Speciale per Africa ExPress Massimo A. Alberizzi
18 marzo 2008
Athanase Seromba, un prete cattolico ruandese, è stato condannato all’ergastolo per aver commesso atti di genocidio e sterminio durante la mattanza che sconvolse il piccolo Paese africano nel 1994.
La sentenza della Corte d’appello del tribunale internazionale per il Ruanda (che ha sede ad Arusha, in Tanzania) è durissima e ribalta quella, mite, di primo grado con la quale i giudici avevano condannato Seromba a 15 anni di carcere. La condanna di allora parlava di aiuto e sostegno agli assassini. Quella di oggi aver commesso egli stesso i massacri.
Nessun Pentimento
“Seromba – ha spiegatoSilvana Arbia, l’italiana capo dei procuratori della corte, voluta dall’Onu all’indomani del genocidio durante il quale furono trucidati in cento giorni un milioni di tutsi e hutu moderati – non ha mostrato alcun segno di pentimento e non ha riconosciuto le sue responsabilità, evidenziate, invece, dai testimoni che hanno partecipato al processo”.
Un altro imputato, l’italo-belga George Ruggiu, speaker della Radio Television Libre des Mille Collines (RTLM) che aveva incitato gli hutu a massacrare i tutsi, si era dichiarato colpevole e dimostrato pentito. Aveva ottenuto le attenuanti e il 1° giugno 2000 era stato condannato a una pena tutto sommato mite, 12 anni di carcere. Dal 28 febbraio scorso Ruggiu sta scontando la pena in Italia. Questi i fatti accertati dalla corte, dopo aver sentito numerosi testimoni.
Massacro in chiesa
Durante la caccia all’uomo del 1994, Padre Seromba aveva attirato all’interno della sua parrochia a Nyange, nella prefettura di Kibuye, almeno 1500 tutsi. Aveva assicurato a tutti che lì, al cospetto di Gesù e della Madonna, protettrice del Ruanda, sarebbero stati in salvo.
Le bande armate hutu non avrebbero osato entrare nella cattedrale. Invece mentre i rifugiati pregavano, ha chiuso a chiave le porte della chiesa, e ha ordinato all’autista di un bulldozer di abbattere l’edificio mentre gli assassini sparavano e lanciavano granate dalle finestre. Fu un massacro soprattutto di donne, vecchi e bambini.
“La corte – spiega la dottoressa Arbia – ha constatato che senza la sua autorità morale quel massacro non sarebbe stato commesso. I capi degli assassini e le autorità civili premevano per ammazzare i rifugiati in chiesa, ma nessuno osava muoversi. Anche l’uomo che operava sul bulldozer se era rifiutato di obbedire agli ordini e si è mosso solo dopo che ha avuto l’ok dal sacerdote.
Le responsabilità
Una sentenza giusta vista la gravità dei fatti e il prestigio dell’imputato, massima autorità morale in quel contesto. Nessuno avrebbe abbattuto una chiesa senza il consenso e l’approvazione dell’autorità religiosa che la governa.
E’ stato accertato che Seromba, addirittura, ha indicato all’autista del mezzo meccanico il lato più debole dell’edificio in modo tale che la demolizione fosse più efficace. Il comportamento del sacerdote, insomma conferma la volontà di portare a termine il massacro.
La fuga in Italia
Seromba – che si è sempre dichiarato innocente – era poi scappato e con la copertura di amici preti e delle gerarchie vaticane si era rifugiato a Prato, aveva cambiato nome, padre Anastasio Sumbabura) e continuava a officiare messa come se nulla fosse accaduto.
Era stato riconosciuto e denunciato, ma l’allora procuratrice del Tribunale dell’Onu, Carla del Ponte, aveva avuto difficoltà a ottenere l’estradizione. Aveva accusato il Vaticano di esercitare pressioni sul governo italiano per evitare che prendesse una decisione in proposito. Infatti il sacerdote non è mai stato estradato: si è costituito.
“Ma lui è innocente”
L’avvocato di Seromba, il beninese, Alfred Pognon, uno dei fondatori di Avvocati Senza Frontiere, durante un’intervista che mi ha rilasciato nel settembre del 2004 ad Arusha, mentre si stava celebrando il processo era tranquillo.
“Il mio cliente è una vittima – aveva sostenuto sicuro – e il tribunale dell’Onu è politicizzato. Quei giudici vogliono condannare gli accusati per giustificare la loro esistenza e la loro burocrazia che costa milioni di dollari. Attraverso Seromba intendono colpire la Chiesa e noi dobbiamo impedirlo. Dimostrerò la sua innocenza”.
Ma le prove e le testimonianze sono state schiaccianti e lui non è riuscito a farlo dichiarare innocente nonostante – sostengono sottovoce alla procura del tribunale – le pesanti pressioni del Vaticano per assolverlo.
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Speciale per Africa ExPress
M. A. A. Arusha (Tanzania), 12 marzo 2008
Una giudice italiana, Silvana Arbia, ha guidato la pubblica accusa durante il processo contro padre Seromba. Ha impostato le indagini e il comportamento da tenere durante il processo d’appello contro il sacerdote cattolico condannato all’ergastolo per genocidio.
Silvana Arbia, giudice alla corte d’appello di Milano, ormai da anni è impegnata nel Tribunale dell’Onu per il Ruanda, dove ora è a capo dei team di procuratori, seconda solo al procuratore generale. Un incarico che lascerà a metà aprile per assumere quello ancora più impegnativo di registar alla Corte Penale Internazionale dell’Aja.
Il registar è una figura che nell’ordinamento italiano non esiste ed è l’organo che in seno al CPI rappresenta le vittime, amministra la Corte e organizza gli uffici decentrati come, ad esempio, quello si vorrebbe costituire in Darfur. E’ un incarico di altissimo livello e di grande prestigio.
La dottoressa Arbia, esperta di diritto internazionale, di criminalità organizzata e di reati sessuali (gli stupri sono stati continui durante il genocidio in Ruanda) nel 1998 è stata membro della delegazione italiana durante l’incontro di Roma che sancì la nascita della Corte Penale Internazionale.
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Dal Nostro Inviato Speciale
Massimo A. Alberizzi
Nairobi, 12 agosto 2007
Se non ci fosse stato lui forse ora non potrei scrivere questa nota. E’ stato proprio Ali Iman Sharmarke – saltato sabato su una mina telecomandata a Mogadiscio – che il 2 dicembre dell’anno scorso ha esercitato un’enorme pressione sui fondamentalisti somali convincendoli a lasciarmi andare dopo che ero stato arrestato all’aeroporto di Mogadiscio.
Quando i servizi di sicurezza delle Corti Islamiche mi hanno prelevato e invitato a seguirli, venivo proprio da casa di Ali. Tra l’altro avevamo parlato di come sia difficile e rischioso fare il giornalista in una situazione di guerra – dove qualunque cosa tu dica da fastidio a qualcuno che ti può rispondere a raffiche di mitra – e della sua sicurezza. Lui era un laico e in quel momento i fanatici avevano stretto le maglie della repressione religiosa. “Non mi toccheranno – aveva detto – sono protetto a
sufficienza”. Contava molto sul fatto che i grandi capi delle corti, e soprattutto la spina dorsale del loro apparato militare, fanno parte della cabila aer, un sottoclan del grande gruppo haberghidir.
E infatti fu proprio grazie ai suoi forti legami aer che riuscì a convincere il gran capo.dell’islamismo somalo, lo sceicco Hassan Daher Awies a prendermi sotto la sua protezione e impedire agli oltranzisti di procedere alla mia esecuzione.
Ali Iman era comunque una della poche teste indipendenti della Somalia. Aveva passaporto canadese, ma nove anni fa era tornato in patria per organizzare la prima radiotelevisione libera del Paese: Horn Afrik. Credeva nella funzione del giornalismo: “La gente deve essere informata di quello che succede – mi aveva detto quando l’avevo incontrato la prima volta – altrimenti in questo Paese non ci sarà mai pace. Libertà e democrazia passano attraverso il giornalismo”. Criticava il governo di transizione, il che, oltre a diversi giorni di chiusura delle trasmissioni, gli era costato un paio di colpi di mortaio nella grande villa sede dell’emittente.
Ma criticava anche il fondamentalismo “estraneo – diceva masticando il vietatissimo chat, le foglie di eccitante messe al bando dalle Corti – ai costumi e alle tradizioni della Somalia”.
Le sue analisi politiche sull’ingarbugliata e inestricabile situazione somala illuminavano sugli eventi, sulle ambizioni personali, sugli obbiettivi dei clan, sugli interessi esterni. Insomma una visita nel suo ufficio era la prima cosa che facevo appena atterrato a Mogadiscio. Dalla conversazione con Ali capivo subito chi dovevo intervistare, dove dovevo andare per trovare qualche buona notizia e come dovevo muovermi.
Avrebbe potuto essere scelto come presidente laico e democratico della Somalia: da un lato sarebbe stato capace di tenere in qualche modo sotto controllo gli aer – accontentandoli nelle loro ragionevoli richieste di avere un maggior peso nella gestione del potere e garantendoli davanti alle altre cabile – dall’altro chiedendo in cambio di calmare le aspirazioni religiose dei fondamentalisti islamici che agli aer sono legati.
Chi l’abbia ucciso forse non si saprà mai. Ma se non si conosce il nome né il mandante, se ne intuisce chiarissimamente la ragione: sabotare qualunque processo di pace.
20 giugno 2007
Prima sentenza del tribunale per i crimini commessi in Sierra Leone. Tre dei principali protagonisti della guerra civile (1991-2002), Alex Tamba Brima, Brima Kamara e Santigie Borbor Manu, sono stati condannati a Freetown, dal tribunale speciale internazionale misto governo/Nazioni Unite. La pena che dovranno scontare sarà resa nota dalla corte il 16 luglio.
Speciale per africa ExPress Massimo A. Alberizzi
15 dicembre 2006
Aprile 1994. Il Ruanda è in preda ala follia collettiva. I suoi cittadini di etnia hutu, attizzati da bande armate di estremisti, gli hinterahamwe, sono scatenati contro i tutsi e gli hutu moderati. Civili armati di machete fanno a pezzi amici, compagni, conoscenti e persino coniugi, colpevoli solo di appartenere a un gruppo razziale differente. Alla mattanza partecipano anche parecchi preti, cattolici, protestanti, avventisti.
E’ un genocidio che, prove alla mano, è stato preparato meticolosamente. Mentre i notabili del regime hutu al potere nei mesi precedenti avevano comprato armi, munizioni e perfino machete, dai microfoni di Radio Mille Coline, emittente legata al regime hutu, gli speaker, tra cui si distingue per la veemenza l’italo-belga Giorgio Ruggiu (che si è dichiarato colpevole e condannato a 12 anni), non fanno altro che eccitare gli animi: «Schiacciate gli inyenzi (cioè gli scarafaggi), riempite le tombe».
L’Onu non si muove e al Palazzo di Vetro di New York vengono cestinati gli accorati appelli del generale canadese Romeo Dallaire, capo di un piccolo drappello di caschi blu di stanza a Kigali, che annuncia con settimane, se non mesi di anticipo, la preparazione del genocidio. In cento giorni vengono sterminati un milione di tutsi e hutu moderati. Un’ecatombe.
Il mondo dei diplomatici assiste cinicamente immobile, e nel novembre successivo il Consiglio di Sicurezza decide di costituire ad Arusha, alle falde del Kilimangiaro, in Tanzania, un tribunale per i crimini commessi in Ruanda. Nelle maglie degli investigatori internazionali finisce anche padre Athanase, fino a prima di quell’aprile 1994 conosciuto come un’anima pia.
La trasformazione
“Ogni mattina all’alba – mi racconteranno dieci anni dopo i suoi parrocchiani a Nyange vicino Kibuye, sul magnifico lago Kivu in Ruanda – scendeva nella sua chiesa, preparava i paramenti, li indossava in attesa dei fedeli per la messa. Distribuiva una parola buona per ciascuno, portava conforto alla sua gente oberata dalla fame e dalla povertà, non si lasciava sfuggire un’occasione per aiutare i più indigenti. Poi la trasformazione da pio a demonio”.
L’agguato
Seromba, sostiene il capo d’accusa firmato nel 2001 dall’allora procuratrice Carla del Ponte e dopo dal sostituto Silvana Arbia, assieme al borgomastro e all’ispettore di polizia prepara e mette in pratica un piano, diabolico, per sterminare la popolazione tutsi della zona. Per incoraggiare i tutsi in fuga disperata nelle campagne a ripararsi nella parrocchia, il ministro di Dio li attrae in chiesa usando tutta la sua autorità di religioso: promette protezione. Intere famiglie – certe che gli interahamwe (le milizie di criminali Hutu) rispetteranno il tempio, come già accaduto durante i massacri degli anni precedenti – accettano l’ospitalità offerta dall’abate. Ma una volta dentro, scoprono di essere intrappolati.
L’orrore disumano
Nessuno dà loro acqua e cibo e padre Seromba respinge il denaro dei rifugiati per acquistare pane e frutta. Si rifiuta persino di celebrare la messa. Secondo l’atto d’accusa del Tribunale dell’Onu il prete ordina ai gendarmi di sparare su quanti, calandosi dalle finestre, cercano di rubare frutti dal bananeto alle spalle della parrocchia. I bambini, in preda a febbre e dissenteria, piangono in continuazione.
Manca l’aria, 2 mila persone vivono nella disperazione in un luogo che può contenerne al massimo 1.500. Il 13 aprile matura il primo attacco: i miliziani estremisti circondano la chiesa, sparano raffiche di fucile sui civili inermi e tirano granate all’interno. Nella confusione, tra urla e schizzi di sangue, qualcuno riesce a scappare, ma viene catturato.
Sterminio affidato ai bulldozer
I testimoni sentono il sacerdote ordinare ai soldati di chiudere tutte le porte e di giustiziare i trenta tutsi bloccati mentre tentano in fuga. Il 16 aprile – sempre secondo l’accusa – Seromba e le autorità locali decidono per la soluzione finale.
Chiamano gli autisti di due bulldozer della società italiana Astaldi, che sta costruendo la strada da Gitarama a Kibuye. L’idea è micidiale: seppellire i rifugiati sotto le macerie del luogo sacro. “Gli hutu sono tanti. Questa chiesa verrà ricostruita in tre giorni”, sentenzia l’abate dando all’autista attonito l’ordine di procedere.
Pochi minti prima un suo collega, che si era rifiutato di agire, era stato ammazzato con un colpo alla testa. Con movimenti coordinati le due macchine demoliscono i muri della chiesa, mentre la popolazione del villaggio, armata di machete e bastoni, circonda l’area per attaccare chi cerca di fuggire. Dentro trovano la morte 2mila tutsi.
La fuga protetta
Ma sono loro a vincere la guerra nel giugno 1994 ed è Seromba a fuggire. Prima in Zaire (l’attuale Repubblica Democratica del Congo) poi in Italia. Quando giunge a Firenze, nell’estate del 1997, è raccomandato da una lettera del vescovo di Nyundo, che loda le sue doti di religioso semplice e devoto. Il prelato chiede alla diocesi fiorentina di dargli accoglienza per un certo periodo. Dice sì che è un profugo, ma dello Zaire e che si chiama Anastasio Sumbabura. La Curia toscana gli trova un posticino nella parrocchia dell’Immacolata a Montughi.
Scovato dai giornalisti
Tutto sembra finire lì. Invece lo scovano i giornalisti. Il governo italiano tergiversa, ma poi deve cedere alle pressioni della Del Ponte, che ottiene l’estradizione: è il febbraio 2002. L’avvocato di Seromba, il beninese, Alfred Pognon uno dei fondatori di Avvocati Senza Frontiere, durante un’intervista al Corriere nel settembre del 2004 ad Arusha, mentre si celebra il processo appare tranquillo. «Il mio cliente è una vittima – sostiene sicuro – e il tribunale dell’Onu è politicizzato. Quei giudici vogliono condannare gli accusati per giustificare la loro esistenza e la loro burocrazia ignava che costa milioni di dollari. Attraverso Seromba intendono colpire la Chiesa e noi dobbiamo impedirlo. Dimostrerò la sua innocenza».
Ma le prove e le testimonianze sono schiaccianti e lui non riesce a farlo assolvere nonostante – sostengono sottovoce alla procura del tribunale – le pesanti pressioni del Vaticano sui magistrati.
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Dal Nostro Inviato Speciale Massimo A. Alberizzi
Baidoa (Somalia), 13 dicembre 2006
Mengistu Hailè Mariam, il dittatore rosso che ha governato l’Etiopia dal 1977 al 1991, è stato giudicato colpevole di genocidio e crimini contro l’umanità. Il processo è durato 12 anni e la sentenza è prevista per il 28 dicembre. Mengistu nel 1991, prima che il suo regime fossa abbattuto dalla rivolta del Fronte Popolare di Liberazione del Tigrai, riuscì a scappare e a rifugiarsi in Zimbabwe, ospite del sui amico, Robert Mugabe. Conduce una vita assai riservata in una villa alla periferia di Harare.
Più volte mi ha rifiutato un’intervista perché – a suo dire – gli è stato chiesto di evitare qualunque dichiarazione. Mengistu è stato protagonista di una delle più atroci repressioni che la storia africana ricordi. L’accusa ha provato che era lui in persona a dare gli ordini di uccidere, torturare, violentare chiunque si opponeva al suo potere.
Nel 1974 il Negus Neghesti (cioè il re dei re, Hailè Selassie) d’Etiopia viene rovesciato da un colpo di Stato militare, le cui intenzioni iniziali sono quelle di modernizzare un Paese, fermo al medio evo. Un medio evo di splendore: l’Etiopia era l’unico Stato africano che poteva considerarsi tale e nel XIX secolo scambiava ambasciatori con i Paesi europei. Ma pur sempre un medioevo dove la società era divisa in caste e dove il potere era tutto nelle mani dei nobili e della Chiesa Ortodossa.
Ma ben preso i miliari golpisti si dividono, anche su come gestire la rivolta eritrea, che dal 1962 insanguina la provincia del nord. Così da una congiura di palazzo, durante la quale vengono assassinati i generali che fino a quel momento avevano gestito il potere della giunta militare (il Derg), emerge come leader il colonnello Mengistu. Mengistu chiede e ottiene il sostegno dell’Unione Sovietica che invia ingenti quantitativi di armi e un numero imprecisato di istruttori militari che lo aiutano a respingere l’invasione di truppe somale che avevano invaso il sud (l’Ogaden).
In Etiopia comincia la crudele e feroce repressione di ogni dissenso. Centinaia di studenti e di intellettuali che avevano creduto in un reale cambiamento della società vengono trucidati. Il “Terrore Rosso” (come passerà alla storia quel periodo) non risparmia operai, contadini, commercianti. Basta un semplice sospetto per cadere sotto il pugno di ferro della polizia politica del Derg.
Ne fanno le spese soprattutto i militanti dell’EPRP (Ethiopian People’s Revolutionary Party) il gruppo che per primo aveva appoggiato la rivolta contro Hailè Selassie. Nel Tigrai era nato due anni prima (nel 1975) il TPLF (Tigray People’s Liberation Front) guidato da Melles Zenawi, l’attuale leader etiopico, che combatte il Derg da posizioni filoalbenesi (l’Albania di allora del dittatore Enver Oxa). Dopo una disastrosa carestia (1984), che vede per la prima e unica volta affiancati nella corsa agli aiuti americani e sovietici, il regime fa sprofondare ancor di più il Paese in uno stato di povertà disastroso.
L’atteggiamento italiano verso il dittatore, che dopo aver sterminato l’opposizione, guida il Paese con il pugno di ferro, è benevolo. Il nostro governo (pur essendo Mengistu dichiaratamente schierato con l’Unione Sovietica in piena guerra fredda) non gli lesina gli aiuti e alla fine degli anni ’80 viene gratificato con il più dispendioso progetto di cooperazione mai finanziato da Roma: 800 miliardi di lire (gestiti dal Fai, il Fondo Aiuti Italiani di Francesco Forte) destinati al Tana Beles. Il progetto agroindustriale è faraonico e per realizzarlo viene sbancata un’intera foresta di bambù e la popolazione locale, gli shangilla, vengono deportati a migliaia di chilometri di distanza. Oggi di quell’immensa opera non resta più nulla.
La caduta del muro di Berlino, segna anche la fine dei dittatori africani filosovietici. Il 22 maggio 1991 i tigrini e gli eritrei entrano ad Addis Abeba e ad Asmara. Lui pochi giorni prima è costretto a fuggire mentre 4 scherani del regime si rifugiano nell’ambasciata italiana: uno si suiciderà poco dopo, il vice primo ministro Hailù Yemeni, un altro, il generale Tesfaye Gebre Kidane, che aveva sostituito il despota dopo la sua fuga, viene ammazzato nel giugno 2004, durante una rissa nella palazzina che li ospita nel grande recinto dell’ambasciata italiana a Addis Abeba.
Quindici anni dopo, ne sono rimasti due: Beranu Baye, suo ministro degli esteri, e il generale Addis Tedla, capo di stato maggiore. L’Italia non li consegna finché nel Paese vige la pena di morte. Ma Melles Zenawi, l’uomo che l’ha sconfitto e ora guida l’Etiopia, mi ha promesso, durante un’intervista, che la pena di morte non sarà applicata e verrà cancellata dai codici etiopici. Così Mengistu non lascerà il suo esilio dorato e non sconterà la condanna, ma per i due ospiti della nostra ambasciata potrebbero aprirsi le porte del carcere.
Massimo A. Alberizzi
massimo.alberizzi@gmail.com
twitter @malberizzi
Husband and wife arrested on drug trafficking charges risk life imprisonment. Couple have languished in Nairobi’s decaying prisons since December 2004. Judge fails to appear. Hearing adjourned until 11 am on 28 June.
From Our Special Correspondent Massimo A. Alberizzi
Nairobi, 20 June 2006
The torments of Angelo Ricci and Estella Duminga Furuli, the couple accused of large-scale drug trafficking, are far from over. Yesterday, they were awaiting sentence, which for this kind of crime can be life imprisonment in Kenya. But Judge Aggrey Muchelule failed to arrive at the court and the hearing was adjourned until 11 am on 28 June. The two Italians are answering charges of drug trafficking. The quantity involved is huge – 1.2 tons of cocaine worth 70 million euros, to be precise – and it is for that reason that Foggia-born Angelo Ricci, 70, and his Argentine-Calabrian wife Estella Duminga Furuli, 43, neither with any previous convictions, have been languishing since 14 December 2004 in Nairobi’s insalubrious jails. Five Kenyan citizens charged for the same offence are in jail with them.
All those arrested protest their innocence and have described how harsh life is in Kenya’s prisons. Detainees have to pick maggots and insects out of their food, sleep on the bare floor and submit to humiliations of all kinds. The drug trafficking of which the two Italians are accused is becoming controversial in Kenya. After the revelations published by the Africa ExPress, which referred to the involvement of top-level Kenyan authorities, the story was picked up by a number of other papers, including the prestigious Africa Confidential. It has the hallmarks of a Machiavellian international intrigue in which the two Italians and the other defendants have been cast as scapegoats.
The affair in which the Riccis are embroiled appears to be linked to a major scandal that is threatening the presidency of Kenya itself and involves leading members of the international Mafia. On Thursday 8 June, two Armenian brothers, Artur Margaryan and Artur Sargsyan, used their passes to gain entrance to Nairobi airport and prevent customs officers from inspecting nine suitcases owned by a female friend who had just arrived from Dubai. One of the two brothers produced a pistol and then the pair took the woman by the arm, seized the suitcases and marched off with a shout of “You don’t know who we are”.
The following day, the chief of police, General Hussein Ali, issued orders that the two were to be deported and not hauled before a magistrate for trial. The Armenians had been living in Nairobi but were expelled a few weeks earlier. At their home, police officers broke down the door and found assault rifles, jackets and berets with “Police” insignia, diplomatic licence plates, Kenyan passports and identity cards issued to police deputy superintendents and permits for access to high-security zones of the airport. There were fifteen cars in the garden, some with government licence plates.
According to the Kenyan press, Artur Margaryan claims to be the partner of Winnie Wambui, the daughter of Mary Wambui, the most influential of Kenyan President Mwai Kibaki’s advisers. It is also rumoured that she is his second wife of the chief of the State. Although Mr Kibaki has always denied it, this widely retailed piece of Nairobi gossip shows just how close the two are.
In an attempt to gag press accusations against the presidency, Kibaki suspended the head of the Criminal Investigative Department, Joseph Kamau, and a series of high-level civil servants, including Winnie Wambui herself, a special adviser to the Ministry of Water. It was discovered that their access permits enabled the two Armenians to enter all parts of the airport without difficulty. And it was also discovered that the two had taken delivery of at least twenty-nine containers without having to go through the usual customs procedures.
What was in the containers? Obviously something illegal, otherwise they would not have bypassed inspection. News desks at the Nairobi papers that are investigating the affair are in no doubt: “Cocaine”. Inquiries by the Africa ExPress have established that the huge quantity of cocaine the Riccis are accused of trafficking arrived at the port of Mombasa and was then transferred to Nairobi. Finally, some of it was taken to the Malindi villa that the Italian couple were employed to rent out, and had in fact leased to a group of Dutch citizens.
The drug was transported by a Mombasa-based company, Prima Binns & Pest Control, owned by two brothers, Abubakar, known as Abu, and Hassan Joho. The company has the contract for refuse collection and pest control in the port. Until just a few years ago, the two brothers and their four ramshackle lorries were on the point of bankruptcy.
Then in 2003, the year in which Mwai Kibaki came to power, they suddenly acquired wealth and a new female friend, the ubiquitous Mary Wambui.“They are extremely arrogant”, someone who knows them well but wishes to remain anonymous says bluntly. “They use money to bribe police officers. And they do it in public, quite shamelessly, in front of everyone. When Mary Wambui comes to Mombasa, the Johos send their black Mercedes to pick her up at the airport. For the Johos, getting goods out of the airport is child’s play. The Riccis have nothing to do with drug trafficking. The cocaine they are accused of selling was taken out of the port of Mombasa in the lorries owned by the Joho brothers. They stuff the packages in amongst the refuse and no police officer at a check point would dare to search them”.
Abu and Hassan Joho are in partnership with Artur Margaryan and Artur Sargsyan. Their passes for the airport were issued to the Chelamed Ltd company, of which Abu Joho is general manager. But there is another embarrassing connection. The two Armenians are also in partnership with Baktash Akasha, a member of the powerful Akasha family, suspected of smuggling. Some time ago, Margaryan said that a female Akasha clan member was married to one of his managers. According to the Kenyan daily The Nation, the head of the family and one of Kenya’s richest men, Ibrahim Abdallah Akasha, is a former drug smuggler who managed to avoid a custodial sentence thanks to influential friends in government. He was killed in May 2000 in Amsterdam’s Bloedstrat (Blood Street), ambushed on his way to a meeting with an unknown dealer to discuss the non-payment of a consignment of heroin he had delivered to Holland in 1999.
The traffickers who used the Malindi villa rented to them by the Riccis were all Dutch, with the exception of George Kiragu, the husband of a Dutch citizen, Anita. Inspectors from the Netherlands are also making inquiries and have already arrested the individuals believed to be Kiragu’s accomplices in what is a complex international investigation. Their names are Robertus Johannes Stehman, Hendrik Baptiste Hermanj, Johan Neelen, Arien Gorter and Marinus Hendrik van Wezel, the organisers of the drug trade who found powerful friends in Kenya. When they fled just before police arrived at the villa in Malindi where the cocaine was found, they were able to fly to Nairobi undisturbed. They spent the night in the Hotel Panafric and the following morning embarked on a KLM flight bound for Amsterdam.
Like the Armenian brothers, the five had permits to enter restricted areas at the airport. No trace has remained of their passage through Jomo Kenyatta International Airport on 13 December 2004. Who covered their tracks and who issued their passes?
Massimo A. Alberizzi massimo.alberizzi@gmail.com twitter @malberizzi
In the first picture Angelo Ricci and his wife Estella Furuli during the trial. In the second picture Mary Wambui
Nairobi, processo a due italiani accusati di traffico di cocaina (1 tonnellata): “Siamo innocenti” http://www.africa-express.info/2014/01/24/nairobi-processo-due-italiani-accusati-di-traffico-di-cocaina-1-tonnellata-siamo-innocenti/
DAL NOSTRO INVIATO SPECIALE Massimo A. Alberizzi
Nairobi, 20 giugno 2006
Non finisce il calvario di Angelo Ricci e Estella Duminga Furuli, la coppia accusata di un ingente traffico di droga. Oggi era attesa la sentenza (la pena prevista dal codice keniota per questo genere di reati arriva all’ergastolo). Invece il giudice Aggrey Muchelule non si è presentato e l’udienza è stata rinviata al 28 giugno, ore 11.
I due italiani devono rispondere di traffico di droga. Una montagna enorme, esattamente una tonnellata e duecento chili di cocaina (valore 70 milioni di euro)per cui il settantenne Angelo Ricci, foggiano, e sua moglie (43 anni) Estella Duminga Furuli, argentina-calabrese, entrambi incensurati, dal 14 dicembre 2004 marciscono nelle fatiscenti galere di Nairobi. Con loro 5kenioti, incriminati per lo stesso reato. Tutti hanno protestato la loro innocenza e raccontato quanto sia dura la vita nelle carceri keniote: per mangiare i detenuti devono scartare insetti e vermi dal cibo, dormono per terra e subiscono umiliazioni di ogni genere.
La storia del traffico di droga di cui sono accusati i due italiani sta diventando scottante in Kenya dopo che le rivelazioni pubblicate dal Corriere della Sera http://www.corriere.it/Primo_Piano/Esteri/2006/03_Marzo/28/alberizzi.shtml su un coinvolgimento ai massimi livelli delle autorità keniote, sono state riprese da diversi giornali, tra cui il prestigioso Africa Confidential. Sembra un machiavellico intrigo internazionale che ha risucchiato i due italiani e gli altri imputati facendogli fare la parte dei capri espiatori.
La vicenda cui sono coinvolti i Ricci, infatti, sembra avere connessioni con un serio scandalo che sta scuotendo la stessa presidenza della repubblica del Kenya e coinvolge pezzi grossi della mafia internazionale..
Giovedì 8 giugno due fratelli armeni, Artur Margaryan e Artur Sargsyan, entrano con i loro tesserini di riconoscimento all’aeroporto di Nairobi per impedire che i doganieri ispezionino le 9 valigie di proprietà di una loro amica che era appena arrivata da Dubai. Uno dei due fratelli brandisce una pistola, prendono sottobraccio la ragazza, afferrano i bagagli e al grido “Voi non sapete chi siamo noi” se ne vanno. Il giorno dopo, su un ordine preciso del capo della polizia Generale Hussein Ali, i due, invece di essere portati davanti a un magistrato e giudicati, sono espulsi dal Paese.
Nella loro residenza (gli armeni vivevano a Nairobi, ma erano stati espulsi alcune settimane prima) la polizia, sfondata la porta, trova mitra d’assalto giubbotti e berretti con la scritta “Polizia”,targhe d’auto diplomatiche, passaporti kenioti e carte di identità per vice commissari della polizia, carte d’accesso nelle aree dell’aeroporto, anche nelle zone ad alta sicurezza. In giardino 15 auto, alcune con targhe del governo.
Secondo i giornali kenioti, per sua stessa ammissione, Artur Margaryan è il fidanzato di Winnie Wambui, figlia di Mary Wambui, la consigliera più potente e influente di Mwai Kibaki, il presidente della Repubblica. Si dice anche che sia la sua seconda moglie. Lui ha sempre smentito, tuttavia una voce di questo tipo, assai insistente a Nairobi, dimostra come siano strette le relazioni tra i due.
Nel tentativo di azzittire i giornali che mettono sotto accusa la stessa presidenza, Kibaki sospende il capo della polizia criminale (Criminal Investigative Department, Cid) Joseph Kamau e una serie di funzionari di alto livello, tra cui la stessa Winnie Wambui, consigliere speciale del ministro delle acque. Si scopre che i due armeni con i loro tesserini d’accesso potevano entrare senza problemi in tutte le aree dell’aeroporto. E si scopre che al porto di Mombasa i due hanno ricevuto almeno 29 container, consegnati loro senza essere sottoposti ai rituali controlli doganali.
Cosa contenevano quei container? Certamente qualcosa di illegale, altrimenti non avrebbero saltato le ispezioni. A Nairobi nelle redazioni dei giornali chi investiga sulla vicenda non ha dubbi: “Cocaina”.
Investigazioni del Corriere della Sera hanno appurato che l’immensa quantità di cocaina che i Ricci sono accusati di aver trafficato, sono arrivati al porto di Mombasa, poi trasferiti a Nairobi e infine, in parte, portati in quella villa di Malindi che la coppia italiana aveva l’incarico di affittare e aveva in effetti locato a un gruppo di olandesi, da una compagnia di Mombasa, la Prima Binns & Pest Control, di proprietà dei fratelli Abubakar, detto Abu, e Hassan Joho. La società ha la concessione della raccolta dei rifiuti e della derattizzazione del porto. Fino a qualche anno fa i due fratelli, con i loro quattro camion scassati, erano sul punto di fallire. Dal 2003 – anno in cui è arrivato al potere Mwai Kibaki- sono diventati improvvisamente ricchissimi e vantano un’amica potente: la solita Mary Wambui. ”Sono estremamente arroganti – racconta senza mezzi termini uno che lo conosce bene ma che per paura vuole mantenere l’anonimato -. Usano il denaro per corrompere gli agenti di polizia. Lo fanno in pubblico senza pudore davanti a tutti. Quando Mary Wambui arriva a Mombasa i Joho mandano la loro Mercedes nera a prenderla all’aeroporto. Per loro è un gioco da ragazzi fare uscire la merce dal porto. I Ricci sono estranei al traffico di droga. La cocaina che sono accusati di smerciare è stata trasportata fuori da porto di Mombasa dai camion dei fratelli Joho. Mettevano i pacchetti sotto l’immondizia e nessun poliziotto ai posti di blocco sulla strada osava metterci le mani dentro”.
Abu, e Hassan Joho sono in società con Artur Margaryan e Artur Sargsyan. I loro pass per entrare in aeroporto erano stati rilasciati a nome della società Chelamed Ltd, di cui Abu Joho è direttore generale.
Ma esiste un altro imbarazzante collegamento: partner dei due armeni è anche Baktash Akasha, membro della potente omonima famiglia accusata di traffici illeciti. Margaryan ha tempo fa dichiarato che una delle Akasha è sposata con un suo manager.
Secondo il quotidiano keniota The Nation, il capofamiglia, Ibrahim Abdallah Akasha, uno degli uomini più ricchi del Kenya, era un trafficante internazionale di droga, riuscito a salvarsi dalla galera grazie alle sue potenti amicizie nel governo. Viene ucciso nel maggio 2000 ad Amsterdam in Bloedstrat (via del Sangue) in un agguato tesogli mentre stava andando a un appuntamento con un trafficante rimasto sconosciuto, per discutere il mancato pagamento di una partita di eroina che aveva consegnato in Olanda nel 1999.
I trafficanti che hanno usato la villa di Malindi affittata loro dai Ricci sono olandesi meno uno, George Kiragu, sposato a una olandese, Anita. Gli ispettori dei Paesi Bassi stanno anch’essi investigando e, nell’ambito di questa complessa inchiesta internazionale, hanno proceduto ad arrestare nel loro Paese quelli che considerano i complici di Kiragu: Robertus Johannes Stehman, Hendrik Baptiste Hermanj, Johan Neelen, Arien Gorter and Marinus Hendrik van Wezel. Sono loro gli organizzatori del traffico che ha trovato potenti connivenze in Kenya. Quando sono scappati, prima dell’arrivo della polizia nella villa di Malindi dove è stata trovata la cocaina, sono volati con tutto comodo a Nairobi, hanno dormito una notte all’Hotel Panafric e la mattina successiva si sono imbarcati su un volo della KLM per Amsterdam. Anche loro, come fratelli armeni, avevano in mano i cartellini d’accesso alle aree riservate dell’aeroporto. Del loro passaggio al Jomo Kenyatta International Airport il 13 dicembre 2004, non è rimasta alcuna traccia. Chi li ha coperti e chi aveva emesso i pass per loro?
Massimo A. Alberizzi massimo.alberizzi@gmail.com twitter @malberizzi
Dal Nostro Inviato Speciale Massimo A. Alberizzi
Nairobi, 5 aprile 2006
Colpo di scena al processo contro due italiani, Angelo Ricci, 70 anni di Foggia, e sua moglie Estella Duminga Furuli, 43 anni, calabrese di origine argentina, accusati di traffico di droga, 1,2 tonnellate per un valore di 70 milioni di euro. Il loro avvocato, John Khaminwa, ha presentato alla corte, attraverso il suo assistito, il documento che scagiona la coppia, già pubblicato nei giorni scorsi dal Corriere. Si tratta di una lettera scritta il 25 aprile 2005 da Oriri Onyango, il sostituto procuratore che in questo processo sta chiedendo la condanna dei Ricci (rischiano anche l’ergastolo). Onyango dichiara in sostanza che non ci sono prove contro i due italiani e nulla che possa collegarli «direttamente o indirettamente» all’ingente traffico.
LETTERA LETTA IN AULA – Il giudice Aggrey Muchelule si è riservato di ammettere il documento agli atti del processo (la sua decisione sarà resa pubblica martedì mattina), ma la lettera è stata letta ad alta voce in aula e i giornalisti hanno avuto il tempo di ricopiarla. Oriri Onyango ora dovrà spiegare davanti all’opinione pubblica del suo Paese perché tiene in carcere da 14 mesi nelle fetide galere keniote due italiani che lui stesso giudica, e l’ha scritto a chiare lettere, “innocenti”. In corte Onyango e Khaminwa hanno battagliato a lungo a colpi di articoli del codice, mentre Marco Barberis, l’attento diplomatico incaricato dall’ambasciata italiana di seguire il caso, cercava di tradurre ad Angelo Ricci il serrato dibattito tra l’avvocato degli italiani, che insisteva perché il documento fosse acquisito agli atti, e l’accusatore, che balbettando perché sorpreso dalla mossa della difesa, prima ammetteva di aver scritto la lettera, poi chiedeva una perizia calligrafica sulla sua firma, suscitando l’ilarità perfino del giudice Muchelule.
LA VICENDA – I due Ricci, che si sono sempre dichiarati innocenti, sono stati arrestati il 14 dicembre 2004 quando, in una villa che loro avevano in gestione e affittato a un gruppo di olandesi, sono stati trovati 800 chili di cocaina. Gli inquilini della casa erano scappati poche ore prima e la coppia si era presentata spontaneamente alla polizia per sapere cos’era successo. In un altro raid a Nairobi, gli agenti avevano sequestrato altri 400 chili di droga. Pochi giorni prima l’antinarcotici olandese aveva inviato ai loro omologhi kenioti una nota dettagliata e precisa sulla presenza in Kenya di almeno tre tonnellate di polvere bianca, chiedendo un’azione “immediata” per sequestrare la partita di narcotici e arrestare i trafficanti. Ma gli agenti africani hanno impiegato sei giorni a intervenire, lasciando quindi ai veri registi del mastodontico affare tutto il tempo di scappare.
IL VIAGGIO IN OLANDA – Secondo un altro documento in nostro possesso, il 16 gennaio 2005 Onyango, senza l’autorizzazione dei sui capi diretti (con i quali non si cura di concordare alcunché) vola ad Amsterdam e prende contatto con la polizia olandese. Il viaggio viene permesso da un altro magistrato senza competenza sul caso, il Solicitor General, che si occupa di cause civili. Il procuratore torna alcuni giorni dopo e non produce nessun documento e nessuna memoria su quanto appreso in Europa. Cosa conteneva l’informativa degli investigatori olandesi? Cosa gli hanno spiegato una volta ad Amsterdam?
Ufficialmente nessuno lo sa e questa documentazione non compare agli atti del processo. Come non compare un’altra nota imbarazzante circolata all’interno della polizia dopo che il capo dei procuratori aveva ricevuto una lettera ufficiale, datata 6 aprile 2005, dall’ufficio delle Nazioni Unite per la Droga e il Crimine (UNODC, United Nation Office for Drugs and Crime) con la quale il rappresentante per l’Africa Orientale incaricato di indagare sui riciclaggi di denaro, Wayne Blackburn, offriva tutta la collaborazione possibile. Ufficialmente era stato risposto con cortesia e con diligenza, ma all’interno del gruppo di investigatori circolava un altro documento: “Non abbiano bisogno di alcuna collaborazione. Ce la facciamo da soli”. Infatti l’UNDOC era stata tenuta all’oscuro di tutto. Ora il procuratore Oriri Onyango dovrà rispondere anche di queste cose, se non in corte, almeno davanti all’opinione pubblica del suo Paese.
Massimo A. Alberizzi massimo.alberizzi@gmail.com twitter @malberizzi
Dal Nostro Inviato Speciale Massimo A. Alberizzi
Nairobi, 29 marzo 2006
Angherie, violenze, pestaggi in cella e il rischio concreto per due italiani residenti in Kenya di essere condannati all’ergastolo per un reato che – secondo diversi documenti riservati che ho raccolto – non hanno commesso: traffico di droga. Una tonnellata e duecento chili di cocaina (valore 70 milioni di euro) per cui il settantenne Angelo Ricci, foggiano, e sua moglie (43 anni) Estella Duminga Furuli, argentina-calabrese, da 14 mesi marciscono nelle fatiscenti galere di Nairobi. Con loro 5 kenioti, incriminati per lo stesso reato. Intanto hanno raccontato la loro vita nelle carceri africane: per mangiare devono scartare insetti e vermi dal cibo, dormono per terra e subiscono umiliazioni di ogni genere. Il processo è ricominciato l’altro ieri, 27 marzo.
Quella che può sembrare una banale storia della antinarcotici sta prendendo le dimensioni di un vero ciclone. Le testimonianze e i documenti raccolti da Africa ExPress a Nairobi e a Mombasa (il porto del Kenya in cui è transitata la droga), coinvolgono le più alte cariche dello Stato keniota, e lambiscono persino il presidente della repubblica Mwai Kibaki. Da alcuni mesi il Kenya è sconvolto dagli scandali che hanno investito ministri e funzionari dello Stato.
Le accuse contro la classe dirigente sono pesanti e spesso provate: corruzione, concussione, sottrazione di denaro pubblico, nomine di giudici compiacenti e rimozione di quelli instancabili, attacchi e irruzioni della polizia nelle sedi dei quotidiani impegnati nella ricostruzione di giganteschi “furti di stato”, depistaggi di indagini, omicidi e morti sospette. Una Tangentopoli in terra d’Africa che sta provocando dimissioni a catena, tra cui quella del ministro della giustizia Kiraitu Murungi e quella, più clamorosa, del potentissimo ex ministro della sicurezza nazionale Chris Murungaru, fino a pochi mesi fa un uomo intoccabile.
L’estate scorsa il Foreign Office aveva tolto a Murungaru il visto di entrata in Gran Bretagna. Ufficialmente il motivo non si è mai saputo, ma, secondo i diplomatici di stanza a Nairobi, era chiaro ed evidente: “Riciclaggio di denaro e traffico di droga”. Il reato di cui sono accusati Angelo Ricci e la moglie Estella rientra ora in questo complicato quadro. I due vengono arrestati il 14 dicembre 2004 a Malindi, dopo che la polizia fa irruzione in una villa, Rocchi House, che la coppia aveva dato in affitto a sei olandesi e un keniota, Gorge Kiragu, per conto del proprietario, Pompeo Rocchi, un altro italiano.
Nel giardino gli agenti trovano un motoscafo con la chiglia imbottita di panetti di cocaina purissima (800 chili). Nello stesso momento altri gendarmi del CID (Criminal Investigative Division) entrano nel vecchio aeroporto di Nairobi, a Embakasi, e trovano in un container, altri 400 chilogrammi di droga appartenente alla stessa partita. Angelo Ricci e la moglie Estella vengono immediatamente arrestati e con loro altri 6 kenioti, compreso uno di origine indiana. Da allora vivono la loro allucinante esperienza in due carceri di Nairobi.
In una lettera in possesso dI Africa ExPress, datata 12 ottobre 2005 e indirizzata a Francis K. Muthuara, segretario particolare del presidente della Repubblica, Mwai Kibaki, l’ex Direttore della Pubblica Accusa (la terza più alta carica giudiziaria keniota), Philip Murgor, scrive a pagina 5: “Sono convinto che le investigazioni e le accuse nel caso della cocaina, quando io ero in carica, sono state indirizzate solo a coprire il gigantesco traffico, in modo tale da lasciare intatto il cartello che opera tra Sud America, Kenya e Olanda”.
In un altro passaggio, il documento spiega:” Nello stesso tempo il caso ha subito interferenze grossolane che ha visto impegnato direttamente il Solicitor General (la quarta carica giudiziaria del Paese, ndr) con alcuni individui all’interno della presidenza della Repubblica”. Philip Murgor viene silurato il 25 maggio dell’anno scorso, mentre cerca di far luce sulle accuse di corruzione, sottrazione di denaro pubblico e arricchimenti illeciti dei massimi personaggi della politica keniota.
“Mi hanno fatto fuori perché volevo individuare i veri responsabili del traffico di cocaina, indagando nei potenti ambienti che l’hanno coperto. I due italiani non c’entrano assolutamente nulla, sono usati come capro espiatorio. Se li condannano sarà solo per evitare che vengano scoperti i veri colpevoli”, dichiara senza mezzi termini l’ex capo dei procuratori intervistato da Africa ExPress. Il sequestro della tonnellata e passa di cocaina avviene il 14 dicembre 2004 su una precisa nota degli investigatori olandesi ai colleghi kenioti. Il documento segnala, con dovizia di particolari, la presenza nel Paese africano di “parecchie tonnellate” di “neve”.
Ad Amsterdam sono appena stati arrestati presunti trafficanti legati alla filiera di Malindi: Robertus Johannes Stehman, Hendrik Baptiste Hermanj, Johan Neelen, Arien Gorter e Marinus Hendrik van Wezel. Secondo un documento di cui Africa ExPress ha preso visione l’informativa data 8 dicembre. Passano dunque sei giorni dall’irruzione della polizia nel deposito di Embakasi e nella villa di Malindi. “Un tempo sufficiente – come spiega un altro documento in possesso degli investigatori kenioti e mai arrivato in tribunale – per permettere agli occupanti olandesi della Rocchi House di impacchettare senza fretta i loro effetti personali, pagare i salari dello staff, da Malindi volare a Nairobi, passare una notte al Pan Afric Hotel e prendere comodamente un aereo per lasciare il Kenya”. “Tutto ciò – come scrive in un’altra lettera Murgor – non può essere avvenuto senza la complicità della polizia e dei suoi alti vertici”.
In una denuncia alla procura della Repubblica, l’ex numero tre del sistema giudiziario keniota piazza tra i responsabili dell’immenso depistaggio il capo della Polizia Criminale (CDI, Criminal Investigative Department), James Kamau, e l’ispettore Peter Njeru, il grande accusatore dei Ricci e degli altri 5 imputati locali, tra cui Davies Alexander Gachago, figlio di un ministro keniota ai tempi di Jomo Kenyatta, primo presidente del Kenya. Ma non risparmia critiche a Stanley Murage, stretto consigliere del Presidente della Repubblica.
Per seguire il caso, subito dopo il sequestro, Murgor individua un procuratore donna che ha seguito corsi di narcotraffico (lui la definisce “magistrato capace, caparbio e incorruttibile”), sperimentato in altri difficili casi. Ma il 28 dicembre, quando l’allora Direttore della Pubblica Accusa è in vacanza, la signora viene esautorata e sostituita con un magistrato fatto rientrare precipitosamente dalle vacanze, Oriri Onyango, l’attuale accusatore in tribunale, che non si era mai occupato di droga prima.
L’ordine di cambiare il magistrato viene impartito da Wanjuki Muchemi, Solecitor General (un grado più basso di Murgor) e partner in affari, secondo una visura camerale in possesso di Africa RxPress, di Cristopher Ndarati, a sua volta socio di Murungaro. Murgor dopo alcuni mesi di investigazioni chiede a Onyango a che punto sono le indagini, ma non ottiene risposta. Per due volte lo sollecita. Niente. Solo dopo una terza richiesta riceve una scarna lettera in cui, tra l’altro, il sostituto procuratore quello che oggi in tribunale chiede la condanna dei Ricci, dichiara testualmente: “Non ci sono assolutamente evidenze che questi tre accusati (e si riferisce oltre ai due italiani all’indiano, poi prosciolto in gennaio scorso, ndr) siano direttamente o indirettamente coinvolti nel traffico illegale di droga. Tuttavia, per provare che avevano permesso l’uso della casa data loro in gestione a gente intenzionata a vendere e distribuire droga, è importante mantenere l’accusa principale di traffico di stupefacenti, nonostante le prove siano assolutamente insufficienti per giustificare la loro detenzione” (letteralmente in inglese “notwithstanding insufficient evidence to warrant their conviction in those counts”). Ciononostante i Ricci e gli altri sono in galera da 14 mesi.
In Kenya circolano insistenti voci che la cocaina nei depositi della polizia non ci sia più, sostituita da pacchetti di farina o gesso. I “tutori dell’ordine” se ne sarebbero già impadroniti e l’avrebbero loro stessi messa in circolazione. Il 31 gennaio 2005 il direttore della polizia criminale, James Kamau, senza informare gli uffici della procura e senza ottenere il permesso della corte, ordina al sostituto procuratore Oriri Onyango di distruggere la cocaina.
Un passo gravissimo, con il quale, sostiene un funzionario di polizia che vuol restare anonimo: “Si può bruciare una tonnellata di farina ed entrare in possesso della droga”. Murgor intercetta la lettera con l’ordine e convoca nel suo ufficio sia il sostituto procuratore Oriri Onyango sia l’ispettore del CID Peter Njeru, autori del tentativo di distruzione del corpo del reato. Ordina loro di effettuare i test individuali su ciascuno dei 954 pacchetti di droga sequestrati (in precedenza solo 42 erano stati testati). Ma il capo della polizia, James Kamau rifiuta di eseguire quanto disposto dal magistrato.
Anche le ambasciate americana e britannica esercitano pressioni sul procuratore generale Amos Wako. Temono che la partita sequestrata rientri in circolazione e chiedono analisi serie e non a campione. “Le faremo”, promette Wako, ma quando gli viene sollecitata la partecipazione di esperti occidentali, non si sbilancia e non promette nulla, provocando un certo disappunto tra i diplomatici che erano andati a trovarlo nel suo ufficio. Da Wako ci va pure l’ambasciatore italiano, Enrico Di Maio, ma il colloquio è deludente.
“Dov’è finita la cocaina?”, domanda poi Murgor, in una lettera con cui protesta per l’andamento delle indagini. Negli ultimi mesi agli aeroporti di Londra e di Amsterdam sono stati fermati membri dell’equipaggio della Kenya Airways, la compagnia di bandiera keniota, appena sbarcati mentre cercavano di introdurre in Europa pacchetti di droga. Un documento spiega che le analisi effettuate su quel narcotico mostrano come sia dello stesso tipo di quello sequestrato a Malindi e Embakasi. “Da dove proveniva? Dalla partita sequestrata o da quella scomparsa?” chiede ancora Murgor ricordando che la nota degli investigatori olandesi parlava di ‘parecchie tonnellate’ di cocaina” e a Malindi ed Embakasi ne è stata sequestrata solo poco più di una tonnellata. Un paio di giorni fa Keriako Tobiko, l’uomo chiamato dal presidente della Repubblica a sostituire Murgor come Direttore della Pubblica Accusa ha di nuovo chiesto alla corte il permesso di bruciare la partita di droga: “per motivi di sicurezza nazionale”. Nonostante l’ambasciata americana e quella inglese sono insorte chiedendo di nuovo: “Prima testate uno per uno tutti i pacchetti”, il giudice Aggrey Muchelule (il magistrato che deve giudicare anche i Ricci e gli altri coimputati) dà il via all’operazione distruzione.
Il falò, davanti al quale saranno chiamate le telecamere, è previsto per venerdì 24 marzo alle 11. Nessuno potrà con esattezza stabilire cosa sarà bruciato, ma i diplomatici a Nairobi ne sono sicuri: “Non sarà cocaina”. La società Pepe Inland Port gestisce una parte del porto di Mombasa. Dalle sue banchine sono passati i container dentro i quali la polvere bianca è entrata in Kenya. In un primo momento era stata accusata anch’essa di aver partecipato al grande traffico.
Per difendersi si affida all’avvocato Kiriuki Muigua. In una lettera, riservata e inviata alle ambasciate a Nairobi di Venezuela, Colombia, Olanda e Stati Uniti, l’avvocato Muigua, denuncia chiaramente il Criminal Investigation Department e il suo capo James Kamau di aver depistato le indagini. L’avvocato accusa Kamau di aver inventato una parte della storia della droga. “Noi abbiano ritirato 2 container che avrebbero dovuto contenere mobili provenienti dalla Cina. Pesavano 3 tonnellate. Nelle loro indagini gli investigatori di Kamau parlano di un container solo di poco più di una tonnellata”. “Ecco la spiegazione di come sono scomparse due tonnellate – aggiunge l’ex capo dei procuratori Margor –. Potrebbe averle imboscate la polizia”.
Un fatto inquietante è poi avvenuto il 19 febbraio 2005: l’assassinio “accidentale” di Erastus Chemorei, il comandante della polizia che, nella scuola di addestramento per agenti di Mombasa, aveva in custodia la droga sequestrata a Malindi e a Embakasi Da quanto tempo quella partita di narcotico si trovava in quel campo?
“Nell’inchiesta – c’è scritto in un altro documento in possesso della presidenza della Repubblica keniota e avuto in copia da Afex – le persone intervistate hanno dato versioni diverse e contrastanti”. “E’ istruttivo ricordare – conclude la stessa nota in proposito – che Chemorei è stato ucciso da poliziotti venuti da Nairobi”. Le ambasciate occidentali a Nairobi sono preoccupate di quanto sta accadendo e hanno attivato un coordinamento per esercitare pressioni sul governo keniota affinché liberi gli italiani e gli altri accusati, che considerano detenuti illegalmente. Stranamente a queste riunioni non partecipano gli olandesi che pure dovrebbero sapere chi sono i veri trafficanti giacché, il sequestro di cocaina è avvenuto proprio grazie alla loro informativa. Il numero due dell’ambasciata dei Paesi Bassi, Gerard Duijfjes, contattato da Africa ExPress, si è chiuso in uno strettissimo riserbo. “Gli investigatori sono venuti qui da Amsterdam, ma non ci hanno consultato”, ha detto. Ha poi confermato che Anita – la moglie olandese di Gorge Kiragu, l’unico occupante keniota di Rocchi House, arrestato nei Paesi Bassi, dove aveva tentato di rifugiarsi dopo i sequestri di Malindi e di Embakasi – insegnava alla scuola olandese di Nairobi. “Ma quando gli è stato chiesto come mai non avessero controllato il curriculum della professoressa prima di assumerla a scuola”, ha salutato e chiuso il telefono. La collaborazione degli olandesi sembra essenziale per risolvere il caso dei detenuti. “Il vostro governo deve esercitare pressioni sull’Aja perché dica quello che sa – sostengono gli avvocati dei due italiani, John Khaminwa e James Gekonge Mouko -. Loro possono risolvere il caso in pochi minuti”. Intanto il tempo passa e i coniugi Ricci stanno marcendo in carcere.
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