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Ruanda: fucilazione in piazza, la folla fa festa. Ignorati tutti gli appelli internazionali alla clemenza. I condannati legati al palo e bendati, un bersaglio sul petto (di Massimo A. Alberizzi)

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Dal Nostro Inviato Speciale
Massimo A. Alberizzi
Kigali, 22 aprile 1998

La gente urla di gioia, applaude, fischia. I quattro corpi senza vita dei condannati a morte, ciascuno legato a un palo da dieci giri di corda, sembrano sacchi vuoti da cui il sangue continua a zampillare. E quel sangue esaspera l’eccitazione tutt’intorno a noi. “E’ finito, finito. Andate via”, gridano i soldati del servizio d’ordine, che – armati di grossi rami appena strappati dagli alberi – respingono le prime file della folla. I preparativi per la grande festa delle esecuzioni erano cominciati all’alba: camionette di giovani scorrazzano per le vie di Kigali, la capitale, quasi a guidare quanta più folla possibile verso i due punti della città dove è stato preparato il patibolo: fuori dallo stadio di calcio di Nyamirambo e nel quartiere periferico di Nyamata.

Qui a Nyamirambo, alle 10, saranno uccisi quattro dei 22 hutu condannati a morte per aver organizzato e perpetrato il genocidio degli hutu moderati e dei tutsi nel 1994. Alle 9.30 nello spiazzo chiamato “tappeto rosso”, dal colore della terra che lo ricopre e che diventerà presto rosso-sangue, si sono già raggruppate 10 mila persone. Mezz’ora dopo sono almeno 30 mila. Ci son tutti, anche donne e bambini. Molti sono sopravvissuti al genocidio.

Gli spettatori sono impazienti. Come a teatro partono applausi e fischi per incitare a far presto. Poi il primo boato di gioia: alle 10.20 arriva il convoglio con i quattro da fucilare. I loro nomi sono stati tenuti segreti fino all’ultimo. Solo quando scendono dalla camionetta vengono riconosciuti. Tra loro c’è una donna, Rose Virginie Mukankusi. Era il capo del quartiere di Muhima, proprio quello dove ora sta per essere ammazzata. “Lei conosceva tutti gli abitanti e quindi additava chi era hutu e chi era tutsi”, racconta Claude, il mio vicino.,ucchio di morti

A lei è destinato il più lontano dei quattro pali piantati a terra. Ha un’aria spavalda e cammina con passo veloce, il capo eretto. Forse attende la morte come una liberazione. Al primo palo viene condotto Elia Nizeimana. Era un viceprefetto. Per ogni dieci case aveva nominato un capo il cui compito era quello di indicare chi dei suoi vicini era hutu e chi tutsi. Il genocidio avrebbe avuto come primi carnefici proprio quei piccoli, insignificanti leader dell’ultima ora.

In terza posizione Silas Munyagishali. Era un procuratore che faceva incarcerare i tutsi e gli hutu moderati: qualcuno avrebbe poi pensato ad ammazzarli in cella.

L’ultimo è Frodwal Karamira, un’ovazione quando scende dalla camionetta. E’ il più conosciuto e il più odiato. Era vicepresidente del Movimento Democratico Ruandese ma soprattutto era l’uomo d’affari considerato la mente satanica del genocidio. “E’ lui cha ha comprato e distribuito le decine di migliaia di machete con cui gli estremisti hanno sistematicamente massacrato e fatto a pezzi gli avversari”, spiega il nostro informatore.

I giornalisti vengono in continuazione spintonati, minacciati, infastiditi. Vietatissimo fare fotografie: davanti a noi si schierano giovani tutsi enormi per ostacolare la vista dello spettacolo che ormai sta per cominciare. Chi parla con i “muzungo”, i bianchi, viene sgridato con violenza. “Un soldato mi ha minacciato: ‘Se gli dai ancora informazioni, stasera ti ammazzo'”, racconterà più tardi, Pierre, un uomo che mi stava vicino e viene costretto ad allontanarsi.

I quattro condannati vestono l’uniforme carceraria rosa. Pantaloni al ginocchio per gli uomini, gonna per la donna. Sono scalzi. Il volto è impassibile. Non cercano di scappare. Non pronunciano una parola. La regia di questa messa in scena destinata a scolpirsi nella testa della gente è perfetta. I poliziotti procedono a legare i condannati minuziosamente e con calma. Vogliono impedire che possano afflosciarsi sulle ginocchia. La corda viene passata intorno al loro corpo una, due, tre, dieci volte. La grossa matassa finisce per ingarbugliarsi e devono intervenire in due per cercare di venirne a capo.Casa mitragliata

Un uomo, in giacca e cravatta, si avvicina ai quattro e controlla che l’imbragatura tenga. Il tempo scorre lento, la gente non ulula più, si gode la scena. Arriva un agente che porta sacchetti neri che infila sulla testa dei condannati e quindi li fissa con un altro cordone al collo. Ancora un controllo per vedere se veramente la vista è impedita. Il caldo diventa soffocante.

Ma i preparativi non sono finiti. Manca il grembiulino bianco con un rettangolo nero che viene fissato al petto dei quattro. E’ il bersaglio. I condannati vengono lasciati così, in pasto al delirio del pubblico per 20 minuti. I polpacci neri che si vedono scoperti sembra stiano tremando, ma forse e’ solo un’impressione. E’ molto probabile che siano stati dei brutali assassini, che si siano macchiati dei peggiori crimini, ma quello che stanno subendo in questo momento è vendetta. Pura vendetta. Non giustizia.

Tutti si aspettano che il plotone di esecuzione si schieri ordinatamente davanti ai quattro pali per prendere la mira. Invece no. Da un drappello di poliziotti che sembra stiano chiacchierando in attesa di un ordine preciso, si staccano di corsa quattro agenti che cominciano a sparare ciascuno a una vittima. Quattro colpi che puntano a quel rettangolo nero ben in mostra sul torace, solo a Virginie un proiettile finisce in pieno viso. Il cappuccio si alza e lascia scoperta la faccia, ingessata su una smorfia di terrore.rwanda-wanted Kabuga

Il lavoro non è ancora finito. Arriva un ufficiale e sfodera la rivoltella. I colpi di grazia alla testa sono due per ciascuno. I corpi restano agganciati ai pali come marionette. La gente vuol vedere da vicino. Un ragazzino si impadronisce di quello che resta degli occhiali di Silas Munyagishali. I corpi vengono portati via su quattro camionette scoperte. Una porta sul fianco la scritta: “Dono dell’Unicef al governo del Ruanda” Sarebbe dovuta servire per insegnare a vivere, invece aiuta chi persegue la vendetta di Stato.

Ora la folla può sfogarsi con i giornalisti: “Dov’era il tuo Paese quando ci ammazzavano tutti?”, urla una donna. Cercano di afferrare penne, orologi, occhiali. Un uomo mi strappa il taccuino e scappa. Viene bloccato da un soldato che controlla di cosa si tratti, strappa le pagine dove sono stati raccolti gli appunti e me lo restituisce. Ma quelle note non servono a molto, le immagini sono già stampate nella mia testa.

Massimo A. Alberizzi
twitter @malberizzi
massimo.alberizzi@gmail.com

“Io, bianco accusato di genocidio in Ruanda vi racconto quella follia”

La carneficina dei tutsi del 1994: la macabra storia di padre Seromba

La carneficina dei tutsi del 1994: la macabra storia di padre Seromba

“Io, bianco accusato di genocidio in Ruanda vi racconto quella follia”

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Dal Nostro Inviato Speciale
Massimo A. Alberizzi
Arusha (Tanzania), 22 aprile 1998

Eccolo Giorgio Ruggiu, l’italo-belga accusato di incitamento al genocidio e crimini contro l’umanità per la mattanza avvenuta in Ruanda tra aprile e giugno 1994. Secondo l’accusa, dalle onde di “Radio Mille Colline” avrebbe lanciato appelli agli hutu perché trucidassero quanti più tutsi possibile.

 

Radio Mille Colline, Ruanda

“Che aspettate? Le tombe sono vuote. Prendete i machete e fate a pezzi i vostri nemici”, avrebbe urlato ai microfoni. Oggi è lì, alla sbarra del Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda per un’udienza preliminare. Un uomo piccolino, magro. Con occhiali enormi, sul viso scarno e pallido. Il capo avvolto in una kefir bianca e la barba rasata sotto il mento, alla maniera dei musulmani ortodossi che abitano sulla costa orientale africana.

Parla con voce pacata, quasi sussurra. Si è convertito all’Islam e ora si chiama Bashir. Le mani giunte reggono il tradizionale rosario maomettano. Sembra un eremita. Eppure sono in tanti a ricordare i suoi appelli micidiali: “Schiacciateli tutti come scarafaggi”.

Giorgio Ruggiu dal 23 luglio dell’anno scorso è detenuto, assieme ad altri 22 ruandesi (ex capi degli squadroni della morte, alti ufficiali dell’esercito, ex politici del passato regime hutu), in un’ala del penitenziario di Arusha che l’Onu ha affittato dalla Tanzania per rinchiudervi i presunti responsabili dei massacri.

Giorgio Ruggiu durante il genocidio ai microfono della Radio

Le celle sono piccole, ma tutte con toilette. I prigionieri hanno a disposizione computer, radio e telefono. I giudici del Tribunale, in contraddizione con i diritti della difesa e con lo stesso articolo 58 del regolamento dell’organismo Onu, hanno deciso di proibire agli imputati di parlare con i giornalisti.

Quest’intervista è stata quindi ottenuta violando le regole. Anche gli avvocati di Ruggiu, il tunisino Mohammed Aouini e il belga Jean Louis Gilissen, cercano di rivelare il meno possibile sul loro assistito per non irritare i magistrati. “I giudici vogliono provare che si è trattato di genocidio organizzato e pianificato – esordisce l’unico imputato bianco e non ruandese -. In realtà è stata una follia collettiva. La gente ha cominciato a uccidere ed era impossibile fermarla. È vero che sono andato in onda parlando a favore degli hutu. Non è vero che abbia incitato all’odio razziale e tanto meno al genocidio. Sfido chiunque a produrre una registrazione in cui io usi il verbo ‘uccidete'”.

C’è però chi racconta che una volta lei, in uniforme, assieme a dei miliziani hutu, ha raggiunto la chiesa della Sacra Famiglia stracolma di profughi, dove padre Wenceslas Munyeshyaka stava collaborando alla selezione delle vittime: i fedeli tutsi da una parte per essere massacrati, gli hutu dall’altra. Tre tutsi sarebbero stati portati dal sacerdote davanti ai suoi microfoni per un’intervista. Avrebbero dovuto dire che tutto andava bene.

“Conosco la chiesa della Sacra Famiglia ma nego di esserci andato con miliziani hutu. Non ho mai indossato l’uniforme, né sono mai stato scortato. Queste testimonianze sono false”.

Giorgio Ruggiu è nato a Liegi quarant’anni fa da padre italiano, emigrato in Belgio nel 1950 da Cossoine, un piccolo paese in provincia di Sassari. Aveva cominciato come minatore poi aveva sposato un’insegnante belga ed era passato a lavorare nei cantieri edili. “Ho ancora il passaporto italiano, il mio congedo militare è a posto e parte della mia famiglia vive in provincia di Latina”, precisa.

Il suo italiano è stentato e preferisce esprimersi in francese o in inglese. In Belgio, agli inizi degli anni ’90 era entrato in contatto con gruppi di studenti universitari hutu. “Sono un idealista e mi sono appassionato alla loro causa e ho partecipato al ‘Gruppo di riflessione belga-ruandese’. Così quando mi hanno offerto un lavoro in Ruanda ci sono andato. Si trattava di organizzare programmi per una nuova radio. ‘Una radio che avrebbe detto la verità’, mi fu spiegato. Sapevo che era a favore del presidente Juvenal Habyarimana. Seguivo le istruzioni che mi davano, ma non ho mai lanciato appelli per uccidere chicchessia”.

Parecchi testimoni sostengono che la radio incitava ad ammazzare non solo i tutsi e gli hutu moderati, ma anche i belgi ritenuti responsabili dell’attentato compiuto il 6 aprile 1994 all’aereo dove viaggiava Habyarimana e che gli costo’ la vita.

“Non posso dirlo, io non conosco la lingua kinyarwanda e non so cosa trasmettessero gli altri. Credo però che nessuno pianificasse il genocidio. È una follia, ripeto, che ha invaso la gente. Tutti si sono messi ad ammazzare senza pietà e forse senza capire perché. Io stesso sono stato minacciato dagli hutu. Un giorno ho assistito a una mutilazione di massa: c’erano uomini, donne, bambini a cui erano state mozzate le gambe e le braccia. I corpi continuavano a vivere nella sofferenza atroce. Mi son fatto avanti e ho chiesto: ‘Ammazzateli. Non lasciateli soffrire così’. Per tutta risposta mi sono trovato una pistola puntata alla tempia da un miliziano che mi ha ordinato: ‘Stai zitto o ti uccido'”.

Come mai è diventato musulmano? “Il comportamento di alcuni preti in Ruanda mi ha profondamente scioccato. Durante il mio primo viaggio nel 1993 ho visto cose che mi hanno fatto riflettere. Parecchi sacerdoti cattolici facevano della religione un business”.

Che affari? “Per esempio, vendevano falsi certificati di battesimo e soprattutto di matrimonio, per dimostrare unioni inesistenti. Poi durante la mia fuga sono finito a Mombasa. Lì mi ha protetto un gruppo di somali. Un giorno durante una retata della polizia keniota, su ordine del Tribunale Internazionale, uno di questi amici mi ha detto: ‘Resta chiuso nella tua stanza e tieni stretta al petto questa copia del Corano’. Così ho fatto. Gli agenti hanno guardato dappertutto arrestando parecchi ruandesi ma non mi hanno scovato. Nell’islam ho trovato una risposta a tutte le domande che mi assillavano prima e durante i massacri”.

Ruggiu è stato dipinto come un Robespierre, ma non sembra averne né la forza, né la volontà. Sembra piuttosto un uomo manipolato. In questi anni ha scritto un libro in cui racconta la sua tragica verità sui massacri. Lo tiene gelosamente custodito e non vuole renderlo pubblico finché non comincerà il processo, la cui data non è stata ancora fissata. Le accuse sono atroci. Ma saranno i giudici a decidere se è vero tutto quello che gli viene attribuito. Compreso l’ordine lanciato via radio: “A ognuno il proprio belga”.

Massimo A. Alberizzi
massimo.alberizzi@gmail.com
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Attacchi, complotti e minacce trema il regime di Gheddafi. Ma ora il regime nega tutto

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Speciale per Africa ExPress
Massimo A. Alberizzi
Milano, 7 aprile 1996

Sirte, città libica che si affaccia sul golfo omonimo. Ultima settimana di febbraio. E’ in corso il Congresso del Popolo libico, un rituale che serve a consacrare il regime e il suo leader, Mohammar Gheddafi. Il dittatore deve tenere un discorso ma, per motivi di sicurezza, non si sa quando. Qualcuno dei suoi oppositori, però, conosce i suoi programmi.

Un’auto viene imbottita d’ esplosivo all’inverosimile. Si vuole tentare di far saltare tutta la sala dove si tengono i lavori. La macchina si dirige verso il luogo dell’attentato ma, poco lontano, viene intercettata dalla guardia scelta di Gheddafi. Nello scontro a fuoco che ne segue il veicolo esplode: muoiono 17 agenti e 3 terroristi.

Nonostante le autorità libiche abbiano fatto di tutto per tenere la notizia segreta, le informazioni sono trapelate in questi giorni, allorché alcuni testimoni da Sirte hanno raggiunto Alessandria, in Egitto. A dimostrazione che l’ azione é stata effettivamente tentata resta il fatto che la guardia personale del colonnello è stata in gran parte cambiata: “Ora compaiono facce nuove, che nessuno ha mai visto”, ha raccontato un viaggiatore libico che ha richiesto l’anonimato.

“Muoversi tra Tripoli e il confine egiziano diventa ogni giorno più difficile – prosegue il nostro interlocutore al telefono -. Posti di blocco, controlli, perquisizioni. Da Sirte a Bengasi si viene fermati in continuazione. Credo che dopo la sommossa dei giorni scorsi a Bengasi il regime tenti di evitare possibili infiltrazioni verso la capitale. Anche andare a Sud, verso l’oasi di Kufra è assai difficoltoso. La polizia obbliga a lunghe deviazioni”.

La mappa della Libia. Al confine con l’Algeria,verso il Niger si trova Ghat il villaggio dove sono stati rapiti gli italiani e il canadese

La notizia dell’attentato a Gheddafi giunge nel momento in cui la pressione americana contro la dittatura si fa più pesante. Secondo Washington, le autorità libiche stanno costruendo sotto terra la più grande fabbrica di armi chimiche al mondo nell’oasi di Tarhunah, 60 chilometri a Sud est di Tripoli. Il segretario alla difesa William Perry non ha escluso un’ azione militare per neutralizzarla. Perry è volato al Cairo per far accennare l’idea a Mubarak. A fine marzo a Bengasi c’è stata una rivolta, il carcere è stato attaccato per liberare i prigionieri. Le forze di sicurezza hanno represso le dimostrazioni nel sangue ma i ribelli, rifugiatisi sulle montagne hanno continuato a dare battaglia per alcuni giorni.

Gli attacchi alle carceri hanno dei precedenti. Nel novembre scorso due evasioni simultanee si sono verificate dalle prigioni di Derna e di Tripoli sempre provocate da commandos che hanno assalito dall’esterno. Almeno quattro agenti erano stati uccisi e una trentina di detenuti liberati. La società libica e rigida e fortemente controllata. Le spie sono ovunque.

“Nonostante ciò – spiega il nostro interlocutore – ci sono organizzazioni che portano a segno colpi di mano con estrema decisione”. Chi sono? “Difficile dirlo – è la risposta -. Sembra, ma non è assolutamente certo, che si tratti di integralisti islamici ed effettivamente i metodi usati dai terroristi avallano questa ipotesi. Un mese fa, ad esempio, tre uomini sono stati sgozzati sulla tangenziale sud di Tripoli. Si parlava di regolamento tra trafficanti di droga (il cui consumo è in forte aumento in tutto il Paese) ma in realtà si è trattato di una vendetta contro uomini del regime, giustiziati secondo i metodi dei fondamentalisti del Gia (Gruppo Islamico Armato) algerino”. Esistono poi gli oppositori laici legati al National Front for the Salvation of Libya, NFSL, guidati dal colonnello Khalifa Haftar.

L’ ufficiale era il comandante della grossa base aerea di Uadi Dum, costruita dai libici in Ciad negli anni 80, quando le truppe di Gheddafi occupavano il nord di quel Paese. Nell’ 87 Uadi Dum cadde nella mani delle truppe ciadiane (che avevano il sostegno logistico dei francesi). Khalifa fu catturato, rinnegò il dittatore e diventò il leader militare dell’ NFSL. “Alla rivolta di Bengasi potrebbero aver partecipato anche loro. In realtà non è ben chiaro ciò che sta succedendo. Forse le minacce americane servono anche a far uscire allo scoperto le opposizioni al colonnello”.

Massimo A. Alberizzi

 

Gino Strada con 4 volontari nell’inferno del Ruanda

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Dal Nostro Inviato Speciale
Massimo A. Alberizzi
Kigali, 10 agosto 1994

Alfonsine ha 18 anni. Aveva lasciato un campo profughi al confine con la Tanzania e assieme alla sua numerosa famiglia aveva deciso di tornare a Kigali. Il gruppo era quasi arrivato e lei lo guidava, prima di una lunga fila indiana. E’ finita su una mina e ora le due gambe le sono state amputate sotto il ginocchio. E’ incinta e, nonostante tutto, la gravidanza procede bene. La sorella che stava dietro di lei è rimasta uccisa sul colpo da una scheggia che le ha trafitto la tempia.

Ruanda 1994

Mustafà, invece, è un ragazzino; aveva attraversato la strada che divide la sua casa da quella di un amichetto con cui voleva andare a giocare. Anche lui ha trovato una mina sul suo cammino e anche lui ha le gambe amputate.

Ordigni micidiali.

Questi sono due dei pazienti ricoverati all’ospedale centrale di Kigali, riaperto da pochi giorni da un medico italiano, il milanese Gino Strada. Il dottor Strada è diventato famoso per avere partecipato più volte al Maurizio Costanzo Show dal cui palcoscenico ha lanciato la battaglia contro le mine antiuomo. “Sono ordigni micidiali che colpiscono i civili, donne e bambini soprattutto. Non hanno alcun senso strategico. Non servono per vincere le guerre ma solo per vendicarsi sugli avversari”.

Anche ieri mattina il dottor Strada stava amputando una gamba all’ennesimo viandante che rientrava a casa. Uscito dalla sala operatoria ha imprecato: “Perché devono accadere queste cose? Che colpa hanno i civili la cui vita è stata distrutta? Chi fabbrica e vende questi disumani strumenti di morte è un pazzo criminale. Vengano qui a vedere che macello”.

Il Ruanda è pieno di mine e perfino camminare per Kigali al di fuori delle strade asfaltate è pericoloso. “Ho aperto l’ ospedale da pochi giorni e mi sono già arrivati una decina di casi. Tutte persone ferite nel centro abitato”. Il dottor Strada è il leader di Emergency, una organizzazione non governativa che si occupa dei civili vittime della guerra e per statuto non può accettare fondi pubblici. “Troppo spesso gli aiuti sono coinvolti in scandali e storie poco chiare, senza contare che almeno il 50 per cento del budget di queste associazioni finisce per essere utilizzato per la sussistenza dell’organizzazione stessa. Noi non abbiamo neanche una sede da mantenere. I privati che ci finanziano diventano soci e possono andare a verificare come vengono spesi i soldi che ci danno”.

Due settimane di ramazza

I volontari di Emergency, 5 persone in tutto, sono arrivati a Kigali alla fine di luglio. L’ ospedale generale era stato abbandonato in condizioni pietose. Hanno ramazzato per un paio di settimane e recuperato almeno il blocco operatorio e un padiglione con una quarantina di letti. Lavorano praticamente da soli.

Medici e infermieri ruandesi, quasi tutti tutsi, sono stati trucidati dagli hutu in fuga: “I miliziani del vecchio regime sono entrati e, letto per letto, hanno ammazzato chi non era dei loro. Alla fine han fatto fuori i dottori”. L’ ospedale di Kigali mantiene il prestigio che lo circondava. E pieno di apparecchi sofisticati, di materiale raro e difficile da trovare perfino nei centri europei. I letti sono moderni e ben tenuti. Dopo la ripulitura a fondo le stanze sono tornate a brillare (a parte qualche vetro rotto) ma mancano l’elettricità e l’ acqua, e i corridoi sono desolatamente vuoti.

Come tutta Kigali anche l’ospedale è fantasma. “Qui c’è tutto, proprio tutto, e siamo appena al di sopra dello standard africano. Mancano il personale e i pazienti. Vorremmo, entro una settimana, mettere in funzione altri 120 letti, necessari se i profughi dovessero rientrare in massa. Ma come facciamo senza personale locale che ci aiuti?”.

Settori dell’ Onu

Il dottor Strada nei giorni scorsi ha duramente contestato la teoria, sostenuta da alcuni dei nuovi dirigenti ruandesi e tollerata da alcuni settori delle Nazioni Unite, secondo cui i profughi avrebbero dovuto rientrare alle loro case a piedi e senza alcun aiuto. Una sorta di selezione naturale che avrebbe costretto i più deboli e gli ammalati a morire per strada e risparmiato i più forti.

Per fortuna l’ipotesi è stata scartata ma il solo fatto che sia stata presa in considerazione getta un’ombra inquietante sul futuro di questo martoriato Paese: lutti e massacri potrebbero non essere ancora finiti.

Massimo A. Alberizzi
massimo a. alberizzi
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Il pianto di Audrey Hepburn: “Ho visto l’inferno somalo “

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Dal Nostro Inviato Speciale
Massimo A. Alberizzi
Ginevra, 2 ottobre 1992

Sconvolta in viso e nell’animo. Così Audrey Hepburn, ambasciatrice dell’Unicef (fondo dell’ Onu per l’ infanzia), e’ tornata dalla Somalia dove ha passato poco meno di una settimana. “Per giorni e giorni mi ero preparata a un’esperienza del genere. Pensavo e ripensavo e ho letto un mucchio di documentazione, ma non c’ è stato nulla da fare. Non ci si può preparare a un viaggio nell’inferno. In Somalia – esordisce l’incantevole protagonista di tanti film che hanno fatto sognare una generazione – si sta consumando un olocausto, con la gente che aspetta soltanto di morire. I documentari, le fotografie, i giornali non riescono a dare una dimensione esatta della tragedia, che è peggiore di qualsiasi descrizione. Il Paese ha bisogno di aiuto e va aiutato, non riesco neppure a esprimere quel che sento. Non trovo le parole, né in inglese, né in italiano, né in francese”.

Poi racconta d’un fiato: “Il mio areo è sceso a Chisimaio, una sabbia rossa, secchissima. Siamo andati a visitare i campi profughi e i villaggi. Mi sono accorta che case e capanne erano circondate da piccole dune. Dapprima non ci ho fatto caso, poi mi hanno spiegato: erano tombe. Ne ho viste ovunque; lungo i fiumi, a ridosso dei sentieri. Sparse qua e là . Durante il mio viaggio sono arrivate le piogge e le tombe si sono letteralmente ‘sciolte’. I cadaveri sono tornati alla luce contaminando l’ acqua che li trascinava”.

L’eroina di “Sabrina”, “My fair lady”, “Colazione da Tiffany”, “Vacanze romane” parla con voce rotta dall’ emozione: “I temporali invece della vita hanno portato la morte. Malattie, infezioni e poi il freddo cui tante persone non hanno resistito. Molti vivono senza un tetto e le poche capanne rimaste in piedi non sono più coperte di paglia come una volta. Ora sono piene di buchi”.

1° Settembre 1992 – Questa immagine è di Robert Wolders/Corbis Sygma

Le lacrime solcano le guance quando passa a parlare dei bambini, certo i più colpiti dalla fame e dalla guerra: “Sono scheletrini viventi con incastrati due occhi. Aspettano solo di essere nutriti, non hanno emozioni. Se gli passi una mano davanti al viso non reagiscono, lo sguardo resta fisso nel vuoto. Colpisce poi l’innaturale silenzio, assoluto, che c’è accanto a loro. Questi bimbi non parlano, non ridono, non scherzano come i loro coetanei nel resto del mondo. Sono traumatizzati dalla fame. Oh, che voglia di abbracciarli, accarezzarli! Ma toccandoli hai paura di fargli male quasi il loro corpo fosse sul punto di disintegrarsi, di diventare polvere”.

“In un campo di Chisimaio – ricorda ancora commossa l’ambasciatrice dell’ Unicef – ho notato che non c’erano bimbi sotto i 10 anni. Come mai? Ho chiesto. Mi hanno risposto che erano tutti morti. D’altra parte sotto un albero c’erano due piccoli sorridenti. Mi sono detta: “Beh, finalmente”. Sono andata vicino e mi sono seduta accanto. Parlavo, ma loro non mi sentivano, continuavano a sorridire; poi mi sono accorta che erano legati alla pianta. Il padre, accasciato lì accanto ma ancora in vita, ha spiegato che doveva far così, altrimenti si sarebbero allontanati senza trovare più la strada del ritorno. Non riconoscevano più nessuno, traumatizzati com’erano dall’omicidio della madre, sventrata in loro presenza, e dai tanti assassinii cui avevano assistito”.

“Forse Dio ha tanto da fare in questo periodo che ha scordato la Somalia – mormora scuotendo la testa l’ attrice -. Colpisce non tanto la morte, che forse conduce a un mondo migliore, quanto la sofferenza. E per morire di fame le sofferenze devono essere atroci. Le immagini che ho visto in questi giorni mi ossessionano. Se chiudo gli occhi mi sfilano davanti come in un film. Non riesco più a dormire. Talvolta, di giorno, mi appisolo. Ma di notte no, non posso”. Audrey Hepburns sottolinea poi l’ importanza delle organizzazioni umanitarie. “Sono l’ unico ostacolo posto tra questa povera gente e la morte”.

Poi usa una metafora: “Tengono la testa a galla a chi è completamente immerso nelle sabbie mobili. Ma è difficile che resistano all’ infinito. Mancano i soldi, i mezzi, le strutture e anche gli uomini son pochi. E necessario un appello a tutto il mondo, ai singoli perchè reagiscano e mandino aiuti a chi aiuta”. “Certo . ammette – in Occidente c’ e’ la crisi, specie in Italia, ma qui si tratta di salvare un popolo intero che rischia di essere cancellato dalla faccia della Terra. Con un piccolo, piccolissimo sacrificio in più ciascuno di noi potrebbe far tanto. E prima di tutti vanno salvati i bambini. Senza di loro sarà impossibile ricostruire la nazione somala. Sarebbe un genocidio sulla coscienza di tutto il mondo”.

Massimo A. Alberizzi
massimo.alberizzi@gmal.com
twitter @malberizzi

Le foto sono Courtesy UNICEF

 

Ciad, i soldati che hanno sconfitto il gheddafiano Haftar: “I libici pazzi di paura sono fuggiti”

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Riportiamo qui il reportage del direttore di Africa ExPress, Massimo Alberizzi, che per primo ha incontrato
il generale Kalifa Haftar nella base di Uadi Dum in Ciad. L’ufficiale era stato appena fatto
prigioniero 
dall’esercito di N’Djamena che, con l’aiuto dei soldati francesi, aveva catturato
l’installazione militare costruita dai libici nel territorio del Paese vicino. Gli uomini di Gheddafi
che la controllavano erano fuggiti a gambe levate davanti alle truppe nemiche.

Massimo Alberizzi FrancobolloDAL NOSTRO INVIATO SPECIALE
Massimo A. Alberizzi
Uadi Dum (Ciad), 12 aprile 1987

L’attacco arriva improvviso. Nessuno ha sentito i MIG di Gheddafi, non è scattato nessun allarme. Tre bombe lanciate dagli aerei esplodono, una dopo l’altra, tra la pista di Uadi Dum, la grande base costruita dai libici nel Ciad settentrionale e conquistata dall’esercito di N’Djamena, e un convoglio di giornasti che sta visitando le sofisticate attrezzature militari. Ci sono voluti quattro giorni di viaggio sul pianale di un camion per raggiungere questa landa disperata del Sahara ai piedi del Tibesti, una pietraia infuocata di giorno e gelata di notte.

Alla prima esplosione si alza un missile SAM 7 in direzione dell’aereo nemico. Poi un secondo . Alla terza bomba anche il MIG viene abbattuto. Il pilota non ha fatto in tempo a lanciarsi con il paracadute. Nel punto dove ha toccato terra l’aereo ha prodotto un enorme cratere e si è disintegrato. I suoi pezzi sono sparsi dappertutto in un raggio di almeno 300 metri.

Ogni giorno dal 22 marzo, da quando cioè Uadi Dum è stata conquistata dai ciadiani, aerei libici tentano di distruggere le potenti attrezzature bombardandola. La guerra dunque continua.Gheddafi non ha rinunciato all’idea di allungare le sue mani sul Ciad. Eppure il leader libico nella palude ciadiana ha trovato una bruciante sconfitta.

Toyota war
Questa immagine e quella seguente sono state catturate nel deserto del Sahara nei pressi di Uadi Dum (Uadi, o Ouadi è il nome con cui si indica il letto di un fiume o di un torrente in piena che si forma con le piogge e poi scomapre). La guerra tra Ciad e Libia si è combattuta dal 1983 al 1987. L’ultima parte, quella descritta in questo articolo, viene anche ricordata come “Toyota War”, perché l’esercito cadiano ha sconfitto l’armata libica utilizzando queste veloci fuoristrada che si infiltravano nelle linee nemiche superprotette da lenti cari armati. Le auto poi tornarvano indietro e prendevano i libici alle spalle i quali, non vedendo via di scampo, fuggivano scompostamente

La pista che da Fada porta a Bur Kora, Uadi Dum e ritorna verso sud a Faya Largeau è seminata di carri armati, autoblindo, camionette portamissili , cannoni, camion, obici, bazooka, mortai, jeep, mitragliatrici, casse di munizioni. Tutto è stato abbandonato precipitosamente come dimostrano le centinaia di scarponcini, coperte, elmetti, valigette militari, scatole di olio d’oliva, di salsa di pomodoro, di zucchero, coperte sigarette camicie e pantaloni abbandonati nella sabbia del deserto sahariano.

I carri armati sono almeno trecento, T 55, t 54, BMP di fabbricazione sovietica, molti lasciati intatti con le porta aperte. Qualcuno è stato colpito e incendiato ed è restato semi accartocciato tra le dune. Da qualche torretta sventola ancora la bandiera bianca. 

Non è semplice quantificare in denaro il costo di tanto materiale caduto nelle mani ciadiane. Qualcuno parla di un miliardo di dollari (1300 miliardi di vecchie lire, oltre 900 milioni di euro). E’ difficile inoltre capire come un esercito “povero” come quello cadiamo abbia potuto sbaragliare truppe d’occupazione così bene armate come quelle di Gheddafi. 

Gail Henesche,comandante in capo delle brigate ciandiane che il 17 marzo scorso hanno liberato Faya Largeau, occupata dal 1983 dai libici, non vuole spiegare la tattica utilizzata. Si trincera dietro un “segreto militare”. Ma un giovane tenente racconta di come i ciadiani siano piombati all’improvviso sui libici utilizzando le velocissime fuoristrada Toyota sulle quali era stato montato un cannoncino o una batteria degli efficientissimi missili Milan.

Dopo aver colpito i primi due o tre carri armati, hanno provocato una vera e propria data di panicata i soldati di Gheddafi, che sono fuggiti come impazziti. “Abbiamo trovato alcuni carri armati con il motore ancora acceso e in folle”, racconta Gail Henesche.

 

Ciad 87-04-12 Battaglia di Ouadi Dum

La prima vera battaglia, comunque, è stata solo la prima, quella con cui gli uomini di Hissene Habré hanno conquistato Vada, il 2 gennaio scorso. La città è naturalmente difesa da enormi faraglioni. Si possono superare soltanto attraversando strette gole che i libici avevano presidiato con carri armati e cannoni. Ma a nulla sono servite le armi pesanti e poco maneggevoli di fabbricazione sovietica. Colpite dai missili sono state distrutte. Superata la barriera dei faraglioni, i ciadiani sono entrati facilmente a Fada. Ed è lì che è cominciata la fuga dei libici. 

A Uadi Dum si è combattuto pochissimo, nonostante i ciadiani sostengano il contrario, raccontando imprese mirabolanti. I libici, si vede bene, sono fuggiti abbandonando tutto:10 aerei mitraglieri Albatros, 12 Stai-Marchetti, 3 elicotteri da trasporto di fabbricazione sovietica e un Antonov.

Toyota war 2

Gli uomini di Gheddafi in fuga non hanno fatto a tempoadistruggere neppure le sofisticate apparecchiature radar piazzatesulle colline circostanti e nemmeno a danneggiare la pista di metallo lunga 3.800 metri, quella che ora, tutti i giorni, cerano di bombardare.

Fazzi Issa Omar, un prigioniero libico contattato di nascosto dalle autorità ciadiane, ha raccontato: “Il giorno in cui Uadi Dum è caduta, un gruppo di noi era impegnato i un’esercitazione militare a una decina di chilometri dalla base.  Ai primi spari non abbiamo risposto credendo che si trattasse appunto dell’esercitazione. Solo quando era troppo tardi ci siamo resi conto di quanto era accaduto”.

Perfino il capo della base, il pari grado di Gheddafi, Khailifa Abu Qassim Haftar, è caduto prigioniero dei ciadiani assiema alla sua bella “assistente”. Certo una grande vergogna per il battagliero dittatore libico.  

 

Nella Grande Somalia le cellule di Al Qaeda, organizzano scuole per kamikaze

DAL NOSTRO INVIATO
Massimo A. Alberizzi
Mogadiscio, 31 luglio 2005
Nella “Grande Somalia”, un territorio vastissimo compreso tra la Somalia ex italiana, Gibuti, Somaliland, Etiopia e Kenya, operano varie cellule di fondamentalisti, tutte più o meno legate ad Al Qaeda e tutte in collegamento tra loro. La centrale si trova a Mogadiscio, ma i terroristi si spostano in Etiopia, nella regione abitata dai somali, l’Ogaden, e nel Kenya orientale, anche lì abitato da popolazioni somale.