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INPGI/Come le primarie del PD a Napoli: se non sono brogli cosa sono?

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Logo SB medioPoiché il sito di Senza Bavaglio è stato attaccato dagli hacker, abbiamo chiesto temporaneamente ospitalità al sito www.africa-express.info che ringraziamo. Speriamo ritornare al più presto sul nostro sito. m.a.a.

Analisi sul voto all’INPGI
Senza Bavaglio
21 marzo 2016 – primo giorno di primavera

Compito dei giornalisti dovrebbe essere quello di difendere la libertà, la legalità e la democrazia. Al giornalismo si chiede rigore, integrità e intransigenza. Bene, tutte queste caratteristiche sembra che ormai siano quasi scomparse in Italia, almeno a giudicare il comportamento dei gruppi di giornalisti che per restare in sella nei loro incarichi sindacali e simili, sono disposti a violare le regole base del loro mestiere. Anche ai politici spetterebbe di tutelare legalità e democrazia, ma, dopo quello che è successo alle primarie del PD a Napoli, ci chiediamo se questo compito venga esercitato nell’interesse della collettività o nell’interesse di pochi.

LE ASSOCIAZIONI REGIONALI
I segretari delle associazioni sindacali regionali della Liguria, Alessandra Costante, della Toscana, Sandro Benucci [1], del Trentino Alto Adige, Stefan Wallisch [2], del Friuli Venezia Giulia, Carlo Muscatello, dell’Umbria, Marta Cicci [3], e dell’Abruzzo, Paolo Durante [4], non solo hanno fatto sfacciatamente propaganda per i candidati della lista lanciata dai signori che governano la FNSI, ma hanno messo a disposizione gli apparati delle loro associazioni regionali per lo stesso obiettivo. (Solo Muscatello – occorre ricordarlo – ha fatto macchina indietro, grazie alle pressioni esercitate da alcuni componenti del consiglio direttivo della sua associazione).

Marta Cicci, il segretario dell'Associazione Stampa Umbra
Marta Cicci, il segretario dell’Associazione Stampa Umbra

In Umbria, ma anche in altri casi, sono state usate le mailing list degli Ordini per inviare un messaggio che conteneva istruzioni di voto ma che, citando i colleghi che si erano candidati, indicava chi era sostenuto dall’Associazione Stampa Umbra. Il messaggio risultava spedito dall’indirizzo dell’Ordine dell’Umbria[3].

Inoltre il comunicato è stato postato on line durante i tre giorni del voto elettronico, anche sul sito dell’Ordine Umbria. E’ stato poi ritirato con la scusa ufficiale che si era trattato di un errore formale. L’indirizzario dell’Ordine, è bene ricordarlo, è più completo. Tutti gli iscritti all’INPGI, infatti, sono iscritti all’Ordine, mentre non tutti sono iscritti al sindacato. Gli elenchi forniti dall’INPGI si sono dimostrati vecchi e incompleti. Molti messaggi tornavano indietro.

ESPOSTO ALLA MAGISTRATURA
Per questo noi di Piazza Pulita all’INPGI abbiamo deciso di presentare un esposto affinché la magistratura verifichi se esistono gli estremi di turbativa elettorale se non addirittura, in alcuni casi, brogli, che potrebbero aver condizionato le consultazioni elettorali con risultati, quindi addomesticati.

Alessandra Costante, segretario della Ligure
Alessandra Costante, segretario della Ligure

Ci risulta anche che funzionari delle associazioni regionali sono stati utilizzati per telefonare agli elettori invitandoli a votare i candidati di “L’INPGI siamo noi”, cioè gli amici della maggioranza, quelli che giustificano il presidente dell’INPGI uscente Andrea Camporese, imputato di truffa ai danni dell’Istituto.

COMPORTAMENTI FAZIOSI E SCORRETTI
I comportamenti di alcuni dirigenti del sindacato, alla fine si possono tranquillamente definire faziosi e scorretti. Quello che sorprende (ma anche amareggia) è che queste persone non si rendono conto (o non vogliono caparbiamente rendersi conto) di aver violato le regole della democrazia. Infatti, il segretario/presidente di un’associazione regionale deve rappresentare tutti i colleghi della sua regione, anche quelli che la pensano diversamente da lei/lui.

Sappiamo anche che ci sono state intimidazioni e spinte improprie, le cui vittime sono pronte a riferire al magistrato nel caso fossero chiamate a testimoniare.

Mimma Iorio, direttore dell'INPGI. Ha partecipato ai convegni "I ferri del mestiere"
Mimma Iorio, direttore dell’INPGI. Ha partecipato ai convegni “I ferri del mestiere”

Altra scorrettezza è stata aver organizzato sotto elezioni l’itinerante convegno “I ferri del mestiere”, una serie di incontri nelle varie regioni per spiegare ai non contrattualizzati come orientarsi nella jungla di leggi e norme. Ai meeting si presentavano i consiglieri d’amministrazione uscenti dell’INPGI, candidati, dirigenti dell’Istituto e funzionari della FNSI. E’ legittimo sospettare che l’obbiettivo finale non era informare bensì farsi propaganda elettorale. http://www.refusi.it/news/professione-freelance-i-ferri-del-mestiere-a-padova-il-17-febbraio/

Non solo: è assai probabile che quelle riunioni sarebbero andate deserte se non avessero dispensato crediti ai freelance, sempre in cerca di una legittimazione che nessuno finora gli ha dato. Insomma, un eticamente sconveniente aiuto ai candidati espressione della gestione dell’INPGI uscente.

COMPORTAMENTI PENALMENTE RILEVANTI
Fin qui, comunque siamo nel campo delle scorrettezze. Ora invece passiamo ad analizzare comportamenti che possono avere una rilevanza diversa e interessare i giudici.

Cominciamo con una domanda: è lecito che le associazioni regionali con il denaro ricevuto dall’INPGI, soldi che sono di tutti i giornalisti, facciano propaganda solo per alcuni?

LA RACCOLTA DELLE PASSWORD
Una volta, quando non esisteva il voto elettronico e si poteva votare per corrispondenza, si assisteva al rito della raccolta delle buste che servivano per esercitare il proprio diritto di voto. Dal sistema delle buste (che abbiamo combattuto e cancellato) a quello delle password il passo è stato breve.

cartello stradale democrazia-fnsiQueste elezioni sono state segnate da una raccolta massiccia delle password necessarie per votare. Ovviamente abbiamo prove e testimonianze di tutto ciò. I democratici a parole si sono scordati che il voto è segreto. Perfino se il titolare è d’accordo non può cedere il suo diritto di voto a nessuno. Tutto ciò per tutelare la segretezza della scelta dell’elettore, un principio cardine per impedire il voto di scambio.

Se un magistrato deciderà di aprire un’inchiesta gli segnaleremo chi dovrà chiamare a testimone per poter verificare quello che scriviamo

Alessandra Vaccari, membro del CdR dell'Arena di Verona
Alessandra Vaccari, membro del CdR dell’Arena di Verona

Tutti fanno finta di non sapere che in alcune regioni la raccolta delle password è stata robusta. Oltre ad alcune testimonianze, come quella raccolta a Napoli dove un elettore ha rivelato: “Ho già votato, ho consegnato la mia password a …” e giù il nome del collega, in Veneto l’impudenza ha raggiunto il massimo grazie ad Alessandra Vaccari, membro del CdR dell’Arena, che ha mandato in giro un paio di email sconcertanti. (Tra l’altro Alessandra è una bravissima giornalista e ci dispiace vederla coinvolta in questi comportamenti irrispettosi e spregiudicati: non ci sorprenderemmo scoprire che è caduta in una trappola)

COME FA RAGAZZO AD AVERE I CODICI IDENTIFICATIVI?
Nella prima [5] rivela che un collega, Alessandro Ragazzo, è in possesso dei codici identificativi (non delle password”, sottolinea) degli iscritti in Veneto, giacché è disponibile a fornirli agli interessati.

Alessandro Ragazzo, membro della giunta del sindacato veneto
Alessandro Ragazzo, membro della giunta del sindacato veneto

Ragazzo è un membro della giunta del Sindacato Giornalisti del Veneto, lavora a stretto contatto con il segretario (e candidato all’INPGI) Massimo Zennaro [6] ed era uno dei componenti del Seggio Elettorale di Venezia. Come fa ad avere il codice iscritto dei colleghi? E’ normale tutto ciò? O è illegale?

Sul sito dell’INPGI era spiegato come tutti gli aventi diritto al voto, potevano farsi mandare sia codice iscritto che password. Prima delle elezioni abbiamo telefonato agli uffici INPGI di Milano e abbiamo chiesto se, per accelerare la procedura, chi non conosceva il proprio codice avrebbe potuto chiederlo a loro. E’ stato risposto di sì, ma che poteva richiederlo solo il diretto interessato, non una terza persona. I codici iscritto, era stato chiarito, sono in mano esclusivamente all’INPGI e ai suoi funzionari. Neppure il fiduciario regionale dell’INPGI può conoscerli. Perché dunque Ragazzo (che non ha nessun incarico all’INPGI) li conosceva?

I DOCUMENTI INVIATI ALL’INPGI DA UNO SCONOSCIUTO
Qualche giorno dopo Alessandra Vaccari si ripete e invia un’altra mail [7] ai suoi colleghi dell’Arena in cui invita chi ha difficoltà a votare, ad inviare il proprio documento di identità a Massimo Zennaro che provvederà a fare mandare la password all’indirizzo di chi gli ha inviato il documetno.

Massimo Zennaro, segretario del sindacato veneto
Massimo Zennaro, segretario del sindacato veneto

Questa procedura è vietata, anzi, vietatissima. A differenza della Vaccari, noi abbiamo spiegato a chi era in difficoltà perché non trovava la password che avrebbe dovuto mandare all’INPGI dalla propria mail il documento di identità. L’Istituto avrebbe controllato l’indirizzo mail del mittente e avrebbe così risposto inviando la password. Infatti – per evitare brogli – è proibito inviare la password a un indirizzo mail da cui non sono stati ricevuti i documenti.

Alessandra Vaccari manda quel messaggio due volte. Nel primo, infatti, l’indirizzo mail di Zennaro è sbagliato e quindi, per correggerlo, deve rinviare il testo una seconda volta.

Nella sua nota la giornalista del Comitato di Redazione dell’Arena sottolinea tra l’altro che l’affluenza alle urne elettroniche è bassa. Infatti quel giorno in Veneto c’è un aumento nel numero degli elettori.

ALLA VACCARI RISPONDE GRIMALDI
Anche Luigi Grimaldi, giornalista dell’Arena,
riceve la mail di Alessandra Vaccari e scrive immediatamente al sito Veneto di “INPGI siamo noi” per chiedere chiarimenti che, per iscritto, non arriveranno mai. I risultati delle elezioni elettroniche in Veneto ribalteranno quelli delle urne tradizionali. Eccoli:

Questa la classifica uscita dalle urne tradizionali, dove hanno votato 34 colleghi attivi:

Roberta De Rossi (Piazza Pulita all’INPGI) 20
Monica Andolfatto (Inpgi Siamo Noi) 15
Massimo Zennaro (Inpgi Siamo Noi) 15
Giuseppe (Beppe) Pietrobelli (Piazza Pulita all’INPGI) 13

Ecco la classifica finale ribaltata:
Massimo Zennaro (Inpgi Siamo Noi) 207
Monica Andolfatto (Inpgi Siamo Noi) 168
Giuseppe (Beppe) Pietrobelli (Piazza Pulita all’INPGI) 87
Roberta De Rossi (Piazza Pulita all’INPGI) 84

GLI IMBROGLI CI PORTANO DIRETTI AL CAPOLINEA
Al di là dei risvolti giudiziari, che saranno i magistrati a valutare, il comportamento dei sindacalisti citati in questo racconto mostra come ormai siamo giunti al capolinea. L’indegnità dimostrata da tanti spiega anche perché la professione sia scesa così in basso. Noi riteniamo che, per arrivare a imbrogliare le carte, la posta in gioco deve essere stata alta, anzi altissima. Prima di tutto si è voluto impedire che una nuova maggioranza all’INPGI avesse potuto immediatamente chiedere la costituzione di parte civile al processo che vede coinvolto l’attuale presidente dell’Istituto.

Inoltre nel nostro programma c’era scritto molto chiaramente che avremmo immediatamente decurtato gli emolumenti degli amministratori, cosa che ha spaventato tutti. Molti di coloro che si sono ricandidati, infatti non intendono rinunciare neanche a un euro.

Promettiamo a chi ci ha votato, ma anche a chi non ci ha votato, che continueremo in tutte le sedi la nostra battaglia per una completa trasparenza e moralizzazione del nostro istituto di previdenza.

Senza Bavaglio
www.senzabavaglio.info

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1] SANDRO BENNUCCI

La ridicola difesa di un comportamento scorretto l’ha raggiunta Sandro Bennucci, che per scrollarsi di dosso le accuse di parzialità e sconvenienza rivoltegli con una lettera aperta racconta che avremmo criticato la Toscana perché nel suo statuto prevede incompatibilità tra vari incarichi. Niente di più falso giacché le regole di Senza Bavaglio prevedono che non si possano ricoprire due incarichi, a meno che con le dimissioni si lasci il posto a qualcuno di un’altra corrente.

Ecco la lettera aperta indirizzata a Bennucci e la sua risposta indirizzata a varie persone, in data 10 febbraio 2016:

Lettera aperta a Sandro Bennucci, presidente associazione stampa toscana
Coerenza, etica, democrazia? Fastidiosi orpelli!

Caro Sandro,
come ti ho scritto in una mail di qualche giorno fa, sono trasecolato quando ho letto che l’Associazione Stampa Toscana ha deciso di sostenere solo alcuni dei candidati all’INPGI. Dopo averti spedito il messaggio, su tua sollecitazione ti ho telefonato perché intendevo chiarire quello che credevo un errore e impedire così che questa dimenticanza potesse diventare una scorrettezza.

Sandro Bennucci, presidente dell'associazione Stampa Toscana
Sandro Bennucci, presidente dell’associazione Stampa Toscana

Durante la telefonata, hai sostenuto, con una certa ignoranza. che tutte le regioni candidano il segretario (o il presidente, a seconda) e hai citato anche il segretario della Romana, Lazzaro Pappagallo. Non è vero. Solo il Veneto e la Calabria (regioni che non brillano certo per democrazia) candidano i capi del sindacato. Voi – hai sostenuto – avete fatto una scelta unitaria (cosa palesemente falsa, giacché avete un numero di candidati superiore ai posti da ricoprire) e questo ti autorizzava a sostenere solo alcuni candidati.

 Ma, soprattutto, hai concluso la telefonata urlando, permettimi, con una certa sguaiataggine: “Noi sosteniamo chi cazzo ci pare” e mi hai tirato il telefono in faccia, cosa poco elegante per il leader di un’organizzazione sindacale.

Lazzaro Pappagallo, segretario dell'Associazione Stampa Romana
Lazzaro Pappagallo, segretario dell’Associazione Stampa Romana

Ma soprattutto poco elegante per qualcuno che quando era in minoranza e all’opposizione faceva dei diritti delle minoranze uno dei suoi cavalli di battaglia.

Ho aspettato un paio di giorni prima di scriverti questa lettera, caro Sandro, perché ho pensato che, magari riflettendo, saresti tornato sui tuoi passi. Invece mi pare che tu sia convinto delle tue scelte. Infatti sul sito c’è ancora scritto che: “l’Associazione Stampa Toscana sostiene i  seguenti candidati” e giù i nomi.

Forse non ti è chiaro, Sandro, ma l’Associazione Stampa Toscana non è un tuo oggetto personale, tu non ne detieni la proprietà. Insomma “Non è cosa tua” con cui puoi fare quello che vuoi. L’”Associazione Stampa Toscana” è di tutti i giornalisti che le sono iscritti e anche di quelli iscritti all’INPGI che attraverso gli oltre 120 mila euro che le sono versati dall’Istituto ogni anno, e nessuno di loro può essere dimenticato dal suo presidente e del suo direttivo.

Al telefono sei scattato quando ho osato dire: “E’ una scorrettezza”. Infatti ribadisco che è una scorrettezza da parte di un sindacato che vuole essere unitario non citare tutti i candidati toscani e votabili in Toscana.

 Sandro tu conosci le regole della democrazia, spero. In Lombardia il giornale e il sito della lombarda presenta tutti i candidati, non solo quelli graditi alla maggioranza. Perché da queste parti sappiamo e conosciamo bene i doveri della democrazia.

Ma quello che mi fa più specie è che quando tu hai subito emarginazioni e angheria da parte della Nazione (sospensione e poi licenziamento) Senza Bavaglio è intervenuto per difenderti, senza sì e senza ma (http://www.senzabavaglio.info/index.php?option=com_acajoom&act=mailing&task=view&listid=39&mailingid=322&Itemid=999) , perché così si fa, Sandro, in democrazia.

In quella brevissima telefonata, mi hai anche accusato “di venire in Toscana a colonizzare”. Suvvia, Sandro, non solo sei ridicolo, ma vuoi farmi credere che i colleghi siano facilmente influenzabili da uno, tutto sommato sconosciuto, come me! Ahahah.

Simona Poli
Simona Poli

E’ vero ho parlato con Simona Poli. Le offerto il sostegno di Senza Bavaglio perché mi è sembrata (e mi è stata presentata) persona perbene. Mi ha risposto che non poteva accettarlo, “Perché qui in Toscana abbiamo una lista unitaria”. “Come lista unitaria – le ho risposto sobbalzando – se potete votare due persone e i candidati sono quattro”! Forse l’hai convinta tu che c’è una lista unitaria? Beh, ne converrai che è falso, se ci sono 4 candidati, due non sono per nulla unitari. Fanno così solo gli imbonitori alle televendite quando promettono meraviglie.

 E poi, scusa la digressione, a me le liste unitarie non piacciono: quando tutti pensano allo stesso modo, vuol dire che nessuno pensa! Mi pare però che tu su questo non sia d’accordo, anche se una volta, quando eri anche tu in minoranza, la pensavi anche tu così. Il potere fa brutti scherzi. Vai a rivedere “Il Grande Dittatore”, di Charlie Chaplin forse può servire. Si ride nella tragedia. Un po’ come alla FNSI: tutto affonda e qualcuno si permette comportamenti scorretti e antidemocratici e prova pure a giustificarli.

Silvia Ognibene, unico membro del direttivo che si è schierata contro Sandro Bennucci e si è dimessa per protesta quando è stato eletto presidente con una procedura che Silvia ha considerato scorretta
Silvia Ognibene (in centro), unico membro del direttivo che si è schierata contro Sandro Bennucci e si è dimessa per protesta quando è stato eletto presidente con una procedura che Silvia ha considerato scorretta

Però, a questo punto, mi sorge legittimo un dubbio: che la notizia pubblicata sul sito della Toscana sia in realtà una ritorsione contro una collega che si candida all’INPGI 2 nelle liste do Piazza Pulita all’INPGI, Silvia Ognibene. Silvia è l’unico membro del direttivo che si è schierata contro di te e si è dimessa per protesta quando sei stato eletto presidente dopo le dimissioni – per motivi personali – di Paolo Ciampi (altra statura morale e democratica: un esempio di correttezza, permettimi di dirtelo, che non avrebbe mai permesso una pubblicazione parziale sul sito). Forse è per questo che non va sponsorizzata? Eserciti su di lei la tua “vendetta”? Coerenza ed etica dovrebbero informare le azioni del presidente di un’associazione sindacale!

Mi pare evidente allora, Sandro, come purtroppo nel tuo caso, gli interessi privati prevalgano su quelli pubblici. E questo i colleghi toscani, in mancanza di un ripensamento per quel che riguarda il sito della toscana, faranno bene a ricordarselo in sede elettorale.

Comunque, per tua memoria, in Toscana Senza Bavaglio candida:

ATTIVI CONSIGLIO GENERALE – TOSCANA (Scheda Angolo MARRONE)
1 – Michele MANZOTTI (La Nazione)

COMITATO AMMINISTRATORE GESTIONE SEPARATA (INPGI 2) – Lista Unica Nazionale (Scheda Angolo VERDE)
14 – Maria Giovanna FAIELLA (collaboratrice Salute Corriere della Sera – Roma)
17 – Simona FOSSATI (freelance – Milano)
22 – Silvia OGNIBENE (collaboratrice Reuters e RCS – Firenze)

 COLLEGIO SINDACALE INPGI 2 – Lista Unica Nazionale (Scheda Angolo GIALLO)
10 – Vittorio PASTERIS (freelance)

PENSIONATI – Lista Unica Nazionale (Scheda Angolo ROSSO)
1 – Massimo A. ALBERIZZI (Corriere della Sera – Milano)
16 – Andrea GARIBALDI (Corriere della Sera – Roma)
21 – Giancarlo MINICUCCI (ex direttore del Nuovo Quotidiano di Puglia, ex vicedirettore del Messaggero – Bari)
27 – Valentino PESCI (ex direttore Nuova Ferrara e ex vicedirettore FINEGIL Veneto -Venezia)
34 – Laura VERLICCHI (Il Giornale – Milano)

LA RISPOSTA DI BENUCCI

“Caro Massimo,
anche tu, com’era avvenuto la scorsa settimana con chi parlava (ovviamente tutto falso) di mance elettorali dell’INPGI per l’Associazione Stampa Toscana, cerchi di tirarmi per i capelli (che notoriamente non ho). Mi auguro per te, e per i tuoi lettori, che quando hai scritto per il Corriere della Sera tu sia sia stato un cronista migliore, più veritiero e aderente alla realtà, rispetto alla serie inesauribile di invenzioni e verità distorte, che hai saputo mettere insieme in poco più di venti righe.

Vedi, quello che non mi è mai piaciuto, e ho fermamente respinto in quasi 50 anni di carriera, è la disinformazione. Capisco bene, leggendo il tuo sfogo, che devi avere delle difficoltà. Capisco meno il tuo livore: che cominciò a manifestarsi, in maniera incomprensibile, a Roma, durante l’ultimo consiglio nazionale Fnsi, quando, unico in tutta l’assemblea, volevi mettere ostacoli al nuovo Statuto dell’Associazione Stampa Toscana semplicemente perché abbiamo scritto che l’appartenenza ai ruoli dell’Ast è incompatibile con quella in altri organismi della categoria. Eppure una volta mi chiedevi di firmare tuoi documenti, mozioni, ordini del giorno …

Ma spieghiamo bene, a chi a la pazienza di leggere, quali sono i motivi della tua inutile sfuriata:

1) L’Ast non è schierata da nessuna parte nelle elezioni INPGI. E nemmeno si è mai fatta avviluppare dalle polemiche di schieramento. Forse è per questo che rischia di finire nel mirino di quelli che, come te, vorrebbero strumentalizzare questa scelta.

2) La mia colpa ai tuoi occhi? Aver pubblicato sul nostro sito i nomi di alcuni colleghi candidati che, certo, vogliamo sostenere. Tutto qui. Nessun altro collega, e questo è il punto, ci ha chiesto sostegno o ci ha domandato di essere citato. E solo la tua mente può fantasticare ritorsioni o altro.

3) A differenza di chi si ricorda dei colleghi solo quando ci sono le elezioni, l’Ast sta lavorando quotidianamente, e con risultati che sono sotto gli occhi di tutti, in favore dei colleghi che hanno bisogno di un sindacato davvero di servizio. Un sindacato capace di venire incontro a chi chiede aiuto, capace di impegnarsi nella formazione, capace di fare accordi innovativi  con enti e istituzioni che possono servire da modello anche sul piano nazionale.

4) La prossima volta parlerò con te solo in presenza di notai, giurati e decine di registratori ad alta fedeltà… Ma nemmeno una telefonata sai riportare nel modo giusto?

Ancora con amicizia
Sandro Bennucci

Qui invece la mail dell’associazione stampa toscana in calce al commento del sindaco uscente e entrante, Pierluigi Franz, che scrive:

E’ un’ulteriore riprova dello sbilanciato sostegno dato da alcune Associazioni Stampa finanziate dall’INPGI in favore solo di alcuni candidati.

Anche l’Associazione Stampa Toscana, dopo quella Ligure e Umbra, nonché quella del Friuli-Venezia Giulia (che si é, però, subito redenta facendo mea culpa), si é schierata a favore di alcuni suoi Soci, dimenticandosi, però, di altri iscritti all’INPGI che si erano anch’essi candidati.

E’ un’ulteriore riprova dell’indebita interferenza di alcuni sindacati territoriali dei giornalisti che hanno sfacciatamente sponsorizzato alcuni colleghi, ignorandone, però, altri pur iscritti tra i loro Soci o comunque iscritti all’Ordine regionale dei giornalisti territorialmente competente. E’ una grave scorrettezza, come dimostra la lettera che si acclude in calce, che é stata addirittura inviata via e mail l’ultimo giorno delle votazioni al seggio.

Le colleghe Simona Poli (106 preferenze) e Olga Mugnaini (97), entrambe “sponsorizzate” dal sindacato toscano sono state elette nel Consiglio Generale INPGI 1 in rappresentanza dei giornalisti della Toscana. Sono, invece, rimasti fuori Michele Manzotti (78) e Daniele Pecchioli (18), che non sono stati reclamizzati allo stesso modo.

Ma chi può ora attestare che le elezioni sono state effettivamente regolari al mille per mille, visto che tra la Mugnaini e Manzotti vi sono appena 19 voti di scarto e che l’Associazione Stampa Toscana é finanziata ogni anno dall’INPGI con 138 mila 779 euro in base al numero di iscritti all’Istituto, e non in base al numero dei Soci del sindacato? Di conseguenza perché l’Associazione Stampa Toscana, se voleva dimostrarsi davvero super partes, non ha reclamizzato senza fare distinzioni tutti i candidati alle elezioni INPGI, iscritti all’Istituto proprio in quanto iscritti all’Ordine della Toscana?

Pierluigi Roesler Franz
Sindaco INPGI e Consigliere nazionale dell’Ordine dei Giornalisti 

 

———- Messaggio inoltrato ———-
Da: Associazione Stampa Toscana <
ast@assostampa.org>
Date: 28 febbraio 2016 11:46
Oggetto: ELEZIONI INPGI
A: Associazione Stampa Toscana <
ast@assostampa.org>

 

Associazione

Della Stampa Toscana

Via dei Medici, 2 – 50123 Firenze

Tel. 055 – 2398358 – 213254 – Fax  055 – 210807

www.assostampa.org

e-mail: ast@assostampa.org

 

Firenze, 28 febbraio 2016

     

  

Cari colleghi,

si ricorda che chi non avesse ancora votato per il rinnovo degli organismi dell’INPGI, sia per la Gestione principale (Inpgi 1), sia per la gestione separata (INPGI 2) può farlo direttamente nella sede dell’Associazione Stampa Toscana (via de’ Medici, 2, Firenze) oggi domenica 28 febbraio. Il seggio resterà aperto dalle 10 alle 20 ininterrottamente.

Ricordiamo anche che per questa scadenza elettorale, l’Associazione Stampa Toscana sostiene i seguenti candidati, iscritti all’Associazione, che si sono rivolti all’Ast inviando i loro curriculum e invitando l’Associazione a farli conoscere:

Olga Mugnaini – candidata  Consiglio generale ( giornalisti attivi )
Nata a San Casciano l’11 maggio 1963, è laureata in Lettere moderne all’Università di Firenze, dove ha svolto il biennio specialistico di storia dell’arte. Giornalista professionista dal 1991, è assunta al quotidiano La Nazione dal  primo gennaio 1989. Ha lavorato fino al 2000 alla redazione di Prato dove è diventata vicecaposervizio, per passare poi alla cronaca di Firenze, in seguito alla redazione regionale e poi di nuovo alla cronaca fiorentina, seguendo politica, economica e il settore dei beni culturali. Attualmente fa parte della redazione iniziative speciali del Quotidiano Nazionale.  Per due mandati è stata consigliere regionale e poi nazionale della Casagit.

Simona Poli – candidata  Consiglio generale ( giornalisti attivi )
Laureata a Firenze in Letteratura italiana moderna e contemporanea con Giorgio Luti, ha conseguito un master post laurea alla Scuola di giornalismo e comunicazione di massa dell’università Luiss di Roma. Ha collaborato con la rivista letteraria Michelangelo e dal 1988 è stata assunta a Repubblica dopo uno stage nel settore politica interna a Roma. Nella redazione di Roma ha lavorato fino al 1993, prima alle Province e poi in Cronaca di Roma. Dal ’93 lavora nella redazione di Repubblica a Firenze. È stata membro del Cdr nazionale di Repubblica e da dieci anni è il fiduciario sindacale della redazione fiorentina. Segue in particolare la politica e con il collega Massimo Vanni ha scritto un libro sull’esperienza di Matteo Renzi dagli esordi fino alla vittoria nelle primarie 2013 che lo hanno nominato segretario del Pd. Fa parte del Consiglio di disciplina dell’Ordine dei giornalisti Toscano

 Massimo Lucchesi – candidato Consiglio generale ( giornalisti pensionati)
Laurea in Scienza della Formazione  e Dottorato in Comunicazione  all’Università’ di Firenze. Giornalista professionista. Redattore di quotidiani, periodici e radio. In RAI dal 1990 è’ stato vice caporedattore  della  Redazione giornalistica regionale  sede RAI di  Firenze. Dal ’90 al ’96  membro  Comitato di Redazione  e coordinatore  regionale  dei Comitati. Dal 2001 al 2009  Presidente  dell’Ordine dei Giornalisti della Toscana.  Nel 2011 e 2014 membro della Commissione  per gli Esami Di Stato di accesso alla  professione. Fondatore del primo Master di Giornalismo tra le Università’ di Firenze, Pisa e Siena. Ideatore di sinergia tra Ordine e Dipartimento di Diritto pubblico della Facoltà di Giurisprudenza dell’ Università’ di Firenze  per un Osservatorio su Diritto e informazione. Studioso di etica della professione e di antropologa cognitiva, ha orientato la sua formazione su le tre soglie del giornalismo: servizio pubblico, deontologia e professione.

 Laura  Antonini – candidata Comitato amministrativo gestione separata
Membro uscente del comitato amministratore della gestione separata Inpgi 2 a cui si ricandida.  Laureata nel 1998 in giurisprudenza con indirizzo costituzionale (Diritto dell’informazione) presso l’Università degli studi di Firenze. Dopo un master in Multimedia Rai/Unifi, è giornalista professionista dal 2001, praticantato al Gruppo Espresso. Ha lavorato a Roma (Kataweb, Rai2, Il Giornale, Ministero della Salute), dal 2008 è co.co.co e libera professionista per la cronaca locale del Corriere della sera in Toscana,  scrive per settimanali (rubriche lavoro e bambini) e mensili. In questi 4 anni ha svolto attività di sportello Inpgi 2 in via telematica come servizio Ast ai colleghi per questioni inerenti la previdenza. Per lo stesso mandato è stata membro della commissione ‘personale contratto e informatica’.

[2] Stefan Wallisch
In Trentino Alto Adige la lettera di sostegno ai candidati di INPGI siamo noi l’ha scritta il segretario regionale, Stefan Wallisch, a nome suo personale ma dall’email del sindacato. Lo stesso testo è stato pubblicato sulle pagine Fb Giornalisti del Trentino Alto Adige e Inpgi Siamo Noi Trentino Alto Adige. Ecco e-mail e testo

——– Messaggio inoltrato ———-
Da: “Stefan Wallisch” <wallisch.sindacato@gmail.com>
Data: 20/feb/2016 07:42
Oggetto: Elezioni INPGI / INPGI-Wahlen
A:
Cc:

Care colleghe e cari colleghi,
è la prima volta che prendo la parola in questa campagna elettorale dai toni piuttosto accesi per rivolgervi un invito all’unità della categoria. Il settore giornalistico sta attraversando una profonda crisi che può essere superata solo restando coesi. Questa primavera ci aspetta, infatti, la partita durissima del rinnovo del contratto nazionale, che può essere vinta solo, se sindacato e INPGI inseguono lo stesso obiettivo e parlano con una sola voce.

Stefan Wallisch
Stefan Wallisch

Per la riuscita di questa sfida tutti dovranno impegnarsi per tutti: i colleghi, che hanno lavorato un’intera vita, hanno il diritto a ricevere una pensione dignitosa; questo vale anche per i colleghi attivi, che sono il cuore pulsante della nostra categoria, che in momenti di difficoltà delle loro testate devono anche poter usufruire degli ammortizzatori sociali per continuare a fare i giornalisti a tutti gli effetti; questo impegno comune vale certamente anche per i colleghi freelance e precari, che rappresentano ormai la maggioranza della nostra categoria, ma anche l’anello più debole.

Va difesa con convinzione anche la presenza dell’INPGI sul territorio, che tramite le convezioni con i sindacati regionali offre servizi essenziali e preziosa assistenza a tutti i colleghi.

Per questo motivo vi chiedo di votare i candidati della lista “L’INPGI siamo noi”

Buon lavoro
Stefan Wallisch 

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Liebe Kolleginnen und Kollegen,

ich ergreife das erste Mal in diesem von rauen Tönen gekennzeichneten Wahlkampf das Wort, um an euch einen Appell der Einheit unserer Berufskategorie zu richten. Der Journalismus durchlebt derzeit eine schwere Krise, die nur überwunden werden kann, wenn wir gemeinsam vorgehen. Dieses Frühjahr erwarten uns äußerst schwierige Verhandlungen zur Erneuerung des Kollektivvertrages, die wir nur gewinnen können, wenn Gewerkschaft und INPGI die gleichen Ziele verfolgen und mit einer Stimme sprechen.

Um diese Herausforderung zu meistern, müssen wir uns alle für alle einsetzen: Die Kollegen, die ein ganzes Leben gearbeitet haben, haben das Anrecht auf eine würdige Rente; dies gilt auch für die aktiven Kollegen, die das schlagende Herz unserer Berufskategorie sind und in Krisenzeiten auch Zugang zu den sozialen Abfederungsmaßnahmen haben müssen, um weiterhin als Journalisten tätig zu bleiben; dieser gemeinsame Einsatz gilt natürlich auch für die freiberuflichen Journalisten und jene mit prekären Arbeitsverhältnissen, die mittlerweile die Mehrheit in unserer Kategorie stellen aber auch das schwächste Glied sind.

Außerdem muss die lokale Präsenz des INPGI entschlossen verteidigt werden. Das Institut garantiert über Konventionen mit den regionalen Gewerkschaften essenzielle Dienste und wertvolle Beratung für alle Kollegen.

Aus diesem Grund bitte ich euch, die Kandidaten der Liste „L´INPGI siamo noi“ zu wählen.

Gute Arbeit
Stefan Wallisch

[3] L’Ordine dell’Umbria
L’associazione di stampa umbra è scesa in campo a favore di uno dei due candidati per le elezioni dell’INPGI. Ha inviato una lettera a tutti i colleghi, utilizzando l’indirizzario dell’Ordine che risulta come mittente. Grave violazione della privacy. Il comunicato del sindacato con le indicazioni di voto viene pubblicato anche sul sito dell’Ordine dove resta dal 19 febbraio fino al 26 febbraio, quando si chiudono le votazioni on line

[4] Il Caso Abruzzo
In Abruzzo gli aventi diritto al voto erano 353 hanno votato in 114:
Schede bianche 1
Celeste Acquafredda 40 voti di cui 12 online e 28 al seggio
Antimo Amore 73 online 38 al seggio.

[5] Gli imbrogli all’Arena di Verona
——– Messaggio originale ——–
Da: Alessandra Vaccari <alessandra.vaccari@larena.it>
Data: 10/02/2016 10:35 (GMT+01:00)
A: redazione-DL ARE <redazione-DL@larena.it>
Oggetto: VOTAZIONI iNPGI

Colleghi buon giorno. Ieri il Cdr è stato a Padova per un incontro comitati, segreteria: in discussione le votazioni INPGI e gli stati di crisi. Ricordo, per chi volesse votare alle elezioni INPGI che si terranno venerdì 26 e sabato 27 febbraio che è possibile il voto on line. Sarebbe comodo aggiornaste le vostre password prima per avere un accesso al voto più rapido.

Cordiali saluti

Ps Chi avesse smarrito il proprio codice può contattare il collega Alessandro Ragazzo 3394771262. Potrà darvi il codice, ovvio non le password

Il messaggio di Gennaro che istituiva i punti voto
Il messaggio di Gennaro che istituiva i punti voto

[6] I punti voto della Veneta
Massimo Zennaro
annunciava l’istituzione dei punti-voto nelle redazioni e nelle città del Veneto per favorire il voto dei giornalisti per le cariche dell’Inpgi. Si trattava di un’iniziativa irrituale e non contemplata dallo Statuto e dai regolamenti dell’Inpgi che prevedono solo il voto elettronico o il voto nella sede dell’Inpgi a Venezia.

[7] Vaccari si ripete
Questa il testo della mail inviata da Alessandra Vaccari del Cdr de L’Arena mercoledì 24 febbraio 2016 alle 10.47 ai colleghi de L’Arena, invitandoli a rivolgersi a Massimo Zennaro per ottenere la password. La mail è stata ripetuta con la correzione dell’indirizzo di posta elettronica (in realtà max.zennaro@gmail.com) essendo il primo errato.

“cari tutti ,ultime ore per votazione INPGI.
Se avete difficoltà mandate direttamente vostro documento a max.zennaro@yahoo.it
Vi farà mandare la password al vostro indirizzo.
Siamo indietro con le votazioni.
Grazie a tutti”

[8] Ecco il testo della email di Grimaldi:
Chiedo scusa per il disturbo. Oggi ho ricevuto una mail dall’indirizzo di posta di Alessandra Vaccari, componente del Cdr dell’Arena di Verona. Spiegava che, per votare ed ottenere i codici, compresa la password, avremmo potuto inviare il documento via mail presumibilmente (scrivo presumibilmente perché non so s sia il suo) all’indirizzo del candidato Zennaro. Aggiungeva che eravamo indietro con le elezioni. Io ho già votato senza questa procedura. Però, vorrei ugualmente sapere cos’è questo genere di assistenza. Vi ringrazio per l’attenzione e, in attesa di una risposta, vi auguro buona serata

Luigi Grimaldi

N.B. IN UN PRIMO TEMPO IN QUESTO TESTO ERA STATO INSERITO ANCHE IL SINDACATO UNITARIO DEI GIORNALISTI DELLA CAMPANIA. E’ STATO UN ERRORE DI CUI CI SCUSIAMO CON GLI INTERESSATI.

Poiché il sito di Senza Bavaglio è stato attaccato dagli hacker, abbiamo chiesto temporaneamente ospitalità al sito www.africa-express.info che ringraziamo. Speriamo ritornare al più presto sul nostro sito. m.a.a.

“Persona non grata”, espulso un diplomatico italiano dall’Eritrea

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Dal Nostro Inviato Speciale
Massimo A. Alberizzi
Nairobi, 9 marzo 2006

Il primo segretario (cioè il numero due) dell’ambasciata italiana in Eritrea, Ludovico Serra, è stato dichiarato “persona non grata” dal governo di Asmara e ha dovuto lasciare il Paese in 24 ore. Il diplomatico è già rientrato a Roma. Il motivo è chiaro: interferenze negli affari interni del Paese ospite. L’espulsione di Serra sembra essere il nuovo capitolo del braccio di ferro tra Italia e Eritrea, in cui finora Roma ha chinato sempre la testa.

IL PRECEDENTE DEL 2001
Nel 2001 fu espulso l’ambasciatore Antonio Bandini, reo di aver chiesto al governo di Asmara, a nome dell’Unione Europea di cui allora l’Italia aveva la presidenza locale, spiegazioni sull’arresto arbitrario di 11 ex ministri e dignitari del regime che avevano chiesto maggior rispetto dei diritti umani e libertà di stampa.

Nello scorso luglio il contingente dei nostri carabinieri ha preferito andarsene e abbandonare la missione dell’Onu (Unmee, United Nation Mission in Ethiopia and Eritrea) perché le autorità eritree li avevano messi in condizione di non operare.

Il colonnello Maurizio Esposito, comandante del nostro contingente, rientrato per ultimo in Italia il 21 luglio, aveva mostrato la «schiena dritta» inviando rapporti durissimi. “Basta con le umiliazioni – aveva scritto in sostanza, dopo che i suoi uomini erano stati persino sequestrati nel loro quartier generale e avevano ricevuto dalle autorità eritree il divieto di uscire -. Andiamocene”.

MISSIONE ANNULLATA
E così la Farnesina aveva deciso, in gran segreto, il ritiro. Primo caso della storia dell’Onu, un Paese aveva abbandonato una missione prima della fine del mandato. In gran segreto, perché il parlamento, tenuto all’oscuro, il 25 luglio successivo, aveva rinnovato l’incarico alla nostra missione fino al 31 dicembre 2005, stanziando 1.747.501 euro.

Nessuno si era accorto che era stato votato il finanziamento di una missione che, di fatto, non c’era più. Nonostante ciò gli aiuti al governo del dittatore Isayas Afeworki sono continuati e un ultimo gruppo di camion, è stato consegnato in ottobre con una cerimonia ufficiale cui avevano partecipato i funzionari della nostra ambasciata. A fine dicembre un altro dispetto. Le organizzazioni non governative italiane erano state allontanate dal Paese. Era stata cacciata perfino Mani Tese, storica agenzia che aveva aiutato tantissimo i ribelli durante la guerra di liberazione.

L’ULTIMO SCHIAFFO
Una decina di giorni fa un ultimo schiaffo agli italiani. La splendida villa di Massawa appartenente alla famiglia Melotti era stata occupata della guardia presidenziale di Isayas. Erano anni che il dittatore voleva impadronirsene. La villa, costruita dall’architetto Vietti negli anni ’60, è un magnifico esempio di architettura mediterranea sulle sponde del Mar Rosso con una piscina che entra nell’enorme salone e una vetrata lunga 12 metri dalla quale si può ammirare il sorgere del sole. Riccardo l’ultimo erede di una famiglia che aveva invaso tutta l’Africa con la sua Birra Melotti ha resistito per anni, fino al momento in cui Isayas, ormai famoso per i suoi metodi spicci, ha deciso di occupare militarmente l’abitazione.

Villa Melotti

L’ARRESTO
Sabato Ludovico Serra è andato a Massawa perché voleva controllare la situazione. E’ arrivato a Casa Melotti ma appena si è avvicinato al cancello è stato arrestato. A nulla è valso il protestare il suo status diplomatico. E’ stato messo agli arresti in una caserma di polizia dove ha passato tutta la domenica fino a lunedì mattina. Solo allora è stato liberato ma la sua auto, nonostante avesse targa diplomatica, è stata sequestrata.

IRRITAZIONE ITALIANA
Il diplomatico italiano, che tra l’altro era già stato destinato a Bruxelles, è dovuto rientrare in autobus ad Asmara. “Oltre che bastonato, umiliato» ha commentato un diplomatico straniero ad Asmara quando ha raccontato al Corriere quanto accaduto. Il governo aveva in un primo tempo offerto un indennizzo di 600 mila dollari per la casa che ne vale 2 milioni e mezzo. Poi ha deciso che nessun indennizzo era necessario per gli italiani. Il senatore Alfredo Mantica al telefono sembra irritato: «Rientra in un ciclo di rapporti un po’ complicati con questo Paese – ha commentato – . Abbiamo protestato ed espulso il numero due dell’ambasciata eritrea in Italia ma vedremo di prendere altri provvedimenti”.

GOVERNO E DITTATURA
Il governo italiano è conscio del carattere dittatoriale del governo eritreo ma teme che un suo isolamento sul piano internazionale possa accentuare ancora di più il suo sistema repressivo. La rigida dittatura Eritrea vive con l’ossessione delle spie e la sindrome del complotto. Così si spiega l’atteggiamento rude, irrispettoso e insolente nei confronti degli italiani e degli occidentali in generale.

PAESE MILITARIZZATO
Il Presidente Isayas Afeworki ha militarizzato il Paese, dove ora comandano pochi generali, la polizia politica e, come ai tempi di Stalin, l’omnipresente partito unico (che si chiama ancora, con linguaggio bellicoso, Fronte Popolare per la Democrazia e la Giustizia). I programmi della televisione si aprono con marcette militari e i cantanti possono esibirsi solo in canzoni patriottiche. Naturalmente accanto devono tenere in bell’evidenza il mitra.

PRIGIONIERI POLITICI
Dall’indipendenza, ottenuta di fatto nel 1991 e sancita da un referendum nel 1993, il Paese non ha mai varato una Costituzione e non presenta il bilancio dello Stato, la libertà di stampa è sconosciuta. Ormai in Eritrea tutto è arbitrario. La galere sono piene di prigionieri politici, a cominciare da una quindicina di ministri e alti funzionari dello stato, tra cui il numero 2 del regime, Petros Solomon, ingoiati da qualche parte il 18 settembre 2001: Amnesty International e la Croce Rossa Internazionale più volte hanno chiesto di avere notizie sulla loro sorte. Nulla.

CHIUSURA INTERNAZIONALE
Le strutture di pace dell’Onu vengono in continuazione umiliate ma non mostrano alcuna reazione. In aprile 2005, 36 auto appartenenti all’organizzazione incaricata dello sminamento, il Mine Action Capacity Building Programme, sono state confiscate dal governo. «Sono qui per lavorare per noi; e noi ce le prendiamo, è stata la giustificazione.

Le proteste dell’Onu sono state deboli e di maniera. Anzi nel frattempo l’infrastruttura stessa del programma è stata gradatamente smantellata da parte dell’Undp che la stava gestendo. All’Onu poi stato poi impedito di usare elicotteri e aerei. Così un casco blu è morto perché, ferito in un incidente stradale, gli è stato cinicamente negato il trasferimento rapido in ospedale. Infine l’ultimo affronto alle Nazioni Unite il 5 dicembre scorso: entro 10 giorni i cittadini dell’Unione Europea, degli Stati Uniti, di Russia e Canada, impegnati nella missione Unmee hanno dovuto lasciare il Paese, anche loro persone non grate.

Dal quel giorno i caschi blu non sono più stati in grado di monitorare il confine tra Etiopia e Eritrea. I rischi di guerra tra i due “nemici” si sono così moltiplicati. Una sentenza internazionale ha condannato l’Etiopia a restituire una fetta di territorio all’Eritrea, ma le truppe di Addis Abeba non si sono ritirate. Da qui l’intransigenza di Asmara che si è dotata di un esercito di 300 mila soldati, dotato di oltre 100 carri armati bulgari T-55, e ha inasprito nel contempo la repressione all’interno del Paese.

Massimo A. Alberizzi
massimo.alberizzi@gmail.com
twitter @malberizzi

Nella foto Villa Melotti

Eritrea, Isayas espelle l’ambasciatore italiano ma per Roma resta un grande amico

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Massimo A. Alberizzi
Milano, 25 ottobre 2005

Nonostante quello dell’Eritrea sia oggi considerato il governo più repressivo di tutta l’Africa (Zimbabwe compreso), l’Italia continua ad avere ottime buone relazioni con il governo di Asmara, probabilmente anche grazie ai buoni uffici di Pier Gianni Prosperini, assessore allo Sport della Regione Lombardia per Alleanza Nazionale, e rappresentante e portavoce del governo eritreo in Italia. Prosperini sull’Eritrea ha idee molto diverse da quelle del Parlamento Europeo che il 19 novembre 2004, con una mozione assai dura, ha censurato la dirigenza del Paese per violazione dei diritti umani. Durante un’intervista rilasciata a Raffaele Masto, di Radio Popolare, Prosperini infatti ha sostenuto che i giovani eritrei “Vengono in Occidente a cercare una qualità della vita migliore. Non certamente fuggono per motivi politici o disagio personale. Vengono verso un mondo di lustrini dove si può guadagnare di più”.

Sempre secondo il rappresentante di Alleanza Nazionale, “il dialogo interno è stato fomentato dai traditori dell’Eritrea per svendere l’Eritrea all’Etiopia, come quel gruppo di giornalisti e di dirigenti (arrestato nel settembre 2001, ndr). E’ meglio che non si sappia dove sono, altrimenti se li dovessero giudicare e dovessero fare un processo, secondo le leggi vigenti, li dovrebbero fucilare. Sono in carcere, stanno aspettando. Io gli avrei dato l’ergastolo”. Processo sommario già fatto. Quello che sorprende di più, è però il rapporto 2004, l’ultimo in ordine di tempo, dell’ICE, l’Istituto per il Commercio Estero, sull’Eritrea. L’organismo che dovrebbe consigliare gli investitori italiani in cerca di nuovi orizzonti, non fa alcuna menzione delle gravi violazioni dei diritti umani. Secondo l relazione, “Esponenti del Governo locale hanno visitato il nostro paese contattando personalmente istituzioni economiche private e pubbliche al fine di promuovere investimenti in Eritrea. In tal modo essi intendono offrire una sorta di tutela informale all’ investitore, capace di controbilanciare i costi derivanti dalle incertezze sulla prassi legislativa e burocratica. Tale ambiente favorevole ha attratto alcune compagnie italiane che hanno intrapreso degli investimenti, in alcuni casi anche consistenti”. Un modo di vedere le cose assai singolare. Infatti in Eritrea non c’è “incertezza sulla prassi legislativa e burocratica”.

Antonio Bandini

Come sostengono alcuni italiani costretti letteralmente “a scappare in mutande pur di salvare la pelle” c’è l’arbitrio delle autorità che sospendono licenze, sequestrano conti bancari, applicano improvvisamente tasse e balzelli, affamate come sono di valuta pregiata. Secondo l’Ice il rischio Paese è “dovuto principalmente alla situazione di tensione con l’Etiopia” anche se in un altro punto del rapporto si sostiene che “gli investimenti diretti esteri auspicati dal Governo locale soffrono per una certa mancanza di informazioni sulle procedure di attuazione e per l’ inesperienza della burocrazia”. La colpa è dunque dell’”insesperienza” e non di precise direttive politiche. Comunque il rapporto non cita neppure l’espulsione dell’ambasciatore italiano Antonio Bandini, avvenuta il 1° ottobre 2001.

Le autorità eritree lo attaccarono personalmente (“l’Italia non c’entra, ce l’abbiamo solo con quell’uomo”, sostennero e alla Farnesina, sembrerebbe dagli atteggiamenti assunti, compresa la mancata sospensione della cooperazione, gli credettero) perché il diplomatico, che in quel momento rappresentava anche l’Unione Europea, con grande coraggio, aveva presentato una lettera di protesta a proposito dell’arresto arbitrario dei 11 dirigenti del regime avvenuta il 18 settembre e per la chiusura dei giornali indipendenti. L’Ice non parla neppure delle decine di progetti avviati e chiusi per volere delle autorità in questi anni, come quello sperimentale di acquacoltura a Massawa per l’allevamento di gamberetti. Il piano (furono investiti 10 milioni di dollari) aveva anche finalità ecologiche. Era una joint-venture tra il governo eritreo e una società americana, la Seaohire di Phoenix, Arizona. Carl Hodges, il suo ideatore, dovette scappare dal Paese e abbandonare tutto. Il governo l’aveva accusato di essere una spia. L’Eritrea nei giorni scorsi ha anche espulso la più grossa agenzia di aiuti umanitari, l’americana governativa USAID e ha confiscato le automobili del Mine Action Capacity Building Programme , l’organizzazione incaricata dall’Onu dello sminamento del Paese, mettendole a disposizione del suo esercito.

Isayas Afeworki

Ciononostante tre giorni fa, il 9 settembre, il governo italiano ha prestato agli eritrei 36 milioni di dollari a basso tasso di interesse e a lungo termine. Sono serviti per comprare 380 nuovi camion. Secondo le autorità di Asmara, i mezzi , consegnati dall’ambasciatore italiano ad Asmara Emanuele Pignatelli, verranno utilizzati per progetti di sviluppo. Ma è ancora vivo il ricordo dei camion regalati alla fine degli anni ’80 dal Fai (il Fondo Aiuti Italiani di Francesco Forte) ai dittatori dei Paesi africani e finiti inesorabilmente nelle mani dei soldati. Sempre secondo l’Ice in Eritrea sono presenti alcune società italiane: L’ “Italcantieri S.p.a.”, l’impresa edilizia di Paolo Berlusconi, impegnata nella costruzione di un migliaio di villette a Massawa. Molti in Eritrea la considerano responsabile dello sbancamento di una parte delle banchine dell’antica città costiera, considerata dall’Unesco una delle perle del mondo. La “ZAER plc”, appartenente al Gruppo Zambaiti, che ha rilevato uno storico stabilimento tessile appartenuto al Cotonificio Barattolo e confiscato (quando ancora l’Eritrea era considerata dall’Etiopia una sua provincia) dal vecchio regime di Mengistu Hailè Mariam, dittatore ad Addis Abeba. La “Golden Star Brewers”, joint-venture privata italo-eritrea attiva nel settore della produzione di birra, che possiede uno stabilimento confiscato alla famiglia Melotti.

Infine le amicizie italiane di Isayas. Da buon bipartisan il dittatore fa affari con tutti, destra e sinistra: è buon amico del presidente della Regione Lombardia, Roberto Formigoni, che viene spesso a trovare al Pirellone, e del presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, che ha ospitato il rais e la sua famiglia nella sua villa in Sardegna. Ma Isayas fa affari anche con la regione Marche e la regione Liguria. Da tempo circola poi un’indiscrezione. Isayas viene molto spesso in Italia per cure mediche (non si sa bene se sia malato o se si sottoponga a periodici controlli). Nessuno sa dove vada e chi lo ospiti. La sua presenza è stata segnalata perfino al raduno degli alpini, il 16 maggio dell’anno scorso, a Trieste. Qualcuno all’Onu parla però già di inserirlo nella lista dei dittatori sottoposti a travel ban, cioè che non possono viaggiare, e al congelamento dei loro conti in banca all’estero. Al Palazzo di vetro, assicurano gli esuli eitrei, è già partita una campagna in tal senso.

Massimo A. Alberizzi
massimo.alberizzi@gmail.com
twitter@malberizzi

Eritrea, com’è facile essere ammazzati dagli scherani del regime

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ragazzo ammazzato pr strada
ragazzo ammazzato per strada

Eritrea, com’è facile essere ammazzati dagli scherani del regime
m.a.a.

Milano, 25 ottobre 2005

Questa sequenza di tre istantanee è stata presa ad Asmara qualche mese fa. Il fotografo è un diplomatico che me le ha passate.

Ecco il suo racconto: “Stavo parcheggiando la mia auto in una via del centro della capitale eritrea, quando dall’altra parte della strada ho visto un camion sul cui pianale i militari stavano spingendo una ventina di ragazzi”.

“Ho capito – continua il diplomatico –  che si trattava di una retata di giovani da inviare nel famigerato e odiato campo militare di Sawa. Uno dei ragazzi si è divincolato e ha cercato di fuggire attraversando la strada. Non ce l’ha fatta. E’ stato colpito da una raffica di mitra. Poi si è avvicinato un uomo in uniforme e ha finito il ragazzo con un colpo di grazia. Il suo corpo è rimasto sull’asfalto per oltre un’ora. A me è sembrato un monito per chi tenta di ribellarsi al regime”.

m.a.a.

Burundi, strage di bimbi nel campo profughi dei tutsi fuggiti dal Congo

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Dal Nostro Inviato Speciale
Massimo A. Alberizzi
Khartoum, 15 agosto 2005

L’attacco è giunto improvviso alle 10 e mezzo di venerdì sera. Un commando di miliziani è penetrato nel campo profughi di Gatumba, in Burundi, abitato da congolesi di etnia tutsi e, a colpi di fucile, di granate e di machete, ha barbaramente massacrato 159 rifugiati, soprattutto donne e bambini.

L’operazione è durata pochi minuti e, dalle prime testimonianze raccolte dalle agenzie non governative, è stata preparata e organizzata meticolosamente. Il campo profughi è situato sulla strada che, costeggiando il lato settentrionale del lago Tanganika, porta da Bujumbura, la capitale del Burundi, a Uvira, città della Repubblica Democratica del Congo, capoluogo dell’importante e contestata regione del Sud Kivu.

burundi_gatumba_massacre_01

Ufficialmente è abitato da 1.767 tutsi congolesi, della tribù banyamulenghe, appunto, arrivati da pochi mesi: ma molti uomini sono partiti da tempo per cercare lavoro nella capitale. Nel campo venerdì dormivano 823 persone. I primi soccorsi ai sopravvissuti sono stati portati dai volontari di un’organizzazione italiana, il GVC di Bologna.

Ieri, raggiunti al telefono, erano sotto shock per quanto avevano visto al mattino: “C’erano cadaveri dappertutto – ricorda Francesca Contu, una lunga esperienza di volontaria in Somalia e in Ruanda -. Parecchie tende erano bruciate, dentro i corpi carbonizzati. Le vittime devono essere state sorprese nel sonno; una mattanza a sangue freddo. C’erano tanti bambini, alcuni ancora attaccati alle spalle delle madri. Molti sono stati uccisi sotto le coperte”.

burundi-gatumba-map“Pochi sono stati in grado di fuggire, ma devono essere stati freddati dagli ssalitori all’uscita del campo dagli assalitori a colpi di fucile – continua la collega Alexandra Poder. “Hanno sparato all’impazzata. Il campo è ancora ricoperto da un tappeto di bossoli e di proiettili”. I volontari del GVC conoscono bene il campo di Gatumba: civili in fuga dal loro Paese dove rischiavano di essere ammazzati. Invece, quando credevano d’aver raggiunto la sicurezza sono stati sterminati con metodo.

Secondo il portavoce dell’esercito burundese, Adolphe Manirakiza, contattato al telefono da Africa ExPress, gli assalitori fanno parte di un’ alleanza di estremisti hutu venuti dalla vicinissima Repubblica Democratica del Congo: “E’ la prima azione di una coalizione formata da burundesi del FNL (Forze Nazionali di Liberazione, guidate da Agathon Rwasa), da ruandesi hinterahamwe (gli squadroni della morte corresponsabili del genocidio dei tutsi del 1994), da congolesi mai mai (milizie tribali che praticano la magia nera). Abbiamo trovato documenti che provano la nascita di questa intesa il cui obiettivo è di sterminare i tutsi che abitano nella regione dei Grandi Laghi, dall’Uganda, a nord, al Burundi, a sud. Vorremmo che la comunità internazionale intervenisse perché ancora una volta si sta tentando il genocidio dei tutsi”.

burundi_gatumba_massacre_12Caschi Blu dell’Onu sono presenti in Congo-K (la missione si chiama MONUC) e in Burundi (ONUB). Secondo le testimonianze raccolte tra i sopravvissuti dai volontari del Gvc, un primo commando, probabilmente dell’FNL, ha attaccato una caserma militare burundese vicino al campo profughi. I soldati erano impegnati a difendersi quando un altro gruppo, probabilmente mai mai, ha assalito la tendopoli dei rifugiati. Il Burundi, come il Ruanda, è stato per anni scosso da una guerra civile che ha visto contrapporsi la minoranza tutsi, tradizionalmente al potere, e la maggioranza hutu. Finalmente nell’aprile del 2003, dopo la firma di un accordo di pace propiziato da Nelson Mandela, Domitien Ndayizeye, un hutu, è stato nominato presidente di un governo di transizione. Ma un gruppo di oltranzisti hutu, riuniti attorno all’FNL, ha deciso di continuare la lotta armata, “fino allo sterminio totale dei tutsi”. Le truppe Onu, nonostante in Burundi siano stati dispiegati 2.561 soldati, sembrano incapaci di fermare le violenze.

Massimo A. Alberizzi
massimo.alberizzi@gmail.com
twitter @malberizzi

Questo è un link esterno sul massacro di Gatumba. Africa ExPress non è responsabile dei suoi contenuti 

Nel campo dei janjaweed, “i diavoli a cavallo” che terrorizzano il Darfur

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Dal Nostro Inviato Speciale
Massimo A. Alberizzi
Limo, (Darfur, Sudan), 30 marzo 2005
Eccoli lì i terribili janjaweed. Dall’alto della collina che domina l’arida vallata di Limo, nel Darfur meridionale, dove hanno sistemato uno dei loro campi, gli spietati “diavoli a cavallo” si distinguono benissimo, avvolti nel polverone sollevato dagli zoccoli delle loro mucche. E’ poco dopo l’alba e i bovini – sono migliaia – procedono lentamente verso una pozza d’acqua per l’abbeverata mattutina. “Le mandrie – spiega la mia guida, un europeo che conosce molto bene la zona, parla l’arabo ma in questo caso fa finta di non parlarlo – sono il frutto delle loro razzie.
Nessuno fino a due anni fa poteva mettere assieme così tanti capi di bestiame. Ora gli animali, che prima erano distribuiti tre o quattro per famiglia, sono raccolti tutti assieme nelle mani degli arabi. Gli africani, i legittimi proprietari, sono ridotti alla fame, costretti a scappare. Coloro che li hanno derubati, impuniti, sono diventati ricchissimi».
Per una buona oretta ci fermiamo sulla collina a guardare la scena. Ogni momento che passa, il bestiame aumenta di numero. E’ una scena impressionante. Non solo mucche. Ci sono anche capre, pecore, asini, cavalli e cammelli, tutti sommersi in una impalpabile nuvola di polvere.
Il dubbio se entrare nel campo o tornare indietro dopo aver assistito alla scena, viene sciolto quando uno dei capi dei janjaweed si accorge della nostra presenza sulla collina. Ci facciamo coraggio e scendiamo a valle per avvicinarci al bivacco.

Credevamo di trovarci davanti a gente scontrosa e pericolosa, invece tre dei loro capi ci vengono incontro e ci accolgono sorridendo con un “Salam Alekum” (la pace sia con te). Indossano una jallabia (il tipico camicione sudanese lungo sino ai piedi) e un turbante bianchi che sembrano appena usciti dalla lavanderia, nonostante l’aria imbottita di terriccio che arriva nei polmoni fino quasi a bloccare la respirazione. Non hanno armi, ma solo un lungo bastone pronto per essere brandito.

Sembrano divertiti dall’arrivo degli stranieri.“Avete parecchie bestie”. La risata di risposta rompe quasi i timpani e il più vecchio dei tre fa un ampio gesto della mano: “Sono tutte nostre”.
L’interprete avverte che è meglio non fare domande troppo invadenti. “E’ importante che il gruppetto non perda la sua ‘serenità'”.
Dopo pochi minuti di convenevoli si avvicinano due cavalieri. Anch’essi sono incuriositi dalla presenza di stranieri. Scesi a terra si presentano, Omar e Aden, e, a gesti, fanno capire di essere dei provetti cavallerizzi. “Vogliono mostrare quanto sono abili a cavalcare”, spiega l’interprete. I due si allontanano al trotto e ritornano correndo al galoppo. La parola janjaweed, diavoli a cavallo che terrorizzano la popolazione civile, non viene mai pronunciata, ma i due sembra vogliano far vedere agli stranieri quanto sia vera quella definizione. Solo alla fine del rodeo uno di quei tre che ci avevano accolto, bofonchia a un amico, che scoppia a ridere: “Cercano i janjaweed, ma non li troveranno”. Crede che noi non abbiamo capito.
Nel campo ci saranno almeno un’ottantina di persone.Solo uomini, non ci sono donne e bambini, segno evidente che si tratta di un campo militare. I janjaweed sono divisi in piccoli gruppetti, seduti in circolo, sotto gli alberi, chiacchierano tra loro e sorseggiano un bicchiere di the. “Parlano delle bravate fatte la notte scorsa e dei programmi per il futuro – racconta l’amico europeo -. Sono sospettosi ma non sembrano preoccupati della nostra presenza”. I cavalli e i cammelli, parcheggiati all’ombra di un enorme baobab, brucano improbabili fili d’erba che sbucano dalla sabbia e dai sassi.
Per raggiungere il campo occorre prendere la stradache da Nyala, capitale del Darfur meridionale, punta verso nord-ovest porta a Kass. E’ un arteria non troppo sicura. Martedì scorso hanno assalito l’auto dell’organizzazione non governativa italiana Cesvi e un’altra degli inglesi di Oxfam. “Banditi o janjaweed”, dicono alla polizia di Nyala, senza specificare. Le due macchine avevano bandiere spiegate al vento, che le rendevano riconoscibilissime, e a bordo solo impiegati locali.
Una volta a Kass occorre prendere verso destra.Lì non ci sono più strade, né sentieri. Si viaggia in una savana piuttosto brulla. I villaggi che si incontrano sono almeno una dozzina. Sono deserti e abbandonati, le capanne distrutte e bruciate dalle milizie filogovernative, i janjaweed appunto.
“Qui abitavano gli africani le cui mandrie sono state razziate – spiega la nostra guida -. I più fortunati si sono rifugiati a Kass, gli altri sono stati ammazzati, le donne stuprate e gli animali portati via, raccolti lì, nel loro campo di Limo. Nuove bestie arrivano tutti i giorni. Le autorità lo sanno, ma sono conniventi”.
A Kass, grande città a 25 chilometri da Limo, la situazione degli sfollati sembra essere drammatica. La città aveva 40 mila abitanti, ora ne conta almeno centomila. Vuol dire che il numero degli esterni ha superato quello dei locali. La gente in fuga dalla violenza dei janjaweed ha trovato rifugio ovunque: nelle strade, negli edifici pubblici, nelle scuole. All’istituto femminile superiore le capanne dei diseredati sono nei cortili, nei giardini e qualche branda persino nelle aule. “Si sistemano qui dentro per la notte – spiega Amna, un’insegnante di inglese – Dormono e poi la mattina escono all’arrivo delle ragazze. Aspettano fuori dalla classe finché le lezioni non sono finite”.

“Eravamo ricchi – racconta un africano che mette la testa fuori dalla sua capanna nel cortile della stessa scuola – Io avevo sei mucche”. E ora, dove sono quegli animali? “Forse a Limo, finiti, come altri, nelle mani di qualche arabo”.

Massimo A. Alberizzi
massimo.alberizzi@gmail.com

Chi sono i janjaweed? Il mistero intorno alle milizie arabe sudanesi

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Dal Nostro Inviato Speciale
Massimo A. Alberizzi
Khartoum, 30 marzo 2005

Chi sono i janjaweed? Chi li ispira? Chi li organizza? E chi li dirige? Il mistero attorno a queste milizie arabe sudanesi che scorazzano a cavallo per il deserto del Darfur, bruciano i villaggi, seviziano e ammazzano le popolazioni di origine africana, viene svelato da un documento riservato, preparato dai servizi di sicurezza americani.

In Darfur si gioca una partita assai importante e non solo perché si dice che il suo sottosuolo sia gonfio di petrolio. Il Sahara potrebbe diventare il nuovo santuario per il terrorismo islamico internazionale e gli americani vogliono impedire che ciò accada.

Anche per questi motivi, Washington sostiene (anche se discretamente) l’SLA (Sudan Liberation Army) la fazione laica della ribellione in Darfur. L’altra, probabilmente più forte, il Jem (Justice and Equality Movement) è invece legata al più rigido fondamentalismo islamico sudanese, quello guidato da Hassan Al Turabi. Un paio di mesi fa un gruppo di dissidenti ha lasciato il Jem, accusato di essere troppo fondamentalista, e ha fondato il National Movement for Reform and Development (NMRD).

I governativi del presidente Omar Al Bashir rappresentano l’altra faccia dell’integralismo islamico sudanese, quella pronta a fare affari con l’America, pur mantenendo una rigida interpretazione del Corano e della sharia, la legge islamica.

E’ difficile dire se il rapporto dei servizi segreti americani sia del tutto vero o se contenga errori colposi o omissioni o indicazioni dolose. Noi lo presentiamo così com’è e da parte nostra non vuol essere un’accusa nei confronti di nessuno.

Occorre infine osservare che il documento non è recentissimo, infatti alcune delle persone citate non occupano più i posti che qui gli vengono assegnati.

I nomi raccolti sono divisi in tre categorie:

1 – Autorità del governo sudanese con funzioni di supervisione e controllo sulle attività e le operazioni dei janjaweed.

Ali Osman Taha, primo vicepresidente della Repubblica
General Maggiore Salah Abdallah Gosh, direttore generale dei servizi segreti
Dottor Nafie Ali Nafie, ex capo servizi segreti esterni
General Maggiore Al Tayeb Mohammed Kheir, consigliere sicurezza della presidenza della repubblica
Abdul Hamid Musa Kasha, ministro del Commercio
Abdulrahim Mohammed Hussein, Ministro degli interni
General Maggiore Adam Hamid Mussa governatore Sud Darfur
Brigadiere Mohammed Ahmed Ali, direttore polizia antisommossa. In marzo 2004 ha guidato gli attacchi su campo di sfollati a Moyo
Mohammed Yussef Abdallah, ministro degli affari umanitari
Abballa Safi El Nur, Ministro di gabinetto e coordinatore generale dei janjaweed

2 – Personalità facenti parte del Consiglio di Comando e di Coordinamento dei janjaweed (una sorta di consiglio militare e politico n.d.r)

Tenente colonnello Sukeirtalah, leader del janjaweed nella zona di Genuina
Ahmed Mohammed Harun, comandante, ministero dell’Interno
Osman Yusif Kibir, governatore dello stato del Nord Darfur
El Tahir Hassan Abbub, membro del National Congress Party (quello del presidente Al Bashir ndr)
Mohammed Salih Al Sunusi Baraka, membro del parlamento
Mohammed Yusif El Tileit, Ministro dello Stato del West Darfur
General Maggiore Hussein Abballa Jibril, membro del parlamento

3 – Comandanti in campo

Brigadiere Mussa Hilal (leader militare di tutti gruppi di janjaweed. E’ di etnia rezegat, tribù araba che appoggia il governo di Al Bashir. E’ considerato il fondatore dei janjaweed ndr. )
Brigadiere Hamid Dhawai (settore di Kas)
Brigadiere Abdal Wahid, comandante del settore Kabkabiya
Brigadiere Mohammed Ibrahim Ginesto
Maggiore Hussein Tangos
Maggiore Omar Baabs

Massimo A. Alberizzi
massimo.alberizzi@gmail.com
twitter @malberizzi

Chi sono i janjaweed? Il mistero intorno alle milizie arabe sudanesi che operano in Darfur

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Dal Nostro Inviato Speciale
Massimo A. Alberizzi
Khartoum,  30 marzo 2005
Chi sono i janjaweed? Chi li ispira? Chi li organizza? E chi li dirige? Il mistero attorno a queste milizie arabe sudanesi che scorazzano a cavallo per il deserto del Darfur, bruciano i villaggi, seviziano e ammazzano le popolazioni di origine africana, viene svelato da un documento riservato, preparato dai servizi di sicurezza americani.

In Darfur si gioca una partita assai importante e non solo perché si dice che il suo sottosuolo sia gonfio di petrolio. Il Sahara potrebbe diventare il nuovo santuario per il terrorismo islamico internazionale e gli americani vogliono impedire che ciò accada.

Anche per questi motivi, Washington sostiene (anche se discretamente) l’SLA (Sudan Liberation Army) la fazione laica della ribellione in Darfur. L’altra, probabilmente più forte, il Jem (Justice and Equality Movement) è invece legata al più rigido fondamentalismo islamico sudanese, quello guidato da Hassan Al Turabi. Un paio di mesi fa un gruppo di dissidenti ha lasciato il Jem, accusato di essere troppo fondamentalista, e ha fondato il National Movement for Reform and Development (NMRD).

governativi del presidente Omar Al Bashir rappresentano l’altra faccia dell’integralismo islamico sudanese, quella pronta a fare affari con l’America, pur mantenendo una rigida interpretazione del Corano e della sharia, la legge islamica.

Miliziani janjaweed in cammello fotografati in Darfur

E’ difficile dire se il rapporto dei servizi segreti americani sia del tutto vero o se contenga errori colposi o omissioni o indicazioni dolose. Noi lo presentiamo così com’è e da parte nostra non vuol essere un’accusa nei confronti di nessuno.

Occorre infine osservare che il documento non è recentissimo, infatti alcune delle persone citate non occupano più i posti che qui gli vengono assegnati.

I nomi raccolti sono divisi in tre categorie:

1 – Autorità del governo sudanese con funzioni di supervisione e controllo sulle attività e le operazioni dei janjaweed.

Ali Osman Taha, primo vicepresidente della Repubblica
General Maggiore Salah Abdallah Gosh, direttore generale dei servizi segreti
Dottor Nafie Ali Nafie, ex capo servizi segreti esterni
General Maggiore Al Tayeb Mohammed Kheir, consigliere sicurezza della presidenza della repubblica
Abdul Hamid Musa Kasha, ministro del Commercio
Abdulrahim Mohammed Hussein, Ministro degli interni
General Maggiore Adam Hamid Mussa governatore Sud Darfur
Brigadiere Mohammed Ahmed Ali, direttore polizia antisommossa. In marzo 2004 ha guidato gli attacchi su campo di sfollati a Moyo
Mohammed Yussef Abdallah, ministro degli affari umanitari
Abballa Safi El Nur, Ministro di gabinetto e coordinatore generale dei janjaweed

2 – Personalità facenti parte del Consiglio di Comando e di Coordinamento dei janjaweed (una sorta di consiglio militare e politico n.d.r)

Tenente colonnello Sukeirtalah, leader del janjaweed nella zona di Genina
Ahmed Mohammed Harun, comandante, ministero dell’Interno
Osman Yusif Kibir, governatore dello stato del Nord Darfur
El Tahir Hassan Abbub, membro del National Congress Party (quello del presidente Al Bashir ndr)
Mohammed Salih Al Sunusi Baraka, membro del parlamento
Mohammed Yusif El Tileit, Ministro dello Stato del West Darfur
General Maggiore Hussein Abballa Jibril, membro del parlamento

3 – Comandanti in campo

Brigadiere Mussa Hilal (leader militare di tutti gruppi di janjaweed. E’ di etnia rezegat, tribù araba che appoggia il governo di Al Bashir. E’ considerato il fondatore dei janjaweed ndr. )
Brigadiere Hamid Dhawai (settore di Kas)
Brigadiere Abdal Wahid, comandante del settore Kabkabiya
Brigadiere Mohammed Ibrahim Ginesto
Maggiore Hussein Tangos
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Massimo A. Alberizzi
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#africexpp

Tecniche sovietiche di avvelenamento: “L’Eritrea è un inferno, il mondo intervenga”

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Dal Nostro Inviato Speciale
Massimo A. Alberizzi
Stoccolma, 8 agosto 2004

Il certificato dei medici di Amsterdam spiega con scioccante semplicità e chiarezza: “Abbiamo estratto dal cranio di Negassi Tsegay, dov’ era impiantata all’ altezza dell’ orecchio destro, una minuscola ampolla che rilasciava lentamente un veleno micidiale”. Una tecnica imparata negli anni in cui i guerrigliere eritrei erano appoggiati dall’Unione Sovietica, dove seguivano corsi d’addestramento. Se gli specialisti che l’hanno visitato non se ne fossero accorti il paziente sarebbe morto senza che nessuno capisse perché. Negassi è eritreo e ora vive a Stoccolma. Nel suo Paese ha partecipato alla guerra di liberazione, è stato ferito e dopo l’indipendenza lavorava nell’ ufficio del presidente Isayas Afeworki.

mani su filo spinato 2

“Quando mi accorgo che il regime diventa sempre più repressivo mi dimetto”, racconta con la voce scossa da un tremito. Un “tradimento” che i dirigenti non tollerano. “Mi arrestano mi pestano, mi torturano. Finché, dopo un anno, mi propongono: ‘Vai in televisione, accusa di tradimento i 15 dirigenti attualmente in galera; dì che hanno preso soldi dall’ ambasciatore italiano, Antonio Bandini, e sono spie dell’ Etiopia e noi ti rilasciamo’”.

Lui cerca di resistere ma è prostrato, fisicamente e psicologicamente. Così accetta la parte del delatore. Viene scarcerato, portato in ospedale dove lo operano all’orecchio, al timpano lacerato dalle botte. E’ in quel momento che i medici militari di Asmara gli impiantano la micidiale fiala. L’avrebbe ucciso 21 giorni dopo il programma televisivo. “Uscito dall’ ospedale avrei dovuto imparare la mia parte a memoria – ricorda Negassi -. False accuse contro i 15 dissidenti, eroi della guerra di liberazione, che nel settembre 2001 hanno firmato un documento in cui chiedono democrazia, elezioni, libera stampa”. Tra loro Petros Solomon, ex braccio destro di Isayas Afeworki, Hailè Wondelsaye, ex ministro degli Esteri, Mohammed Sharifo, ex ministro degli Interni, arrestati (e da allora scomparsi in una galera del regime) dalla Hagerawi Dehnet, la polizia segreta, pochi giorni dopo la firma. Non è previsto alcun processo.

“I 15 godono della simpatia popolare. Sarebbero stati screditati e con loro l’Italia e il suo ambasciatore (allora c’era Antonio Bandini), accusato di difendere i dissidenti e di chiedere con insistenza il rispetto dei diritti umani”, spiega l’ ex guerrigliero che conclude il suo racconto: “Sono salvo per miracolo. Un paio di giorni prima della trasmissione, già annunciata con enfasi, riesco a scappare. In Europa sto male e i medici scoprono la condanna a morte, per lento avvelenamento, cui ero destinato”.

Una volta venerato come un dio dalla diaspora eritrea nel mondo, il presidente Isayas Afeworki ora è profondamente odiato. Le sue carceri sono piene di dissidenti, giornalisti, studenti, intellettuali e ha instaurato nel suo Paese un vero e proprio regime del terrore, con una società militarizzata.

Nonostante ciò, in Italia Afeworki e assai apprezzato: Berlusconi, lo ospita nella sua villa in Sardegna, il presidente della Lombardia, Roberto Formigoni, lo accoglie assieme al consigliere di An, Piergianni Prosperini, e il governatore delle Marche, Vito D’ Ambrosio, di centrosinistra, invita gli imprenditori della sua regione a investire in Eritrea.

Massimo A. Alberizzi
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Il governo del Sudan: “Vogliamo rispettare le risoluzione dell’ONU”

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Dal Nostro Inviato Speciale
Massimo A. Alberizzi
Khartum, 1° agosto 2004

C’è un po’ di confusione nel governo sudanese sull’atteggiamento da prendere nei confronti della risoluzione votata venerdì dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Ieri il ministro degli Esteri, Mustafà Osman Ismail, ha dichiarato che, tutto sommato, il documento è accettabile”perché non contiene nulla di nuovo”, mentre Daffi Khateeb il segretario generale del ministero dell’Informazione e, di fatto, portavoce del governo, ribadisce che la “la risoluzione è inaccettabile, perché incompleta e sbilanciata. Non menziona infatti le milizie civili organizzate dai ribelli, i “.

Sudan 04-08-01 Sì all'ONUSecondo il governo di Khartum, mentre i janjaweed (le milizie filoarabe che stanno terrorizzando le popolazioni del Darfur, ndr) attaccano le popolazioni di origine africana i bashinger se la prendono con i baggara rezegat e gli abbala rezegat, le tribù di origine araba che sostengono il governo Le atrocità, dunque, non sarebbero a senso unico.

Nel grande inferno del Darfur ognuno si occupa dei massacri “di sua competenza”.

“Comunque – continua Daffi – 30 giorni sono pochi per organizzare il disarmo dei janjaweed. Il Sudan è enorme, le vie di comunicazione precarie. Manterremo la promessa di smobilitare i janjaweed, ma abbiamo bisogno dell’aiuto internazionale che speriamo attivi rapidamente.

Lo stesso Ghazi Suleiman, leder del gruppo sudanese per le difesa dei diritti umani, ha rettificato: “La mozione è troppo blanda. Qui ci vuole un intervento forte e militare”.

Massimo A. Alberizzi
massimo. alberizzi@gmail.com
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JANJA A CAVALLO
Un gruppo di janjaweed a cavallo