tutte le tazze di tè del suo ufficio in preda alla rabbia dopo che un lavoratore aveva bevuto da una di queste. Altri si sono visti rubare i cani da compagnia e se li sono trovati belli e cucinati sulle tavole dei cinesi. Anche le rane toro gracidanti catturate in un lussureggiante campo da golf erano considerate una prelibatezza nel loro menu.

Mnangagwa e Lukashenko ad Harare

Altri hanno guidato bande di bracconieri tra i poveri del luogo, che sono stati pagati pochi spiccioli il cambio delle loro preziosissime prede: elefanti per l’avorio, rinoceronti per il corno e pangolini, i nostri squamosi formichieri, per le loro presunte proprietà medicinali e afrodisiache nella medicina tradizionale orientale.

Un piccolo oligarca russo ha comprato una splendida casa dove trascorre più tempo dopo l’invasione dell’Ucraina da parte di Putin. Una soluzione nel caso in cui, poiché è giovane, venisse chiamato a prestare servizio in Ucraina e non riuscisse a pagarsi la fuga. Questo signore non si mescola molto con i locali, ma trova gli zimbabwesi malleabili e non disdegna di accettare tangenti per favorire i suoi piani di acquisto, talvolta illegale, a basso costo di proprietà. Vuole costruire un casinò e piazzare un piccolo superyacht sul maestoso lago Kariba.

Dice di non sapere molto dei Wagner, ma ha sentito che sono stati in ricognizione nel nord del Mozambico, dove i jihadisti devono essere eliminati. Il violento esercito mercenario, composto da molti ex detenuti, assassini e stupratori graziati da Putin, ha finora compiuto la maggior parte dei saccheggi e delle uccisioni africane in Mali, nella Repubblica Centrafricana e in altre zone molto più a nord di noi.

Il mio oligarca junior spera che Putin non li bandisca di nuovo in Africa, magari per sconvolgere lo status quo corrotto dello Zimbabwe e gli agi di cui gode.

Il presidente dello Zimbabwe “ED” Mnangagwa e la nostra solidarietà a Lukashenko. Qui non c’è traccia del leone impagliato.

Angus Shaw*

L’articolo originale in inglese lo trovate qui
https://www.angus-shaw.com/what-really-went-on-with-wagner/

*Angus Shaw nato 1949 da coloni scozzesi nella Rhodesia, ad Harare, quando si chiamava Salisbury, ha ottenuto risultati accademici modesti e, rimasto orfano in tenera età, è andato a scuola in Inghilterra ma non ha proseguito gli studi avendo bisogno di lavoro e di reddito.
Viaggiando in autostop in Europa come studente dell’Africa meridionale, ha sentito per la prima volta l’odore dei gas lacrimogeni durante la rivolta studentesca del 1968 a Parigi, la prima di molte altre esperienze come reporter in Africa nei 50 anni successivi.
E’ entrato a far parte del Rhodesia Herald nel 1972. Nel 1975 è stato arruolato nelle forze di sicurezza rhodesiane, ma ha disertato per fare un reportage sugli esuli nazionalisti a Lusaka e Dar es Salaam.
In questo periodo ha coperto una dozzina di Paesi africani, principalmente per l’agenzia di stampa statunitense Associated Press dal 1987 fino alla pensione. Nel febbraio 2005 è stato incarcerato per aver fatto un reportage su Robert Mugabe durante il declino dello Zimbabwe. È autore di tre libri: The Rise and Fall of Idi Amin, 1979, Kandaya, 1993, una cronaca del servizio di leva nella guerra per l’indipendenza dello Zimbabwe e Mutoko Madness, 2013, un memoire africano.
È stato insignito del prestigioso premio Gramlin per la stampa statunitense. Angus Shaw vive ad Harare.

I 100 anni Henry Kissinger e le sue “imprese” in Afghanistan, Iraq, Libia, Siria e in tutta l’Africa

Riprendono a Gedda i colloqui tra le fazioni sudanesi e la Corte Penale Internazionale indaga per crimini in Darfur

Cornelia I. Toelgyes
19 luglio 2023

I rappresentanti del governo sudanese sono arrivati sabato a Gedda, in Arabia Saudita, per riprendere i colloqui con i paramilitari Rapid Support Forces (RSF). I precedenti dialoghi, fortemente voluti da Washington e Riyad, erano stati interrotti all’inizio di giugno. A tutt’oggi, però non sono stati rilasciati dichiarazioni o dettagli sulle annunciate riunioni tra le parti.

Sudan, nuovi scontri a Omdurman e Bahri

Da giovedì scorso anche l’Egitto sta tentando una mediazione tra le due parti, in conflitto dallo scorso 15 aprile. Sia il governo militare di transizione di Khartoum, sia i loro nemici dell’RSF hanno accolto positivamente l’iniziativa del Cairo, visto che entrambi i generali – Abdel Fattah Abdelrahman al-Burhan, capo delle forze armate e presidente del Sudan, e Mohamed Hamdan Dagalo, meglio noto come Hemetti, leader delle RSF – hanno buone relazioni con il leader egiziano Abdel Fattah al-Sisi.

La guerra civile in Sudan, iniziata il 15 aprile scorso, continua a mietere vittime senza sosta. Nuovi scontri sono stati segnalati durante questo fine settimana a Omdurman, città gemella di Khartoum, sull’altra sponda del Nilo e a Bahri, a poca distanza dalla capitale.

Le autorità di Khartoum hanno accusato le RSF di aver colpito con droni un ospedale a Omdurman, il Medical Corps Hospital. L’attacco avrebbe ucciso almeno cinque persone.

Pochi giorni fa è stata stata scoperta anche una fossa comune con almeno 87 salme nel Darfur occidentale. In base a quanto riferito dall’ONU, nella tomba ci sarebbero anche i corpi di diversi Masalit (popolazione locale non araba la cui lingua utilizza caratteri latini, ndr), fatto che indica chiaramente che nell’area si sono svolti combattimenti a sfondo etnico.

L’ufficio delle Nazioni Unite per i diritti umani ha dichiarato proprio giovedì di avere informazioni credibili sulla responsabilità delle RSF e in un comunicato l’agenzia ha specificato che tra il 20 e il 21 giugno la gente è stata costretta a seppellire i corpi vicino alla città di Geneina. Anche diverse organizzazioni non governative hanno denunciato attacchi da parte dell’RSF e delle milizie arabe contro i Masalit, della regione.

E così i paramilitari golpisti della Rapid Support Forces sono tornati alla loro vecchia principale occupazione: la pulizia etnica. In Darfur, dove sono nati, sono cresciuti e si sono sviluppati e si chiamavano janjaweed prima di essere integrati nella RSF per ripulirne l’immagine, in questi mesi di guerra hanno ripreso ad attaccare i villaggi delle etnie africane.

Ovviamente le RSF hanno negato qualsiasi coinvolgimento, definendo gli scontri in Darfur come un conflitto tribale. Ma molti temono che si possa verificare quanto accaduto tra il 2003-2005. Allora, durante il sanguinario conflitto nella regione sono state uccise oltre 300.000 persone e altre 2.5 milioni hanno dovuto fuggire abbandonando le loro case.

Indicibili le violenze subite dalla popolazione. I janjaweed, “diavoli a cavallo” (come li chiamava la popolazione) bruciavano i villaggi, stupravano le donne, uccidevano gli uomini e rapivano i bambini per renderli schiavi.

CPI ha aperto fascicolo sulle violenze in Darfur

La Corte Penale Internazionale ha avviato indagini dopo segnalazioni di esecuzioni sommarie, incendi di case e mercati e saccheggi a Geneina, nonché uccisioni e trasferimenti forzati di civili nel Darfur settentrionale e in altre località della regione. Inoltre, la CPI sta esaminando le accuse di crimini sessuali e di genere, stupri di massa e presunte segnalazioni di violenze contro minori.

Nei tre mesi di guerra in Sudan sono morte almeno 3.000 persone, ma probabilmente sono molte di più. Inoltre, secondo gli esperti, oltre tre milioni hanno lasciato le proprie casa. Molti sudanesi cercano protezione nei Paesi limitrofi, come il vicino Ciad, dove a Adré, città al confine con il Sudan, ogni giorno arrivano fino a 2.000 rifugiati dal vicino Darfur.

I fuggiaschi, una volta al sicuro, hanno raccontato storie agghiaccianti. “Vogliono sterminarci, hanno massacrato senza pietà donne, bambini, vecchi e persino il nostro bestiame. Nessuno è stato risparmiato”, ha detto una donna ai reporter di RFI. “Ci hanno inseguito fino al confine e la strada è disseminata di cadaveri”, ha poi aggiunto la signora, che ora vive con altri 120.000 persone in un liceo di Adré, trasformato in un campo per profughi improvvisato. La rifugiata sudanese ha poi sostenuto: “E’ tutto opera degli uomini di Hemetti e delle milizie arabe, i loro alleati”.

Cornelia I. Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
@cotoelgyes
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Non solo russi: anche mercenari rumeni, bulgari e georgiani all’assalto delle ricchezze del Congo-K

ATTENZIONE I VIDEO DI QUESTO ARTICOLO CONTENGONO IMMAGINI CHE POTREBBERO URTARE LA SENSIBILITÀ DI PERSONE IMPRESSIONABILI. SE PENSATE DI ESSERE EMOTIVI NON APRITE IL TERZO E IL QUARTO VIDEO 

Africa ExPress
16 luglio 2023

Alla fine dell’anno scorso è apparso su Twitter il cadavere di un uomo bianco, in tuta mimetica, ma senza i distintivi dei contractor di Mosca sull’uniforme. In seguito alla pubblicazione dell’immagine, TAZ (Tagesanzeiger, quotidiano tedesco edito a Berlino) ha pubblicato un lungo reportage sulla situazione nell’est del Congo-K, flagellata da oltre 30 anni da continui attacchi di oltre 100 gruppi armati.

I reporter di TAZ hanno approfondito la questione e hanno contattato persino i miliziani del M23, che avevano messo in rete la foto del militare morto.

Secondo i capi dell’M23, l’uomo sarebbe stato ucciso durante i combattimenti nel villaggio di Karenga, a nord di Goma, capoluogo del Nord-Kivu. I ribelli sostengono che durante gli scontri sono morti altri quattro mercenari bianchi ma non hanno potuto fornire alcuna prova a TAZ.

Rapporto ONU

Dal 2022 nel teatro di guerra del Congo-K orientale sono tornati attivi anche i miliziani M23 (Movimento 23 marzo), a predominanza tutsi. Gli esperti dell’ONU, che indagano sulla situazione nella regione, dopo oltre un anno di investigazioni e rapporti, il 19 giugno hanno presentato al Consiglio di sicurezza il risultato finale del loro lavoro. Nel documento rivelano di aver raccolto ulteriori prove del coinvolgimento dell’esercito ruandese nella guerra nel Nord Kivu. Kigali continua a respingere le accuse.

Da tempo si vocifera della presenza di mercenari russi del gruppo Wagner nell’est della Repubblica Democratica del Congo. Le voci sono arrivate anche alla nostra redazione, ma dopo accurate ricerche non abbiamo trovato alcuna traccia di loro.

E quindi l’uomo che giace per terra nella foto chi è? Un mercenario, ma da dove viene? Solo pochi mesi fa il presidente del Congo-K, Felix Tshisekedi, aveva dichiarato in una intervista al Financial Times che il suo Paese non aveva bisogno di soldati di ventura, anche se ora vanno di moda. E aveva aggiunto: “Non saprei nemmeno dove trovarli, il mio Paese utilizza le proprie forze armate per sconfiggere i ribelli”.

Sotto Natale

Intanto però, pochi giorni prima di Natale, il 22 dicembre 2022, sempre secondo le ricerche di TAZ, all’aeroporto di Goma è sbarcato un folto gruppo di uomini bianchi, forse un centinaio. Sono stati sistemati subito al Hôtel Mbiza, situato al centro del capoluogo e non lontano dall’aeroporto. L’albergo è pieno di bianchi in divisa mimetica. Lo ha riferito un giornalista del luogo a TAZ, precisando che le uniformi non hanno nessun distintivo di appartenenza o di nazionalità. I più parlano perfettamente il francese.

Un impiegato dell’immigrazione dell’aeroporto ha confermato ai reporter del quotidiano tedesco l’arrivo dell’aereo noleggiato dalla compagnia rumena Hello Jets, e di aver messo i timbri di ingresso sui passaporti rumeni.

L’albergo, che quindi è il quartier generale dei bianchi, è sorvegliato da vicino dai soldati della Guardia Repubblicana Congolese; unità speciali delle FARDC (forze armate congolesi) entrano ed escono dall’edificio.

Legione straniera

Tra i nuovi arrivati spicca anche un nome ben conosciuto negli ambienti paramilitari: Horatiu Potra. Una foto lo mostra il 2 gennaio con due militari congolesi a Goma. Potra è un mercenario rumeno che ha fatto parte della Legione straniera francese negli anni Novanta. E’ stato anche la guardia del corpo principale dell’emiro del Qatar alla fine degli anni ’90 e ha prestato servizio nella Repubblica Centrafricana sotto l’ex presidente Ange-Félix Patassé.

Horatiu Potra con due militari delle forze armate congolesi a Goma, nell’est del Paese

Il capo mercenario, il cui nome di battaglia è Tenente Henry, ha già avuto rapporti con l’ex leader ribelle Jean-Pierre Bemba nel 2002, prima di tornare nel 2016 nella Repubblica Centrafricana, per addestrare le guardie del corpo dell’attuale presidente Touadéra. Pare che Tenente Henry fosse anche nella lista paga di Wagner in passato, ma non è stato possibile trovare conferme in tal senso.

La sede in Transilvania

Potra è l’amministratore delegato della società mercenaria rumena Associata RALF, con sede a Sibiu in Transilvania. Nel suo sito web l’azienda dichiara di addestrare guardie del corpo per i VIP, di proteggere “aree sensibili” come le miniere in Africa e di addestrare forze speciali.

Fa esplicito riferimento al suo codice, che è tratto da quello della Legione straniera francese. La Associata RALF e il suo amministratore delegato Potra non hanno risposto alle questioni poste da TAZ.

Lo scorso anno il governo di Kinshasa ha rafforzato i legami con Mosca, che, al Consiglio di sicurezza dell’ONU (la Russia è uno dei cinque membri permanenti insieme a Cina, USA, Francia e Gran Bretagna), ha appoggiato l’allentamento sull’embargo delle armi al Congo-K.

Mosca ha promesso aiuti militari

La risoluzione 2667 del 20 dicembre 2022, esenta il governo congolese dal chiedere all’ONU l’autorizzazione per acquistare armi o ricevere   assistenza, consulenza e addestramento relativi ad attività militari nel Paese. E, guarda caso, solo due giorni dopo, il 22 dicembre 2022, sono arrivati i rumeni a Goma.

Mentre nell’agosto scorso, a margine della decima conferenza sulla Sicurezza Internazionale che si è tenuta a Mosca, il ministro della Difesa di Kinshasa, Gilbert Kabanda, si è intrattenuto con il suo omologo russo, Alexander Fomin. In tale occasione Fomin ha parlato della possibilità della fornitura di equipaggiamento militare moderno.

Ingegneri e tecnici

Ma da tempo nel Paese è presente un gruppo di bulgari: sembra siano una quarantina. Questa volta si tratta di tecnici, per lo più ingegneri e operai specializzati della società Agemira, con sede a Sofia, che ha aperto una filiale a Kinshasa. Agemira è incaricata della manutenzione di elicotteri e jet da combattimento in dotazione all’esercito del Congo.

Dislocati all’aeroporto di Goma, hanno il compito di effettuare interventi di riparazione e manutenzione sui velivoli (per lo più di fabbricazione sovietica) dell’aeronautica militare. Non sono soltanto bulgari, ma anche georgiani e bielorussi. Tutti conoscono bene gli aerei di fabbricati nell’Europa Orientale. Parecchi piloti dell’aeronautica militare congolese sono inoltre georgiani.

Hotel e palazzi

Un intreccio complesso di interessi. Africa ExPress ha accertato che gli uomini provenienti da Paesi dell’Europa dell’Est, sono ora apparentemente alloggiati con i rumeni negli alberghi Mbiza, Eau Bénite, Joie Folle che sono stati di fatto requisiti. Ma non solo hotel: anche alcuni palazzi costruiti di recente sono stati occupati dai paramilitari.

Sbarramenti e sacchi di sabbia

Sono protetti da sbarramenti e sacchi di sabbia e nessun estraneo può entrare. I mercenari bianchi viaggiano su mezzi con le targhe governative. Secondo voci raccolte a Goma sarebbero pagati 2000 dollari americani al giorno, ma probabilmente è la compagnia che raccoglie quel denaro. Insomma la compagnia che li impiega si comporta come se fosse una società di lavoro interinale.

Secondo quanto riportato dalla newsletter specializzata Africa Intelligence, e citata da TAZ, il cliente di Potra non sarebbe il Ministero della Difesa del Congo, bensì la società Congo Protection, di proprietà dell’uomo d’affari Bijou Eliya e del deputato Patrick Bologna, fondatore e presidente del piccolo partito ACO (Avenir du Congo).

Il ministro della Comunicazione e dei Media e portavoce del governo, Patrick Muyaya, ha messo a tacere sul nascere le insinuazioni di alcune fonti, che sostengono che i bianchi arrivati recentemente in Congo-K siano contractor del gruppo russo Wagner.

Istruttori stranieri

Il ministro sostiene che il Paese ha il sacrosanto diritto di organizzare la propria difesa. E aggiunge: “Abbiamo una flotta di aerei Sukhoi (di fabbricazione russa). Non abbiamo la manodopera congolese per la manutenzione. Così, quando abbiamo bisogno di personale per la formazione dei nostri soldati, ci rivolgiamo alla Legione Straniera dell’esercito francese, per esempio. Ma non vengono qui per fare la guerra.

Reagan Miviri, ricercatore del Groupe d’étude sur le Congo (GEC), sostiene che “Ci sono effettivamente istruttori stranieri, in particolare a Goma, che starebbero addestrando le forze congolesi. Soprattutto per quanto riguarda forze aeree, in particolare i piloti di aerei da guerra. Stiamo parlando della Romania e di molti altri Paesi dell’Europa orientale. Parte dell’equipaggiamento militare congolese proviene da Paesi dell’ex blocco sovietico”.

Africa ExPress è venuto in possesso di alcuni video pubblicati qua su e che parlano da soli.

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La corsa all’idrogeno verde: anche l’Australia vuole produrlo in Namibia

Speciale per Africa ExPress
Sandro Pintus
15 luglio 2023

Dopo il consorzio anglo-tedesco-sudafricano HYPHEN Hydrogen Energy (HHE) con un progetto da 8,3 miliardi di euro, anche l’Australia entra nella corsa all’idrogeno verde della Namibia.

Venerdì 7 luglio il presidente della Namibia, Hage Geingob, ha incontrato Mark Hutchinson, amministratore delegato dell’azienda australiana Fortescue Future Industries (FFI).

idrogeno verde mappa Namibia
Mappa dell’Africa meridionale con la Namibia (Courtesy GoogleMaps)

Proposta australiana per una joint venture

FFI player australiano dell’energia rinnovabile, è interessato a costituire una joint venture al 50 per cento con il governo della Namibia in progetti di idrogeno verde.

Il delegato Fortescue ha illustrato al capo dello Stato della Namibia i dettagli dell’eventuale joint venture: modalità, termini e  condizioni e l’acquisizione di terreni operativi.

Geingob sembra aver apprezzato le potenzialità della produzione dell’idrogeno verde anche in funzione della soluzione delle sfide socio-economiche del suo Paese. Prime fra tutte povertà e disoccupazione giovanile.

“Il presidente Geingob ha riconosciuto il potenziale dell’idrogeno verde – si legge in una nota della presidenza – . Il presidente ha sottolineato l’importanza di investire e creare opportunità di lavoro”.

Cosa è l’idrogeno verde

L’idrogeno è il più abbondante elemento della Terra e 14 volte più leggero dell’aria. L’idrogeno verde viene creato da energia rinnovabile (eolica, solare, idroelettrica e geotermica). Questo si produce per elettrolisi e diventa un combustibile a zero emissioni. Non è tossico né velenoso e immagazzinabile in grandi quantità e per lunghi periodi di tempo.

idrogeno verde
Ciclo di produzione dell’idrogeno verde

Secondo FFI l’idrogeno verde è il modo più veloce per decarbonizzare settori difficili da abbattere come il trasporto pesante, il trasporto marittimo e l’industria.

Fortescue Future Industries è il “braccio verde” di Fortescue Metals Group. Intende utilizzare l’idrogeno verde per decarbonizzare la flotta mineraria e marittima dell’azienda, inclusi camion, trivelle e treni.

L’azienda australiana ha come obiettivo la riduzione delle emissioni per raggiungere la decarbonizzazione entro il 2030. Vuole diventare un’azienda leader nella sfida del cambiamento climatico globale. E la Namibia pare il posto giusto.

Africa hub mondiale dell’idrogeno verde?

La Namibia con il suo deserto che tocca l’oceano è il sito privilegiato per la produzione di idrogeno verde da energia solare ed eolica. Ma anche altri Paesi del continente africano hanno le caratteristiche per poter produrre idrogeno verde.

Tra questi Sudafrica, Mauritania, Marocco ed Egitto. Insieme alla Namibia fanno parte dello studio della Banca europea per gli investimenti (EIB), International Solar Alliance (ISA) e Unione africana (AU) sul potenziale energetico dell’Africa.

Sandro Pintus
sandro.p@catpress.com

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Africa futuro hub mondiale per l’idrogeno verde: progetto da mille miliardi

La Namibia inizia la corsa verso la produzione di idrogeno verde

 

Kenya in rivolta: la gente chiede polenta e riceve pallottole

Dal Nostro Inviato Speciale
Costantino Muscau
Nairobi, 14 luglio 2023

Eunice Mutheu, 23 anni, doveva laurearsi quest’anno in “sartoria” (tailoring), all’università di Kisii, una città di 112 mila abitanti a 300 chilometri da Nairobi.

Una pallottola esplosa dalla polizia la ha trapassata da fianco a fianco e l’ha uccisa quasi sul colpo. Era andata a trovare nel negozio il cognato, che la manteneva agli studi.

Manifestazioni in Kenya contro il carovita

Cinquantatré bambini della scuola primaria Kihumbuni di Nairobi sono stati trasportati d’urgenza alla Eagle Nursing Home perché intossicati dai lacrimogeni lanciati dalle forze dell’ordine e finiti nelle loro aule.

Margaret N., 50 anni, domestica a ore in una famiglia nel centro della capitale kenyana, non è potuta tornare a casa nel suo villaggio per paura dei disordini e per lo sciopero dei matatu, i tipici pullmini urbani.

Eunice, gli scolari (tra i 10 e i 15 anni), Margaret sono – in modo molto differente – le vittime innocenti dei disordini che da venerdì 7 luglio a mercoledì 12 hanno sconvolto una parte ampia del Paese.

Una protesta contro il carovita così generalizzata non si era mai vista: almeno 20 delle 47 contee sono state contrassegnate da caos, distruzione e morte. Per la prima volta, mercoledì, è stata devastata l’Expressway, la gigantesca autostrada costruita recentemente dai cinesi che sovrasta una parte della capitale.

Kenyan Railways ha sospeso, giovedì mattina 13 luglio, la circolazione dei treni su una tratta messa in pericolo da atti vandalici di contestatori.

Almeno 7 le vittime ufficiali, ma secondo Kenya Human Rights Commission, i morti sarebbero almeno 12. L’Ipoa, l’authority indipendente che controlla l’operato della polizia, ha aperto un’indagine sulle azioni delle forze dell’ordine.

Anche se bisogna dire che non tutte le persone morte nella guerriglia urbana sembrerebbero incolpevoli. La ribellione ha portato in strada anche decine di disperati degli slums che costellano la capitale. In particolare, le tre vittime registrate a Mlolongo, città satellite della capitale dove si trova il casello autostradale.

Sassaiola, auto e pneumatici bruciati, casello semidistrutto, saccheggi nella zona circostante, hanno spinto la polizia a una reazione violenta per – dicono – non essere sopraffatta. Come è successo nell’altra cittadina satellite di Kitengela, dove un gruppo di giovani ha assaltato e dato alle fiamme la stazione dei gendarmi: due i morti.

All’origine dei moti di piazza, il malcontento alimentato dal leader dell’opposizione Raila Odinga, 78 anni, (perdente alle ultime elezioni presidenziali nel 2022).

Il vincitore, William Samoei Arap Ruto, 56 anni, viene contestato perché i provvedimenti presi dal suo governo il mese scorso, invece di alleviare la crisi economica, la avrebbe aggravata: aumento dell’Iva, delle tasse sulla benzina (un litro di diesel costa da giugno con l’aumento del 16 per cento, ben 186 scellini, 1,15 euro) e un prelievo dell’1,5 per cento sui dipendenti per finanziare nuove case.

La verità innegabile è che il costo della vita da un anno a questa parte è cresciuto e che il Paese è schiacciato da una montagna di debito estero.

“Noi stringiamo i nostri prezzi affinché voi non dobbiate stringere le vostre cinture”. Suona, così, l’accattivante slogan di una importante catena internazionale di supermarket a Nairobi. Ma la realtà quotidiana sembra molto diversa. “A colazione beviamo il thè senza latte e saltiamo il pranzo per risparmiare e poter pagare la scuola ai figli”, dice, infatti, Regina, una mamma di Nairobi.

“Un pacco di farina di mais costa il doppio rispetto al 2022. Diventa difficile ricavare la nostra polenta quotidiana. Dobbiamo morire di fame? “, si arrabbia Henry, un genitore di Kisii, sceso in strada con i rivoltosi. “Chiediamo polenta, ci danno pallottole”, per usare le parole del capo dell’opposizione.

Insomma, la pentola dei kenyani poveri (i ricchi, e sono tanti, non hanno certe preoccupazioni) è vuota di cibo e piena di rabbia. E alla fine è esplosa.

Kenya: inflazione galoppante

Anche perché toglie ogni speranza il ministro delle Finanze del governo kenyota, Njuguna Ndungu, 62 anni. “La cinghia dovremo stringerla per alcuni mesi, se vogliamo evitare la bancarotta nazionale”, ha dichiarato due giorni fa al Financial Times.

Il Kenya spende quasi 10 miliardi di dollari l’anno nel ripagare i debiti, soprattutto con la Cina e il prossimo anno dovrà rimborsare due miliardi di eurobond.

Lo scellino kenyano poi continua a perdere valore rispetto al dollaro e all’euro. Un anno fa per un euro  “bastavano” circa 120 scellini, ora ne occorrono almeno 155. L’inflazione corre, come in mezzo mondo, anche a causa del conflitto ucraino

Il quadro è disperante e venirne fuori non sarà facile. La situazione sembra, però, rasserenarsi un attimo per diversi fattori: il leader dell’opposizione ha rinviato un raduno nazionale che poteva diventare esplosivo; l’Alta Corte ha congelato gli aumenti varati dal governo. E sulla costa splende il sole dell’avvenire inteso come avvio della stagione turistica (anche se luglio e agosto non sono i mesi migliori): nessun segno di rivolta a Lamu, Malindi, Watamu, Diani. I vacanzieri sono benvenuti. Assieme ai fiori, al the, e al basilico (il Kenya – non ci credereste – è il principale fornitore dell’Europa!), essi costituiscono la risorsa più pregiata del Paese.

Costantino Muscau
muskost@gmail.com

Tunisia ritira dal confine con la Libia centinaia di migranti deportati da Sfax

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
12 luglio 2023

Il governo di Tunisi ha ritirato dalla frontiera con la Libia, dalla cosiddetta  terra di nessuno, una fascia desertica larga un centinaio di metri che segna il confine tra i due Paesi, i migranti sub sahariani che erano stato lì deportati. I giovani africani neri sono stati distribuiti in diverse città nel sud del Paese.

Tunisia: essere neri non è un crimine

Dopo violenti scontri scoppiati a Sfax, città costiera della Tunisia, tra residenti e giovani subsahariani, che affluiscono sempre più numerosi da tutto il continente per tentare di imbarcarsi verso Lampedusa, gli stranieri sono stati portati via con la forza la scorsa settimana.

Salsabil Chellali, di Human Rights Watch (HRW), direttrice dell’ufficio di Tunisi, responsabile per il nord-Africa e il Medioriente, ha detto ad AP, che tra 500 e 700 persone che si trovavano al confine con la Libia sono state evacuate.

Alcune ONG sono però molto preoccupate per la sorte di decine e decine di altre persone, che sono state trasferite da Sfax in una zona vicina alla frontiera con l’Algeria. La direttrice di HRW ritiene che i migranti sono 150-200. Si teme per la loro vita se i soccorsi dovessero tardare. Alcuni media hanno riportato il ritrovamento di due migranti morti nella zona desertica tra la Tunisia e l’Algeria.

Esauste e disidratate, le persone recuperate dalle autorità tunisine al confine con la Libia, nella zona cuscinetto militarizzata di Ras Jdir, sono state divise in diversi gruppi. Alcune sono state portate a Mednine, in una scuola secondaria sorvegliate dalle forze di sicurezza, mentre altre in un istituto scolastico a Ben Gardane e, come i loro compagni, sono sotto stretta sorveglianza.

I reporter di Al Jazeera, gli unici presenti nella zona tra la frontiera tunisina e libica, hanno potuto documentare le sofferenze dei deportati. Alcuni migranti hanno mostrato profonde ferite, che, secondo il  racconto dei giovani, sarebbero state inflitte dagli agenti di sicurezza della Tunisia. Mentre altri hanno detto di essere stati costretti a bere acqua salata.

Secondo il racconto di un uomo intervistato da HRW, una donna e il suo bambino sarebbero morti durante il parto. La ONG ha anche precisato che sei delle persone espulse sono richiedenti asilo, regolarmente registrati dall’UNHCR.

Il presidente tunisino, Kaïs Saïed, lo scorso febbraio ha definito le persone proveniente da Paesi sub sahariani come “orde di immigrati clandestini, fonte di violenza, crimini e atti inaccettabili”. Parole che hanno avuto un effetto disinibitorio anche su alcuni popolari influencer e artisti algerini. E, come riporta Le Monde, la cantante raï Cheba Warda ha dichiarato di appoggiare il piano di deportazione del presidente Abdelmadjid Tebboune, anche se questi non ha fatto alcun discorso sull’argomento.

Eppure, anche le autorità algerine continuano a espellere migliaia di migranti nel deserto. Oltre ai commenti razzisti ai quali sono soggetto in Algeria, i migranti vivono sotto la continua minaccia  di deportazione. Secondo l’ONG Alarm Phone Sahara, che viene in loro aiuto, le autorità di Algeri hanno rimandato in Niger più di 11.000 persone tra gennaio e aprile 2023. La stessa fonte ha poi precisato che dal 2018 si susseguono al ritmo di almeno un convoglio a settimana, espulsioni che verrebbero effettuate sulla base di un accordo siglato da Algeri e Niamey nel lontano 2014.

Persone di varie nazionalità si trovano attualmente a Assamaka, piccolo villaggio in Niger (dove la temperatura supera frequentemente i 45°), al confine con l’Algeria, chiedono di essere rimpatriate quanto prima.

Baraka Meraia, influencer algerina

Lo scorso giugno, Baraka Meraia, una influencer algerina con oltre 275.000 follower, ha denunciato il razzismo del quale lei stessa è stata vittima. Originaria di In Salah, che dista oltre mille chilometri a sud di Algeri, la giovane donna ha raccontato di essere stata scambiata in diverse occasioni per una migrante subsahariana e nessuno dei presenti è intervenuto in sua difesa. Un déjà vu, comune un po’ in tutti i Paesi dove la maggioranza della popolazione non è nera.

Cornelia I. Toelgyes
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Ritorna la calma a Sfax dopo violente manifestazioni contro i migranti con un morto tunisino

Sfax violente manifestazioni

 

 

 

 

 

 

12 luglio 1993: quattro giornalisti trucidati a Mogadiscio. Trent’anni dopo: “Mi salvai per miracolo”

Ripubblichiamo questa drammatica testimonianza
del massacro di 4 giornalisti in Somalia nel 1993

Speciale Per Africa ExPress
Massimo A. Alberizzi

Nairobi, 12 luglio 2013

Dan Eldon

Il 12 luglio 1993, esattamente 20 anni fa, in un agguato a Mogadiscio, in Somalia, vengono trucidati quattro giornalisti: due fotografi, Dan Eldon, Hos Maina, un tecnico del suono, Anthony Macharia, che lavoravano per la Reuters, e Hansi Krauss, fotografo dell’Associated Press. Quel giorno mi rimane scolpito nella testa e spesso lo rivivo nei sogni. Mi salvai per pura fortuna.

Mattino intorno alle 10. Gli americani bombardano una villa dove avrebbero dovuto esserci i leader somali, compreso quello che per la Casa Bianca era il nemico pubblico numero 1, il generale Mohammed Farah Aidid.

Uno stormo di elicotteri volteggia in cielo e i giornalisti affollano il terrazzo dell’Hotel Sahafi da cui si cerca di vedere e capire cosa sta succedendo. I nostri fixer somali ci informano dell’attacco in corso. Dura una mezz’ora. Quando gli elicotteri si ritirano ci precipitiamo giù dalle scale per correre sul luogo dell’assalto.

La mia Fiat Panda bianca, quella con grandi scritte Corriere della Sera sui fianchi diventata famosa a Mogadiscio in quel giorni, è pronta davanti al cancello. Al volante Ali, il mio fidato autista (quello che poi sarà al volante dell’auto di Ilaria Alpi al momento in cui sarà ammazzata). Con me sale anche il fotografo Cristiano Laruffa. Partiamo. Siamo i primi del convoglio di auto di giornalisti. Dietro di noi il pick up della Reuters. Assieme a Dan, Hos, Anthony e Hansi c’è anche il cameraman Mohammed Shaffi.
Fatti cento metri in direzione della villa bombardata che intendiamo raggiungere, incontro Nasser della famiglia Arush, che ci ammonisce: “Prendete uno dei miliziani di Aidid per proteggervi”. Sì, penso, meglio. Perdo i pochi secondi che mi salveranno. Scendo dalla Panda, apro la porta, ribalto in avanti il sedile, faccio entrare il miliziano con il kalashnikov, risistemo il sedile, risalgo in macchina, chiudo la porta e ripartiamo.

Anthony Macharia

Il miliziano destinato all’auto della Reuters invece salta in un balzo sul pick up, che parte immediatamente e ci supera. Diventiamo così i secondi del convoglio. Dopo pochi metri svoltiamo a destra in una stradina. Ci viene incontro una folla di somali inferociti che brandiscono bastoni e fucili. Il pick up dei colleghi riesce a farsi largo e a passare; la mia auto, invece, viene bloccata. La Panda viene presa a pugni e calci. I vetri resistono e fallisce anche il tentativo di rovesciarla. Ali innesta la retromarcia mentre il pick up si allontana velocissimo. Quando la vediamo scomparire dietro una casa, Cristiano inveisce: “Sei un cretino, dovevamo saltare anche noi su quel pick up”. I quattro su “quel pica up” saranno trucidati, i loro corpi dilaniati e vandalizzati.

Respinti dalla folla noi intanto siamo costretti a tornare indietro, “Portaci all’ospedale”, ordino ad Ali.

Hansi Krauss

Dopo pochi minuti arriviamo nel cortile dell’ospedale Benadir. Per terra, allineati, una decina di corpi. Cristiano comincia a fotografare, ma ci viene incontro una folla minacciosa armata di bastoni. Dietro le mie spalle compaiono due vecchi amici: l’avvocato Gelle e Omar Olad. Urlano: “Scappate, scappate”. Montiamo nella Panda. L’avvocato Gelle si siede sul cofano e con un bastone ci fa largo tra i facinorosi che stanno per circondarci. Omar Olad ci protegge da dietro. Uscendo dal cancello dell’ospedale Gelle cade sul selciato e si ferisce leggermente.

Corriamo all’albergo Sahafi e ci barrichiamo dentro. La notizia della morte di alcuni giornalisti è già arrivata. Ci guardiamo in faccia e facciamo la conta per vedere chi manca all’appello. Non c’è Ilaria, la cui auto era dietro la mia. La cerco al walkie-talkie (il Corriere me ne aveva messi a disposizione due e uno lo teneva lei). Niente. Sono terrorizzato che sia tra i morti invece compare in hotel poco dopo. Ma all’albergo arriva un’altra auto. Mohammed Shaffi, svenuto, ferito e con la faccia irriconoscibile dal sangue e dalle smorfie, viene scaraventato davanti al cancello. Cristiano esce e se lo carica in spalla e lo porta dentro. Mohammed racconterà più tardi: “Non mi hanno ammazzato perché mi sono messo a recitare il Corano. Mi hanno risparmiato per questo”.

Altra visita poco dopo: un camion carico di cadaveri si ferma. L’autista invita i giornalisti a uscire e fotografare il macabro carico. Sono stati uccisi dal raid americano, tra la folla di giornalisti si intrufola un somalo. Si avvicina a Ilaria e tenta di accoltellarla. La mia sorellina (così la chiamavo) viene spintonata dentro il cancello e salvata da Ali.

Qualche ora dopo il corpo di Dan viene abbandonato in una strada e raccattato quindi da un elicottero americano. Il giorno dopo mi verrà offerto un video amatoriale girato da un somalo che ha assistito al recupero. Lo farò comprare ad Ingrid Formanek (CNN) e Ilaria Alpi. Io lo avevo visionato ma non avrei potuto utilizzarlo.

Hos Maina

Ad aiutare Andy Hill, il corrispondente della Reuters a Mogadiscio, a recuperare i corpi degli altri due colleghi della Reuters viene da Nairobi il capo dei servizi televisivi dell’agenzia, Mohammed Amin (morirà nel novembre 1996 durante il dirottamento dell’aereo dell’Ethiopian Airlines alle Comoro). Mentre Reid G. Miller, il capo dell’AP di Nairobi, già a Mogadiscio all’Hotel Sahafi, si occupa di Hansi Krauss. Il giorno dopo, 13 luglio, ci avvisano che i corpi degli altri colleghi uccisi sono stati lasciati a un incrocio. Cerchiamo di andare a prenderli ma quando ci avviciniamo arriva una gragnola di colpi di mitra. Reuters e Ap organizzano un pulmino somalo e con somali a bordo per andarli a recuperare. I corpi sono dilaniati.

Vengono portati alla morgue dell’Unisom e messi nei body bag. Gli americani chiederanno 800 dollari l’uno per trasportarli a Nairobi.

Massimo A. Alberizzi
Twitter @malberizzi
massimo.alberizzi@gmail.com

 

Mohammed Shaffi

 

Nella foto in alto di Raffaele Ciriello, ucciso a Ramallah il 13 marzo 2002, un gruppo di fotografi in quel giorni a Mogadiscio. Poi Dan Eldon, britannico, era giovanissimo poco più che ventenne. Leggermente in basso Anthony Macharia, keniota, era tecnico del suono per Reuters TV. Quindi Hansi Krauss, tedesco, fotografo dell’AP. Infine Hos Maina, keniota e fotografo anche lui. Per la Reuters erano in due. Dan doveva rientrare nel pomeriggio a Nairobi e Hos era appena arrivato a Mogadiscio. Si sarebbero dovuti dare il cambio. Nonostante dovesse partire dopo poche ore, Dan volle correre lo stesso a vedere cos’era successo in quella villa bombardata dagli americani. Nella foto in basso della AFP Mohammed Shaffi nel cortile dell’Hotel Sahafi. Shaffi, pakistano musulmano, raccontò di essersi salvato recitando versetti del Corano. I somali lo risparmiarono. Era stato scaricato ferito e in profondo shock davanti ai cancelli dell’albergo e portato all’interno da Cristiano Laruffa.  Piangeva a dirotto. Qui è ripreso mentre sta per essere caricato su una delle auto dei giornalisti per essere trasportato all’ospedale americano.  m.a.a.

Inchiodati alla poltrona: dopo il padre al potere dal 1967, ora Ali Bongo corre in Gabon per il terzo mandato

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
10 luglio 2023

Ali Bongo Ondimba, presidente uscente del Gabon, ha annunciato ieri che si presenterà per un terzo mandato alle prossime elezioni, che si svolgeranno il 26 agosto di quest’anno. La Costituzione gabonese non pone limiti ai mandati presidenziali come accade in altri Paesi del continente, dove, per essere rieletti dopo due candidature consecutive, i capi di Stato uscenti sono costretti a ricorrere a un referendum per cambiare la legge fondamentale.

Ali Bongo, presidente uscente del Gabon

Il 64enne capo di Stato è salito al potere nel 2009, dopo la morte del padre, Omar Bongo Ondimba, che ha governato il Paese dal 1967. Nel 2016 Ali è stato rieletto. La famiglia detiene il potere in Gabon da oltre 50 anni e ora Ali Bongo chiede un ulteriore mandato. La sua candidatura dovrà essere ratificata dal suo raggruppamento politico, il Partito Democratico Gabonese (PDG), che si riunirà in giornata.

L’investitura odierna di Bongo rappresenta solamente un atto formale, dal momento che il raggruppamento politico al potere ha chiesto al presidente uscente di ricandidarsi da oltre un anno.

Entrambe le vittorie elettorali di Bongo sono state contestate fortemente dall’opposizione per brogli. La sua rielezione del 2016 aveva scatenato violenti scontri tra manifestanti e polizia.

La candidatura di Bongo per un terzo mandato non è stata data per scontata dopo essere stato è stato colpito da un ictus nel 2018. Il presidente ha poi trascorso tre mesi all’estero per cure mediche, è tornato dopo un tentativo di colpo di Stato, sventato in sua assenza.

Il PDG ha la maggioranza anche in parlamento. In occasione della tornata elettorale del 26 agosto i gabonesi sono chiamati alle urne anche per le legislative, comunali e dipartimentali.

Tutte candidature per la poltrona più ambita dovranno essere inoltrate alla Commissione elettorale entro domani.

Ieri il partito dell’opposizione, Rassemblement pour la patrie et la modernité (RPM), ha scelto il proprio candidato alle presidenziali. E’ l’economista Alexandre Barro Chambrier, ex ministro del Petrolio e in passato vicino al governo. Si è unito all’opposizione nel 2016.

Barro Chambrier, appena ufficializzata la sua nomina, ha parlato ai suoi sostenitori e non sono mancate le sue aspre critiche al governo attuale. “Dopo 14 anni, il Gabon è un Paese a pezzi, saccheggiato, indebitato e impoverito. Il bilancio dell’attuale regime si può riassumere così: zero più zero uguale zero”, ha precisato il rappresentante di RPM.

Alexandre Barro Chambrier è il pronipote del re Denis Rapontchombo, nonché figlio di Marcel Eloi Chambrier, primo pediatra del Gabon ed ex presidente dell’Assemblea nazionale sotto Omar Bongo. Un passato che gli conferisce prestigio, anche se alcuni criticano la sua precedente vicinanza al regime.

Il candidato ritiene che ora sia arrivato il suo momento e per riuscire a vincere le elezioni, dovrà convincere gli altri avversari a schierarsi con lui. “I nostri avversari temono questa dinamica e fanno di tutto per dividerci”.

In Gabon le elezioni sono a turno unico. La campagna elettorale per le presidenziali prenderà il via l’11 agosto prossimo, mentre quella per le legislative, dipartimentali e municipali il 16 agosto. Queste sono le disposizioni ufficiali, a quanto pare, gran parte dei candidati sta svolgendo la propria campagna da oltre un anno.

Gabon è uno dei Paesi più ricchi dell’Africa in termini di prodotto interno lordo (PIL) pro capite, grazie soprattutto al petrolio, al legname e al manganese. Ma, secondo la Banca mondiale, il Paese fatica a tradurre la ricchezza delle sue risorse in una crescita sostenibile e inclusiva. Il Gabon conta poco più di 2,3 milioni di abitanti, eppure un terzo vive al di sotto della soglia di povertà.

Cornelia I. Toelgyes
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Tentato colpo di Stato in Gabon. Il regime: “Abbiamo arrestato i responsabili”

Aggrappato al potere Ali Bongo resiste in Gabon, ma metà della sua famiglia si ribella

Accordo con l’ISIS del Sahel: Bamako libera alcuni terroristi

Africa ExPress
Bamako, 9 luglio 2023

Il governo militare di transizione del Mali ha liberato alcuni miliziani del gruppo armato Stato Islamico nel Sahel con l’obiettivo di raggiungere una tregua con i terroristi.

Bamako libera alcuni terroristi

Tra i jihadisti rimessi in libertà ci sono anche due leader ben noti. Il primo è Oumeya Ould Albakae, arrestato nel giugno 2022 dai militari francesi dell’Operazione Barkhane, che lo hanno poi consegnato alle autorità di Bamako. Oumeya è stato capo dello Stato islamico nel Sahel nel Gourma, provincia della regione di Timbuktu (Mali) e di quella di Ourlan in Burkina Faso. Si tratta di un personaggio di spicco nella nebulosa terrorista. Il suo nome è apparso anche come possibile successore di Adnan Abou Walid Al Sahraoui, leader dello Stato Islamico nel Grande Shara (EIGS), ucciso dai francesi nel 2021.

Il secondo è Dadi Ould Cheghoub. Per essere precisi, è stato scarcerato per la seconda volta. Già nell’ottobre 2020 era stato rilasciato insieme a altri miliziani. Allora tale operazione aveva certamente favorito il rilascio di alcuni ostaggi occidentali, Padre Maccalli, Nicola Chiacchio, Sophie Pétronin (cooperante francese), e del leader maliano del partito Union pour la République et la Démocratie (URD), Soumaïla Cissé.

A tutt’oggi sono ancora cinque gli ostaggi occidentali in mano ai jihadisti. Nel maggio 2022, sono stati rapiti tre italiani: Rocco Antonio Langone, la moglie Maria Donata Caivano, il 43enne Giovanni, figlio della coppia e un cittadino togolese, autista della famiglia. I quattro sono stati prelevati da uomini armati dalla loro casa vicino a Koutiala (regione di Sikasso) nel sud del Mali. Da allora di loro non si hanno più notizie.

Anche del reverendo Hans-Joachim Lohre, un sacerdote tedesco rapito nel novembre dello scorso anno nella capitale del Mali, Bamako, non si sa più nulla, stessa discorso per quanto concerne il cittadino rumeno, Iulian Ghergut, portato via con la forza da uomini armati mentre si trovava in una miniera in Burkina Faso nel 2015.

Le autorità maliane non hanno precisato quanti altri miliziani siano stati rilasciati finora, ma hanno sottolineato che l’operazione porterà certamente dei vantaggi, oltre alla liberazione di ostaggi.

Una tregua con i terroristi consentirebbe anche lo spiegamento delle truppe di Bamako nel nord-est, visto che MINUSMA (missione di pace dell’ONU nel Paese), in partenza dal Mali, lascerà presto le proprie basi.

Attacco a convoglio MINUSMA

Intanto giovedì scorso, un altro attacco terrorista a un convoglio di MINUSMA è stato compiuto nella regione di Gao. Secondo fonti dell’ONU, la colonna di vetture, composto da 35 camion di subappaltatori di MINUSMA, scortati dai caschi blu, è stata aggredito ben due volte nello stesso giorno da una trentina di uomini armati. Il bilancio è pesante: 3 morti e 11 feriti, tra loro due in modo grave.

Finora nessuna rivendicazione, ma la zona è notoriamente frequentata dai jihadisti dello Stato Islamico nel Sahel.

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Il narcisismo che acceca gli israeliani nell’oppressione a Jenin

Da +972 Magazine
Orly Noy*
7 luglio 2023

Mentre i tamburi dei manifestanti israeliani continuavano a battere a Tel Aviv, all’aeroporto Ben Gurion e in altre località del Paese questa settimana, l’esercito israeliano ha iniziato a concludere la brutale invasione e l’assalto al campo profughi di Jenin, che ha lasciato dietro di sé distruzione, devastazione e sangue.

La vista dei rifugiati palestinesi che fuggono dalle loro case al buio, con le mani alzate sopra la testa, non evoca solo il ricordo della Nakba. Ricorda che l’espropriazione dei palestinesi non è mai finita: queste stesse famiglie hanno perso le loro case nel 1948 o sono i discendenti di coloro che le hanno perse.

Palestinesi in fuga dall’esercito israeliano

I palestinesi sanno bene di trovarsi di fronte a uno Stato bellicoso e disinibito che, con la scusa della sicurezza e del vittimismo, non risparmierà alcuno sforzo: espropri, uccisioni, pulizia etnica. E forse il peggio deve ancora venire.

Israele è abituato a presentare al mondo l’occupazione come una questione interna israeliana, mentre i suoi cittadini ebrei sono abituati a trattarla come una questione estera, scollegata dalla vita quotidiana, come una guerra in qualche paese lontano.

Questo, insieme al militarismo profondamente radicato e al culto cieco dell’esercito nella società israeliana, fa sì che non solo le proteste antigovernative non si siano espresse contro l’assalto a Jenin, ma che i suoi leader abbiano addirittura elogiato gli “uomini coraggiosi” che hanno preso parte all’invasione – gli stessi che, tra l’altro, hanno bombardato il Teatro della Libertà di Jenin, che funge da esempio di spirito umano in mezzo all’inferno che Israele ha creato nel campo.

Come al solito, sono stati i cittadini palestinesi di Israele che, insieme a una manciata di attivisti ebrei, hanno immediatamente guidato la protesta contro i crimini dell’esercito a Jenin, affrontando a loro volta gravi violenze da parte della polizia. Nel frattempo, si sono sentite deboli critiche anche da parte di alcuni esponenti della sinistra sionista, che hanno accusato il Primo Ministro Benjamin Netanyahu di aver lanciato un’operazione militare per distogliere l’attenzione dalla protesta pubblica contro di lui e per metterla a tacere.

Tuttavia, non dobbiamo ridurre l’invasione di Jenin a un calcolo politico di Netanyahu contro il movimento di protesta. L’oppressione dei palestinesi non è iniziata lo scorso gennaio con l’inizio delle manifestazioni, né finirà quando queste cesseranno.

I frequenti e mortali attacchi a Jenin, così come le aggressioni di routine a Gaza, la pulizia etnica in corso nei territori occupati, l’incoraggiamento dei pogrom dei coloni e la repressione dei palestinesi su entrambi i lati della Linea Verde – tutto fa parte di una più ampia politica israeliana formulata con agghiacciante precisione in quello che il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich chiama il suo Piano Decisivo, che cerca di mettere in ginocchio i palestinesi e di espellere all’ingrosso coloro che rifiutano di piegare la testa.

Coloro che desiderano lottare per una vera democrazia devono abbandonare il narcisismo ebraico-israeliano che ci impedisce di aprire gli occhi sui luoghi in cui Israele calpesta non solo l’idea di democrazia, ma l’idea stessa di ciò che significa essere umani, e iniziare la nostra lotta da lì.

Orly Noy*

*Orly Noy è un’attivista politica e giornalista Mizrahi, cioè ebrea di origine mediorientale, nata in Iran. È redattrice di Local Call, presidente del consiglio di amministrazione di B’Tselem, il Centro di informazione israeliano per i diritti umani nei territori occupati, traduttrice di poesia e prosa dal farsi in ebraico e attivista del partito nazionale democratico palestinese Balad.

Israele: quando quelli che sono state vittime si trasformano in carnefici