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La pace può attendere: bloccati colloqui tra Congo-K e Ruanda

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Il piano espansionista di Netanyahu vaneggia un Grande Israele

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La guerra in Ucraina non dipende solo dall’invasione russa

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Armi dall’Ucraina alla Liberia e Sierra Leone: via Monza

DAL NOSTRO INVIATO SPECIALE
Massimo A. Alberizzi
Monza, 2 giugno 2002

Lui nega tutto, ma gli inquirenti sono sicuri di riuscire ad inchiodarlo. Leonid Minin, 54 anni, nato in Ucraina con passaporto israeliano e tedesco definito in un rapporto riservato dello Sco (il Servizio centrale operativo della polizia) “leader supremo delle attività criminali” della mafia ucraina in Italia, il 17 giugno si presenterà davanti al giudice per le udienze preliminari di Monza, Rosaria Pastore. L’accusa è pesantissima: aver organizzato traffici d’armi tra l’Ucraina e l’Africa Occidentale.

La guerra del minerale misterioso Migliaia di morti in Congo per il Coltan, la sabbia nera “più preziosa dell’ oro”

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Dal Nostro Inviato Speciale
Massimo A. Alberizzi
Butembo (Congo-K), 26 aprile 2001

Aziza Kulsum, meglio conosciuta come Madame Gulamali, non è una donna qualunque. Il suo nome non compare nel Guinness dei primati, eppure in molti la indicano come la donna più ricca di tutta l’Africa e in buona posizione anche per quel che riguarda la classifica mondiale. Fino a meno di un mese fa Aziza, padre greco, passaporto americano, congolese di nazionalità, gestiva in regime di monopolio per conto del governo ruandese il commercio del Coltan, il minerale costituito da ossidi di tantalio e di niobio, diventato ricercatissimo sui mercati internazionali.

MINIERA 1Il Coltan viene estratto nelle zone della Repubblica Democratica del Congo controllate dai ribelli. Il contratto di Madame Gulamali prevedeva un’esportazione di 100 tonnellate al mese, tassate 10 dollari al chilo, dunque un introito per le casse dei guerriglieri di un milione di dollari al mese. Non c’ è male, per finanziare un conflitto il cui compito primario è quello di arricchire i suoi principali registi. Gli introiti della donna sono valutati almeno il doppio.

Dal 1998 il Congo è sconvolto da una feroce guerra civile che ha finora provocato almeno 100 mila morti. Il governo di Kinshasa, sostenuto dai soldati di Zimbabwe, Angola e Namibia, controlla la metà del territorio, compresi il Kasai (ricchissimo in diamanti) e il Katanga (oro, uranio, rame e altri minerali preziosi). I ribelli, divisi in due fazioni, governano gli altri due terzi. A nord-est c’è il Fronte di Liberazione del Congo di Jeanne-Pierre Bemba, sostenuto dagli ugandesi, a sud est-comanda, grazie ai militari ruandesi, l’Raggruppamento Congolese per la Democrazia, di Adolphe Onusomba.

Governo e ribelli non durerebbero un giorno se dovessero essere abbandonati dai rispettivi alleati. Il Paese, dunque, è occupato dalle forze straniere, il cui compito principale è permettere lo sfruttamento intensivo delle risorse naturali del territorio. Pochi i congolesi che partecipano al banchetto: un po’ di ministri, le grandi famiglie di Kinshasa e qualche capo ribelle, oltre naturalmente a Mademe Gulamali.

MINIERA 1Neanche ai tempi di Leopoldo II gli stranieri si erano dedicati a un saccheggio così meticoloso. Per indagare sulla razzia, le Nazioni Unite hanno istituito una commissione d’inchiesta che, in un durissimo rapporto di 56 pagine, accusa Ruanda, Uganda e Burundi di rapinare il Congo illegalmente. Zimbabwe, Angola e Namibia di rapinarlo con regolari licenze.

Pagine e pagine sono poi dedicate al Coltan, i cui giacimenti sono soprattutto nelle zone in mano agli ugandesi e ai ruandesi. “Da tre anni – spiega l’ ingegnere minerario Katembo Mussa, della Sominki, la Societé Miniere du Sud Kivu – il Coltan è ricercatissimo a causa delle proprietà elettriche del tantalio”.

Quanto costa? “Nel 1994 lo vendevamo a 5 dollari per chilo (5 euro). Ora può arrivare a 50, 60 dollari e anche a 80”. Non esistono reali concessioni. La zona di Butempo è molto insicura, a causa di bande armate. Contro la guerriglia “ufficiale” combatte una guerriglia “minore”, quella dei may-may, milizie tribali di esaltati. E’ gente che si veste con il gonnellino di paglia e usa armi tradizionali, archi e frecce, qualche mitra e, soprattutto, pozioni magiche che vengono propinate da fanatici stregoni e con le quali credono di diventare immortali. “Le pallottole sul nostro corpo si sciolgono e diventano acqua, cioè may-may, in dialetto locale”, sostiene convinto uno di loro catturato dagli ugandesi.

Raggiungere la miniera è complicato ma non impossibile. In realtà si tratta di giacimenti a cielo aperto. Immense pietraie scure brulicano di disperati cotti dal sole tropicale che frantumano a martellate rocce e sassi fino a ridurli in polvere. Coprono poi tutto con acqua e nel fango, a colpi di vanga, separano il Coltan, molto pesante, dal resto.

BIMBO IN MINIERALavorano tutto il giorno e al tramonto stivano il loro bottino in sacchetti di plastica, si caricano come muli, fino all’ impossibile, e lo portano a piedi a Butembo, 60 chilometri più a sud. Lì lo vendono ai commercianti a 10, 20, massimo 30 dollari al chilo e tornano a scavare.  “Qui tutte le famiglie vivono sul Coltan – spiega Leonard Namegabe, uno dei numerosi trafficanti di Butembo -. Ora è diventato più redditizio dell’ oro”.

la polvereDove vada a finire il minerale estratto in Congo, non è ben chiaro. E’ difficile seguirne le tracce. A Butembo ci sono cinque compagnie che lo comprano dai minatori e sono tutte nelle mani di cittadini dell’ ex Unione Sovietica: russi, kazaki, uzbeki. Anatoly lavora in una di queste, la Conmet. Non parla una parola di inglese e durante un’ intervista si fa aiutare dal figlio Ulad. Risponde alle domande con cortesia ma evasivamente. Non vuol dire il suo cognome, né chi siano i soci della Conmet: “Appartiene alla Kullinan Finance Investment, una società ugandese”, si limita a dire. “Vendiamo al Sudafrica, al Kazakhstan e alla Germania”. Quanto? “Una cinquantina di tonnellate al mese”. Inutile chiedergli quanti siano i minatori che lavorano per loro. Nel Congo dal cuore di tenebra non ci sono né dati né censimenti. Ma se il Coltan è un materiale strategico è mai possibile che faccia perdere le sue tracce così? E poi: se il tantalio si usa in dosi infinitesimali negli apparati elettronici come mai dal Congo ne vengono esportate decine di tonnellate?

Un filone di vendita è stato identificato in Germania. Come scrive la rivista Africa Intelligence, a comprarlo sarebbero la H.C. Starck, una filiale della Bayer, la Kraft e la Carter Trade Handels und Seafood, di Amburgo che si rifornisce attraverso una joint venture che opera nel settore della pesca in Uganda. I dirigenti delle tre società, intervistati dal giornale tedesco Tageszeitung, hanno detto di non rifornirsi “direttamente” in Africa centrale. Indirettamente sì, dunque.

Secondo alcune investigazioni condotte da Tim Raeymaekers del giornale belga on line MaoMagazine, nel traffico di Coltan è coinvolto Nursultan Nazarbaev, il presidente del Kazakhstan, e intimo di Vitaly Mette, suo ex vice primo ministro e principale socio della Ulba, la società che raffina e arricchisce uranio nell’ ex Paese sovietico.

BOUTA Kigali si è installato un agente di Mette, lo svizzero tedesco Chris Huber, direttore della Finmining, società partner della Ulba. Ma non solo. Chris Huber e Vitaly Mette negli ultimi mesi sono stati visti in compagnia con Victor Butt (o Bout, nella foto), un tagiko che vive in Inghilterra, indicato come mercante d’ armi dal rapporto dell’ Onu sui traffici in Sierra Leone e Liberia, pubblicato lo scorso dicembre. Dunque il Coltan in cambio di fucili?

La risposta degli investigatori dell’ Onu è perentoria: “Sì”.

Massimo A. Alberizzi
massimo.alberizzi@gmail.com
twitter @malberizzi

Il minerale del futuro
CHE COS’ E’
Il Coltan (il cui nome è una crasi che vuol dire columbite- tantalite) è un minerale formato da ossido di tantalio e da ossido di niobio associati. Da qualche anno è diventato ricercatissimo dall’industria elettronica

PER COSA E’ UTILIZZATO
Il tantalio viene utilizzato per le sue proprietà dielettriche (aumenta le capacità dei condensatori) nei circuiti elettrici più sofisticati, come quelli dei telefonini (dove migliora le performance delle batterie) e nelle playstation (si dice che che l’assenza l’ anno scorso di piattaforme Sony sul mercato fosse dovuto a mancanza di Coltan).

Il tantalio viene utilizzato nelle leghe ad alta resistenza per fabbricare motori e pezzi particolari nell’ industria areonautica. Come l’uranio impoverito viene quindi utilizzato come «anima» nei proiettili perforanti

Mali: si riaprono i fronti di guerra, inasprita la repressione interna

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Cornelia I. Toelgyes Rov 100

Speciale per Africa Express
Cornelia I. Toelgyes
Quartu Sant’Elena, 21 agosto 2016


In Mali si susseguono gli attacchi di gruppi armati al nord e nel centro del Paese. Un mese fa hanno perso la vita ben diciassette soldati maliani durante un assalto alla base militare di Nampala, città nella Regione di Ségou, che dista poco più di cinquecento chilometri dalla capitale Bamako. Altri trentacinque militari sono stati feriti.

Poche ore dopo il vile gesto è stato rivendicato dal gruppo armato “Alliance nationale pour la sauvegarde de l’identité peule et la restauration de la justice” (ANSIPRJ), la cui creazione è stata annunciata lo scorso giugno. Pochi hanno dato peso a tale rivendicazione, in quanto l’ANSIPJR non dispone della logistica necessaria per sferrare un tale colpo da solo all’esercito maliano.

Ibrahim-Boubacar-Keita-

Una seconda rivendicazione da parte del ben conosciuto gruppo jihadista maliano Ansar Dine, fondato dall’ex ribelle maliano tuareg Iyad Ag Ghaly è giunta poco dopo. La notizia è stata diffusa da SITE, il centro americano di sorveglianza dei siti jihadisti.

Non si esclude che i due gruppi armati possano avere agito congiuntamente.

Per parecchi anni gli attacchi jihadisti si erano concentrati nel nord della ex-colonia francese, mentre dal 2015 si sono estesi verso il centro ed ora anche al sud. Alcune delle offensive sono state rivendicate o attribuite al “Fronte per la liberazione di Macina”, apparso per la prima volta nel 2015 e capeggiato da un predicatore radicale maliano, Amadou Koufa, di etnia fulani.

Koufa recluta i suoi miliziani esclusivamente tra i fulani ed è alleato del gruppo Ansar Dine.

minusma-mali

All’inizio del mese è rimasto ucciso un casco blu dell’United Nations Multidimensional Integrated Stabilization Mission in Mali  (MINUSMA), altri quattro militari sono stati feriti quando il loro mezzo è saltato su una mina a pochi chilometri da Aguelhoc-Anéfis, nella Regione di Kidal. Tutti e cinque, ciadiani, facevano parte della scorta di un convoglio logistico.

Lo stesso giorno si è verificato un altro incidente simile a pochi chilometri dalla caserma di MINUSMA a Kidal. Per fortuna non ci sono state ne vittime, ne feriti, solo danni materiali.

Le due esplosioni non sono state rivendicate da nessun gruppo. Episodi del genere sono sempre più frequenti. Un portavoce di MINUSMA ha precisato che in un solo anno hanno perso la vita una trentina di caschi blu. “Questi continui attacchi, – ha aggiunto il portavoce – non fanno altro che rallentare il processo di pace, fortemente sostenuto dall’ONU e MINUSMA.

Il 29 giugno il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha rinforzato e esteso per un altro anno il mandato di MINUSMA. Con la risoluzione 2295, adottata all’unanimità dai quindici Paesi membri, il nuovo organico sarà composto da 13.289 soldati e 1.920 ufficiali di polizia.

Nel 2012 oltre la metà del nord della ex-colonia francese era sotto il controllo dei gruppi jihadisti. Solo con l’arrivo nel 2013 del contingente internazionale della missione MINUSMA, in  gran parte dell’aerea è stata ristabilita l’autorità del governo.  Alcune zone, come Kidal, sfuggono ancora al controllo delle truppe maliane ed internazionali, malgrado sia stato firmato nel giugno 2015 il  “Trattato per la pace e la riconciliazione nel Mali”. (http://www.africa-express.info/2015/06/24/firmato-laccordo-di-pace-mali-anche-dai-ribelli-maggioranza-tuareg/).

GATIA-MNLA-CMA-Plateforme

Una decina di giorni fa si sono verificati nuovi combattimenti tra militanti della coalizione dei movimenti per l’Azawad (CMA) e il Gruppo Autodifesa Tuareg Imghad e Alleati (GATIA), contrari all’autonomia o separazione dell’Azawad, cioè filo governativi. Gli Imghad costituiscono la più grande tribù tuareg nel nord del Mali. Il fondatore di GATIA, El Hadje Ag Gamou, è l’unico generale Tuareg in seno all’esercito maliano.

Gli scontri si sono protratti per due giorni nella Regione di Kidal, provocando morti e feriti. Il governo ha condannato severamente questi scontri e ha chiesto ai belligeranti di porre fine alle ostilità nell’interesse della popolazione e nel rispetto del trattato di pace, pace che sembra allontanarsi sempre di più.

Combattimenti tra le due fazioni sono all’ordine del giorno (http://www.africa-express.info/2015/09/06/tuareg-litigano-tra-loro-barcolla-il-trattato-di-pace-mali/) e gli ammonimenti del governo, dell’ONU e di MINUSMA sembrano parole gettate al vento.

Dopo un attacco dell’8 agosto ad una postazione militare maliana da parte del gruppo Ansar Dine tra Ténenkou e Sévaré, distante un centinaio di chilometri da Mopti, al centro della ex-colonia francese, non si hanno più notizie di cinque soldati dell’esercito governativo. Una fonte ufficiale ha riferito che l’attacco è stato preceduto da un’imboscata la sera precedente, in seguito alla quale sono stati inviati dei rinforzi. La fonte ha anche evidenziato che il gruppo armato ha subito delle predite, senza precisare il numero delle vittime e dei feriti.

Ras-Bath

Mentre nel nord e nel centro del Paese non si arrestano gli attacchi jihadisi, nel sud, in particolare nella capitale Bamako, il governo mette il bavaglio alla libera espressione. Ma l’arresto del blogger Mohammed Youssouf Bathily, soprannominato Ras Bath e figlio del ministro per “Domaines de l’Etat et des Affaires foncières”, Mohamed Ali Bathily, ha provocato una sommossa popolare. Oltre mille persone si sono radunate davanti al Tribunale nel quartiere Lafiabougou della capitale, il giorno seguente l’arresto di Ras Bath, avvenuto il 16 agosto.  Alcuni manifestanti hanno cercato di scavalcare la recinzione, ma l’intervento della guardia nazionale è stato immediato e ha respinto le persone con gas lacrimogeno. I giovani non hanno esitato a rispondere con lanci di pietre e sassi. Il Tribunale è stato parzialmente saccheggiato dai manifestanti, che sono riusciti a provocare alcuni piccoli incendi, gettando del liquido infiammabile dalle finestre, prima dell’arrivo dei rinforzi della polizia. Le forze dell’ordine hanno poi represso con estrema violenza la manifestazione, sparando non solo per aria, ma anche contro passanti e manifestanti. Il ministro della sicurezza, Salif Troré ha fatto sapere in un comunicato che durante la manifestazione sono state ferite diciotto persone, tra loro quattro poliziotti, mentre una persona è deceduta a causa delle ferite riportate.

“E’ un attacco alla libertà di espressione  – sottolinea Mohammed, uno dei manifestanti che aggiunge – Ras Bath è un giovane istruito, cerca di svegliare le coscienze di noi maliani”.

Infatti il giovane figlio del ministro non risparmia nessuno nel suo blog e attacca il governo, le autorità della ex-colonia francese. Il suo arresto è stato provocato dal suo ultimo intervento a radio Maliba FM. Durante la trasmissione aveva chiesto le dimissioni del capo di Stato maggiore dell’esercito maliano, Didier Dacko, accusandolo di non essere mai riuscito a sconfiggere il nemico. Evidentemente Dacko non ha apprezzato questa critica.

Il giovane Mohammed Youssouf Bathily non è uno sconosciuto: oltre ad essere molto attivo nei media del suo Paese, è a capo del “Collettivo per la difesa della Repubblica” (CDR).

Le forze armate maliane (FAMA) sono state aspramente criticate in queste ultime settimane dai media e sui social network, motivo per il quale il ministro della difesa Tiéman Hubert Coulibaly,  ha chiesto ai giornalisti di usare più clemenza nei loro articoli nei confronti  di FAMA.

bamako

Mercoledì scorso sono stati bloccati gli accessi ai principali social network a Bamako. Il governo ha negato qualsiasi coinvolgimento, ma circolavano voci che tale decisione fosse stata presa “dall’alto”.

I maliani hanno trovato subito un modo per ovviare alla censura, utilizzando un VPN (virtual private network).

La stampa francese ha espresso la sua preoccupazione per la mancanza della libertà di espressione in Mali. Durante la recente manifestazione a Bamako, degli uomini in divisa si sono avvicinati ai corrispondenti di France 24 e Radio France International (RFI) mentre seguivano i fatti per le loro rispettive emittenti.  I due uomini delle forze dell’ordine hanno lanciato contro di loro del gas lacrimogeno, prima di aprire il fuoco, malgrado si fossero qualificati in modo chiaro e inequivocabile come giornalisti. La direzione di France 24 e quella di RFI hanno contattato immediatamente le autorità maliane.

I media nazionali hanno riportato che il giovane Bathily è stato rimesso in libertà provvisoria secondo le disposizioni del presidente Ibrahim Boubacar Keita. Anche se le indagini sono ancora in corso e l’inchiesta proseguirà il suo iter, il presidente, dopo aver ricevuto Mahamoud Dicko, capo dell’ Alto consiglio islamico del Mali e una delegazione di leader religiosi ha chiesto che venisse messo in libertà il giovane blogger con l’obbiettivo di “placare la situazione”.

Cornelia I. Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
@cotoelgyes

Silvia Romano aveva denunciato molestatori pedofili, forse rapita per vendetta

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La realizzazione di questo articolo è stata possibile grazie al finanziamento
ricevuto da tanti lettori dopo il lancio della campagna di crowdfunding.
Ringraziamo chi ci sta dando una mano per reperire i mezzi necessari 
a continuare le inchieste giornalistiche.
Vogliamo scoprire la verità. E ci riusciremo grazie a voi.
Africa ExPress

Dal Nostro Inviato Speciale
Massimo A. Alberizzi
Nairobi, Mombasa e Malindi, giugno 2019

La prima cosa che salta agli occhi cercando le tracce di Silvia Romano, la ventitreenne milanese sequestrata la sera del 20 novembre a Chakama, in Kenya, è che le indagini sono state abbastanza carenti, che c’è una competizione tra le varie polizie dell’ex colonia britannica e tra queste e l’esercito che si è occupato di scandagliare tutto il territorio al confine con la travagliata Somalia. Di Silvia non si sa niente dal momento della sua scomparsa. Sparita nel nulla. A parte il silenzio stampa chiesto dalla Farnesina – un atteggiamento di routine che serve più a mantenere segreti inconfessabili che a salvaguardare la vita degli ostaggi o l’inquinamento delle relative indagini – in questi casi si riesce sempre ad avere qualche informazione. Questa volta no. Niente. Sconsolante.

“Scusi, ma Silvia Romano ha dormito qui?”. La signora indiana che gestisce la guest house Marigold, nel caotico centro di Mombasa, non solo è gentile, ma anche collaborativa. Così, dopo averle spiegato perché stiamo indagando sul rapimento, chiama subito il figlio Aash Sahiko che si presenta con i registri degli ospiti. Dopo una veloce ricerca arriva la risposta: “Sì, è stata qui il 22 settembre e la notte tra il 5 e il 6 novembre”. Hillary Duenas, la collega americana che mi accompagna e che sarà molto importante nell’aprire bocche apparentemente cucite, chiede e ottiene il permesso di fotografare le pagine. Ogni dettaglio è prezioso. Chiediamo: Silvia è venuta qui sola? “Certo – è la risposta -. Ha pagato il prezzo della camera singola. E’ arrivata sola ed è ripartita sola”. Aash Sahiko se la ricorda bene: “Una bella ragazza così, resta impressa. Ero contento quando l’ho vista per la seconda volta in novembre”.

Il registro del Marigold Guest House mostra che Silvia ha dormito nella camera 4 (foto di Hillary Duenas per Africa ExPress)

Ma è venuto qualcuno della polizia keniota o agenti italiani a chiedere informazioni su Silvia?, chiediamo. “No, nessuno. Quando abbiamo saputo del suo rapimento ci siamo preparati a ricevere la visita di qualche investigatore e ci siamo meravigliati che non siano comparsi i poliziotti”. Io ed Hillary ci guardiamo sorpresi: com’è possibile che nessun inquirente si sia fatto vivo per verificare che la ragazza fosse sola?

Silvia, bella, giovane e dinamica, non poteva non attrarre le attenzioni di qualche ragazzo. Infatti erano in tanti a farle la corte o addirittura a dichiararle grande amore, come Alfred Scott un fisioterapista dell’ospedale di Mombasa che su Facebook proclama di essere innamorato della milanese.

Alfred Scott e Silvia Romano fotografati a Mombasa

Alla polizia di Nairobi sul rapimento vengono formulate tre ipotesi: sequestro per ottenere un riscatto, sequestro per tapparle la bocca su accuse di pedofilia di cui sarebbe stata testimone a Likoni, stesso movente ma per molestie a Chakama, villaggio nell’entroterra di Malindi.

Il muro di cinta della villa dove c’è il centro di Davide Ciarrapica

Silvia arriva per la prima volta in Kenya il 22 luglio dell’anno scorso. Aveva conosciuto un italiano, Davide Ciarrapica durante una festa di beneficenza. Il trentunenne di Seregno gestisce un centro per bambini a Likoni, un villaggio separato da Mombasa da un braccio di mare che si può superare con un traghetto. La ragazza intravede la possibilità di fare qualcosa a favore dei più deboli. Così quel giorno si imbarca per Mombasa con lui. Imbarazzante una dichiarazione rilasciata verbalmente da Ciarrapica a un detective keniota. Impossibile per me riportare qui i particolari scabrosi. Riferisce costernato l’investigatore: “Senza alcun pudore Davide, durante un colloquio il 15 maggio scorso, racconta che Silvia, durante il viaggio in aereo, gli è saltata addosso. Piuttosto strano mi è sembrato un modo per screditarla ai miei occhi. Io non gli ho creduto”.

 

Silvia resta al Hopes Dreams Rescue Sponsorship Centredi Davide per un mesetto, poi torna a Milano. Il 5 novembre rientra in Kenya. All’aeroporto di Mombasa, va a riceverla Ciarrapica. Insieme vanno a Likoni, ma lei ci resta poche ore. A fine giornata torna a Mombasa e si ferma a dormire al Marigold. La mattina dopo corre a Chakama, insieme a due nuovi volontari appena arrivati, nella struttura di Africa Milele, la onlus per cui lavorerà: obiettivo aiutare i bambini.

All’attracco del traghetto Likoni-Mombasa ci dà appuntamento una mamma che conosceva bene Silvia. Quando le chiediamo di raccontarci qualcosa della permanenza della ragazza quaggiù, scoppia in lacrime: “Le voglio bene, le voglio bene. Spero che torni presto. Io avevo tre bambine in quella struttura, poi le ho ritirate”. Perché? “Accadevano cose poco corrette e imbarazzanti. Tornate a casa le mie figlie riferivano di strani atteggiamenti di Davide e del suo socio, Rama Hamisi Bindo”. Invano Hillary abbraccia la signora cercando di consolarla. Il pianto continua a dirotto.

Un keniota che lavorava nel Centro di Ciarrapica, racconta: “No, non credo che ci siano stati casi di pedofilia, però un giorno mi hanno allontanato dicendo: ‘Conosci troppi segreti di questo posto. E’ meglio che tu vada via’. Licenziato in tronco”.

Una visita al Hopes Dreams Rescue Sponsorship Centre lascia confusi e stupefatti. Hillary – che tra l’altro è anche medico e così si presenta – all’entrata viene accolta da una signora che si illumina in volto: “Ah, grazie al cielo, dottoressa. Lei è venuta qui per quella quattordicenne incinta”. Evidentemente no, ma desta perplessità anche il fatto che Davide arrivi con la sua girlfriend, una stupenda diciassettenne.

Dopo la sua prima esperienza a Chakama, Silvia rientra in Italia, promettendo comunque a Davide che organizzerà a beneficio del suo centro, incontri di beneficienza per raccogliere fondi. Cosa che fa in ottobre. Ritorna il 5 novembre e va a Likoni, giusto il tempo per essere accolta freddamente dai bambini, che hanno l’ordine di restare sull’attenti immobili e di non salutarla, e da Davide, che l’accusa di non aver raccolto sufficiente denaro. I bambini africani fanno sempre una gran festa alla gente, specie quella che conoscono e che ha giocato tempo prima con loro. Quei ragazzini restano invece impietriti. “Davide è un collerico irascibile – racconta un altro ex impiegato -. Ecco perché in Italia recentemente è stato condannato a 6 anni di reclusione e 35 mila euro di danni per aver staccato a morsi un orecchio durante una rissa in una discoteca di Milano”.

 

Racconta uno degli inquirenti kenioti che sta cercando di dipanare l’intricata matassa: “Abbiamo avuto indicazioni che Silvia manifestasse un certo disagio nei confronti della struttura dove, secondo lei, si verificavano molestie nei confronti dei piccoli ospiti. Quell’organizzazione è guardata con una certa benevolenza dalle autorità locali. Il socio e amico di Davide Ciarrapica, nonché proprietario della villa che la ospita, Rama Hamisi Bindo, è figlio di un famoso politico e gode di protezioni insospettabili”. Trasecolo. Scusa? Ripeti bene. “Sì, gode di protezioni potenti”. Io e Hillary ci guardiamo increduli. Io, perché credo di aver capito male; lei perché, essendo americana, ha capito benissimo.

La polizia di Mombasa, secondo il nostro testimone che teme ritorsioni e mi intima per ben tre volte di non pubblicare il suo nome, non è mai intervenuta con la dovuta determinazione per indagare sul caso: “Ecco un rapporto riservato critico sul comportamento di come sia stata condotta l’indagine laggiù”, mormora tirando fuori dal cassetto un documento assai compromettente. Lo leggiamo ma non ci permette di fotografarlo.

Audio raccolto da Hillary Duenas

Nella sua deposizione del 15 maggio scorso alla polizia, Ciarrapica, che per altro afferma di essere stato ascoltato dai carabinieri del ROS durante una sua visita in Italia in gennaio,  dichiara di aver sconsigliato a Silvia di andare e prendere servizio a Chakama, eppure in una mail che ho potuto vedere, c’è scritto esattamente il contrario. Anzi, è stato proprio lui a consigliarle di andare.

Ma quello che inquieta di più è che all’aeroporto di Mombasa sono spariti tutti i file su Silvia Romano. Ai visitatori che entrano in Kenya viene scattata una fotografia e vengono prese le impronte digitali. Una procedura che deve aver riguardato anche la ragazza milanese. Perché nell’archivio della polizia aeroportuale non c’è niente di tutto ciò?

Riserva sorprese anche l’archivio della polizia di Malindi. L’11 novembre nove giorni prima di essere sequestrata, Silvia, dopo aver chiesto consiglio alla presidente di Africa Milele, Lilian Sora che dall’Italia dà il suo totale benestare, con altri due volontari, Giancarlo e Roberta, si reca alla centrale di polizia a denunciare un keniota che per qualche giorno ha soggiornato nello stesso affittacamere in cui da tempo vivono i volontari dell’associazione, Francis Kalama di Marafa, pastore anglicano: lo accusano di atteggiamenti equivoci nei confronti di alcune bambine.

Con la maglietta azzurra il pastore anglicano Francis Kalama, veniva da un villaggio vicino, Marafa. Silvia l’ha denunciato per molestie alle bambine

Una ricerca approfondita sui registri delle querele della polizia non porta a nulla. Gli agenti che se ne occupano e controllano i faldoni, allargano sconsolati le braccia.

Eppure in un messaggio audio whatsapp (che si può ascoltare qui sotto),  Silvia, che qualcuno dipinge come sprovveduta e che invece si dimostra testarda, legalista e amante della giustizia, racconta con una dovizia di dettagli di essere andata alla polizia e di aver avuto l’assicurazione che Kalama sarà arrestato e “le bambine sottoposte a un test medico”. Particolare assai pesante. La promessa comunque non avrà seguito: Kalama è uccel di bosco, sparito. Di lui nessuno ha più traccia, tanto meno gli investigatori, né si pensa abbia mai avuto notifica della denuncia.

Uno dei capi della polizia racconta a sua volta che in cella ci sono tra persone: un keniota giriama, l’etnia che abita sulla costa del Paese, Moses Luari Chende; un keniota di etnia orma (quella accusata di aver organizzato il sequestro), Gababa; e un somalo con un documento d’identità keniota ottenuto illegalmente senza la necessaria e obbligatoria procedura, Ibrahim. “Loro sanno sicuramente qualcosa ma sono degli esecutori. Aspettiamo che facciano i nomi dei mandanti”. Già, ma in Kenya fare i nomi di chi ha ordinato un rapimento è come suicidarsi. Hillary mi chiede: “Ma perché il vostro governo non garantisce la sicurezza in Italia? Una taglia e un permesso di soggiorno per chi fornisce informazioni sarebbero assai utili”. Una domanda banale, cui non trovo una risposta.

Salta fuori anche una critica della polizia all’esercito: “Ha chiuso le frontiere con la Somalia, ma non è stato assolutamente cooperativo con le indagini. Certo, non è il loro compito, ma loro sono andati anche in villaggi remoti, dove per noi è difficile arrivare.”

Sempre alla polizia di Malindi scuotono la testa a sentire parlare degli inquirenti italiani: “E’ venuto qui il console onorario, Ivan del Prete, con un altro paio di persone ma non ha fatto granché. Ha chiesto informazioni, come sta facendo lei. Niente di più”.

Massimo A. Alberizzi
massimo.alberizzi@gmail.com
twitter @malberizzi

https://www.africa-express.info/2019/06/09/silvia-romano-africa-express-lancia-raccolta-fondi-per-indagare/

Un imprenditore piemontese accusa: “Il console onorario di Malindi mi ha derubato”

Silvia Romano: troppe domande e troppi depistaggi ma il terrorismo non c’entra

Asmara apre il fronte diplomatico, ma la guerra ancora non si ferma

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Dal Nostro Inviato Speciale
Massimo A. Alberizzi
Asmara, 27 maggio 2000

La notizia piomba all’ improvviso a metà pomeriggio e si diffonde in un attimo: le truppe etiopiche hanno conquistato Senafe, a una ventina di chilometri a nord del confine, e si stanno avvicinando all’ Asmara. La città è stata catturata assieme a Forte (la vecchia Forte Cadorna) e Tsorena. La gente in strada affretta il passo, le facce si rabbuiano. Alla casa degli italiani c’ è una riunione d’ emergenza con i connazionali (programmata da tempo, per altro) dove l’ ambasciatore Antonio Bandini rassicura gli animi.

Gino Strada, Emergency

Il nervosismo si impadronisce ugualmente della capitale. Il tassista Ghilè, interrompe il giornale radio: «Devo filare a casa – implora agitato -. Se gli etiopi arrivano devo correre a imbracciare le armi». E dire che una decina di minuti prima Ghilè scherzava sul fatto che, avendo i capelli brizzolati, non era stato richiamato alle armi e mandato al fronte.

Gli etiopi avanzano

Poco dopo, un altro annuncio: la popolazione è stata evacuata da Adikaie, un villaggio a nord di Senafe. In realtà anche Senafe era stata abbandonata. Gli eritrei avevano pensato che fosse meglio ritirarsi a nord, su posizioni facilmente difendibili. I soldati di Addis Abeba sono dunque penetrati ancor di più in territorio nemico, nonostante la decisione eritrea di ritirarsi da tutte le zone occupate nel maggio 1998.

Zalambessa è stata lasciata giovedì e ieri è stato promesso il ripiegamento da altre due zone contese, Bada, in Dancalia, e Bure, sotto Assab. «Continueremo a combattere finché i soldati eritrei calpesteranno il suolo etiopico», aveva annunciato Addis Abeba. E così è stato.

In realtà non sembra che il ritiro da Zalambessa sia avvenuto spontaneamente. E’ stato, per così dire, provocato da una forte pressione militare e da un bombardamento a tappeto che ha fiaccato la resistenza degli eritrei. Si attende per oggi il ritiro da Bada e Bure, una mossa che toglierebbe agli etiopi ogni scusa per continuare la loro campagna.

Guerra Eritrea-Etiopia

Ieri il presidente algerino Abdelaziz Bouteflika, presidente di turno dell Oua, l’ Organizzazione per l’ Unità africana, lasciando Asmara per ritornare ad Addis Abeba, ha annunciato che i colloqui di pace tra i due Paesi in guerra riprenderanno lunedì ad Algeri. Bouteflika sembra ottimista, anche se ormai in questa vicenda la soluzione è apparsa spesso a portata di mano e si è poi dissolta rapidamente.

I combattimenti di questi giorni sul fronte centrale hanno fatto decine di morti e feriti. Yemane Gebremeskel, portavoce del governo di Asmara, ha detto che gli etiopi annientati sono stati 30 mila; ma anche le perdite eritree devono essere state terribili. Ogni notte la strade di Asmara sono attraversate da camion militari carichi di uomini con i corpi lacerati. «Qui ne riceviamo da 700 a 1000 ogni notte – dice un infermiere dell’ ospedale Halibet, il più grande della città -. Restano solo qualche ora, il tempo di essere operati. Poi li portano via».

Gino Strada: “Opero uno via l’altro”

All’ospedale Halibet ieri mattina è arrivato un team di chirurghi dell’ organizzazione italiana Emergency, guidati da Gino Strada. «Alle 8 ho varcato il cancello – racconta Strada, uscendo dalla sala operatoria con il camice verde inzuppato di sangue – e mi è venuto incontro il ministro della sanità. Si è presentato stringendomi la mano, mi ha indicato lo spogliatoio e mi ha quasi implorato: “Dottore, cominci subito”. Ho cominciato immediatamente, uno via l’ altro, uno via l’ altro. Sto operando da dieci ore e non ho staccato un minuto».

Nelle corsie e nei corridoi i feriti sono dappertutto. Alcuni urlano dal dolore, altri si lamentano. Sono soldati, soprattutto, ma anche civili, donne e bambini, colpiti da bombe o schegge.

Su una barella, immobile, giace un militare. Sembra morto: «No – assicura un infermiere eritreo -. Ha una decina di ferite, la più grave alla testa, ma è ancora vivo». Borbotta Francesco, il caposala italiano: «Sono stato in mezzo a tante guerre, perfino in Somalia, ma non ho mai visto una carneficina così». Con la presa di Senafe, secondo gli ambienti diplomatici di Asmara, dovrebbe esaurirsi la vittoriosa campagna militare etiopica. Ora la parola dovrebbe passare alle negoziazioni e si spera che i leader dei due Paesi si mostrino più flessibili e più lungimiranti di quanto lo siano stati finora. In Eritrea si parla già di un rinnovamento ai vertici del Paese.

Massimo A. Alberizzi
massimo.alberizzi@gmail.com
twitter @malberizzi
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Guinea Equatoriale, la sentenza della Cassazione francese contro Teodorino Obiang

3

Le : 23/04/2014

Cour de cassation
chambre criminelle
Audience publique du 5 mars 2014
N° de pourvoi: 13-84977
ECLI:FR:CCASS:2014:CR00990
Publié au bulletin

Rejet

M. Louvel (président), président
SCP Piwnica et Molinié, SCP Potier de La Varde et Buk-Lament, SCP Waquet, Farge et
Hazan, avocat(s)

REPUBLIQUE FRANCAISE
AU NOM DU PEUPLE FRANCAIS

LA COUR DE CASSATION, CHAMBRE CRIMINELLE, a rendu l’arrêt suivant :
Statuant sur les pourvois formés par :

-La société Ganesha holding,

-La société Nordi shipping et entreprise participation,

-La société Re entreprise,

-La société Raya holding,

-La société du 42 Avenue Foch,

-La société de l’avenue du bois,

-La société GEP entreprise participation,

-La République de Guinée Equatoriale,

av foch 42contre l’arrêt n° 6 de la chambre de l’instruction de la cour d’appel de PARIS, 2e section,
en date du 13 juin 2013, qui, dans l’information suivie contre, notamment, MM. Mourad
B…, Franco Y…, Mme Aurélie Z…, des chefs, notamment, de blanchiment, abus de biens
sociaux, abus de confiance, complicité de détournement de fonds publics et recel, a
confirmé l’ordonnance du juge d’instruction ordonnant une mesure de saisie immobilière ;
La COUR, statuant après débats en l’audience publique du 5 février 2014 où étaient
présents : M. Louvel, président, Mme Labrousse, conseiller rapporteur, Mmes Nocquet,
Ract-Madoux, M. Soulard, Mmes de la Lance, Chaubon, MM. Germain, Sadot, conseillers
de la chambre, M. Azema, conseiller référendaire ;
Avocat général : M. Bonnet ;
Greffier de chambre : M. Bétron ;
Sur le rapport de Mme le conseiller référendaire LABROUSSE, les observations de la
société civile professionnelle WAQUET, FARGE et HAZAN, de la société civile
professionnelle PIWNICA et MOLINIÉ, avocats en la Cour, et les conclusions de M.
l’avocat général BONNET ;
Vu l’ordonnance du président de la chambre criminelle, en date du 6 septembre 2013,
ordonnant la jonction et l’examen immédiat des pourvois ;
Vu le mémoire, commun aux demanderesses, et le mémoire en défense produits ;
Attendu qu’il résulte de l’arrêt attaqué et des pièces de la procédure que, le 2 décembre
2008, l’association Transparency International France a porté plainte et s’est constituée
partie civile contre, notamment, le président en exercice de la République de Guinée
Equatoriale et son fils, M. Téodoro A…, pour détournement de fonds publics, abus de
biens sociaux, abus de confiance, blanchiment, recel et complicité de ces délits, en
exposant que des biens provenant des infractions dénoncées étaient détenus par ces
personnes sur le territoire français ; que, le 19 juillet 2012, le juge d’instruction a saisi, à
titre conservatoire, au visa des articles 706-141 à 706-147 et 706-150 à 706-152 du code
de procédure pénale, un ensemble immobilier sis à Paris, dont il a retenu qu’il était le
produit du délit de blanchiment et qu’il était détenu par M. Téodoro A…, au travers de
plusieurs sociétés suisses et françaises dont celui-ci était, depuis décembre 2004, l’unique
actionnaire ; que la République de Guinée Equatoriale et les sociétés précitées ont relevé
appel de cette décision ;
Mappa 2En cet état ;
Sur le premier moyen de cassation, pris de la violation des articles 191, 591 à 593 du code
de procédure pénale, R. 312-36 du code de l’organisation judiciaire, défaut de motifs,
manque de base légale ;
” en ce que selon les mentions de l’arrêt attaqué, la composition de la chambre de
l’instruction était la suivante :
« composition de la cour :
Lors des débats, du délibéré :
Mme Boizette, Président ;

Mme Dupont-Viet, conseiller désigné par ordonnance de M. le Premier président de la
cour d’appel de Paris en date du 13 mars 2013 M. Guiguesson, conseiller ;

Tous trois désignés en application des dispositions de l’article 191 du code de procédure
pénale » ;
” alors que le premier président de la cour d’appel n’est autorisé, en cas d’indisponibilité
d’un conseiller titulaire de la chambre de l’instruction et lorsqu’il n’est pas possible de
réunir l’assemblée générale, à désigner un remplaçant qu’à titre temporaire et pour une
période déterminée ; qu’à défaut d’avoir constaté l’impossibilité de réunir l’assemblée
générale et d’indiquer la période durant laquelle Mme Dupont-Viet, conseiller désigné par
ordonnance du premier président de la cour d’appel, pourra siéger à la chambre de
l’instruction, l’arrêt attaqué n’a pas mis la Cour de cassation en mesure de contrôler la
régularité de la composition de la chambre de l’instruction “ ;
Attendu que la mention de l’arrêt attaqué, selon laquelle le président et les deux
assesseurs composant la chambre de l’instruction ont été désignés conformément aux dispositions de l’article 191 du code de procédure pénale, suffit à établir, en l’absence de
toute contestation à l’audience concernant les conditions de leur désignation, la régularité
de la composition de la juridiction ;
D’où il suit que le moyen ne peut être admis ;
Sur le deuxième moyen de cassation, pris de la violation des articles 131-21, 324-7 12° du
code pénal, 706-141 à 706-152, 591 à 593 du code de procédure pénale, défaut de motifs,
manque de base légale ;
” en ce que l’arrêt attaqué a confirmé l’ordonnance de saisie pénale immobilière en date
du 19 juillet 2012 ;
” aux motifs que le juge d’instruction a visé l’article 131-21 du code pénal sans plus de
précision, et notamment n’a pas visé l’alinéa 5 ou l’alinéa 6 de cet article dans
l’ordonnance querellée ; le magistrat a visé les dispositions des articles 706-141 à 706-147
et 706-150 à 706-152 du code de procédure pénale ; qu’il n’a pas visé l’article 706-148 qui
prévoit qu’en cas de saisie de patrimoine l’ordonnance du juge d’instruction est prise sur
requête du procureur de la République ou d’office après son avis ; qu’en l’espèce
s’applique l’article 131-21, alinéa 3, du code pénal ; que les dispositions de l’article
131-21, alinéas 5 et 6, ne sont pas applicables, car l’ensemble immobilier objet de
l’ordonnance de saisie contestée du 19 juillet 2012 est le produit direct de l’infraction de
blanchiment, compte tenu des modalités de financement de ce bien, et qu’il ne s’agit pas
d’une saisie de patrimoine élargie ; que, s’agissant d’une saisie immobilière, le juge
d’instruction a procédé à juste titre à la saisie, au visa des articles 706-150 à 709-152 du
code de procédure pénale, lesquels textes ne prévoient pas l’avis préalable du ministère
public, mais la notification de cette ordonnance au parquet et comme il a été procédé, le
même jour, ainsi qu’il figure en mention du greffier (D706/ 13) ; que, dès lors, la présente
ordonnance a été prise conformément aux exigences légales de forme ;
” alors qu’en vertu de l’article 706-148 du code de procédure pénale, le juge d’instruction
ne peut ordonner une saisie de patrimoine, qu’après avoir reçu l’avis préalable du
procureur de la République ; qu’en l’espèce, le juge d’instruction a ordonné la saisie
pénale de l’ensemble immobilier situé sis 40/ 42 avenue Foch sur le fondement de l’article
324-7 12° du code pénal, qui renvoie à la peine de confiscation générale prévue par
l’article 131-21, alinéa 6 ; que cette saisie constituait dès lors, au sens de l’article 706-148
du code de procédure pénale, une saisie de patrimoine nécessitant l’avis préalable du
ministère public ; qu’en décidant le contraire, la chambre de l’instruction a violé les textes
et principes susvisés “ ;
Sur le troisième moyen de cassation, pris de la violation des article 131-21, 324-7 12° du
code pénal, 706-141 à 706-152, 591 à 593 du code de procédure pénale, défaut de motifs,
manque de base légale ;
Teodoin esce da auto” en ce que l’arrêt attaqué a confirmé l’ordonnance de saisie pénale immobilière en date
du 19 juillet 2012 ;
” aux motifs propres que si l’article 22 de la Convention de Vienne du 18 avril 1961, la
jurisprudence internationale et la jurisprudence française de la Cour de cassation
reconnaissent le principe de cette immunité, il y a lieu d’examiner si les biens considérés,
soit l’immeuble du 40/ 42 avenue Foch à Paris et les biens meubles le garnissant ont été
destinés et ont effectivement servi à l’accomplissement d’une mission diplomatique par la
République de Guinée Equatoriale ; il résulte des investigations effectuées, et notamment
par l’OPIAC, que, outre la liste des véhicules de prix dressée comme appartenant ou
ayant appartenu à Téodoro A… (D239), outre la liste des virements émis par la société
Somagui Forestal (D355) pour financer des achats de vêtements, de biens mobiliers,
objets de décoration de collection pour plusieurs millions d’euros (D242, 280, 284), outre
l’ensemble des investigations relatives à d’autres dépenses somptuaires (D494 à 515), il
résulte des investigations effectuées en 2011, par l’OCRGDF (D486) que l’immeuble situé
42 Avenue Foch à Paris, composé à l’origine de 5 appartements sur 5 niveaux a appartenu à cinq sociétés suisses en 2004, qu’une seule personne est propriétaire de la
totalité des actions composant ces sociétés (D475/ 2), que cette même personne fut
propriétaire d’une créance de 22. 098. 595 ¿ sur ces sociétés, qu’elle est propriétaire des
meubles meublants, que cet immeuble a été mis à disposition à titre gratuit de M. X,
identifié comme étant Téodoro A…, véritable propriétaire via Somagui Forestal des actions
composant le capital des sociétés suisses susvisées, soit les sociétés Ganesha, Re
Entreprise, Gep, Nordi And Shipping, Raya Holding et les deux sociétés françaises Foch
Services, et SCI Avenue du Bois, lesquelles sauf les deux dernières étaient domiciliées à
Fribourg dans une multifiduciaire (D640) et sociétés helvétiques pour lesquelles M.
Téodoro A… semble avoir donné procuration (D665) ; ces investigations ont établi que la
somme des travaux réalisés dans ce bien immobilier, pour un total d’environ 20 millions
d’euros (D484) a largement été financée par des virements provenant de Somagui
Forestal, qui a également financé la gestion et l’entretien de l’immeuble, estimé à 40
millions d’euros ; le 5 octobre 2011 (D476/ 6 à 2) les officiers de police judiciaire ont
constaté sur la porte d’entrée des lieux et dans les étages la présence de deux affichettes
de fortune, sous feuillet plastifié, « République de Guinée Equatoriale-locaux de
l’ambassade », tandis que figure l’adresse officielle de l’ambassade, 29 boulevard de
Courcelles à Paris 8ème, affichettes qui selon le gardien avaient été apposées la veille ; si
l’ensemble de ce bien immobilier aurait été l’objet d’un transfert de propriété par cession
des actions par Téodoro A… au bénéfice de la République de Guinée Equatoriale en date
du 15 septembre 2011, les investigations ultérieures sur place n’ont pas constaté
l’effectivité de ce transfert de propriété ; c’est avec pertinence que les juges d’instruction
ont noté que lors des saisies des véhicules appartenant à M. A…réalisées le 28 septembre
2011, notamment dans les locaux annexes à l’immeuble (parkings) et que deux jours
après ces opérations, un écriteau indiquant « Annexe Ambassade de Guinée Equatoriale
» était apposé sur la porte d’entrée du 42 avenue Foch et qu’il leur semblait tout à fait
curieux que l’acte de cession du 15 septembre, donc antérieur à ces mesures, n’ait pas
été produit et opposé à ce moment aux enquêteurs ; les enquêteurs ont pris attache le 27
octobre 2011 avec le service du protocole du ministère des affaires étrangères, qu’il leur a
été réaffirmé que les locaux du 42 Avenue Foch relevaient du droit commun et qu’il ne
s’agissait en aucun cas d’une adresse officielle de la République de Guinée Equatoriale
(D482) et ce malgré la note verbale n° 185/ 12 du 15 Février 20 12 de l’ambassade de
Guinée Equatoriale en date du 15 février 2012, note par laquelle cet Etat informait le quai
d’Orsay que ce bien était sa propriété pour laquelle il souhaitait une protection policière
(D543/ 2), ce que lui a refusé le ministère des affaires étrangères, refus contre lequel la
République de Guinée Equatoriale a protesté (D630) ; du 14 au 22 février 2012, les locaux
de cet immeuble ont été l’objet de perquisition (D555 à D568), qu’il résulte des
procès-verbaux des constatations dressés à cette occasion et de l’album photographique
des lieux (D585) que l’ensemble des pièces était réservé à un usage exclusif d’habitation
privée, comme l’ont également noté les juges d’instruction ; dès lors, les appels formés
contre l’ordonnance du 19 juillet 2012 prononçant la saisie immobilière du bien immobilier
sis à Paris 40/ 42 av. Foch sont mal fondés et l’ordonnance sera confirmée ;
” aux motifs adoptés que les investigations démontrent que l’immeuble sis 42 avenue Foch
à Paris 16ème détenu par six sociétés, suisses et françaises, a été financé en tout ou
partie avec le produit des infractions susvisées et constitue ainsi l’objet du blanchiment
des infractions d’abus de biens sociaux, abus de confiance et de détournement de fonds
publics ; que le nommé Téodoro A…, fils du président de Guinée Équatoriale, a la libre
disposition dudit immeuble ; qu’en effet, l’exploitation du dossier remis par les services
fiscaux et plus précisément les déclarations d’impôt sur la fortune des années 2005 à
2011 (Scellé ISF… un) a permis la découverte de documents remis par le cabinet CLC 65
avenue Marceau 75116 Paris, par lesquels il est indiqué que M. A…, résident de Guinée
Équatoriale est l’unique actionnaire depuis la fin de l’année 2004 des cinq sociétés suisses, Ganesha Holding, Nordi Shipping & Trading Co Ltd, GEP Gestion Entreprise
Participation, RE Entreprise et Raya Holding, cette dernière détenant le capital des
sociétés 42 avenue Foch et SCI avenue du Bois ; que ces six sociétés ressortent auprès
du bureau de la conservation des hypothèque de Paris (8ème bureau) comme étant les
copropriétaires de l’immeuble situé 42 avenue Foch à Paris 16ème ; qu’en outre, un
rapport de ce même cabinet d’avocats fait état qu’un certain « M. « X », résident de
Guinée Equatoriale est propriétaire de toutes les actions de la société Ganesha Holding
SA depuis le 20 décembre 2004 » ; que le rapport mentionne également « qu’il existe un
risque pénal encouru par le propriétaire de l’immeuble du 42 avenue Foch, à savoir l’abus
de biens sociaux, s’il était démontré la gérance de fait de M. A… Téodoro » ; que le
cabinet CLC précise par ailleurs que les sociétés suisses consentent à un abandon de
loyers au profit de M. « X », lequel occupe à titre gratuit les biens inscrits à l’actif social, et
que le montant des loyers que ces sociétés auraient dû normalement appeler, devraient
être intégrés dans leur résultat ; que les différentes auditions notamment de Mme K…du
cabinet Dauchez, administrateur de biens à l’époque, de Mme Linda L…, de la société L…,
cabinet de décoration, ainsi que les auditions d’anciens employés au service de M.
Téodoro A… ont également fait ressortir que l’intéressé prenait l’ensemble des décisions
concernant l’immeuble, supervisait l’ensemble des travaux et s’était toujours comporté
comme le propriétaire dudit immeuble ; qu’au travers des documents saisis en perquisition
dans les locaux de la société Foch Service chargée de la gestion de l’immeuble du 42
avenue Foch, il était constaté que la gérante, Mme M…, adressait la plupart de ses notes
et compte-rendu à M. A…, seul à prendre les décisions ; que les investigations récentes,
diligentées dans le cadre de l’exécution d’une commission rogatoire internationale
adressée aux autorités judiciaires helvétiques, notamment les perquisitions effectuées
dans les locaux des sociétés de fiducie ayant administré et géré les sociétés suisses
propriétaires du 42 avenue Foch, ont permis la découverte de documents attestant sans
ambiguïté que M. Téodoro A… en est l’unique actionnaire et le bénéficiaire économique
selon le droit suisse ; que ces sociétés n’ont d’ailleurs plus de comptes bancaires depuis
leur rachat fin d’année 2004 par le nouveau propriétaire, M. Téodoro A… ; que la
perquisition effectuée dans les locaux du 42 avenue Foch a permis également de
constater que les travaux effectués à cette adresse ont eu pour but de réunir l’ensemble
des pièces et l’ensemble des niveaux afin de ne constituer plus qu’un seul et même vaste
ensemble immobilier dont l’ensemble des salles communiquent par l’intérieur, ce qui ne
permet plus de distinguer les lots par sociétés propriétaires ; qu’ainsi, le lot n° 512,
appartenant à la société SCI Avenue du Bois représente une partie d’un appartement situé
au 4ème étage d’une surface de 150 m2 environ et l’autre partie de ce même appartement
constituant le lot n° 511 appartient à la société 42 avenue Foch ; la gestion des sociétés
précitées s’effectue au moyen de financements en provenance directement de Guinée
Equatoriale et plus particulièrement de la société Somagui Forestal SA ; qu’iI convient de
distinguer deux périodes : la période 2005-2007 durant laquelle les transferts de fonds se
font directement depuis la Guinée Équatoriale vers des comptes bancaires ouverts aux
noms des sociétés suisses auprès du Cabinet Dauchez, administrateur du bien immeuble
42 avenue Foch ; que de 2007 à ce jour, la société de droit français SARL Foch Service
dont l’objet est le paiement des charges inhérentes à la gestion de l’immeuble ainsi que
des frais de gestion du personnel affecté à l’entretien de l’immeuble et à la réception des
hôtes, est alimentée par des fonds provenant également de la société Somagui Forestal ;
qu’ainsi, l’exploitation et l’analyse des comptes bancaires de la société Foch Services
démontrent des liens financiers entre cette dernière et la société guinéenne Somagui
Forestal pour près de 2, 8 millions d’euros en provenance de celle-ci ; qu’iI convient de
préciser que l’objet social de la société Somagui Forestal, spécialisée dans l’exploitation et
la commercialisation du bois est totalement éloigné de celui de la Sarl Foch Services ; que
les travaux qui ont permis une transformation totale du bien sis 42 avenue Foch à l’initiative de M. Téodoro A… ont été évalués à près de 11 millions d’euros et ont été réglés
en partie par la société Somagui Forestal et pour une très grande partie par le débit d’un
compte intitulé « Téodoro A…, Présidence, Malabo » ; que ce mode de financement, pour
le moins singulier s’agissant d’un immeuble à usage privé, se retrouve dans les
acquisitions des objets d’art de grande valeur (pour 20 millions d’euros) et des véhicules
de luxe (pour 7 ou 8 millions d’euros), ceux-ci ayant d’ailleurs été saisis pour la plupart
dans la cour intérieure et dans les appartements du 42 avenue Foch ; que l’immeuble sis à
cette adresse est un bien immeuble privé et en aucun cas une représentation diplomatique
sur le territoire français comme cela a été rappelé par le ministre des affaires étrangères ;
que cet élément a été vérifié durant la perquisition puisque celle-ci a permis la découverte
d’objets, vêtements et autres effets personnels appartenant exclusivement à M. Téodoro
A… ; le contrat relatif à la cession des parts des sociétés suisses en date du 18 décembre
2004 découvert en Suisse pour un montant de 25 015 000 ¿ mentionne pour acquéreur le
nom de Téodoro A… Malabo Guinée Équatoriale à titre privé ; à aucun moment il n’est fait
état d’un quelconque titre ou fonction officielle sur cette convention ; en outre, lors de la
perquisition dans les locaux de la SARL Foch Services, des documents saisis révèlent la
volonté de M. Téodoro A…et de ses conseils d’opacifier davantage les liens financiers
entre les différentes structures personnes morales notamment par la création d’une
holding à Singapour ; qu’au cours de la perquisition effectuée auprès du cabinet de
fiscalité CLC a été notamment saisie la déclaration des plus-values pour l’année 2011
déposée pour le compte de Téodoro A… ; que cette déclaration en date du 15 septembre
2011, fait suite à la cession des droits sociaux qu’il détenait dans les sociétés suisses
copropriétaires du 42 avenue Foch au profit de l’Etat de Guinée Equatoriale ; toutefois cet
événement semble être un habillage juridique tendant à faire obstacle à toute saisie ; que
le montant de cette transaction porterait sur un montant d’environ 35 millions d’euros
(comprenant le prix de cession des parts et le rachat de créances) ce qui parait totalement
dérisoire et inconsidéré puisque le service France Domaine a évalué cet immeuble à 107
millions d’euros en juin 2012 ; que plusieurs incohérences montrent que l’acte a été rédigé
dans l’urgence afin de s’opposer aux opérations judiciaires ; qu’en effet, les saisies des
véhicules appartenant à M. A…ont été réalisées le 28 septembre 2011 ; que deux jours
après ces opérations, un écriteau indiquant (Annexe Ambassade de Guinée Équatoriale)
était apposé sur la porte d’entrée du 42 avenue Foch ; qu’iI semble tout à fait curieux que
l’acte de cession du 15 septembre, donc antérieur à ces mesures, n’ait pas été produit à
ce moment ; en outre, la perquisition effectuée au 42 avenue Foch au mois de février
2012, donc postérieurement à cet événement, a permis de constater que les effets
personnels, meubles et documents de M. Téodoro A… se trouvaient toujours dans les
lieux ; l’enquête américaine mentionne des revenus pour M. Teodoro A…, ministre de
l’agriculture et des forêts de l’ordre de 80 000 dollars par an, et fait état d’articles du code
pénal guinéen (article 399 CP) empêchant un ministre de pouvoir exercer une activité
commerciale ; que les frais d’acquisition de l’immeuble sis 42 avenue Foch, sa rénovation,
son entretien, sa décoration intérieure évalués à plus de cent millions d’euros sont sans
commune mesure avec les revenus qui lui sont connus ; que l’ensemble de ces éléments
démontre que M. Téodoro A… est le véritable propriétaire de l’immeuble sis 42 avenue
Foch et qu’au sens de l’article 131-21 du code pénal il en a la libre disposition ; que cet
immeuble encourt donc la confiscation en tant qu’objet d’une opération de placement, de
dissimulation et de conversion de fonds provenant d’infractions de détournement de fonds
publics, d’abus de biens sociaux, d’abus de confiance ; qu’en outre, Téodoro A…, se voit
reprocher des faits de blanchiment et encourt la confiscation de tout ou partie de ses biens
meubles ou immeubles, divis ou indivis, conformément à l’article 324-7 12° du code pénal
; que les investigations effectuées démontrent que c’est. M Teodoro A…, personne
physique, qui a la libre disposition de l’ensemble immobilier fictivement attribué à des
personnes morales ; qu’en l’absence de saisie pénale, une dissipation de la valeur de ce bien aurait pour effet de priver la juridiction de jugement de toute perspective de
confiscation, il y a donc lieu de procéder la saisie pénale de ce bien immeuble afin de
garantir la peine de confiscation ;
” 1°) alors qu’aucune saisie provisoire ne peut être effectuée à l’encontre d’un bien
immobilier appartenant à un tiers de bonne foi ; qu’en l’espèce, la République de Guinée
Equatoriale a produit à l’appui de son mémoire l’ensemble des documents justifiant que
depuis le 15 septembre 2011 elle était, au travers des sociétés dont elle était devenue
l’actionnaire unique, la seule et unique propriétaire des lots composant l’ensemble
immobilier visé par la saisie pénale immobilière prononcée le 19 juillet 2012 ; qu’en
décidant néanmoins que la saisie immobilière pratiquée sur cet ensemble immobilier était
valable, en relevant que M. Téodoro A… en serait le véritable propriétaire, la chambre de
l’instruction a dénaturé lesdits documents et ainsi privé sa décision de toute base légale
au regard des textes et principes susvisés ;
” 2°) alors que la chambre de l’instruction ne pouvait pas, pour justifier le maintien de la
saisie de l’immeuble appartenant à la République de Guinée Equatoriale, relever que les
investigations ultérieures réalisées sur place n’ont pas constaté l’effectivité du transfert de
propriété ou encore que M. Téodoro A… en aurait conservé la libre disposition ; que de
tels motifs inopérants privent la décision de toute base légale “ ;
Sur le quatrième moyen de cassation, pris de la violation des articles 22 de la Convention
de Vienne du 18 avril 1961, 131-21, 324-7 12° du code pénal, 706-141 à 706-152, 591 à
593 du code de procédure pénale, défaut de motifs, manque de base légale ;
” en ce que l’arrêt attaqué a confirmé l’ordonnance de saisie pénale immobilière en date
du 19 juillet 2012 ;
” aux motifs que si l’article 22 de la Convention de Vienne du 18 avril 1961, la
jurisprudence internationale et la jurisprudence française de la Cour de Cassation
reconnaissent le principe de cette immunité, il y a lieu d’examiner si les biens considérés,
soit l’immeuble du 40/ 42 avenue Foch à Paris et les biens meubles le garnissant ont été
destinés et ont effectivement servi à l’accomplissement d’une mission diplomatique par la
République de Guinée Equatoriale ; il résulte des investigations effectuées, et notamment
par l’OPIAC, que, outre la liste des véhicules de prix dressée comme appartenant ou
ayant appartenu à M. Téodoro A… (D239), outre la liste des virements émis par la société
Somagui Forestal (D355) pour financer des achats de vêtements, de biens mobiliers,
objets de décoration de collection pour plusieurs millions d’euros (D242, 280, 284), outre
l’ensemble des investigations relatives à d’autres dépenses somptuaires (D494 à 515), il
résulte des investigations effectuées en 2011, par l’OCRGDF (D486) que l’immeuble situé
42 Avenue Foch à Paris, composé à l’origine de 5 appartements sur 5 niveaux a
appartenu à cinq sociétés suisses en 2004, qu’une seule personne est propriétaire de la
totalité des actions composant ces sociétés (D475/ 2), que cette même personne fut
propriétaire d’une créance de 22 098 595 euros sur ces sociétés, qu’elle est propriétaire
des meubles meublants, que cet immeuble a été mis à disposition à titre gratuit de M. X,
identifié comme étant Téodoro A…, véritable propriétaire via Somagui Forestal des actions
composant le capital des sociétés suisses susvisées, soit les sociétés Ganesha, Re
Entreprise, Gep, Nordi And Shipping, Raya Holding et les deux sociétés françaises Foch
Services, et SCI Avenue du Bois, lesquelles sauf les deux dernières étaient domiciliées à
Fribourg dans une multifiduciaire (D640) et sociétés helvétiques pour lesquelles Téodoro
A… semble avoir donné procuration (D665) ; ces investigations ont établi que la somme
des travaux réalisés dans ce bien immobilier, pour un total d’environ 20 millions d’euros
(D484) a largement été financée par des virements provenant de Somagui Forestal, qui a
également financé la gestion et l’entretien de l’immeuble, estimé à 40 millions d’euros ; le
5 octobre 2011 (D476/ 6 à 2) les officiers de police judiciaire ont constaté sur la porte
d’entrée des lieux et dans les étages la présence de deux affichettes de fortune, sous
feuillet plastifié, « République de Guinée Equatoriale-locaux de l’ambassade », tandis que figure l’adresse officielle de l’ambassade, 29 boulevard de Courcelles à Paris 8ème,
affichettes qui selon le gardien avaient été apposées la veille ; que si l’ensemble de ce
bien immobilier aurait été l’objet d’un transfert de propriété par cession des actions par M.
Téodoro A… au bénéfice de la République de Guinée Equatoriale en date du 15
septembre 2011, les investigations ultérieures sur place n’ont pas constaté l’effectivité de
ce transfert de propriété ; que c’est avec pertinence que les juges d’instruction ont noté
que lors des saisies des véhicules appartenant à M. A…réalisées le 28 septembre 2011,
notamment dans les locaux annexes à l’immeuble (parkings) et que deux jours après ces
opérations, un écriteau indiquant « Annexe Ambassade de Guinée Equatoriale » était
apposé sur la porte d’entrée du 42 avenue Foch et qu’il leur semblait tout à fait curieux
que l’acte de cession du 15 septembre, donc antérieur à ces mesures, n’ait pas été produit
et opposé à ce moment aux enquêteurs ; que les enquêteurs ont pris attache le 27 octobre
2011 avec le service du protocole du ministère des affaires étrangères, qu’il leur a été
réaffirmé que les locaux du 42 Avenue Foch relevaient du droit commun et qu’il ne
s’agissait en aucun cas d’une adresse officielle de la République de Guinée Equatoriale
(D482) et ce malgré la note verbale n° 185/ 12 du 15 Février 2012 de l’ambassade de
Guinée Equatoriale en date du 15 février 2012, note par laquelle cet Etat informait le quai
d’Orsay que ce bien était sa propriété pour laquelle il souhaitait une protection policière
(D543/ 2), ce que lui a refusée le ministère des affaires étrangères, refus contre lequel la
République de Guinée Equatoriale a protesté (D630) ; que du 14 au 22 février 2012, les
locaux de cet immeuble ont été l’objet de perquisition (D555 à D568), qu’il résulte des
procès-verbaux des constatations dressés à cette occasion et de l’album photographique
des lieux (D585) que l’ensemble des pièces était réservé à un usage exclusif d’habitation
privée, comme l’ont également noté les juges d’instruction ; dès lors, les appels formés
contre l’ordonnance du 19 juillet 2012 prononçant la saisie immobilière du bien immobilier
sis à Paris 40/ 42 avenue Foch sont mal fondés et l’ordonnance sera confirmée ;
” 1°) alors qu’en application de l’article 22 de la Convention de Vienne sur les relations
diplomatiques du 18 avril 1961, les locaux des missions diplomatiques sont inviolables ;
qu’en l’espèce, la République de Guinée Equatoriale a indiqué au service du protocole du
ministère des affaires étrangères par une note verbale de l’ambassade en date du 4
octobre 2011 que l’immeuble sis 40/ 42, avenue Foch à Paris était utilisé « pour
l’accomplissement des fonctions de sa Mission Diplomatique » au titre des « locaux de la
mission diplomatique » tels que définis par l’article 1er de la Convention de Vienne ; qu’en
refusant d’annuler la saisie immobilière pratiquée sur cet ensemble immobilier le 16 juillet
2012, nonobstant son affectation à la mission diplomatique de la République de Guinée
Equatoriale, la chambre de l’instruction a violé les textes et principes susvisés ;
” 2°) alors que l’immunité diplomatique définie à l’article 22 de la Convention de Vienne
s’applique à l’ensemble des biens affectés à la mission diplomatique, quel qu’en soit leur
usage professionnel ou privé ; qu’en écartant l’inviolabilité de l’immeuble sis 40/ 42 avenue
Foch, affecté à la mission diplomatique de la République de Guinée Equatoriale, en se
bornant à relever qu’il aurait été réservé à un usage exclusif d’habitation privée, la
chambre de l’instruction a violé les textes et principes susvisés ;
” 3°) alors que l’affectation de biens immobiliers aux locaux d’une mission diplomatique
n’est soumis à aucun régime d’agrément préalable ou accréditif mais relève du seul
régime déclaratif ; qu’en validant néanmoins la saisie immobilière pratiquée le 16 juillet
2012 de l’immeuble situé au 40/ 42, avenue Foch à Paris, en se prévalant d’un refus du
service du protocole du ministère des affaires étrangères, la chambre de l’instruction a de
nouveau violé les textes et principes susvisés “ ;
Les moyens étant réunis ;
Attendu que, pour confirmer l’ordonnance entreprise et écarter l’argumentation de la
République de Guinée Equatoriale qui exposait que, d’une part, l’avis du ministère public
n’avait pas été recueilli préalablement à la mesure, d’autre part, le bien saisi était devenu sa propriété du fait de la cession que M. Téodoro A… lui avait consentie, le 15 septembre
2011, de ses actions dans le capital des sociétés détentrices de l’immeuble, enfin, celui-ci,
affecté à sa mission diplomatique, ce dont elle avait informé le ministère des Affaires
étrangères par note du 4 octobre 2011, bénéficiait de l’immunité prévue à l’article 22 de la
Convention de Vienne du 18 avril 1961 sur les relations diplomatiques, l’arrêt énonce que
le bien, produit direct de l’infraction de blanchiment, a été à juste titre saisi par le juge
d’instruction au visa des articles 706-150 à 706-152 du code de procédure pénale, qui ne
prévoient pas l’avis préalable du ministère public ; que les juges ajoutent qu’il ne résulte
pas des investigations diligentées postérieurement à l’acte de cession précité que le
transfert de propriété de l’immeuble ait été effectif, toutes les pièces qui le composent
étant réservées à un usage exclusif d’habitation privée ; qu’ils relèvent, enfin, que selon le
ministre des Affaires étrangères et européennes, les locaux saisis relèvent du droit
commun et ne constituent en aucun cas une adresse officielle de la République de Guinée
Equatoriale ;
Attendu qu’en l’état de ces énonciations, d’où il se déduit que l’ensemble immobilier,
n’étant pas un local de la mission diplomatique de la République de Guinée Equatoriale,
ne bénéficiait pas de l’immunité invoquée, et dès lors que la saisie des immeubles dont la
confiscation est prévue par l’article 131-21, alinéa 3 du code pénal, seul fondement retenu
en l’espèce, peut, sous réserve du droit du propriétaire de bonne foi, porter sur tous les
biens qui sont l’objet ou le produit direct ou indirect de l’infraction, la chambre de
l’instruction, qui a fait une exacte application de l’article 706-150 du code de procédure
pénale, a justifié sa décision ;
D’où il suit que les moyens ne peuvent être admis ;
Et attendu que l’arrêt est régulier en la forme ;
REJETTE les pourvois ;
FIXE à 3 000 euros la somme globale que les demandeurs devront payer à l’association
Transparency International France, partie civile, au titre de l’article 618-1 du code de
procédure pénale ;
Ainsi fait et jugé par la Cour de cassation, chambre criminelle, et prononcé par le président
le cinq mars deux mille quatorze ;
En foi de quoi le présent arrêt a été signé par le président, le rapporteur et le greffier de
chambre ;

Publication :

Décision attaquée : Chambre de l’instruction de la cour d’appel de Paris

Uganda: turisti fatti a pezzi con i machete nel santuario dei gorilla

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Speciale per Africa ExPress
Massimo A. Alberizzi
3 marzo 1999

Gli estremisti hutu, responsabili nel 1994 del genocidio di 800 mila tutsi e hutu moderati in Ruanda, hanno messo mano di nuovo alla loro arma preferita, il machete. Ieri otto turisti occidentali (4 britannici, 2 americani e 2 neozelandesi), rapiti nel parco di Bwindi in Uganda, sono stati mutilati e massacrati con i lunghi coltellacci. Si trattava di quattro uomini e quattro donne: una di esse, prima di essere uccisa, è stata violentata.

“Quella che si è presentata alle squadre di soccorso – racconta il quotidiano Monitor di Kampala – è stata una scena raccapricciante: mani, braccia, gambe sparse dappertutto”. Gli hutu, i residui delle milizie estremiste interahamwe e dell’esercito ruandese, provenienti dalle loro basi in Congo, hanno assalito il campo di Bwindi all’alba di lunedì catturando 31 turisti, tra cui la numero due dell’ambasciata francese Anne Peltier e le sue due figlie. Gli ostaggi dapprima vengono spogliati.

“Un’ora dopo – racconta la diplomatica – ci ordinano di infilare le scarpe. Vogliono portarci via. Chiedo di vedere il capo. Ci parliamo in francese e gli spiego che la sua azione non serve a niente, che è meglio che ci lasci andare. Non ho negoziato, ma alla fine lui decide di liberare più di metà degli ostaggi, comprese molte donne e le mie bambine”.

I ribelli trattengono gli americani e i britannici, uomini e donne, più i neozelandesi. Gli hutu considerano statunitensi e inglesi acerrimi nemici. Li accusano di aver aiutato i tutsi, etnia rivale, a impadronirsi del potere in Ruanda nel 1994 e oggi di sostenere i ruandesi e gli ugandesi nella guerra contro il regime di Laurent Kabila, presidente della Repubblica Democratica del Congo. Il commando quindi scappa, probabilmente per raggiungere il Congo da cui era venuto, con quattordici ostaggi. Ma l’esercito ugandese è già all’inseguimento.

Scoppia una battaglia. I ribelli, forse perché circondati, forse per vendetta, trucidano gli otto turisti utilizzando quei metodi raccapriccianti che li hanno resi famosi nel 1994, quando massacravano indistintamente uomini, vecchi inermi, donne incinte, ragazzini e bimbi in fasce: li fanno a pezzi con i machete. Sei, invece, vengono liberati dai soldati o nel caos riescono a fuggire. Questa versione è accreditata anche dall’ambasciatore inglese a Kampala Michael Cook. Qualcuno nella capitale sospetta invece che gli stranieri potrebbero essere rimasti colpiti durante la battaglia. Negli ambienti diplomatici di Kampala l’ipotesi che circola con più insistenza è quella di un’operazione terroristica commissionata da Kabila, il presidente della Repubblica Democratica del Congo. Le truppe ugandesi e ruandesi sono impegnate in Congo a sostegno dei ribelli che combattono il regime al potere a Kinshasa e in agosto, quando era scoppiata la rivolta, Kabila aveva annunciato rabbioso: “Porteremo la guerra a Kampala e a Kigali”.

Quindi aveva immediatamente invitato a Kinshasa i capi dei ribelli ruandesi hutu e di quelli ugandesi e li aveva riforniti di armi. L’ azione di ieri – è l’ipotesi dei diplomatici a Kampala – va inquadrata in questo piano. I guerriglieri sapevano che nel campo di Bwindi avrebbero trovato turisti bianchi e i loro mandanti intendevano screditare il governo ugandese (che si vanta di guidare un Paese stabile e in via di sviluppo) e portare un colpo al cuore al turismo del Paese nemico, fonte di cospicue entrate in valuta pregiata. Kabila ha combattuto contro le truppe hutu ruandesi, alleate del presidente Mobutu Sese Seko, nel 1996 – 1997 durante la sua trionfale avanzata alla conquista di Kinshasa. Aveva avuto ampie responsabilità nei massacri di civili hutu rifugiati nel Congo, l’allora Zaire.

Ma a quel tempo i suoi protettori erano quei ruandesi e ugandesi oggi suoi nemici. I ribelli non erano finora mai riusciti a entrare in Uganda. Le loro azioni si erano limitate al confine e nell’agosto scorso quattro turisti erano stati sequestrati (uno rilasciato, tre sono ancora prigionieri). Bwingi è per i visitatori la base di partenza per le escursioni nella cosiddetta Foresta Impenetrabile, dove vivono quasi 300 esemplari di gorilla di montagna, i primati con i comportamenti più simili all’uomo. Quadrumani della stessa famiglia sono presenti anche sui versanti ruandese e congolese dello stesso massiccio montuoso, ma a causa della guerra lì il turismo non è praticabile.

Fino a ieri la vacanza a Bwindi era richiestissima e per andarci occorreva prenotare un anno prima. L’escursione per vedere i gorilla costa (guida compresa) dai 120 ai 250 dollari (dalle 200 alle 400 mila lire circa), una cifra notevole per il governo ugandese che ne incassa una cospicua parte. Tre settimane fa il presidente del Wwf Italia, Fulco Pratesi, aveva visitato il parco ugandese e aveva partecipato alla cerimonia di gemellaggio con il Parco Nazionale d’Abruzzo. “Tutto era tranquillo, non c’erano guardie armate o particolari misure di sicurezza”, racconta Pratesi. Durante la sua visita era stato lanciato un logo comune alle due oasi: un gorilla di montagna seduto di fronte a un orso marsicano.

Massimo A. Alberizzi
massimo.alberizzi@gmail.com
twitter @malberizzi

 

Sudan: un Paese nel baratro

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Dal Nostro Inviato Speciale
Massimo A. Alberizzi
Karthoum, 10 settembre 1998

“Lei che viene dall’Europa avrà sicuramente qualche birra in quella valigia. Invece di pagarmi la corsa, me ne regala una?”. Il tassista non ha ritegno, si chiama Mohammed, dal nome del profeta… “Si, sono musulmano”, spiega, “prego 5 volte al giorno, ma questo non c’entra niente col taglio della mano, la proibizione di bere alcol, l’islamizzazione forzata. Il Corano è tolleranza, pace, fratellanza, emancipazione sociale. Questo regime al potere qui a Khartoum lo interpreta in modo diverso e picchia duro. Lo fa solo per mantenere la gente nell’ignoranza e conservare il potere”. Mohammed ha 63 anni e si esprime con un ottimo inglese. Ha studiato in una scuola di comboniani, ai tempi del colonialismo. Come lui, la pensano tanti altri nella capitale sudanese.

Nel nostro Paese – dice sottovoce Osman, uno dei leader del movimento studentesco che ha organizzato dimostrazioni antigovernative all’Università di Khartoum (un morto, ucciso dalla polizia) – negli anni ’50 e ’60 s’era sviluppato il più grosso Partito comunista africano. La cultura laica e liberale è stata la base della crescita di una forte borghesia. Come può oggi la società accettare un ritorno alla sharia?”.

Osman teme gli agenti: “La sicurezza ha occhi ovunque, se mi vedono con un giornalista occidentale, mi sbattono in galera”. Ma tu preghi 5 volte al giorno? Scoppia una grossa risata. “Ci mancherebbe altro, però talvolta sono costretto a farlo. Vado in moschea perché controllino che sia un buon musulmano. Qui è tutto così. Anche chi si dichiara favorevole a un’applicazione più rigida della legge coranica, poi in privato la viola regolarmente”.

Un’affermazione grave, ma vera. Alla fine degli anni ’80 un colonnello della polizia, fustigatore di costumi (di giorno era così spregiudicato da cacciare in galera chi veniva colto a bere alcol), la sera si presentava di nascosto in camera mia all’Hilton, “for a little scotch“.

La legge islamica, basata sulle norme del Corano, viene imposta in Sudan alla fine degli anni ’70 dal dittatore Gafaar Nymeiri. Nymeiri, salito al potere nel ’69, aveva portato il Paese sulla strada di un vago socialismo, comunque rigorosamente laico. A metà percorso si era però “convertito” (forse temeva di fare la fine dello scià di Persia) e aveva chiamato i Fratelli Musulmani (una sorta di massoneria islamica, molto influente in Sudan) al potere.

Introdusse la sharia e chiuse la fabbrica di birra a Khartoum. Alleandosi con gli islamisti pensò di averla fatta franca e di aver allontanato il pericolo di un golpe e invece, nel 1985, un colpo di Stato ispirato dai Fratelli Musulmani lo depose.

I nuovi leader, convinti di godere della fiducia della maggioranza della popolazione, giocano la carta della democrazia. Nel 1986 il Fronte Nazionale Islamico perde invece clamorosamente le elezioni. Si afferma l’Umma party (Umma, in arabo, vuol dire madre) e il suo leader, Sadiq Al Mahadi, diventa Primo ministro. Questa volta è Sadiq a dover fare i conti con gli integralisti. Il suo primo impegno è chiudere la devastante guerra civile con il sud cristiano-animista. Ma i Fratelli Musulmani (guidati dal cognato del premier, Hassan Abdalla Al Turabi) si oppongono. Sadiq, tra il fuoco dei laici che sostengono il negoziato e quello degli integralisti fautori della guerra a oltranza, viene impallinato.

Il 30 giugno ’89 un colpo di Stato taglia le gambe alla giovane democrazia. Lo organizza, ancora una volta, Al Turabi che resta, come sempre, nell’ombra. Il nuovo presidente, Omar Al Bashir; dichiara di voler continuare la guerra con il sud fino alla totale sconfitta del nemico e ordina che la sharia sia applicata con maggiore severità. Comincia l’islamizzazione forzata delle popolazioni cristiano-animiste.

La fame – spiega un funzionario dell’Onu – è stata usata come un’arma. Il conflitto ha provocato cicliche carestie e la gente del sud ha continuato a soffrire. Il numero di persone morte in combattimento è di molto inferiore a quello dei civili uccisi dagli stenti”.

Lo scorso luglio il regime non s’è vergognato a utilizzare la fame come un’arma contro il suo popolo – racconta Bona Malwal, strenuo oppositore del regime e direttore ai tempi della democrazia del quotidiano filosudista Sudan Times -. Con una pubblica cerimonia nella Grande Moschea di Khartoum, 1600 vittime della carestia sono state convertite all’islam. Era presente tutta l’attuale leadership sudanese, che s’è vantata con i Paesi arabi di aver organizzato il più alto numero di conversioni in un sol giorno in tutto il mondo musulmano. La maggior parte di essi era arrivata a Khartoum dal sud, per sfuggire alla fame e alla guerra. Nei campi profughi il cibo veniva consegnato solo ai musulmani. Ecco come si spiegano certi cambiamenti di fede”.

Ma chi incontra Hassan Al Turabi non pensa a un fanatico. La barba bianca cortissima, ben curata, s’intona con il turbante e la jallabia (il camicione tipico sudanese) perfettamente stirata e le babbucce candide. Ciò che viene descritto come un violento antiamericano si limita a poche battute, anche se dense di disprezzo, sulla mancanza di cultura di quel popolo.

Hassan Al Turabi con Massimo Alberizzi durante un’intervista tre anni fa

Quando parla in una delle cinque lingue di cui è padrone, porta il discorso sulla Rivoluzione francese, sulla letteratura latina, sulla ricerca scientifica avanzata, sul ruolo delle religioni nel mondo, sull’importanza della parità tra uomo e donna e si tiene accuratamente lontano dai discorsi fondamentalisti. Un uomo decisamente affascinante, dai modi eleganti e raffinati, con cui si starebbe a chiacchierare per ore e ore.

“Mi dipingono come il diavolo, ma non sono il diavolo. E non sono vere le accuse rivolte al Sudan di aver coperto o addirittura aiutato il terrorismo”, spiega durante una pausa dei lavori del Parlamento di cui è presidente. “Gli americani non ci possono vedere perché non prendiamo ordini da loro. Il nostro è un paese islamico, ma non odiamo i cristiani. Anzi la sharia non si applica a loro”, mente poi spudoratamente. La legge coranica, si badi bene, non consiste solo nel divieto (tutto sommato innocente) di bere alcol, ma in altre regole socialmente più rilevanti: favorire nei posti di lavoro il credente islamico o impedire a una donna di assumere incarichi di alto livello..

I borghesi e gli intellettuali di Khartum lo odiano. Secondo Abdalla, un ingegnere vissuto una decina d’anni a Londra, “lui usa l’Islam per proprio tornaconto e mantenere intatto il suo potere. Nessuno in questo Paese è riuscito a limitare l’influenza dei Fratelli Musulmani. La loro è una sorta di mafia: vuoi un posto di lavoro? Iscriviti alla setta. Cerchi una casa? Altrettanto. Ecco perché quest’esplosione di Islam non è una cosa seria”.

Il regime comunque sembra ben saldo. Le buone amicizie nel mondo islamico non gli mancano e il conflitto nel sud, che pare destinato a durare all’infinito, non lo impensierisce più di tanto. I nemici esterni, Etiopia, Eritrea, Uganda e Congo Democratico, sono impegnati a farsi la guerra a vicenda. Che sia Islam di convenienza o di convinzione è difficile stabilirlo. Quello che è certo è che le conversioni più o meno forzate aumenteranno.

Massimo A. Alberizzi
massimo.alberizzi@gmail.com

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Khartoum: “Alla corte di Osama Bin Laden afghani, harem, condizionatori e paraboliche”

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Dal Nostro Inviato Speciale
Massimo A. Alberizzi
Khartoum, 26 agosto 1998

C’è una strada che conduce il terrorista Osama Bin Laden alla “Shifa”, la fabbrica di Khartoum rasa al suolo il 20 agosto dai missili americani perchè sospettata di produrre composti per armi chimiche. Anzi c’è una casa. Il direttore generale della società, Osman Salman, vive nella stessa villa dove, fino a un anno e mezzo fa, abitava Ben Laden, l’uomo accusato di aver organizzato gli attentati alle ambasciate americane a Nairobi e a Dar es Salaam.

Una coincidenza? Forse. Però curiosa a Khartoum, città che conta 2 milioni d’abitanti. La palazzina si trova nel quartiere residenziale di Al Riad, vicino l’aeroporto, sulla 60esima strada, molto vicina all’ambasciata libica. Ben Laden ci abitava con tutta la sua corte: le guardie del corpo, gli impiegati delle società di cui è proprietario e i servitori. Ma non è la sola residenza che il “banchiere della morte” aveva affittato a suo tempo nel quartiere.

Poco più avanti, una trentina di metri, ce ne sono altre due, circondate dalla stessa recinzione. Lì era ospitato l’harem con le consorti, la servitù femminile, le cucine. Non sono edifici di lusso. Nessuno sfarzo in stile arabo – saudita. Ma si tratta di residenze molto eleganti se paragonate allo standard di vita sudanese: aria condizionata, enormi cisterne sui tetti, generatori d’emergenza (in Africa la corrente manca spesso), garage per auto e jeep, e una gigantesca antenna per captare le tv via satellite.

La casa in cui abitava Osama Bin Laden a Khartoum

All’inizio scovare la casa sembra difficile. Il tassista al quale chiedo di portarmi, si ferma candidamente davanti all’ambasciata libica e insiste: “E qui che abitava”. Si convince dell’errore solo dopo aver parlato con le guardie di Gheddafi, barricate all’interno della legazione e armate fino ai denti. Ma basta poi chiedere ai passanti, per avere indicazioni più precise. La presenza del terrorista, durata più o meno quattro anni, ha lasciato il segno. Ogni cosa, intorno alle sue case, ha preso nome da lui: via Ben Laden, piazza Ben Laden, caffetteria Ben Laden. A questa sorte non si è sottratta neppure la moschea dove pregava, il cui nome vero sarebbe Al Wattah. “La sua corte, tra mogli, figli, segretari, aiutanti e guardie del corpo, contava una sessantina di persone – raccontano alla moschea -. E comprendeva anche gente mutilata, senza gambe, piedi o mani. A vederli, si sarebbero detti reduci afghani. Lui si spostava a bordo di una Toyota Land Cruiser marrone, preceduta da un’altra vettura con cinque uomini di scorta, armati fino ai denti, ma in abiti civili. Tutta roba vietata in Sudan: chi non porta la divisa non può circolare con i mitra spianati”.

Le sue tre mogli (solo in seguito Osama ne avrebbe sposata una quarta), stando ai vicini, comparivano di rado ed erano coperte dalla testa ai piedi”. “Erano saudite, con la pelle candida – racconta la signora Fatima – e sono venute a casa mia per tenere lezioni sul Corano. Ci chiedevano di coprirci il volto, di non lasciare che gli uomini ci vedessero, di seguire regole rigidamente islamiche. Hanno capito che non eravamo in sintonia con loro e, dopo un po’ di insistenza, hanno lasciato perdere”.

Come si chiamassero le tre mogli resta un segreto: “Non usavano il loro nome, ma venivano chiamate con quello dei figli: Umma Abdallah (Umma vuol dire mamma in arabo, quindi la mamma di Abdallah), Umma Hamzas, Umma Khalid”. La matassa diventa ancora più intricata quando si chiede chi abitasse nella casa prima di Ben Laden e dell’attuale direttore della “Shifa”: uno jugoslavo, di cui nessuno ricorda il nome. Qualcuno che viene definito “costruttore di strade”, come il terrorista ricercato.

La gente del quartiere non amava la famiglia dello sceicco integralista: “Se sentivano il suono di una radio mandavano le guardie a chiederci di spegnere tutto. Si badi bene, non abbassare, ma spegnere, perché lui, Ben Laden, non voleva nemmeno lontanamente sentire la musica”. E poi: “La strada era bloccata giorno e notte dai servizi di sicurezza. Non si poteva passare e si era costretti a fare lunghi giri”.

Una precauzione necessaria dal 1994, dopo che un commando dell’organizzazione fondamentalista islamica Al Tafik Al Higra, probabilmente formato da quattro uomini, aveva tentato di ammazzare lo sceicco: “Assalirono la sua casa e quella delle mogli a colpi di mitra – racconta Ahmed, che all’epoca fu testimone oculare del mancato attentato – . Ci fu una vera e propria battaglia. I segni sono ancora sui muri. Rimasero a terra dei morti, ma furono portati via immediatamente perché gli abitanti della zona, che si erano chiusi in casa durante lo scontro, non potessero vederli”.

Nessuno, prima che Ben Laden salisse alla ribalta delle cronache, sospettava si trattasse di un terrorista. “Lo incontravo spesso in moschea e pregavamo assieme – racconta un signore vestito con una candida jallabia, il camicione sudanese che arriva fino alle caviglie, interrompendo le genuflessioni islamiche -. Non parlava di politica ma solo di religione e di Corano. Sembrava proprio una persona perbene e godeva per questo di parecchia considerazione”.

Il quartiere di Al Riad, abitato soprattutto dalla media borghesia di Khartoum, da sempre refrattaria all’islamismo fondamentalista e contraria già di per sé alla legge coranica imposta in Sudan, sembra comunque che l’avesse isolato di proposito. “Di certo Ben Laden in questa zona non ha fatto proseliti – conclude in un bar Ali, accendendo il suo narghilè. – Sa, noi qui rimpiangiamo ancora i tempi (più o meno 15 anni fa) in cui si produceva la Camel Beer (“Birra del Cammello” era la marca). A proposito, non ha per caso con sé qualcosa di serio da bere?”

Massimo A. Alberizzi

DIDASCALIA FOTO
ISLAM, GUERRA E CARESTIA La guerra tra il regime islamico di Khartoum e i ribelli cristiano animisti del Sud ha causato una carestia che negli ultimi mesi ha messo a rischio la vita di oltre 2 milioni di persone. Nella foto in alto, una bambina porta dei viveri sulla testa. Accanto, lo stabilimento distrutto dai missili Usa Osama Ben Laden

 

La rabbia del Sudan dopo il bardamento della Shifa: “Non siamo terroristi”

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Dal Nostro Inviato Speciale
Massimo A. Alberizzi
Khartoum, 24 agosto 1998

Se non fosse stato per il bombardamento Usa della fabbrica “Shifa”, “Salute” in arabo – di medicinali (secondo i sudanesi), di armi chimiche (secondo gli americani) – non sarebbero arrivate da tutto il mondo le decine di giornalisti che hanno invaso Khartoum. Ma stavolta le autorità vogliono far sentire la propria voce contro “l’aggressione della superpotenza americana”. E lanciano la loro sfida agli Usa: il governo, secondo quanto ha dichiarato il ministro degli Esteri sudanese Mustafa’ Osman Ismail alla Cnn, è disposto ad accogliere una commissione d’inchiesta americana, “con personalità di prestigio come l’ex presidente Jimmy Carter o membri del congresso”, che venga a esaminare la vera natura della fabbrica distrutta dai missili.

Il presidente Omar Al Bashir si era già pronunciato per una commissione indipendente d’indagine istituita dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Di Sudan, in questi anni, si è parlato soprattutto con riferimento alla spaventosa guerra civile che dilania il Paese dal 1983 e alle conseguenze del conflitto: la carestia, la fame, i profughi e le centinaia di migliaia di morti. La lotta armata trova le radici nell’antagonismo tra gli arabi del Nord, ricchi, commercianti, da sempre al potere, e gli abitanti del Sud, africani, cristiani o animisti, considerati inferiori.

A settentrione però, accanto a una borghesia di stretta osservanza islamica, si era sviluppato anche il maggior partito comunista di tutto il continente (escluso il Sudafrica). Una contraddizione che esplode il 30 giungo 1989 quando il generale Omar Al Bashir chiude, con un colpo di Stato, la breve esperienza democratica del presidente civile Sadiq Al Mahadi. Dietro il generale c’è la potente mano della confraternita dei Fratelli Musulmani e del suo leader Hassan Al Turabi, ora presidente del parlamento.

Il Paese viene messo sotto stretta tutela islamica, i partiti chiusi, i giornali censurati: e la guerriglia nel Sud riprende vigore. “E’ stato a quel punto che l’Occidente ha abbandonato il Sudan – spiega un diplomatico -. Sono stati bloccati gli investimenti, congelati gli aiuti. Per sopravvivere, il regime ha chiesto il sostegno agli altri Paesi musulmani. All’Arabia Saudita, innanzitutto, grande amico degli Stati Uniti, ma nello stesso tempo finanziatore dell’islamismo antioccidentale, e anche all’Iran degli ayatollah”.

Durante la guerra del Golfo, Khartoum si è schierata a fianco di Saddam Hussein. Sul territorio sudanese sono stati organizzati campi d’addestramento per gli uomini della Jihad, la guerra santa islamica, probabilmente in cambio di finanziamenti da spendere per combattere contro la guerriglia cristiana del Sudan People’s Liberation Army. Ma se i rapporti con Washington si sono deteriorati ogni giorno di più, la collaborazione con la Francia è stata ed è ancora essenziale. In cambio delle mappe tracciate via satellite delle basi dei ribelli nel Sudan meridionale, Parigi, il 14 settembre 1994, mette a segno un colpo eccezionale.

La sua polizia viene autorizzata ad arrestare nella capitale sudanese uno dei più feroci terroristi, ricercato in tutto il mondo: il venezuelano Carlos. Diverso l’atteggiamento con Osama Ben Laden, il mandante, secondo la Casa Bianca, dei sanguinosi attentati contro le ambasciate di Nairobi e Dar es Salaam il 7 agosto scorso. “E’ vero, Ben Laden era qui – ha ammesso il ministro dell’Informazione Ghazi Atabani ieri durante una conferenza stampa -. Da noi era considerato un buon costruttore. Poi è andato via spontaneamente”.

Gli è stato chiesto: ci sono state pressioni americane perchè fosse allontanato? “No, assolutamente. D’altro canto ora è ancora peggio. Nessuno sa dove si trovi, neppure gli Stati Uniti”. “Non c’e’ dubbio che il Sudan ha tollerato la presenza di terroristi sul suo territorio – spiega ancora il nostro diplomatico -. Ma e’ difficile pensare che si sia messo a fabbricare armi chimiche e gas nervini. A meno che non l’abbia fatto per conto terzi”.

Nella capitale sudanese la gente ha un atteggiamento controverso verso gli americani. “Hanno compiuto un atto barbarico – spiega il giovane Nur -. Non è in questo modo che riusciremo a sbarazzarci del regime. Potevano usare la loro forza per portare aiuto all’opposizione”. Ma ieri vicino alla fabbrica distrutta dai missili qualcuno ha sussurrato: “Ci domandavamo da tempo cosa ci fosse in quello stabilimento. Di notte era controllato a vista da pattuglie di soldati armati fino ai denti”. L’intervento americano ha provocato sconcerto anche tra gli uomini dell’Onu a Khartoum: “Washington avrebbe dovuto denunciare la presenza di armi chimiche in quella fabbrica, ammesso e non consesso che ne abbia le prove – ha sostenuto Philippe Vorel, coordinatore dell’agenzia per lo sviluppo delle Nazioni Unite -. Poi avrebbe dovuto chiedere l’intervento del Consiglio di sicurezza per smantellare l’impianto”.

Massimo A. Alberizzi

 

UN PAESE, DUE FEDI

* IL PAESE Il Sudan è uno Stato federale abitato da 27 milioni e 291 mila abitanti, con capitale Khartoum. Ma la dittatura islamica che sta al potere dall’89 di fatto impedisce qualsiasi attività  politica.

* LA GUERRA La divisione tra un Nord abitato da arabi ricchi, di religione musulmana, e un Sud arretrato popolato da africani cristiano – animisti, ha scatenato un conflitto che continua dall’83.

* I PROTAGONISTI Il golpe con il quale il generale Omar Al Bashir ha messo fine nell’89 a una breve esperienza democratica, ha radicalizzato lo scontro con il Sud. Schierati, da una parte il regime islamico di Khartoum, condizionato dall’integralismo del capo del Parlamento El Turabi, dall’altra l’Esercito di liberazione (Spla) guidato da John Garang.

* LA CARESTIA Effetto della guerra è la fame che ultimamente ha messo a rischio 2 milioni e 600 mila persone al Sud.

* LE ALLEANZE Tra Paesi finanziatori del Sudan, l’Arabia Saudita e l’Iran. Buoni i rapporti con la Francia

 

DIDASCALIA FOTO
SOTTO TIRO A sinistra, le macerie della fabbrica di Khartoum bombardata dagli americani: per Washington è un impianto di armi chimiche, per i sudanesi una fabbrica farmaceutica. Sopra, gli uffici Onu a Khartoum sorvegliati nel timore di attacchi