Speciale per Africa ExPress Federica Iezzi
23 agosto 2023
Nella parola clandestino, di origine latina – clam (nascosto) e dies (giorno), letteralmente ‘nascosto di giorno’ – è presente l’idea di cose fatte senza l’approvazione o contro il divieto delle autorità.
Oggi questa definizione vive principalmente nell’individuazione di rifugiati, richiedenti asilo, migranti e profughi fra i latrati di accusa e i vuoti discorsi di giustificazione.
Nessun rifugiato, nessun richiedente asilo, nessun migrante, nessun profugo è un clandestino.
Nessuna persona che ha timore di essere perseguitata per la sua cittadinanza, la sua appartenenza sociale o le sue opinioni politiche, è un clandestino.
Nessuna persona che lascia guerra, povertà, carestie, violenze o persecuzioni, è un clandestino.
E ha messo tutto nero su bianco la Cassazione, con la sentenza dello scorso 16 agosto.
La decisione della Suprema Corte mette fine a una vicenda iniziata 7 anni fa, quando la Lega aveva convocato una manifestazione di protesta, per contestare l’assegnazione di 32 richiedenti asilo a un centro di assistenza a Saronno, in provincia di Varese. “Saronno non vuole i clandestini” è questo che recitavano, come tanti brulicanti burattini, i manifestanti guidati da Matteo Salvini.
Troppo ghiotta l’occasione di abusare ripetutamente della parola “clandestino” durante la massacrante campagna politica che, negli anni, ha incoronato Salvini prima alla Camera dei deputati e poi al Senato della Repubblica. Cavalcando una profonda ondata di povertà politica, l’uso della lingua italiana è stato dunque distorto per denigrare, per confondere, per raggirare.
L’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (ASGI) e NAGA, organizzazione che fornisce assistenza sanitaria e legale ai cittadini stranieri, avevano citato in giudizio la Lega, condannata in primo grado e in appello, nel 2017 e nel 2020.
Quindi, il ricorso della Lega, respinto anche dalla Cassazione con le parole “Gli stranieri che fanno ingresso nel territorio dello Stato italiano perché corrono il rischio effettivo, in caso di rientro nel Paese di origine, di subire un grave danno, non possono a nessun titolo considerarsi irregolari e non sono dunque clandestini”.
La Cassazione definisce inoltre l’episodio come “comportamento idoneo a offendere la dignità della persona e a creare un clima degradante, umiliante e offensivo”, adeguandosi a quanto già sancito dalla Convenzione di Ginevra nel lontano 1951.
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Dal Nostro Corrispondente Sportivo Costantino Muscau
Budapest 22 agosto 2023
Un, due, tre.. triplo salto d’oro di 17,64 metri per il Burkina Faso. Una medaglia epocale, la prima così pregiata, conquistata da Hugues Fabrice Zango, 30 anni, per il suo Paese.
Uno, due, tre: tripletta etiope nei 10 mila metri femminili. Prima, seconda e terza avvolte nel tricolore verde, giallo e rosso. Nell’ordine: Gudaf Tsegay, 26 anni, Letensebet Gidey, 25, Ejgayehu Taye, 23.
Uno, due, tre: terzo titolo mondiale consecutivo per l’ugandese Joshua Cheptegei, 26 anni, nei 10 mila metri maschili.
L’atletica africana ha bussato con prepotenza alle porte dei Campionati mondiali di Atletica in svolgimento a Budapest (19-27 agosto) e ha subito sfondato. Nei primi giorni i runners, velocisti e saltatori del Continente hanno dato spettacolo, hanno confermato la loro superiorità nella più lunga specialità su pista e hanno regalato sorprese.
Proprio nella prima giornata (sabato 19 agosto) c’è stato il trionfo delle ragazze di Addis Abeba, giunte in successione al traguardo al termine di un finale thrilling.
A 30 metri dall’arrivo, infatti, è caduta, inciampando, la favorita numero uno e considerata una delle più forti fondiste di tutti i tempi: Sifan Hassan, 30 anni, etiope di nascita, ma con maglia e nazionalità dell’Olanda, dove arrivò da sola a 15 anni nel 2008, come rifugiata politica.
Momenti non meno drammatici registra la vita della vincitrice Gudaf Tsegay. Originaria del Tigray (nord Etiopia, sconvolto da recente guerra civile), Gudaf, nel marzo scorso, dopo essere diventata campionessa mondiale dei 5 mila metri, confessò alla BBC di essere rimasta senza notizie dei suoi genitori per 18 mesi. A causa del brutale, sanguinoso conflitto, lei stava ad Addis Abeba, i suoi nel Tigray. Ebbe paura di averli persi per sempre.
Come le capitò anche con suo marito allenatore, Hiluf Yihdego, 37 anni. Nel dicembre 2021, Hiluf venne prelevato di casa con l’accusa di essere un sostenitore del Tigray Peoples Liberation e lei di fare incetta di dollari. Poi tutto sembra si sia appianato, tanto che il primo ministro Abiy Ahmed, 47 anni, si è congratulato con le tre atlete con un tweet: “Le orgogliose figlie dell’Etiopia ancora una volta hanno tenuto alta la bandiera dell’Etiopia ai campionati mondiali di Atletica”.
Toni meno trionfalistici in Uganda, per Joshua Cheptegei, forse perché ormai ha abituato tutti: oltre a essere detentore del record mondiale sui 5 mila e 10 mila, il 20 agosto, si è preso il suo terzo titolo consecutivo, lasciandosi alle spalle il keniano Daniel Simiu Ebenyo, 27 anni, l’etiope Selemon Barega, 23, campione olimpico ma soprattuto l’altro etiope, Berihu Aregawi, appena ventiduenne, ma dato per favorito.
L’ugandese ha dichiarato a Budapest che d’ora in poi lascerà la pista per dedicarsi alla maratona, cominciando con quella di Valencia, a dicembre. “Chi sa che cosa riserva il futuro all’uomo che ha infranto la tradizione delle corse sulla distanza dominata da etiopi e keniani?” si è domandato Simon Turnebull sul sito di World Athletics.
Joshua è, infatti, il quarto atleta nella storia (a soli 26 anni) ad avere conquistato l’oro sui 10 km ai mondiali per tre volte di seguito, sulla scia proprio di due etiopi, Haile Gebrselassie, 50 anni, Kenenisa Bekele, 41 anni, (4 successi).
Lunedì, 21 agosto, il salto piccolo (ma non tanto) per Zango, un grande passo in avanti per lo sport del Burkina Faso, Paese, a dir la verità, in ben altre faccende affaccendato. Venti di guerra, infatti, stanno soffiando su Ouagadougu da quando con il Mali ha appoggiato il colpo di Stato in Niger che, il 26 luglio, ha deposto il presidente democraticamente eletto, Mohamed Boazum. Gli aderenti alla Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale (ECOWAS), hanno infatti minacciato un intervento militare. Nel fine settimana, poi, almeno 45 persone sono morte in scontri a fuoco tra le forze di sicurezza del Burkina Faso e gruppi terroristici attivi nel centro est del Paese del Sahel.
La prima medaglia d’oro del Burkina Faso, il triplista Zango, in realtà vive lontano, nel nord della Francia e si allena a Bethun sotto la guida dell’ex campione mondiale Tedduy Tamgho, 34 anni, e sta per concludere il dottorato (in ottobre) in Ingegneria elettrica, all’università di Artois. Aspettava la medaglia d’oro mondiale dal 2021 anni, da quando a Tokio diede al Burkina la prima medaglia olimpica di sempre, sia pure di bronzo. Ora punta alle prossime Olimpiadi, in Francia, sua patria adottiva. Per questo il burkinabè si è già trasferito all’Insep di Parigi, il centro per eccellenza di preparazione sportiva.
Una menzione particolare, infine, la merita anche Letsile Tebogo, 20 anni, del Botswana: sui 100 metri piani, una gara dove trovare ai primi posti gli atleti africani sono mosche bianche, Tebogo è giunto secondo dietro all’americano Noah Lyles, 26,anni, ora il più veloce al mondo. E’ stato battuto è per un pelo e ha dato all’Africa la prima medaglia in assoluto sui 100 metri: 9.83 contro 9.88. E’ nata una stella africana anche nella velocità?
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Speciale per Africa ExPress Angus Shaw
Harare 21 agosto 2023
Lo Zimbabwe si reca alle urne per le elezioni generali mercoledì (23 agosto), cinque anni dopo l’estromissione del presidente di lunga data, Robert Mugabe, con un colpo di stato incruento che ha comunque perpetuato il potere del corrotto e brutale partito ZANU-PF di Mugabe.
Il contestabile processo elettorale mantenuto dal partito monolitico Zimbabwe African National Union-Patriotic Front fin dall’indipendenza nel 1980 rimane in vigore.
Ancora una volta gli attivisti per i diritti umani e democratici sono stati espulsi e ai giornalisti stranieri indipendenti è stato impedito l’ingresso per presunti pregiudizi ostili e filo-occidentali. Il sondaggio segue mesi di propaganda, minacce e intimidazioni tipiche dell’arena politica.
Finora gli spargimenti di sangue sono stati sporadici, ma l’atmosfera di paura e trepidazione è palpabile in tutto il Paese.
All’inizio di questo mese, un candidato del partito al governo, in corsa per la rielezione in un seggio sicuro del partito in una circoscrizione rurale, ha detto agli abitanti del villaggio che il loro voto non è segreto e che se voteranno nel modo sbagliato saranno puniti.
I commentatori hanno visto in questo messaggio l’ammissione che le tradizionali roccaforti del partito sono ora in bilico, mentre il sostegno diminuisce e la povertà e le difficoltà peggiorano.
Altrove gli elettori riferiscono di messaggi simili da parte di giovani militanti che pattugliano le strade dei villaggi poveri e delle township di tutto il Paese. “Vi stiamo osservando”, ha detto un gruppo il cui leader ha agitato una scatola di fiammiferi, un noto segnale di avvertimento che indica che il fuoco e la violenza sono a portata di mano se necessario.
I baristi e i tassisti ne hanno sentiti altri, mentre la tensione saliva. “Resta a casa, fratello. Non sarà sicuro”, ha detto uno di loro. Ha raccontato che lui e i suoi amici hanno mandato via le loro mogli e i loro figli quando le scuole hanno chiuso per le consuete vacanze, quindici giorni fa.
Dove l’elettricità e i frigoriferi scarseggiano, i residenti della township si affidano a venditori informali per le forniture quotidiane di alimenti freschi. I militanti fanno la loro comparsa anche nelle bancarelle di cibo lungo le strade, note localmente come “tuck shop”.
Durante la campagna elettorale del presidente Emmerson Mnangawa, successore di Mugabe, i cittadini sono stati praticamente “randagizzati” ai comizi del partito, le attività commerciali e i mercati delle pulci sono stati chiusi dalla polizia e dai soldati e gli autobus sono stati requisiti per portare la folla da lontano. L’emittente statale descrive l’affluenza come indicativa della schiacciante popolarità di Mnangagwa.
Molti partecipanti affamati, tuttavia, sono effettivamente attirati dalla popolarità delle scatole di pollo e patatine da asporto gratuite, delle bibite e delle magliette e cappellini del partito. Il fast food è di proprietà di un ricco esponente dello ZANU-PF.
Diverse manifestazioni del principale partito di opposizione “Tripla C” (Coalizione dei cittadini per il cambiamento) sono state impedite dalla ZRP (Polizia della Repubblica dello Zimbabwe, chiamata da alcuni anche Polizia della Repubblica dello ZANU) e i media dominanti controllati dallo Stato ignorano ampiamente l’opposizione politica, tranne che per criticarla.
Sopra la più blanda delle diatribe, il titolo del giornale The Herald urlava “Non c’è spazio per i leader immaturi”. Il leader del CCC Nelson Chamisa è un avvocato di 45 anni, Mnangagwa ne ha 80 e i membri del suo gabinetto non sono molto lontani da lui.
Le onde delle radio di proprietà dello Stato sono sature di jingle e canzoni afro-beat che elogiano Mnangagwa e la vecchia guardia.
La legge elettorale che impone la parità di accesso ai media, è ignorata.
Anche la Triple C ha enormi vincoli di bilancio in un’economia in crisi e la sua raccolta di fondi e le donazioni che riceve sono sottoposte a un intenso controllo da parte dell’intelligence di Stato, perché Chamisa e i suoi colleghi che chiedono un cambio di regime sono visti come “burattini dell’Occidente”.
I finanziamenti politici stranieri, chiunque li offra, sono illegali.
Tuttavia, le elargizioni di personaggi come la Russia allo ZANU-PF sono accettabili.
Vladimir Putin ha regalato un elicottero executive da 30 posti a Mnangagwa per ringraziarlo del suo sostegno contro l’Ucraina. Elicotteri russi più piccoli, destinati ai servizi di emergenza, sono stati utilizzati in campagna elettorale (per facilitare le “difficoltà di mobilità” della gerarchia dello ZANU PF, evitando le strade piene di buche e la rete di trasporti nazionale al collasso).
Oltre alla presidenza, in palio mercoledì ci sono 270 seggi del Parlamento, 181 detenuti dal partito al potere e centinaia di cariche elettive nei consigli comunali e rurali, oltre alle questioni dell’economia iperinflazionata e della drastica carenza di sanità, istruzione e servizi pubblici.
I risultati di tre precedenti elezioni sono stati contestati per brogli e manipolazione delle liste degli elettori, senza alcun risultato nei tribunali filogovernativi.
Lo Zimbabwe ha 6,6 milioni di elettori registrati su una popolazione di 15 milioni, con circa altri tre milioni che vivono all’estero come rifugiati politici o economici a cui viene negato il diritto di voto in patria.
Secondo la legge elettorale, i risultati completi di questa settimana devono essere annunciati entro cinque giorni dal voto, ma in passato ci è voluto molto più tempo, anche dopo un mese di aspri mercanteggiamenti e recriminazioni.
I baristi e i tassisti pensano che sia di nuovo tutto in tasca, un risultato scontato anche questa volta: brogli, paura, docilità e apatia nel recarsi alle urne, perché in Zimbabwe non cambia nulla.
Speciale per Africa ExPress Cornelia I. Toelgyes
20 agosto 2023
Questa mattina migliaia di giovani si sono nuovamente radunati a Niamey a sostegno dei golpisti.
Cartelloni con “No alle sanzioni”, “Abbasso la Francia” e “Stop all’intervento militare” sono stati alzati nella Place de la Concertation della capitale, come è già avvenuto in occasione di precedenti manifestazioni a favore dei golpisti, al potere dal 26 luglio scorso.
E ieri, migliaia e migliaia di ragazzi, per lo più appena maggiorenni, si sono messe in fila fuori dallo stadio principale di Niamey per registrarsi come volontari o combattenti in caso di un attacco militare da parte di ECOWAS (Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale). Gli organizzatori della campagna di reclutamento hanno però precisato che non intendono arruolare volontari per l’esercito, ma piuttosto stilare una lista di persone disposte a prestare le proprie competenze civili in caso di un attacco militare di ECOWAS.
Alcuni genitori hanno portato i loro figli per iscriversi; altri hanno detto di aver aspettato dalle 3 del mattino, mentre gruppi di giovani intonavano cori a favore dei leader militari e contro ECOWAS e la Francia.
Secondo l’agenzia Reuters, molti giovani, che sono venuti per iscriversi nelle liste, sono disoccupati e molti tra loro sembrano desiderosi di combattere.
Il colpo di Stato e le successive sanzioni internazionali hanno danneggiato severamente la già fragile economia del Niger. Secondo la Banca Mondiale, nel Paese, uno tra i meno sviluppati al mondo, oltre il 40 per cento della popolazione vive in condizioni di estrema povertà.
Venerdì scorso il commissario per la pace e la sicurezza dell’ECOWAS, Abdel-Fatau Musah, ha dichiarato che 11 dei 15 Stati membri hanno accettato di impegnare le proprie truppe in un dispiegamento militare, dicendosi “pronti a partire” non appena verrà dato l’ordine. I Paesi che non parteciperanno a un eventuale intervento armato sono ovviamente il Niger al quale si aggiungono i suoi alleati Guinea, Mali e Burkina Faso. Bamako e Ougadougou hanno inoltre sottolineato che considerano un intervento in Niger come un atto di guerra. E sembra che, secondo quanto riferito dalla TV di Stato nigerina, i due Stati avrebbero già schierato la propria flotta aerea in segno di solidarietà.
Il primo ministro nigerino, Mahamane Lamine Zeine, nominato dai golpisti, e un altro membro della giunta militare hanno ricevuto brevemente la delegazione di ECOWAS capeggiata dall’ex presidente nigeriano, Abdulsalami Abubakar, all’aeroporto di Niamey. I rappresentanti della Comunità Economica hanno potuto visitare anche Bazoum, il presidente legittimamente eletto esautorato dal golpe, agli arresti domiciliari, ma la cui residenza è ancora senza corrente elettrica.
La delegazione ha avuto anche colloqui con Abdourahamane Tiani, l’uomo forte del Niger, e altri membri della giunta. Poche ore dopo l’incontro con gli esponenti di ECOWAS, in diretta TV Tiani ha proposto una transizione di tre anni e ha avvertito che qualsiasi attacco al Paese “non sarà una passeggiata” per le persone coinvolte.
“Le nostre forze di difesa”, sostenute da Burkina Faso, Mali e Guinea, “non si sottrarranno”, ha dichiarato e ha aggiunto infine: “La nostra ambizione non è quella di prendere il potere”, ha promesso.
Intanto questa mattina è circolata voce che ieri a Niamey sarebbe atterrato un aereo russo con a bordo miliziani del gruppo paramilitare Wagner. Dopo un attento esame del fotogramma postato su molti account, Africa ExPress ha potuto facilmente verificare che il Il-76 è arrivato a Bamako. Una fake news lanciata per creare altra confusione in una situazione già molto incerta. A bordo dell’aereo c’erano diversi alti ufficiali della società. Non abbiamo potuto verificare se tra loro ci fosse anche il loro capo, Yevgeny Prigozhin.
Sebbene lo scopo della visita non sia ancora stato rivelato, alcuni esperti ritengono che l’arrivo dei dirigenti della società russa potrebbe essere legato al deterioramento della sicurezza nella regione. Non si escludono nemmeno discussioni su una possibile cooperazione con il vicino Niger.
Sta di fatto che, secondo quanto riporta Serge Daniel, giornalista ben informato sulle questioni nel Sahel, sul suo account Twitter, la situazione a Timbuctù è al quanto preoccupante. Dalle minacce, i jahadisti del JNIM (Gruppo di sostegno dell’Islam e dei musulmani) sono passato ai fatti e con lo smantellamento delle basi di MINUSMA (missione di pace dell’ONU in Mali), il cui mandato prevedeva anche la protezione dei civili, la popolazione è disperata.
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Speciale per Africa ExPress Federica Iezzi
19 agosto 2023
Due anni dopo la conquista dell’Afghanistan, attraverso più di 50 editti, ordini e restrizioni, i talebani hanno sistematicamente imposto una serie di politiche di disuguaglianza, meticolosamente costruite, che continuano ad avere un impatto devastante su ogni parte della vita di una donna.
Prima sono arrivate le limitazioni all’istruzione e al diritto al lavoro, poi l’applicazione di rigidi codici di abbigliamento, le imposizioni sulla libertà di movimento senza un tutore di sesso maschile (mahram) e l’accesso ai luoghi pubblici.
A nulla sono serviti i due decenni di guerra. Quando le forze statunitensi e della NATO si sono ritirate dal Paese, due anni fa, è iniziata una lenta e misera involuzione.
E di fatto i talebani, ancora oggi, non affrontano alcuna opposizione significativa che possa rovesciarli. Hanno evitato le divisioni interne. Hanno tenuto a galla un’economia in difficoltà, anche se la comunità internazionale nega il riconoscimento formale. Hanno migliorato la sicurezza interna attraverso la repressione di gruppi armati dissidenti.
Una raffica di migliaia di denunce sulla condizione femminile in Afghanistan ha straripato nell’opinione pubblica. Governi stranieri, gruppi per i diritti umani, organismi globali, agenzie umanitarie hanno condannato le restrizioni. Le Nazioni Unite hanno affermato che rappresentavano un grave ostacolo al riconoscimento internazionale dei talebani come governo legittimo dell’Afghanistan. Niente si è tramutato in concretezza.
Anzi, la Banca Mondiale ha recentemente dichiarato che la valuta locale, l’afghani, ha guadagnato valore rispetto alle principali valute. I clienti possono dunque prelevare più denaro dai depositi individuali e tale riscossione delle entrate viene descritta come sana.
Anche se i talebani sono ufficialmente isolati sulla scena globale, sembrano avere interazioni e legami sufficienti con i Paesi della regione, tra cui Cina, Kazakistan, Russia e Pakistan che si stanno avvicinando lentamente alla normalizzazione, premendo per la fine delle sanzioni. Il gioco si chiude con l’interesse globale, che ben presto si trasforma in cooperazione con i talebani, in materia di narcotraffico, rifugiati e antiterrorismo.
In breve la comunità internazionale, come le Organizzazioni Non Governative presenti in loco, si sono allineate alle regole dei talebani.
Le donne hanno risposto alle restrizioni marciando per le strade delle città afghane, chiedendo il diritto al lavoro e allo studio. Sono state violentemente fermate dal governo talebano.
Le restrizioni sono state introdotte in modo incrementale. Nel dicembre 2021, il Ministero per la promozione della Virtù e la prevenzione del Vizio ha ordinato alle donne, che avrebbero percorso distanze superiori a 72 km, di essere accompagnate da un parente stretto di sesso maschile.
Mentre le donne cominciavano a scomparire dalla vita pubblica, esattamente un anno dopo, il Ministero dell’Istruzione ha ordinato anche a tutte le università pubbliche e private di sospendere l’istruzione femminile. E solo pochi giorni dopo, il Ministero dell’Economia ha revocato i permessi di lavoro delle donne dipendenti di Organizzazioni Non Governative locali e internazionali.
La realtà è che a dominare il secondo anno di governo dei talebani c’è la crudele esclusione delle donne afghane da parchi, palestre, piscine, università e posti di lavoro, magari semplicemente perché non indossano l’hijab adeguato.
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Dal Nostro Corrispondente Sportivo Costantino Muscau
Zagabria, 18 agosto 2023
“I nostri giovani del Burundi sono sportivi talentuosi, compiono delle imprese che fanno onore al Paese in molti settori. Non fermatevi, però allo sport, dovete impegnarvi anche in altri campi per il vostro sviluppo”.
Così parlò il Numero Uno del Burundi, Sua Eccellenza Presidente Evariste Ndayishimiye, 55 anni, ex militare, dal 2020 a capo di uno Stato tra i più poveri del mondo (meno di 800 dollari il Pil) e teatro dal 1993 al 2005 di una terrificante guerra civile.
Era il 16 novembre 2022 e la squadra giovanile di Pallamano, guidata dal responsabile delle Federazione giovanile di Handball, Dauphin Nikobamye offriva al Numero Uno (maiuscole obbligatorie in Burundi quando si parla di Lui) un trofeo appena conquistato all’estero.
Questi giovani talentuosi, o almeno una parte di essi, ingrati, nei giorni scorsi con un colpo di mano, non si sono dimostrati degni di tanto elogio da parte del Numero Uno. Anzi sono diventati “un flagello che bisogna frenare”.
Eh sì, perché 10 diciasettenni burundesi impegnati nei Mondiali di Pallamano Under 19, che si svolgevano in Croazia, sono scomparsi. Spariti, volatilizzati. Quasi tutta la squadra (10 su 13!) dissoltasi nel nulla. Verso le 15.30 del 9 agosto invece di fare ritorno al Centro studentesco di Rijeka (Fiume), dove alloggiavano, hanno preso un’altra strada.
Quella – si presume – della libertà, per un futuro diverso da quello della miseria e della repressione che li attende in casa. Muti i telefonini dei ragazzi, panico e costernazione nella delegazione venuta da Gitega(la capitale politica che dal 2018 è subentrata a Bujumbura, centro economico) e nei loro genitori. Il responsabile, DauphinNikobamye, era sotto choc: “Dovevamo incontrare la nazionale del Bahrain e poi quella della Nuova Zelanda; invece, i giocatori si sono allontanati senza autorizzazione. Come faremo a tornare in patria senza di loro?”
Ovviamente la partita non si è giocata, la squadra (data per sconfitta 10-0 a tavolino sia con Bahrain sia con Nuova Zelanda) è stata ritirata, la Polizia della contea Primorje-GorskiKotar ha avviato subito le ricerche dei fuggiaschi. Fino a dopo Ferragosto, però, nessuna traccia della “decina desaparecida”.
Non solo: pochi giorni dopo, quella pattuglia di “latitanti”ha avuto un imitatore: si è dileguato anche un atleta del Ruanda, Fred Nshimyumuremuyi, 19 anni, ala destra dell’équipe nazionale e del club di pallamano della polizia ruandese. La notizia è stata data mercoledì, una volta che la squadra è sbarcata a Kigali. Fred alloggiava con i compagni in un hotel di Zagabria, dove non ha più messo piede.
Un mistero, un giallo sempre più fitto, dunque? Fino a certo punto. L’ipotesi più probabile è che i players avessero programmato, magari aiutati da qualche adulto, l’evasione, via Europa dai due Paesi un tempo gemelli, il Burundi e Rwanda.
Due Stati poi uniti dal medesimo bagno di sangue genocida. La Croazia è un’ottima porta per “immergersi” in Europa: dal 1° gennaio 2023 fa parte dell’area Schengen e ai giocatori africani era stato concesso il visto che consente loro di girare nel nostro continente. Inoltrandosi per la cosiddetta rotta Balcanica, probabilmente gli atleti sono finiti in Germania, o in Francia, o altri Stati del nord. Una fuga ben architettata. Per non destare sospetti i giovani hanno sfidato gli Stati Uniti (e hanno perso per 33-27) poi alla vigilia degli altri 2 incontri se la sono data a gambe.
Nella classifica finale il Burundi è stato collocato all’ultimo posto, il 32° posto, il Rwanda al 27°. (Il torneo, conclusosi il 13 agosto, è stato vinto dalla Spagna). Facile immaginare la reazione delle autorità di Gitega.
“La scomparsa danneggia l’immagine del Burundi e la reputazione dei giocatori burundesi. Questo offuscare l’immagine del Burundi è indubbiamente aggravato dalle incredibili ragioni che queste pecore smarrite danno per giustificare il loro comportamento. Il nostro orgoglio è stato eroso da questo comportamento indegno di alcuni giocatori”, si legge in un comunicato attribuito da alcune fonti di stampa a Remy Barampama, definito ministro dello Sport del governo presieduto dal generale Evariste Ndayishimiye. (Secondo il sito ufficiale statale, però, il titolare del dicastero “East African Community Affairs, Youth, Sports and Cultura, risulta essere l’ambasciatore Ezekiel Nibigira).
Ai giovani africani, però, interessava sfuggire alla durissima realtà sociale ed economica dei loro Paesi.
Proprio il 9 agosto il sito di giovani bloggersYaga Burundi, una rara voce libera ha pubblicato la lettera di un cittadino che ha preso una decisione “molto difficile, ma necessaria: lasciare l’amatissimo Paese. Non è una fuga, ma la ricerca di una speranza per l’avvenire dei miei figli. Qui manca la soddisfazione dei bisogni primari, lavoro, istruzione, salute. Sono nato e cresciuto con il crepitio dei fucili, ho visto troppi orrori. E ho giurato a me stesso che i miei figli non vivranno ciò che io ho vissuto. I miei ragazzi meritano un avvenire migliore. Si dice che l’erba del vicino sia sempre migliore. Sicuramente è migliore di questa che mangiamo nel nostro caro Paese”.
Dove l’87 per cento dei circa 13 milioni di abitanti vive sotto la soglia di povertà, dove lo stipendio mensile è di 15 dollari, dove la mortalità infantile è alta, dove la corruzione dilaga, dove la libertà di espressione è conculcata, e dove – secondo World Happiness Report – c’è il più alto tasso di infelicità.
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Speciale per Africa ExPress Cornelia I. Toelgyes
17 agosto 2023
Mentre tutti gli occhi sono puntati sul golpe in Niger e sull’eventuale intervento militare di ECOWAS (Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale) per reinsediare il presidente Mohamed Bazoum, i jihadisti del Sahel si stanno scatenando.
In Mali, il Gruppo di sostegno dell’Islam e dei musulmani (JNIM) ha messo sotto assedio la Perla del Sahel, la città di Timbuktu (nel nord del Paese), dal 1988 patrimonio mondiale dell’UNESCO, grazie alla sua importanza culturale e storica.
In una serie di messaggi audio trasmessi dall’8 agosto 2023, il comandante del JNIM per la regione di Timbuktu, Talha Abou Hind, ha annunciato che non permetterà più il passaggio di alcun camion proveniente dall’Algeria e dalla Mauritania, ma anche dalla regione maliana di Mema, più a sud.
Il leader islamista JNIM (gruppo terrorista legato a al Qaeda), ha fatto sapere che suoi uomini si stanno mobilitando intorno alla città per “una guerra totale” contro lo Stato maliano, che ha “chiamato i Wagner (il gruppo paramilitare russo attivo in Mali dalla fine del 2021) in loro aiuto, come in precedenza aveva chiesto supporto a Barkhane (forze militari francesi) e a Takuba (forze militari europee), che nel frattempo hanno lasciato il Mali”.
Finora il capo di JNIM non sarebbe ancora passato ai fatti. Anche se diverse fonti hanno riferito che nessun camion proveniente dall’Algeria, Mauritania, tantomeno dalla città maliane Bambara Maoudé, Mopti e Goundam sono entrati a Timbuktu.
Attualmente non mancano ancora i rifornimenti e in città regna la calma. Le autorità hanno chiesto alla popolazione di stare tranquilla. Ciononostante alcune famiglie hanno abbandonato la città, per paura della minaccia jihadista, altre, per lo più arabe, perché temono la reazione dell’esercito maliano. Finora né le forze armate, né i loro alleati russi, i mercenari di Wagner, sono intervenuti.
Nei giorni scorsi i militari di Bamako e i contractor di Wagner hanno preso possesso della base di MINUSMA (missione di pace dell’ONU, costretta a lasciare i Paese) a Ber, che dista solamente una sessantina di chilometri dalla città circondata dai terroristi di JNIM.
I caschi blu, mentre stavano per lasciare la base di Ber, sono state oggetto di due attacchi rivendicati dai jihadisti di JNIM e quattro uomini di MINUSMA sono stati feriti.
Anche in quell’area la situazione è tesa e complessa. E’ controllata dal Coordinamento dei movimenti dell’Azawad (CMA), firmatario dell’accordo di pace del 2015, ma dopo l’arrivo dei militari maliani e dei loro alleati domenica scorsa, i loro leader non hanno nascosto il loro disappunto. Ritengono che si tratti di una violazione dell’accordo di pace e attribuiscono la responsabilità ai caschi blu di MINUSMA.
I funzionari dell’ONU hanno spiegato che le basi occupate dai caschi blu in Mali dovranno essere consegnate alle autorità maliane, in quanto all’epoca, nel 2013 (ben prima della firma del trattato di pace), è stato il governo di Bamako a autorizzare lo spiegamento delle truppe della missione di pace del palazzo di Vetro. MINUSMA consegnerà quindi ufficialmente i suoi campi alle autorità politiche di transizione maliane e saranno loro a decidere se concederle o meno all’esercito insieme ai contractor di Mosca.
Attualmente in Mali ci sono 1.600 mercenari russi, ma la loro presenza continua essere negata da Bamako, nonostante le conferme di numerosi funzionari russi, nonché dallo stesso capo di Wagner Evgeny Prigozhin.
Malgrado il massiccio spiegamento dei paramilitari, gli attacchi terroristi sono aumentati considerevolmente. Secondo un inchiesta del quotidiano parigino Le Monde, e in base ai dati della ONG statunitense ACLED (Armed Conflict Location and Event Data Project, organizzazione non a scopo di lucro, specializzata nella raccolta di dati, analisi e mappature dei conflitti nel mondo), nel 2022 almeno 688 civili sono stati uccisi dal gruppo dello Stato Islamico, otto volte di più rispetto alla media dei quattro anni precedenti all’arrivo di Wagner. Mentre JNIM ha ucciso almeno 590 civili nel 2022: 3,5 volte in più rispetto alla media del periodo 2018-2021.
Ma anche in Niger, tre settimane dopo il putsch, gli attacchi dei terroristi sono in netto aumento, dovuto anche al ritiro delle forze nigerine dalle aree strategiche (la zona delle tre frontiere: Niger, Mali, Burkina Faso). Gran parte dei soldati nigerini sono stati richiamati nella capitale a causa di un possibile intervento militare di ECOWAS.
Eppure per la giunta militare nigerina, ConsiglioNazionale per la Salvaguardia della Patria (CSNP), guidata da Abdourahamane Tchiani, ex capo della guardia presidenziale, una delle ragioni addotte dai putschisti per giustificare il loro colpo di Stato è il “continuo deterioramento della situazione della sicurezza”. Da quando hanno preso il potere, sono ben 8 gli attacchi perpetrati dai terroristi.
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Con questo articolo Federica Iezzi,
giornalista ma anche cardiochirurgo pediatrico
impegnata in missioni umanitarie
con Organizzazioni Non Governative in Africa,
comincia la sua collaborazione con Africa Express.
Speciale per Africa ExPress Federica Iezzi
17 agosto 2023
E’ la regione del Lower Shabelle, tra i distretti di Qoryooley e Marka, l’ultima area colpita da un attacco ad un autobus di linea, rivendicato dai militanti di al-Shebab in Somalia. Si contano una decina i morti e altrettanti feriti.
Gli Shebab, dunque, rimangono ancora una crescente minaccia alla stabilità nel Corno d’Africa.
Il mandato del presidente somalo Hassan Sheikh Mohamud è stato in larga misura incentrato sulla lotta al terrorismo. Solo negli ultimi mesi, l’esercito nazionale e le milizie dei clan locali hanno riconquistato aree del Paese in mano al gruppo al-Shabab, soprattutto nella regione di Hiiraan, nello stato federale di Hirshabelle.
Le operazioni sono state sostenute da raid aerei statunitensi (AFRICOM) e dalle 18mila truppe dell’ATMIS (African Union Transition Mission in Somalia), forza dell’Unione Africana il cui mandato è terminato lo scorso giugno.
La violenza legata agli Shebab è cresciuta in modo significativo proprio a giugno, in particolare nelle regioni di Lower Shabelle e Banadir, con oltre una dozzina di attacchi contro le forze di sicurezza e la popolazione civile.
Gli attacchi hanno avuto luogo in un momento cruciale, poiché Somalia e Kenya hanno concluso un accordo per riaprire i valichi di frontiera di Mandera, Lamu e Garissa, chiusi dal 2011, e la missione ATMIS ha iniziato a ritirare le sue truppe dalla Somalia.
Dall’inizio della prima fase dell’offensiva contro gli Shabab nello stato di Hirshabelle, risalente ad un anno fa, la regione di Hiiraan è stata l’epicentro dell’operazione. Durante la prima fase, le forze di sicurezza somale hanno ottenuto il controllo di diverse roccaforti strategiche del gruppo ribelle, con il supporto delle milizie dei clan della regione.
Con il lancio della seconda fase dell’offensiva, estesa anche allo stato di Galmudug, il governo ha cercato di ridurre la dipendenza dalle milizie dei clan locali, di fatto rendendo tali aree obiettivi potenzialmente vulnerabili per gli attacchi dei terroristi.
Nonostante i successi iniziali durante le operazioni militari contro l’insurrezione del gruppo legato ad al-Qaeda, le differenze politiche interne e la continua fragilità di Mogadiscio e delle regioni circostanti, hanno costituito gravi battute d’arresto.
I continui attacchi degli Shebab vanificano la capacità del governo centrale somalo sia di fornire sicurezza, sia di alleviare l’orribile situazione umanitaria nel Paese. L’influenza dei militanti inoltre mina gli sforzi degli Stati Uniti per impedire l’uso della Somalia come rifugio per i terroristi internazionali.
Dal 2007, gli stessi Stati Uniti hanno fornito più di mezzo miliardo di dollari per addestrare ed equipaggiare le forze somale e cinque volte tanto in assistenza alla sicurezza per le forze dell’Unione Africana che combattono nell’ex colonia italiana.
Sebbene l’offensiva del governo somalo abbia indebolito la presa degli Shebab sul territorio, non ha fermato gli attacchi terroristici. Dal 2022 si è osservato un aumento di più del 40 per cento della violenza del gruppo contro civili e forze militari straniere, nonché numerose incursioni nelle regioni di confine con Kenya e Etiopia.
In fuga dalle forze governative, i miliziani avrebbero anche iniziato a spostarsi verso nord, dove l’instabilità politica di Puntland e Somaliland potrebbe offrire una concreta opportunità di espansione.
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Dal sito www.theIntercept.com Ryan Grim e Murtaza Hussain* Washington, 9 agosto 2023
Il Dipartimento di Stato americano ha incoraggiato il governo pakistano in una riunione del 7 marzo 2022 a rimuovere Imran Khan come primo ministro per la sua neutralità sull’invasione russa dell’Ucraina, secondo un documento riservato del governo pakistano ottenuto da The Intercept.
L’incontro, tra l’ambasciatore pakistano negli Stati Uniti e due funzionari del Dipartimento di Stato, è stato oggetto di intensi controlli, polemiche e speculazioni in Pakistan nell’ultimo anno e mezzo, mentre i sostenitori di Khan e i suoi oppositori militari e civili si contendevano il potere.
Tre anni di carcere
La lotta politica si è inasprita il 5 agosto, quando Khan è stato condannato a tre anni di carcere con l’accusa di corruzione e arrestato per la seconda volta dopo la sua destituzione. I difensori di Khan hanno respinto le accuse come infondate. La sentenza impedisce a Khan, il politico più popolare del Pakistan, di partecipare alle elezioni previste per quest’anno.
Un mese dopo l’incontro con i funzionari statunitensi, documentato nel documento del governo pakistano trapelato, si è tenuto un voto di sfiducia in Parlamento, che ha portato alla rimozione di Khan dal potere. Si ritiene che il voto sia stato organizzato con l’appoggio dei potenti militari pakistani.
Da allora, Khan e i suoi sostenitori sono impegnati in una lotta con l’esercito e i suoi alleati civili, che Khan sostiene abbiano architettato la sua rimozione dal potere su richiesta degli Stati Uniti.
Bastoni e carote
Il testo del cablogramma pakistano, prodotto dall’incontro dall’ambasciatore e trasmesso al Pakistan, non è stato pubblicato in precedenza. Il cablogramma, noto internamente come “cypher”, rivela sia le carote che i bastoni che il Dipartimento di Stato ha usato per spingere contro Khan, promettendo relazioni più calde se Khan fosse stato rimosso, e isolamento se non lo fosse stato.
Il documento, etichettato come “segreto”, include un resoconto dell’incontro tra funzionari del Dipartimento di Stato, tra cui l’Assistente del Segretario di Stato per l’Ufficio degli Affari dell’Asia meridionale e centrale Donald Lu, e Asad Majeed Khan, all’epoca ambasciatore del Pakistan negli Stati Uniti.
Il documento è stato fornito a The Intercept da una fonte anonima dell’esercito pakistano che ha dichiarato di non avere legami con Imran Khan o con il suo partito. The Intercept pubblica qui di seguito il corpo del cablogramma, correggendo piccoli errori di battitura nel testo, perché tali dettagli possono essere utilizzati per filigranare i documenti e tracciarne la diffusione.
Posizioni ribaltate
Il contenuto del documento ottenuto da The Intercept è coerente con quanto riportato dal quotidiano pakistano Dawn e da altre fonti che descrivono le circostanze dell’incontro e con i dettagli del cablogramma stesso, compresi i segni di classificazione omessi nella presentazione di The Intercept.
Le dinamiche delle relazioni tra Pakistan e Stati Uniti descritte nel cablogramma sono state successivamente confermate dagli eventi. Nel cablogramma, gli Stati Uniti contestano la politica estera di Khan sulla guerra in Ucraina. Queste posizioni sono state rapidamente ribaltate dopo la sua rimozione, a cui è seguito, come promesso nell’incontro, un riscaldamento tra Stati Uniti e Pakistan.
L’incontro diplomatico è avvenuto due settimane dopo l’invasione russa dell’Ucraina, iniziata mentre Khan era in viaggio verso Mosca, una visita che ha fatto infuriare Washington.
Viaggio a Mosca
Il 2 marzo, pochi giorni prima dell’incontro, Lu era stato interrogato in un’audizione della Commissione Esteri del Senato sulla neutralità di India, Sri Lanka e Pakistan nel conflitto in Ucraina. In risposta a una domanda del senatore Chris Van Hollen, D-Md, sulla recente decisione del Pakistan di astenersi da una risoluzione delle Nazioni Unite che condannava il ruolo della Russia nel conflitto, Lu ha dichiarato: “Il Primo Ministro Khan si è recentemente recato a Mosca, e quindi credo che stiamo cercando di capire come impegnarci specificamente con il Primo Ministro in seguito a questa decisione”. Van Hollen è apparso indignato dal fatto che i funzionari del Dipartimento di Stato non abbiano comunicato con Khan sulla questione.
Il giorno prima dell’incontro, Khan si è rivolto a un comizio e ha risposto direttamente agli appelli europei affinché il Pakistan si schieri a favore dell’Ucraina. “Siamo i vostri schiavi?” Khan ha tuonato alla folla. “Cosa pensate di noi? Che siamo i vostri schiavi e che faremo tutto quello che ci chiederete?”, ha chiesto. “Siamo amici della Russia e anche degli Stati Uniti. Siamo amici della Cina e dell’Europa. Non facciamo parte di nessuna alleanza”.
Secondo il documento, durante l’incontro Lu ha parlato apertamente del disappunto di Washington per la posizione del Pakistan nel conflitto. Il documento cita le parole di Lu, secondo cui “le persone qui e in Europa sono piuttosto preoccupate del motivo per cui il Pakistan sta assumendo una posizione così aggressivamente neutrale (sull’Ucraina), se una tale posizione è possibile. Non ci sembra una posizione così neutrale”.
Lu ha aggiunto di aver avuto discussioni interne con il Consiglio di Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti e che “sembra abbastanza chiaro che questa è la politica del Primo Ministro”.
Lu ha poi sollevato senza mezzi termini la questione del voto di sfiducia: “Penso che se il voto di sfiducia contro il Primo Ministro avrà successo, tutto sarà perdonato a Washington perché la visita in Russia viene vista come una decisione del Primo Ministro”, ha detto Lu, secondo il documento. “Altrimenti”, ha proseguito, “penso che sarà difficile andare avanti”.
Emarginazione occidentale
Lu ha avvertito che se la situazione non venisse risolta, il Pakistan verrebbe emarginato dai suoi alleati occidentali. “Non so dire come sarà visto dall’Europa, ma sospetto che la loro reazione sarà simile”, ha detto Lu, aggiungendo che Khan potrebbe affrontare “l’isolamento” da parte dell’Europa e degli Stati Uniti se dovesse rimanere in carica.
Interrogato sulle citazioni di Lu contenute nel cablogramma pakistano, il portavoce del Dipartimento di Stato Matthew Miller ha dichiarato: “Nulla in questi presunti commenti mostra che gli Stati Uniti prendano posizione su chi debba essere il leader del Pakistan”. Miller ha detto che non avrebbe commentato discussioni diplomatiche private.
L’ambasciatore pakistano ha risposto esprimendo frustrazione per la mancanza di impegno da parte della leadership statunitense: “Questa riluttanza ha creato in Pakistan la percezione che fossimo ignorati o addirittura dati per scontati. C’era anche la sensazione che gli Stati Uniti si aspettassero il sostegno del Pakistan su tutte le questioni importanti per loro, ma senza ricambiare li sostegno”.
La discussione si è conclusa, secondo il documento, con l’ambasciatore pakistano che ha espresso la speranza che la questione della guerra tra Russia e Ucraina non abbia “un impatto sui nostri legami bilaterali”. Lu gli ha risposto che il danno era reale ma non fatale e che con la scomparsa di Khan le relazioni sarebbero potute tornare alla normalità.
Far sparire le ammaccature
“Direi che ha già creato un’ammaccatura nelle relazioni dal nostro punto di vista”, ha detto Lu, sollevando nuovamente la “situazione politica” in Pakistan. “Aspettiamo qualche giorno per vedere se la situazione politica cambia, il che significherebbe che non avremmo un grande disaccordo su questo tema e l’ammaccatura sparirebbe molto rapidamente. Altrimenti, dovremo affrontare la questione di petto e decidere come gestirla”.
Il giorno successivo all’incontro, l’8 marzo, gli oppositori di Khan in Parlamento hanno compiuto un passo procedurale fondamentale verso il voto di sfiducia.
“Il destino di Khan non era segnato nel momento in cui si è svolto l’incontro, ma era comunque incerto”, ha dichiarato Arif Rafiq, studioso non residente presso il Middle East Institute e specialista del Pakistan. “L’amministrazione Biden ha inviato un messaggio alle persone che considerava i veri governanti del Pakistan, segnalando loro che le cose sarebbero migliorate se lui fosse stato rimosso dal potere”.
Autenticare il documento
The Intercept ha compiuto ampi sforzi per autenticare il documento. Dato il clima di sicurezza in Pakistan, non è stato possibile ottenere una conferma indipendente da fonti del governo pakistano. L’ambasciata del Pakistan a Washington non ha risposto a una richiesta di commento.
Miller, portavoce del Dipartimento di Stato, ha dichiarato: “Abbiamo espresso preoccupazione per la visita dell’allora premier Khan a Mosca il giorno dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia e abbiamo comunicato tale opposizione sia pubblicamente che privatamente”. Ha aggiunto che “le accuse che gli Stati Uniti abbiano interferito nelle decisioni interne sulla leadership del Pakistan sono false. Sono sempre state false e continuano ad esserlo”.
Ryan Grim * e Murtaza Hussain**
*Ryan Grim è il capo ufficio di The Intercept a Washington e conduttore del podcast Deconstructed. È autore della newsletter Bad News e in precedenza è stato capo ufficio di Washington per l’HuffPost, dove ha guidato un team che è stato due volte finalista per il Premio Pulitzer, vincendolo una volta. Ha curato e contribuito a un progetto investigativo innovativo sul trattamento dell’eroina che non solo ha cambiato le leggi federali e statali, ma ha anche modificato la cultura dell’industria del recupero. Il servizio, realizzato da Jason Cherkis, è stato finalista al Pulitzer e ha vinto il Polk Award.
È stato giornalista di Politico e del Washington City Paper ed è co-conduttore del programma Counter Points. È autore dei libri “We’ve Got People” (2019) e “This Is Your Country on Drugs” (2009).
Grim è cresciuto nelle campagne del Maryland. Il suo terzo libro, in uscita alla fine del 2023, si intitolerà “For What Purpose: AOC, The Squad, and the Final Act of a Political Revolution”.
**Murtaza Hussain è un reporter di The Intercept che si occupa di sicurezza nazionale e politica estera. È apparso su CNN, BBC, MSNBC e altre testate giornalistiche.
L’articolo originale con i documenti citati si può leggere qui:
Nella serata di ieri, la Seplat Energy (compagnia petrolifera e del gas indipendente nigeriana quotata sia alla borsa di Londra a quella in Nigeria, è attiva nel delta del Niger), ha annunciato sul suo account Twitter un gravissimo incidente sull’impianto di trivellazione Majestic, di recente acquisizione.
Il macchinario gigante si è ribaltato nella mattinata del 15 agosto, mentre si dirigeva verso il sito di perforazione Ovhor, Delta State, Nigeria. Una persona è morta, altre tre risultano disperse. In base alle dichiarazioni di Seplat Energy, sull’impianto erano presenti 96 persone al momento dell’incidente, 92 sarebbero state recuperate sane e salve.
Alcune fonti hanno però rivelato a SaharaReporters (SR) (quotidiano con sede a New York, USA, fondato nel 2006 dal giornalista e attivista per i diritti umani nigeriano, Omoyele Sowore, ndr) che almeno 5 nigeriani e un cittadino britannico sarebbero morti nell’incidente della Majestic.
Un alto dirigente della società, che ha parlato a condizione di anonimato in quanto non autorizzato a parlare con i giornalisti, ha detto ai reporter di SR che dopo il tragico incidente è scoppiato il panico nella compagnia.
“Ciononostante – ha aggiunto – la direzione dell’azienda è al corrente della situazione e sono in corso tutti gli sforzi per trovare le persone scomparse”.
“Posso dire con autorevolezza che alcuni corpi sono stati recuperati e che la maggior parte dei lavoratori è al sicuro e sta ricevendo cure mediche”, ha detto una delle fonti a SR e ha aggiunto: “Tuttavia, abbiamo perso sei dipendenti dell’azienda nell’incidente. Ieri sera sei lavoratori mancavano ancora all’appello e si sta cercando di ritrovarli. Tra i dispersi ci sono un britannico e cinque nigeriani”.
La Seplat Energy ha stipulato il contratto per l’impianto di perforazione in qualità di operatore di una joint-venture con la compagnia petrolifera NNPC Ltd (NNPC Limited è una compagnia petrolifera a scopo di lucro in Nigeria. Precedentemente era di proprietà del governo, è stata trasformata in società a responsabilità limitata nel luglio 2022 ndr).
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