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Chiedeva tangenti: capo dell’anticorruzione malgascia assistente del presidente arrestata a Londra

Africa ExPress
Antananarivo, 15 agosto 2023

L’assistente del presidente del Madagascar è stata arrestata nel Regno Unito per sospetta corruzione. Insieme alla donna, Romy Andrianarisoa, è finito dietro le sbarre anche un francese, Philippe Tabuteau. La presidenza di Antananarivo ha immediatamente sospeso la Andrianarisoa da qualsiasi incarico.

Gemfields, società britannica di pietre preziose

La National Crime Agency (NCA) britannica ha fatto sapere oggi che la donna è sospettata di aver chiesto una tangente alla Gemfields, una società mineraria di pietre preziose. L’ arresto della 46enne malgascia e quella del 54enne francese risalgono al 10 agosto scorso, durante un incontro a Londra con rappresentanti della società britannica.

Durante l’incontro, in cambio di licenze minerarie nello Stato insulare, la Andrianarisoa avrebbe chiesto una tangente di 260.000 euro e una partecipazione del 5 per cento nella Gemfields.

L’azienda mineraria con sede nel Regno Unito è proprietaria del marchio di gioielli Fabergé, gestisce miniere di rubini e smeraldi nell’Africa meridionale e sta valutando la possibilità di avviare operazioni di estrazione in Paesi come Etiopia e Madagascar.

Romy Andrianarisoa, assistente del presidente del Madagascar, Andry Nirina Rajoelina

Andrianarisoa, 46 anni, e il cittadino francese Philippe Tabuteau, 54 anni, sono comparsi in tribunale sabato e sono stati rinviati in custodia cautelare in una prigione londinese fino alla prossima udienza, che si terrà a l’8 settembre. Se dovessero essere ritenuti colpevoli, i due rischiano fino a 10 anni di galera, oltre a una multa salatissima. E’ la prima volta che un politico malgascio viene arrestato per corruzione all’estero.

Peccato solo che la collaboratrice del presidente malgascio si è sempre presentata come paladino della lotta contro la corruzione. In qualità di presidente della Commissione per lo sviluppo sostenibile e l’etica aziendale, nel 2021, durante una intervista ha sostenuto: “La corruzione può minare la competitività di un’azienda o di un settore del Paese”.

Africa ExPress
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Il Sudan devastato dalla guerra civile, quasi 4mila morti, 3 milioni di sfollati e 1 milione di profughi

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
13 agosto 2023

Gli orrori che si consumano quotidianamente in Sudan sono indescrivibili: violenze sessuali che stanno crescendo a dismisura in tutto il Paese e in Darfur si stanno riaprendo vecchie tensioni etniche che, come hanno riferito al Consiglio di Sicurezza alcuni funzionari delle Nazioni Unite, “potrebbero inghiottire il Paese”.

Orrori in Sudan: violenze sessuali, torture, uccisioni

Si stima che dall’inizio del conflitto, scoppiato il 15 aprile scorso tra i due generali, Abdel Fattah Abdelrahman al-Burhan, capo delle forze armate (SAF) e presidente del Sudan e Mohamed Hamdan Dagalo, meglio noto come Hemetti, leader delle Rapid Support Forces (RSF), siano morte almeno 3.900 persone, gli sfollati sono oltre 3 milioni, mentre un altro milione ha cercato protezione nei Paesi limitrofi. Il numero dei civili deceduti durante i bombardamenti o il fuoco incrociato durante i combattimenti sul campo sono in forte crescita, altrettanto aumentano morti e feriti da parte delle fazioni in conflitto.

Venerdì scorso i governativi hanno intensificato gli attacchi contro le postazioni dei paramilitari nella regione di Khartoum, in particolare a Omdourman, città gemella di Khartoum sull’altra sponda del Nilo.

Ma non basta la guerra, o ci si mette pure la stagione delle piogge e forti precipitazioni che si sono abbattute la scorsa settimana in alcune zone nel nord del Paese hanno costretto almeno 500 famiglie a fuggire per cercare riparo altrove. Già da mesi – la stagione delle piogge inizia a giugno in Sudan – medici e ONG hanno lanciato l’allarme che forti precipitazioni, causate anche dal cambiamento climatico, potrebbero trasformarsi in un vero disastro per altri milioni di persone.

Secondo quanto riportato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), in alcune zone, praticamente impossibili da raggiungere per le squadre di soccorso a causa della guerra in atto, sono già stati segnalati focolai di colera e morbillo.

L’Oms ha poi precisato che quasi l’80 per cento degli ospedali dell’ex protettorato anglo-egiziano sono chiusi a causa del conflitto in atto e le poche strutture sanitarie ancora operanti, sono sovente sotto tiro e faticano a fornire assistenza.

Allerta OMS: le forti piogge aumentano

Gli operatori umanitari lamentano problemi di sicurezza, ostacoli burocratici e attacchi mirati che impediscono loro di fornire l’assistenza tanto necessaria alla popolazione in ginocchio.

La guerra dura ormai da quattro mesi. Ovviamente nessuno aveva previsto che lo scontro tra i due generali sarebbe durato tanto a lungo. Anzi, al-Burhan per primo era convinto che il tutto si sarebbe risolto nel giro di due settimane, perché convinto di conoscere a fondo le capacità di intervento dei paramilitari, mentre il suo ex vice, Hemetti, ora il suo acerrimo nemico, ha giurato che le RSF sarebbero uscite vincitori da questo sanguinario conflitto.

Ma le RSF si sono resi conto da subito che la guerra sarebbe stata più lunga del previsto e hanno immediatamente messo sotto stretta sorveglianza i punti d’ingresso della capitale e le linee di rifornimento, ha spiegato a VOA un’ex ufficiale sudanese che ha preferito mantenere l’anonimato per ragioni di sicurezza.

Ora le SAF cercano di mantenere le basi chiave di Khartoum e continuano a lanciare raid aerei sulla capitale e le città limitrofe, ma in base a alcuni analisti militari, i governativi non hanno la forza della fanteria della RSF, che è “essenziale data la natura urbana della guerra”.

Se da un lato i sanguinari paramilitari stanno rafforzando le loro posizioni sul campo di battaglia, sono sempre più odiati dalla popolazione a causa di continui abusi e violenze. E L’Osservatorio dei conflitti in Sudan, sostenuto dagli Stati Uniti, in un rapporto del 2 agosto scorso ha rilevato che in Darfur le RSF di Hemetti e le “forze allineate” (le milizie arabe ndr) hanno distrutto almeno 27 città.

Mentre il 4 agosto, Gran Bretagna, Norvegia e Stati Uniti hanno condannato “le segnalazioni di uccisioni su base etnica e di diffuse violenze sessuali” nel Darfur da parte dell’RSF e delle milizie alleate.

Anche oggi, secondo quanto riferito da alcuni testimoni, sono divampati nuovi scontri a Nyala e in altre zone del Darfur meridionale. Durante i combattimenti sono stati danneggiati corrente elettrica, tubature dell’acqua e reti di telecomunicazione. Nella giornata di ieri sono stati uccisi otto civili, secondo quanto riportato dall’Associazione degli Avvocati del Darfur.

Cornelia I. Toelgyes
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ECOWAS allertate truppe per intervento militare in Niger ma i golpisti minacciano di ammazzare Bazoum

 

 

 

Allarme deforestazione: cacao frutto amarissimo per le foreste pluviali africane

Speciale per Africa ExPress
Sandro Pintus
13 agosto 2023

È probabile che il cacao del cioccolatino che gustiamo con piacere provenga dalla Costa d’Avorio, il maggior produttore di Theobroma cacao del pianeta. Oppure dal confinante Ghana, secondo produttore.

Ma la grande domanda dei semi di cacao a livello globale sta creando un serio problema: la deforestazione delle foreste primarie. Secondo il World Resources Institute (WRI) la deforestazione, a vantaggio delle piantagioni di cacao in Africa occidentale, si concentra in Costa d’Avorio, Ghana e Camerun.

cacao cioccalatini
Varietà di cioccolatini

Tra il 2001 e il 2015 la Costa d’Avorio ha sostituito il 22 per cento della superficie forestale con piantagioni di cacao. Oltre un quarto dell’area boschiva pluviale. Ghana e Camerun rispettivamente ne hanno perso il 10 e 6 per cento.

Il cacao a livello mondiale è un business da 130 miliardi di dollari all’anno e in Costa d’Avorio occupa il 20 per cento del Pil. Ma la popolazione vive con due dollari al giorno e nelle piantagioni ci lavorano anche bambini.

Secondo WRI la deforestazione è rimasta relativamente costante dal 2001 al 2013 ma il picco, a livello mondiale, è arrivato nel 2014. Anche in Africa.

Il problema della tracciabilità

“Transparency, traceability and deforestation in the Ivorian cocoa supply chain” (Trasparenza, tracciabilità e deforestazione nella catena di approvvigionamento del cacao ivoriano) tratta un tema scottante. È uno studio dell’equipe di Cécile Renier (Università Cattolica di Lovanio, Belgio), pubblicato da Environmental Letters nel gennaio scorso.

“Non si sa fino a che punto aziende e mercati internazionali siano in grado di tracciare le loro importazioni di cacao – si legge nel rapporto -. Ma anche di soddisfare i loro impegni di approvvigionamento sostenibile”.

“Solo il 43,6 per cento delle esportazioni può essere ricondotto a una specifica cooperativa e dipartimento, mentre oltre il 55 per cento rimane non rintracciabile”. Una situazione che causa deforestazione incontrollata.

cacao percentuale di deforestazione in Africa
Mappa con la percentuale di deforestazione per le piantagioni di cacao in Africa

UE grande divoratrice di cioccolato

L’Unione Europea (UE) importa il 56 per cento dei semi di cacao a livello mondiale. Ha recentemente approvato un regolamento che proibisce la vendita di cacao, legname e altri prodotti legati alla deforestazione.

Fra il 2000 e il 2015 in Costa d’Avorio sono stati abbattuti 838 mila ettari (8.380 kmq) di foreste per creare piantagioni di cacao, un’area grande quanto l’Umbria. Sono piantagioni associate alle importazioni dell’UE del 2019.

Intanto, vista l’alta richiesta di cacao nel mondo, nella borsa di New York i futures cacao in un anno sono passati da 2.200 a 3.650 dollari. Viviamo in un mondo di golosi.

Sandro Pintus
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Costa d’Avorio: il lavoro minorile nascosto nelle nostre tavolette di cioccolato

Costa d’Avorio: il cacao non si vende più e l’economia va in profonda crisi

 

Batterio nascosto in un feticcio infetta un villaggio in Costa d’Avorio: almeno 16 morti

 

ECOWAS allertate truppe per intervento militare in Niger ma i golpisti minacciano di ammazzare Bazoum

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
11 agosto 2023

Ieri ECOWAS (Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale, chiamata anche CEDEAO in francese ndr), durante il meeting che si è tenuto a Abuja, la capitale della Nigeria, ha ordinato il dispiegamento di una “forza di riserva” per ripristinare l’ordine costituzionale in Niger. Domani si riuniranno i capi di Stato maggiore dell’esercito a Accra, capitale del Ghana.

L’ECOWAS, che spera ancora di raggiungere una risoluzione pacifica della crisi, finora non ha reso noto dettagli su un eventuale intervento. Non si sa  quando e se le truppe interverranno né quale Stato metterà a disposizione i propri soldati.

ECOWAS meeting ieri a Abuja, Nigeria

Alcuni esperti ritengono che la Nigeria metta a disposizione 5mila uomini, che potrebbero entrare in azione fra poche settimane, mentre il presidente della Costa d’Avorio, Alassane Ouattara, dopo il meeting dell’ECOWAS di ieri, ha comunicato che il suo Paese parteciperà all’intervento militare insieme a Benin e Nigeria. Ouattara è un fedelissimo della Francia che a suo tempo l’ha aiutato a vincere le elezioni presidenziali.

Intanto Parigi ha dato pieno appoggio all’iniziativa di ECOWAS e questa mattina anche Moussa Faki Mahamat, presidente della Commissione dell’Unione Africana ha fatto altrettanto, sottolineando di essere molto preoccupato per le condizioni di detenzione del capo di Stato nigerino, Mohamd Bazout, democraticamente eletto nel 2021 e spodestato dai golpisti il 26 luglio scorso. E in risposta alla decisione del blocco regionale di non escludere un intervento armato, oggi centinaia di nigerini pro-golpe hanno manifestato davanti a una base militare francese di Niamey.

Le sanzioni messe in atto nei confronti del Niger dei golpisti, sono state mantenute e dovrebbero essere addirittura rafforzate, ovviamente a discapito della popolazione.

Nell’eventualità di un intervento militare da parte di ECOWAS e l’inasprirsi del conflitto, agenzie e ONG impegnate sul campo, sono preoccupate che la crisi umanitaria nel Paese, uno tra i più poveri al mondo, possa subire una preoccupante impennata.

Lancinet Toupou, coordinatore delle operazioni di Médecins du Monde Belgio in Niger, ha spiegato: “Più di quattro milioni di persone dipendono dagli aiuti umanitari”, e ha aggiunto: “C’è il rischio che vaccinazioni dei bambini o trattamenti delle conseguenze delle violenze sessuali siano messi a repentaglio dalla mancanza di medicinali. Qualsiasi ricorso alle armi aggraverebbe ulteriormente la situazione dei più poveri”.

Mohamed Bazoum, a destra e Abdourahamane Tchiani, ex capo della guardia presidenziale e ora presidente della giunta militare CNSP presidente

La comunità internazionale è attualmente preoccupata per le condizioni di detenzione del presidente Bazoum, ostaggio dei golpisti, che proprio ieri hanno minacciato di ucciderlo in caso di un attacco militare di ECOWAS.

Anche il leader delle sudanesi Rapid Support Forces, Mohamed Hamdan Dagalo, guarda con apprensione da Khartoum le sorti del presidente nigerino. I due sono amici fraterni e molti, nell’ex protettorato anglo-egiziano, stanno seguendo attentamente gli sviluppi in Niger, pur non essendo un Paese confinante, perché molte milizie arabe, tra loro anche nigerine, combattono insieme ai paramilitari di Hemetti in Sudan.

Va sottolineato che gli arabi della tribù Reizegat (cui appartiene  Hemetti) vivono non solo in Sudan, ma anche  in diversi Paesi (Mali, Niger, Ciad e altri) anche se vengono chiamati con altri nomi.

Bazoum è sempre stato considerato uno dei partner più affidabili per molti Paesi occidentali in una regione instabile, ma questa è l’ennesima dimostrazione che alleanze etniche-tribali sono al di sopra degli accordi politici.

Con l’istituzione delle Rapid Support Forces nel 2013, Hemetti ha catapultato in Darfur milizie arabe provenienti da diversi Paesi. Molti di questi combattenti hanno portato con sé persino le proprie famiglie, insediandosi nelle case e fattorie abbandonate dalla popolazione di origine africana a causa della guerra.

A sinistra, Dagalo nel 2021, allora vicepresidente del Sudan e il neo eletto presidente del Niger, Mohamed Bazoum

I rapporti tra Hemeti e Bazoum si sono rafforzati dopo la candidatura di quest’ultimo alla presidenza. Secondo alcune informazioni riportate dal quotidiano online Sudanscoop, il comandante delle RSF avrebbe sostenuto la campagna di Bazoum con oltre 20 milioni di dollari. Africa ExPress non ha potuto verificare queste notizie, che, sempre in base al giornale sudanese, sarebbero state confermate da fonti della sicurezza e diplomatici occidentali a Niamey.

Sta di fatto che, una volta vinte le elezioni, Bazoum alla cerimonia di insediamento non ha invitato il capo di Stato sudanese Abdel Fattah al-Burhan , bensì il fraterno amico Hemetti, allora vicepresidente dell’ex condominio anglo-egiziano.

Alcune foto di agenzia mostrano Hemetti e Bazoum durante un colloquio privato a margine della cerimonia, tenutasi a Niamey il 2 aprile 2021 e la stretta amicizia che lega i due è stata confermata dallo stringer di Africa ExPress

Si stima che oltre 4.000 nigerini Mahamid, (sotto tribù araba dei Reizegat, provenienti dall’est del Paese, dalla regione di Diffa) stiano attualmente combattendo in Sudan sotto la bandiera delle RSF. Bazoum discende da uno dei rami dei Mahamid, gli Awlad Suleiman, presenti anche in Libia.

Alcuni di questi combattenti delle milizie arabe si sono già uniti in passato alle RSF, sono stati addestrati sotto la supervisione del gruppo paramilitare russo Wagner e hanno preso parte al conflitto in Yemen con la coalizione capeggiata dai sauditi contro gli houthi. Mentre altri sono arrivati recentemente in Sudan, dopo l’inizio del conflitto tra i due generali, per rimpiazzare perdite subite dai paramilitari di Hemetti.

Cornelia I. Toelgyes
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Stravolta la Costituzione con un referendum farsa: il Centrafrica si trasforma in una dittatura filorussa

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
10 agosto 2023

Nella Repubblica Centrafricana il referendum costituzionale, proposto alla popolazione lo scorso 30 luglio, è stato approvato con il 95,27 per cento delle preferenze. C’era da aspettarselo, anche se i maggiori gruppi dell’opposizione non hanno partecipato allo scrutinio e hanno condannato con forza la revisione della Costituzione.

Ora non ci sono più restrizioni per il presidente, in carica già al suo secondo mandato, Faustin-Archange Touadera, di ricandidarsi nuovamente alle prossime elezioni del 2025 e a quelle a seguire.

Faustine-Archange Touadéra, presidente della Repubblica Centrafricana

Secondo quanto ha precisato Barthélémy Morouba, presidente dell’ANE (organismo centrafricano indipendente responsabile della preparazione, dell’organizzazione e della supervisione delle elezioni e del referendum costituzionale, ndr), lunedì scorso, la partecipazione al voto è stata del 61,10 per cento, su 1.858.236 cittadini iscritti alle liste elettorali. Entro 15 giorni la Corte Suprema dovrà annunciare i risultati definitivi.

Assenti gli osservatori indipendenti

Ovviamente, in assenza di osservatori indipendenti riconosciuti, i dati annunciati da ANE sono difficilmente verificabili. Sta di fatto che secondo quanto riportato, l’affluenza è stata scarsa, soprattutto nella capitale. In un quartiere di Bangui, il 30 luglio, un reporter della Reuters ha visto solo poche decine di persone in coda.

Il Blocco repubblicano per la difesa della Costituzione definisce le elezioni una “farsa” e non riconosce in alcun modo il risultato provvisorio. Il precario Stato di Diritto è stato travolto e il voto trasforma di fatto la Repubblica Centrafricana in una dittatura satellite della Russia, intenta a sfruttarne le risorse minerarie. Un’altra vittoria di Mosca in Africa, anche se c’è il rischio che il Paese ripiombi nel caos della violenza e dei massacri.

Lo scorso settembre, la Corte costituzionale aveva bocciato il referendum sul nascere, sentenziando come illegale e incostituzionale il decreto presidenziale per l’istituzione di un comitato a redigere una nuova Carta.

Fatto non gradito da Touadéra e dai russi. Il capo di Stato ha silurato Danièle Darlan, presidente della Corte suprema di Bangui, mandandola in pensione anticipatamente.

Pressioni diplomatiche

La signora Darlan, in qualità di presidente della Corte suprema, nel 2020 aveva avvallato il risultato elettorale per un secondo mandato a Touadéra.

Poi, secondo quanto la giudice ha dichiarato a Human Right Watch, nella primavera 2022 ha ricevuto la visita di diplomatici russi che volevano cambiare la Costituzione del Paese per consentire all’attuale presidente di rimanere in carica.

“Il voto del 30 luglio ha assunto la forma di un plebiscito a favore del presidente Touadéra”, ha spiegato Charles Bouessel, ricercatore dell’International Crisis Group. Eppure quasi nessuno aveva letto la nuova legge fondamentale, fatta su misura per rispondere alle esigenze del regime.

Oltre a porre fine ai limiti del mandato presidenziale, che sono stati estesi da cinque a sette anni, il nuovo testo apporta tre importanti modifiche. In primo luogo, la Corte costituzionale, che si era opposta al progetto referendario, viene trasformata in un Consiglio, la cui maggioranza dei membri è nominata dal governo.

Contratti minerari senza controlli

In secondo luogo, l’Assemblea nazionale perde il diritto di controllo sui contratti minerari. E, come ha sottolineato Charles Bouessel: “Va ricordato che l’ex presidente del Parlamento, Karim Meckassoua, è stato destituito per aver voluto esaminare più da vicino gli accordi firmati con i russi”.

Infine, la creazione della carica di vicepresidente, il secondo in comando dello Stato, che sostituisce il presidente in caso di vuoto di potere, completa l’indebolimento delle altre istituzioni in questo regime presidenziale.

L’opposizione ha subito inoltre un duro colpo. Alcuni dei suoi esponenti di spicco sono stati esclusi dalla possibilità di candidarsi alle elezioni presidenziali del 2025 per una nuova disposizione costituzionale che vieta ai cittadini con doppia cittadinanza di candidarsi alla poltrona più ambita del Paese.

E, per la prima volta i paramilitari del Gruppo Wagner sono stati apertamente coinvolti in un processo elettorale in Africa. I mercenari russi hanno fornito supporto logistico e sono stati attivi nell’ambito della sicurezza.

Cornelia I. Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
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Il presidente spodestato del Niger agli arresti domiciliari 2 settimane dopo il colpo di Stato sarebbe a corto di cibo

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Associeted Press
Sam Mednick 
Niamey, 9 agosto 2023

Il presidente destituito del Niger è a corto di cibo e sta vivendo altre condizioni sempre più terribili due settimane dopo essere stato spodestato da un colpo di stato militare e messo agli arresti domiciliari, ha dichiarato mercoledì un consigliere all’Associated Press.

Il presidente Mohamed Bazoum, leader democraticamente eletto della nazione dell’Africa occidentale, è detenuto nel palazzo presidenziale di Niamey con la moglie e il figlio da quando i soldati ammutinati si sono mossi contro di lui il 26 luglio.

Solo riso e scatolame

La famiglia vive senza elettricità e ha solo riso e scatolame da mangiare, ha detto il consigliere. Bazoum per ora è in buona salute e non si dimetterà mai, secondo il consigliere, che ha parlato a condizione di restare anonimo, perché non autorizzato a discutere la delicata situazione con i media.

Il partito politico di Bazoum ha rilasciato una dichiarazione che conferma le condizioni di vita del presidente e afferma che la famiglia è priva anche di acqua corrente.

Un manifesto pro Bazoum(foto AP/Sophie Garcia)

Il Segretario di Stato americano Antony Blinken ha parlato martedì con Bazoum dei recenti sforzi diplomatici, ha dichiarato un portavoce, e Blinken “ha sottolineato che la sicurezza e l’incolumità del Presidente Bazoum e della sua famiglia sono fondamentali”.

Respinta ogni mediazione

Questa settimana, la nuova giunta militare del Niger ha preso provvedimenti per consolidare il proprio potere e ha respinto gli sforzi internazionali di mediazione.

Lunedì la giunta ha nominato un nuovo primo ministro, l’economista civile Ali Mahaman Lamine Zeine. Zeine è un ex ministro dell’Economia e delle Finanze che ha lasciato l’incarico dopo che un precedente colpo di Stato nel 2010 aveva rovesciato il governo dell’epoca. In seguito ha lavorato presso la Banca africana di sviluppo.

“L’insediamento di un governo è significativo e segnala, almeno alla popolazione, che c’è un piano in atto, con il sostegno di tutto il governo”, ha dichiarato Aneliese Bernard, ex funzionario del Dipartimento di Stato americano specializzato in affari africani e ora direttore di Strategic Stabilization Advisors, un gruppo di consulenza sui rischi.

La giunta ha anche rifiutato di accogliere squadre di meditazione delle Nazioni Unite, dell’Unione Africana e del blocco regionale dell’Africa occidentale ECOWAS, adducendo “evidenti ragioni di sicurezza in questo clima di minaccia”, secondo una lettera visionata dall’Associated Press.

Le minacce dell’ECOWAS

L’ECOWAS aveva minacciato di usare la forza militare se la giunta non avesse reintegrato Bazoum entro domenica, una scadenza che i golpisti hanno ignorato e che è passata senza che l’organizzazione regionale intervenisse. Si prevede che il blocco si riunisca nuovamente domani, giovedì, per discutere della situazione.

Sono passate esattamente due settimane da quando i soldati hanno arrestato per la prima volta Bazoum e hanno preso il potere, sostenendo di poter fare un lavoro migliore nel proteggere la nazione dalla violenza dei jihadisti. Gruppi legati ad Al-Qaeda e al gruppo dello Stato Islamico hanno devastato la regione del Sahel, una vasta distesa a sud del deserto del Sahara che comprende parte del Niger.

La maggior parte degli analisti e dei diplomatici ha affermato che la giustificazione dichiarata per il colpo di Stato non ha avuto peso e che il golpe è stato il risultato di una lotta di potere tra il presidente e il capo della sua guardia presidenziale, il generale Abdourahmane Tchiani, che ora dice di essere a capo del Paese.

Il colpo di Stato è un duro colpo per molti Paesi occidentali, che vedevano nel Niger uno degli ultimi partner democratici della regione con cui collaborare per contrastare la minaccia estremista. È anche un importante fornitore di uranio.

Taglio all’assistenza

I partner del Niger hanno minacciato di tagliare centinaia di milioni di dollari di assistenza militare se nel Paese non tornerà il governo costituzionale.

Mentre la crisi si trascina, i 25 milioni di abitanti del Niger ne stanno sopportando il peso. È uno dei Paesi più poveri del mondo e molti nigerini vivono alla giornata e dicono di essere troppo concentrati sulla ricerca di cibo per le loro famiglie per prestare molta attenzione all’escalation della crisi.

Le dure sanzioni economiche e di viaggio imposte dall’ECOWAS dopo il colpo di stato hanno fatto aumentare i prezzi dei prodotti alimentari fino al 5 per cento, dicono i commercianti. Erkmann Tchibozo, un negoziante del vicino Benin che lavora nella capitale del Niger, Niamey, ha detto che è stato difficile far entrare nel Paese i prodotti per rifornire il suo negozio vicino all’aeroporto.

Se continua così, la situazione diventerà molto difficile, ha affermato.

La giunta ha anche chiuso lo spazio aereo del Niger questa settimana e ha temporaneamente sospeso l’autorizzazione per i voli diplomatici provenienti da Paesi amici e partner, secondo il Ministero degli Affari Esteri.

Victoria Nuland ha incontrato i golpisti

Il vicesegretario di Stato americano ad interim Victoria Nuland ha incontrato i leader del colpo di Stato, ma ha dichiarato che questi ultimi si sono rifiutati di permetterle di incontrare Bazoum. Ha descritto gli ufficiali ammutinati come non ricettivi ai suoi appelli per avviare i negoziati e ripristinare l’ordine costituzionale.

Gli Stati Uniti hanno più o meno 1.100 militari nel Paese e considerano il Niger un partner strategico e affidabile nella regione.

Tuttavia, la Nuland ha fatto più strada di altre delegazioni. A una precedente delegazione dell’ECOWAS è stato impedito di lasciare l’aeroporto.

Grado di coordinamento

Non è chiaro il grado di coordinamento dei vari sforzi di mediazione. Alcuni esperti temono che se il lavoro non è coordinato, potrebbe minare l’ECOWAS.

“Penso che gli Stati Uniti arriverebbero a un modus vivendi con questa giunta, se questa si dimostrasse particolarmente disposta a tutelare gli interessi statunitensi, ma questo non sembra essere sul tavolo per il momento”, ha dichiarato Alexander Thurston, professore assistente di scienze politiche all’Università di Cincinnati.

Ma secondo gli analisti, più tempo ci vorrà per trovare una soluzione, più tempo avrà la giunta per trincerarsi e meno slancio ci sarà per spodestarla. Anche altre nazioni africane sono divise su come procedere.

I vicini Mali e Burkina Faso, entrambi governati da regimi militari, si sono schierati con la giunta e hanno avvertito che un intervento in Niger “equivarrebbe a una dichiarazione di guerra” contro di loro. In una lettera congiunta inviata martedì alle Nazioni Unite, i due Paesi hanno chiesto all’organizzazione di “impedire con tutti i mezzi a sua disposizione un’azione armata contro uno Stato sovrano”.

Anche il Mali e il Burkina Faso hanno inviato dei rappresentanti a Niamey questa settimana per discutere delle opzioni militari. I funzionari di tutte le parti hanno dichiarato che i colloqui sono andati bene.

Sam Mednick

Twitter: @africexp

Suspense in Niger dopo l’ultimatum ECOWAS con nuove manifestazioni in appoggio del golpe

Come si presenterebbe la minaccia dell’ECOWAS di usare la forza per ripristinare la democrazia in Niger?

Ultimato dell’ECOWAS ai golpisti del Niger: “Se non reintegrate Bazoum interveniamo militarmente”

Sahel: venti di guerra, Mali e Burkina respingono intervento ECOWAS: “Se toccate il Niger risponderemo con le armi”

Repressione in Senegal: arrestato l’avvocato del leader dell’opposizione già in galera

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
8 agosto 2023

Ousmane Sonko, il maggior oppositore dell’attuale governo del Senegal, è stato ricoverato nel più grande ospedale di Dakar domenica sera.

Ousmane Sonko, ricoverato in ospedale a Dakar, in sciopero della fame dopo il suo arresto

Sonko ha iniziato uno sciopero della fame il 30 luglio scorso, due giorni dopo il suo arresto. E’ accusato di complotto di insurrezione volto a minare la sicurezza dello Stato e associazione criminale con un’organizzazione terroristica.

Le nuove incriminazioni non hanno nulla a che vedere con il presunto caso di stupro che ha scatenato rivolte e proteste durante le quali sono morte almeno 10 persone.

Il suo arresto e lo scioglimento del suo partito (PASTEF, Patriotes africains du Sénégal pour le travail, l’éthique et la fraternité) hanno sollevato nuove manifestazioni a Dakar la scorsa settimana. Secondo l’AFP, almeno due persone sono morte durante i disordini, mentre diverse altre sono rimaste ferite. Sonko è molto popolare in Senegal, specie tra i giovani e nel 2019 si è piazzato terzo alle presidenziali con il 15,67 per cento delle preferenze.

Secondo i sostenitori di Sonko, le accuse contro di lui non sono altro che un tentativo del governo per impedire una sua candidatura alle elezioni presidenziali del 2024.

Uno degli avvocati dell’ex leader di Pastef, Cire Cledor Ly, ha confermato il ricovero del suo assistito, ma non ha rilasciato dichiarazioni sullo stato di salute. Mentre PASTEF, l’ormai disciolto raggruppamento politico, ha dichiarato che il leader è stato ricoverato d’urgenza e ritiene le autorità “responsabili” delle sue condizioni, sottolineando che prima della sua incarcerazione godeva di ottima salute.

Ma la questione Sonko va oltre. Anche uno dei suoi avvocati, il franco-spagnolo, Juan Branco, è stato arrestato il 5 agosto scorso a Rosso, alla frontiera tra la Mauritania e il Senegal. In precedenza le autorità di Dakar avevano spiccato un mandato d’arresto internazionale nei confronti del legale, perchè accusato di “attentato e cospirazione”.

Il 33enne avvocato è poi stato fermato dalle autorità mauritane, che, poche ore dopo lo hanno estradato nel Paese confinante. Branco ha passato la notte tra sabato e domenica nella prigione di Rebeuss, Dakar. Poi ieri, secondo quanto riportato dal ministro della Giustizia senegalese, Ismaila Madior Fall, è stato ascoltato dal giudice per le indagini preliminari, che ha confermato le accuse contro di lui: aggressione, cospirazione, diffusione di notizie false e atti e manovre che possono mettere in pericolo la sicurezza pubblica o causare gravi disordini politici. Infine è stato rilasciato dietro cauzione e espulso in Francia.

Il giovane avvocato si è fatto un nome in Senegal, partecipando alla difesa Sonko, ma specie dopo aver denunciato il presidente del Paese, Macky Sall, alla Corte Penale Internazionale (CPI) per crimini contro l’umanità, in seguito ai gravi disordini che hanno causato almeno sedici morti dopo l’arresto di Sonko.

Branco, figlio di un famoso produttore di film d’arte portoghese, Paulo Branco, e della psicanalista spagnola, Dolores Lopez, ha frequentato le migliori scuole e università. E’ dottore in diritto internazionale e ha quattro master in tasca. Ha scritto la sua tesi di laurea alla Normale Superieure sulla Corte Penale Internazionale e la violenza di massa, recandosi persino nella Repubblica Centrafricana nel 2013 mentre infuriava la guerra civile.

Nel 2015, l’allora giovanissimo Juan Branco è stato anche consulente legale di WikiLeaks e di Julian Assange, mentre nel 2019, ha pubblicato il suo saggio Crépuscule, diventato subito un best-seller con quasi 100.000 copie vendute.

Cornelia I. Toelgyes
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Condannato leader dell’opposizione in Senegal: 10 morti per le proteste

Sonko è originario di Casamance

 

Un bianco candidato al parlamento dei Gabon: è la prima volta

Africa ExPress
Libreville, 8 agosto 2023

Il prossimo 26 agosto i gabonesi si recheranno alle urne per le presidenziali, legislative e locali. Tra i candidati per l’Assemblea nazionale c’è anche Christian Herbert, un franco-gabonese che è diventato cittadino del Gabon solamente tre anni fa.

Il franco-gabonese Christian Herbert, candidato al Parlamento del Gabon

Christian vive nel Paese da 14 anni, da quando ha incontrato l’amore della sua vita, sua moglie Valérie Eyang, originaria di Minvoul, località nel nord del Paese. Il sessantenne Christian è candidato per l’Assemblea nazionale per la circoscrizione di Minvoul. Il Centro elettorale del Gabon (CGE) ha accettato la sua richiesta senza battere ciglio. E’ la prima volta che in Gabon un bianco si candida al Parlamento.

“Sono così felice, mi sembra un sogno. Mai avrei immaginato che un giorno mi sarei presentato davanti al popolo gabonese come candidato alle legislative”, ha confessato il franco-gabonese, che attualmente sta imparando la lingua fang per potersi rivolgere meglio ai suoi potenziali elettori.

L’uomo è già noto nel Paese come “deputato bianco”; ma Christian, un ingegnere delle telecomunicazioni, è ben cosciente che non tutti vedono di buon occhio la candidatura di un bianco.

Il franco-gabonese ha molti progetti per il futuro della circoscrizione di Minvoul, in primis vuole portare la corrente elettrica nei villaggi della zona. I suoi numerosi viaggi sul campo sono stati fonte di ispirazione. “Purtroppo, quando ci vado di persona, di notte sono costretto a usare le torce o una lampada a paraffina”, ha spiegato.

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Suspense in Niger dopo l’ultimatum ECOWAS con nuove manifestazioni in appoggio del golpe

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
7 agosto 2023

La notte scorsa, poche ore prima della scadenza dell’ultimatum posto dall’ECOWAS (la Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale conosciuta anche con l’acronimo francese CEDEAO) al Niger, la giunta militare golpista ha chiuso lo spazio aereo. Ha voluto così prevenire la minaccia di un intervento militare.

Il presidente nigeriano Tinubu, leader della CEDEAO

In queste ore tutti gli occhi sono puntati sulla prossima mossa dei leader del blocco regionale nei confronti del regime di Niamey.

L’organizzazione ha minacciato di intervenire militarmente nel caso non sia liberato e reintegrato il presidente Mohamde Bazoum, eletto democraticamente nel 2021 e ostaggio dei golpisti dal 26 luglio scorso.

Il 30 luglio l’ECOWAS aveva dato alla giunta putschista, al potere dal 26 luglio scorso, sette giorni di tempo, pena l’uso della “forza”. Il ministero degli Esteri francese ha dichiarato di “sostenere con fermezza e determinazione gli sforzi dell’ECOWAS per sconfiggere questo tentativo di colpo di Stato”.

Qua e là sono state tenute sporadiche piccole manifestazioni per le strade di Niamey in favore alla giunta militare, Conseil National pour la Sauvegarde de la Patrie (CNSP) (Consiglio Nazionale per la Salvaguardia della Nazione), capeggiata dall’ex capo della guardia presidenziale, Abdourahamane Tchiani, che ha dichiarato di non voler cedere alle pressioni esterne per ritirarsi dopo la presa di potere del 26 luglio scorso. Insomma, nessun segno di opposizione evidente da parte della popolazione.

Decine di migliaia di persone allo stadio per sostenere la giunta militare golpista in Niger

Allo Stade Général Seyni Kountché, il più grande stadio di tutto il Paese, nel pomeriggio di ieri si sono riuniti invece quasi 30.000 sostenitori dei golpisti. Il raduno è stato organizzato da diverse associazioni della società civile e allo stadio erano presenti anche alcuni membri del CNSP.

Mentre sabato sera un centinaio di persone ha partecipato a un sit-in nei pressi di una base aerea di Niamey, suonando le vuvuzela (trombette di plastica) e intonando melodie militari. I manifestanti si sono impegnati a opporre resistenza non violenta a sostegno della nuova amministrazione guidata dall’esercito.

Finora tutto tace ancora da parte dell’ECOWAS dopo giorni di intensi contatti diplomatici su più fronti. sono stati attivati diversi canali. Il presidente di transizione del Ciad, Mahamat Déby Itno, si è recato a Niamey domenica scorsa e questa settimana una delegazione dell’organizzazione ha trascorso alcune ore nella capitale, ma senza aver potuto incontrare il generale Tchiani, capo della giunta, e tantomeno il presidente Bazoum, ostaggio dei putschisti.

In previsione di un potenziale intervento militare, i capi di Stato maggiore dei Paesi membri del blocco regionale, ad eccezione di Mali, Guinea e Burkina Faso, Paesi guidati da giunte militari golpiste, hanno messo a punto una strategia di intervento ad Abuja. Venerdì sera hanno poi annunciato di aver definito i dettagli della missione, di aver individuato le risorse e di essere pronti a partire se i leader dell’ECOWAS daranno il via libera.

Anche se l’Algeria, Paese confinante con il Niger, ha condannato il golpe militare, il presidente, Abdelmadjid Tebboune, ha detto di essere assolutamente contrario a un intervento militare nel Paese. Secondo Algeri, “il ritorno all’ordine costituzionale deve assolutamente essere raggiunto con mezzi pacifici, per evitare ulteriore instabilità in Niger e nell’intera regione. A questo punto va ricordato che Algeri continua a espellere migranti subsahariani senza documenti verso il Niger, in base a un accordo siglato nel 2014 tra i due Paesi. Ovviamente, con un eventuale intervento militare tali espulsioni, che si susseguono con un ritmo di almeno un convoglio alla settimana, potrebbero essere soggetti a una sospensione.

L’attuale presidente di ECOWAS, il capo di Stato della Nigeria, Bola Tinubu, proprio per tentare di salvare il salvabile, ha inviato settimana scorsa una delegazione a Niamey, capeggiata da Abdulsalami Abubakar, leader militare nigeriano che nel 1999 ha consegnato il potere ai civili. Doveva avviare negoziati con i golpisti. Ma Tchiani si è rifiutato di ricevere i mediatori.

Militari delle forze armate di Niamey fanno parte insieme a quelli di Benin, Camerun, Ciad e Nigeria della Multinational Joint Task Force (MNJTF), costituita per contrastare i terroristi Boko Haram e i loro cugini di ISWAP (acronimo per Provincia dell’Africa occidentale dello Stato islamico, ndr), gruppi attivi non solo in Nigeria, ma anche nei Paesi confinanti e particolarmente sulle sponde del lago Ciad. Con MNJTF combattono fianco a fianco, per poi trovarsi gli uni di fronte all’altro con le truppe dell’ECOWAS.

E proprio parlamentari e politici del Paese più popoloso dell’Africa hanno espresso perplessità e preoccupazione su un eventuale intervento militare in Niger.

Intanto la giunta militare nigerina si è rivolta qualche giorno fa ai mercenari della società russa Wagner. I primi contatti sono stati presi in Mali in occasione della recente visita del generale Salifou Mody, componente del CNSP. Durante il suo breve soggiorno, Mody ha incontrato il presidente di transizione di Bamako, Assimi Goïta. Il contatto tra un esponente dei mercenari di Wagner, molto attivo in Mali e il generale nigerino è stato confermato a AP da Wassim Nasr, giornalista e ricercatore presso il Centro Soufan.

Quello in Niger è settimo colpo di Stato in soli tre anni in Africa occidentale e centrale. Ovviamente quest’ultimo ha particolarmente scosso la regione occidentale del Sahel, tra le più povere del mondo e che ha un’importanza strategica per Russia, Cina e ovviamente l’Occidente, anche a causa dei ricchi giacimenti di uranio e petrolio del Niger.

Pare che la società francese Orano (ex Areva) continui, almeno per ora, l’attività di estrazione dell’uranio nel nord del Niger. E anche le autorità di Benin hanno dichiarato qualche giorno fa che l’oleodotto Zidane-Cotonou, opera finanziata e realizzata da Pechino tramite la West African Oil Pipeline Company-Bénin (WAPCO-BENIN), filiale del gruppo cinese China National Petroleum Company (CNPC), non è soggetto alle sanzioni imposte a Niamey dall’ECOWAS.

Intanto gli Stati Uniti hanno sospeso i programmi di aiuto al governo del Niger, mentre, come ha sottolineato il segretario del Dipartimento di Stato di Washington, Antony Blinken, “continueremo a fornire aiuti umanitari “essenziali” nel Paese.

E solo pochi giorni dopo il golpe, il ministro degli Affari esteri francese, Catherine Colonna, ha annunciato “la sospensione immediata di tutte le operazioni di aiuto allo sviluppo e di sostegno al bilancio”. Secondo quanto si legge nel sito di Agence française de développement (AFD), nel 2021 Parigi ha stanziato 97 milioni di euro.

Cornelia Toelgyes
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BRICS: il difficile tentativo dei Paesi emergenti di affrancarsi dalla tutela economica occidentale

Speciale per Africa ExPress
Silvio Bencini
6 agosto 2023

Ventidue anni fa l’economista della banca d’investimento Goldman Sachs, Jim O’Neill, coniò l’acronimo BRIC per indicare i quattro Paesi allora “emergenti” che avevano maggiori potenzialità di crescita, e cioè Brasile, Russia, India e Cina. Nel 2010 BRIC è diventato BRICS con l’aggiunta del Sud Africa.

Col tempo l’acronimo inventato dalla banca massima espressione della finanza americana è diventata la bandiera intorno alla quale alcuni Paesi del Sud del mondo si sono raccolti per contrastare il dominio occidentale. La connotazione geopolitica del gruppo si è accentuata con l’affermarsi della Cina come potenza globale, in grado di mettere in discussione la posizione dominante degli Stati Uniti fino alla grande crisi finanziaria.

Riunioni di vertice

Negli ultimi anni i BRICS hanno tenuto regolarmente riunioni di vertice. Il prossimo incontro, fissato per fine agosto a Johannesburg, ha attirato l’attenzione soprattutto per la questione diplomatica legata alla partecipazione del presidente Putin che è oggetto di un mandato di arresto emesso dalla Corte Penale Internazionale per crimini di guerra, risolta con la partecipazione del Ministro degli Esteri Lavrov al posto di Putin.

Al di là di questo, l’incontro è atteso perché è il primo dopo il voto del febbraio scorso all’Onu sulla mozione di ritiro dell’esercito russo dall’Ucraina, dove, oltre all’ovvio voto contrario della Russia, tre altri BRIC, Cina, India e Sud Africa si astennero.

Inoltre, nei giorni passati, per iniziativa russa, si è tornati a parlare del desiderio di molti Paesi di affrancarsi dal peso del dollaro e degli Stati Uniti nel sistema finanziario globale, al punto di proporre la creazione di una moneta BRICS.

Una moneta alternativa

Cosa aspettarsi da questo incontro? Basandoci sull’esperienza passata poco, perché, come notava proprio O’Neill in un articolo scritto per il ventennale dei BRICS “the bloc’s ongoing failure to develop substantive policies through its annual summitry has become increasingly glaring.” (cioè, “è diventata sempre più evidente la continua incapacità del blocco di sviluppare politiche sostanziali, nonostante i suoi vertici annuali”, ndr)

Le ragioni di questa difficoltà nel passare dalle parole ai fatti sono diverse.

Una prima ragione è la crescita. Se confrontiamo i dati del Prodotto Interno Lordo (calcolati con il metodo della parità del potere d’acquisto, che riduce l’impatto dei tassi di cambio) dei cinque Paesi nel 2001 e nel 2019 vediamo che le economie sono cresciute a tassi molto diversi.

Se vent’anni fa la Cina rappresentava il 40 per cento del PIL dei BRICS ora il suo peso è prossimo al 60 per cento. Brasile e Russia, che nel 2001 avevano quote uguali e pari al 16 per cento, nel 2019 erano scesi al 8 e 10 per cento rispettivamente. L’India è cresciuta, ma meno della Cina, e il suo peso è passato dal 21 al 23 per cento.

Colosso economico

Le distanze appaiono ancora più evidenti in termini assoluti. A fine 2022 l’economia cinese era diventata più grande di quella americana, a sua volta quasi doppia di quella indiana. Insieme, dunque, Cina e India costituiscono un colosso economico, oltre che demografico, con una popolazione di 2,4 miliardi di persone, pari al 87 per cento del totale dei BRICS.

Una seconda ragione è la divergenza di interessi strategici. L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, e le conseguenti sanzioni internazionali, hanno rafforzato le relazioni di questo paese con Cina e India. Ma Cina e India rimangono fortemente in contrasto sia per motivi territoriali, sia nella competizione per l’influenza nel sud est asiatico.

Polo geopolitico globale

L’India, inoltre, si è candidata per diventare una delle destinazioni del “reshoring” auspicato dai Paesi occidentali per ridurre la dipendenza dalla Cina nella produzione di beni e diversificare le catene logistiche.

Un nuovo polo geopolitico globale dovrebbe avere un leader, che oggi sarebbe naturalmente la Cina, ma per l’India questo sarebbe impensabile. La Cina, d’altro canto, ha una sua politica economica internazionale (Via della Seta, investimenti in Africa) completamente autonoma rispetto agli altri membri del club.

Il fatto paradossale è che proprio una crescita del commercio fra Cina e India, attualmente modesto, avrebbe un grande impatto sullo sviluppo dell’area e del commercio globale.

Democrazie difettose

La divergenza è anche nell’assetto istituzionale. Il Democracy Index calcolato dalla Economist Intelligence Unit sintetizza in un numero che va da 0 a 10 la valutazione di un sistema politico su cinque diverse dimensioni, assegnando poi ciascun paese a quattro categorie: democrazia piena (“full”), democrazia difettosa (“flawed”, l’Italia è qui), regime ibrido (“hybrid”), regime autoritario (“authoritarian”). Il paese con un punteggio maggiore è la Norvegia (9,81) quello col punteggio minore è l’Afghanistan (0,32).

Fra i BRICS, Sud Africa, India e Brasile, con punteggi di 7,05, 7,04 e 6,78 si collocano fra le democrazie difettose, Russia e Cina, con punteggi di 2,28 e 1,96, fra i regimi autoritari. Fra i Paesi che hanno dimostrato interesse a entrare nel gruppo Argentina e Indonesia sono qualificate democrazie difettose, il Bangladesh è un regime ibrido e tutti gli altri (Algeria, Baharain, Bielorussia, Etiopia, Iran, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti) sono classificati come autoritari.

Una delle ambizioni dei BRICS era affrancarsi dalla dipendenza dal dollaro USA, ma per ora la moneta americana mantiene una posizione dominante.

Riserve valutarie

A fine 2022 il 54 per cento delle riserve valutarie globali era denominato in dollari (in calo dal 70 per cento  degli anni ’90), il 19 per cento in euro e il 5 per cento in yen. Erano denominate in renminbi, moneta del Paese leader dei BRICS, la Cina, solo il 2,4 per cento. Ma l’evidenza della difficoltà di creare un’alternativa al dollaro come moneta di riserva globale è nel peso crescente ma ancora relativamente piccolo dell’euro, a 24 anni dalla nascita.

In dollari è condotto oltre l’80 per cento delle transazioni commerciali, e dollari ed euro rappresentano anche le monete in cui è fatturata gran parte del commercio mondiale.

A spingere i BRICS verso la ricerca dell’autonomia dal mondo occidentale e dal dollaro sono stati, in un certo senso, gli stessi Stati Uniti. Nel novembre 2010 il Fondo Monetario Internazionale aveva incluso i Paesi BRIC tra i dieci Paesi maggiori azionisti, insieme a Stati Uniti d’America, Giappone e ai quattro più popolati dell’Unione Europea (Francia, Germania, Italia e Regno Unito) di allora.

Poiché però la proposta di ripartizione delle quote del FMI avanzata dai BRICS è stata bloccata dal Congresso degli Stati Uniti, questi ultimi hanno dato vita a una propria struttura finanziaria autonoma (New Development Bank, NDB), alternativa al FMI durante il loro sesto summit a Fortaleza, in Brasile, il 15 luglio 2014.

Fase embrionale

Successivamente hanno concluso un accordo denominato Contingent Reserve Arrangement (CRA) finalizzato a fornire temporanee linee di finanziamento a Paesi con problemi di bilancia dei pagamenti o crisi valutarie.

La NDB e il CRA sono ancora in fase embrionale. Dal bilancio (in dollari) della NDB risulta che dei 50 miliardi di dollari di capitale a fine 2022 ne erano stati versati solo 10. La banca dipende ancora per oltre il 70 per cento del suo finanziamento dal dollaro.

Strumento di solidarietà

La CRA non ha struttura propria ed è bloccata dalla discussione sulla governance, dominata dalla Cina. Inoltre, nell’unica occasione in cui avrebbe potuto essere utile come strumento di solidarietà fra BRICS, l’esclusione della Russia dagli scambi internazionali, nessuno se l’è sentita di contrastare così esplicitamente le sanzioni americane. D’altro canto, proprio l’impatto delle sanzioni ha spinto i BRICS a considerare il lancio di una propria moneta.

In vista del prossimo incontro dei BRICS a fine agosto, la Russia ha lanciato l’idea di creare una moneta basata sulle riserve auree di questi paesi. Non conosciamo i dettagli della proposta, che arriva a cinquantadue anni dalla fine del Gold Standard decretato da Nixon il 15 agosto 1972 con l’abbandono della convertibilità del dollaro in oro.

Si ripropone anche in questo caso, però, un problema di dimensioni. Delle circa 32 mila tonnellate di riserve auree mondiali, i BRICS ne detengono 5.445 (6.200 considerando tutti i Paesi candidati a far parte del gruppo), meno degli Stati Uniti (8.133) e di quelli dell’area euro (10.774). Il “mondo occidentale” detiene oltre il 70% delle riserve auree.

Silvio Bencini*

*Silvio Bencini è managing partner di European Investment Consulting, società di consulenza per asset manager e fondi pensione.
Ha una vasta esperienza in materia di fondi pensione e sistemi pensionistici e ha ricoperto per due anni il ruolo di direttore generale ad interim di un fondo pensione aziendale. È regolarmente relatore in seminari tenuti dall’organizzazione di categoria Mefop.
Laureato con lode in economia a Torino, ha svolto tutta la sua carriera nel settore finanziario, prima come analista obbligazionario, poi come trader di derivati su tassi d’interesse per assumere successivamente ruoli di vertice. Dal 1998 al 2006 ha lavorato nel Gruppo Monte dei Paschi di Siena ricoprendo ruoli di vertice sia nella holding che nelle società controllate.
Prima di entrare in EIC ha lavorato come senior advisor per le istituzioni finanziarie e il wealth management nella practice di consulenza manageriale di Accenture.
Silvio Bencini ha ottenuto le certificazioni professionali CFA (Chartered Financial Analyst), CAIA (Chartered Alternative Investment Analyst) e PRM (Professional Risk Manager) e la certificazione CFA Institute in ESG Investing (2021).
Ha ricevuto una borsa di studio dalla Fondazione Luigi Einaudi di Roma e ha tenuto corsi e seminari presso la facoltà di Economia e Commercio di Torino, l’Università Bocconi e l’Università Bicocca di Milano.
Attualmente è professore a contratto presso l’Università Bicocca di Milano, in un corso di machine learning e finanza.