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Progetto di legge in Malawi per punire chi espelle i gas intestinali in pubblico

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Dal Nostro Inviato Speciale
Massimo A. Alberizzi
Nairobi, 5 febbraio 2011

Se avete problemi di aria nella pancia non andate in Malawi. Il governo sta per varare una legge che punisce chi emette flatulenze in pubblico. La notizia è stata riportata dalla BBC tra il serio e il faceto. In effetti nel Paese africano, incastonato tra il Mozambico, lo Zambia e la Tanzania, sulla questione si è aperto un acceso dibattito. Chi è favorevole non ha alcun dubbio: “Chi vizia l’atmosfera in ogni luogo in modo da renderla nociva per la salute delle persone intorno, sia che stiano lavorando o che passino vicini per qualsivoglia motivo, comunque in un luogo pubblico, commette un reato”.

Tra i promotori della nuova legge c’è il ministro della giustizia, secondo cui, l’ha sostenuto durante una trasmissione alla radio, “criminalizzare le flatulenze serve a incoraggiare la pubblica decenza. Quando sentite che state per cacciare aria puzzolente, filate in gabinetto”, ha esortato indicando nei capi locali quelli che dovrebbero occuparsi dei trasgressori.

Anthony stringe naso.jpg

Ma il ministro è stato contestato dal procuratore generale Anthony Kamanga, secondo cui l’aria intestinale non ha le caratteristiche di un inquinante atmosferico. “Come ogni persona ragionevole e sensata può interpretare, la disposizione di criminalizzare chi rilascia aria in pubblico è oltre ogni limite,” ha detto. Ha poi ricordato che il divieto di liberarsi dell’aria in pubblico, presente nei codici, è stato abolito nel 1929.

La BBC ha intervistato un cittadino del Malawi che è scoppiato a ridere quando gli hanno chiesto di commentare la notizia: “Come può questo governo criminalizzare il rilascio di gas intestinali. Certo ognuno sa che, in pubblico e soprattutto se è accompagnato da un suono, è piuttosto sgradevole. Ma renderlo un atto criminale è uno scherzo alla democrazia”.

Secondo il sito Afrik News nel disegno di legge vengono prese misure giudiziarie anche contro chi si rifiuta di seppellire i maghi, gli indovini e gli stregoni.

Massimo A. Alberizzi
© RIPRODUZIONE RISERVATA

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Due morti a Nairobi dopo il tentativo di rapina al direttore di Africa ExPress

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Dal Nostro Inviato Speciale
Massimo A. Alberizzi
Nairobi, 17 novembre 2010

La sparatoria tra un gruppo di poliziotti e tre banditi che mi avevano appena rapinato è finita tragicamente: un agente e un gangster sono rimasti uccisi.

Il primo era riverso sul marciapiede e se non fosse per il fiotto di sangue che continuava a uscire dal buco in testa sembrava dormisse. Il secondo è stato freddato in un negozio di macchine fotografiche in cui si era rifugiato.INGRESSO DI IH 2

I suoi due complici sono riusciti a fuggire. Il tutto è avvenuto in una via centralissima della capitale keniota. Nairobi ormai è stata ribattezzata Nairobbery, una crasi tra il nome della città e la parola robbery che in inglese significa furto, rapina.

La mia auto era parcheggiata in una piccola ma centralissima via, General Kago street. Ero arrivato intorno alle due e, dopo aver partecipato a una conferenza stampa e fatto una commissione, ero andato a mangiare qualcosa in un bar, il caffè Java, vicinissimo all’ambasciata italiana. Pago il conto alle 15,41 e torno alla macchina.

Sto mettendo in moto quando sento qualcuno che scuote violentemente il veicolo. So che questa è una tecnica usata dai ladri. Ti distraggono, tu abbocchi e loro ti derubano di tutto quello che c’è nell’abitacolo. Perciò non mi muovo, chiudo le sicure delle portiere e aspetto un minuto. Solo quando l’uomo si allontana apro la mia porta. Ma con la mia sicura scatta anche la sicura delle altre porte. Scendo dalla macchia e la richiudo. Un secondo ladro dev’essere accucciato accanto alla porta del passeggero. La apre quando io scendo e sfila la mia borsa con dentro il computer e altri apparecchi elettronici. Si porta via anche il mio Ipad che era appoggiato in carica sul pavimento dell’auto. Un terzo ladro mi aspetta fuori e dice: “Ti hanno distrutto la macchina. Guarda qui”.international-house

E poi indicandomi un uomo che si allontana: “E’ stato lui”. Forse spera che io lo insegua così, con il complice accucciato, può svaligiare completamente il veicolo. Ma io non mi muovo e rientro nell’auto. In quel momento mi accorgo che borsa e Ipad sono spariti. Tutta l’azione è durata meno di un minuto.

Scendo dall’auto e la chiudo con le sicure. La zona è frequentatissima ci sono guardie private da tutte le parti. Nessuno sembra aver visto niente.

Chiedo dov’è il posto di polizia più vicino. Ce n’è uno dentro International House il grattacielo dove c’è l’ambasciata italiana. Telefono a una collega che lavora lì e le racconto velocemente cosa mi è accaduto, poi corro al mezzanino dalla polizia e sporgo denuncia.

Ruth, la gentilissima capo della piccola stazione, chiede di ritornare assieme all’auto perché possa spiegarle meglio cosa è successo. Arriviamo sul posto lei prende appunti e torniamo nel suo ufficio. Mi suggerisce di andare alla polizia centrale perché c’è una sezione speciale, la Central Investigation Unit, che può rintracciare il telefono che era nella borsa che mi è stata rubata.

Sono le 16,35. Vorrei fare un paio di fotocopie della denuncia e telefona alla mia collega per chiedere se posso salire. Ma lei è già fuori, sta andando a casa. Ripiego così su una cartoleria poi torno alla macchina e mi dirigo verso la questura centrale, vicinissima all’Hotel Norfolk, un prestigioso hotel ai margini del centro. Entro nell’edificio e cerco gli uffici della Central Investigation Unit, quando la collega, con voce concitata mi chiama al telefono: “Massimo, sono spaventatissima. Avevo anch’io posteggiato vicino general Kago street. Quando sono arrivata alla mia macchina è scoppiata una sparatoria, hanno ammazzato due persone davanti a me”. Sembra quasi che stia per scoppiare a piangere ma continua: “Potrebbero essere i rapinatori che ti hanno attaccato. Vai lì, ma stai attento perché lo scontro potrebbe non essere terminato”.

Lascio la mia auto nel recinto delle questura centrale e a piedi corro sul posto. La sparatoria è finita. Sul selciato del marciapiede, accanto alla porta del negozio di fotografia c’è un cadavere: è quello dell’agente. Dal buco in testa sgorgano ancora fiotti di sangue.

Dentro il magazzino c’è un altro corpo a terra. E’ immerso in una pozza rossa. Accanto c’è la mia borsa e un revolver. Mi rivolgo a quello che sembra il capo degli investigatori. “Sir, that bag is mine”. Signore quella borsa è mia, gli spiego indicandogliela e mostrando la copia della denuncia appena fatta. C’è anche Ruth. Mi rivolgo anche a lei che capisce al volo.

“Un agente in borghese – racconterà più tardi – ha visto i banditi che ti rapinavano. Li ha seguiti e ha chiesto aiuto via radio. Quando i rinforzi sono arrivati li ha bloccati e ha cercato di perquisirli. Loro hanno reagito e ammazzato il mio collega. E’ scoppiata una sparatoria e così anche il bandito che si era rifugiato nel negozio è rimasto ucciso. Gli altri due sono riusciti a scappare, ma li ritroveremo. Dopo un’ora torniamo alla questura centrale. Assieme all’agente controlliamo il portafoglio del gangster ammazzato, e il revolver scassatissimo, arrugginito e con il manico in pezzi, che aveva in mano. L’ispettore Peter lo prova ma non spara: i proiettili sono finiti. Verifichiamo anche il contenuto della borsa. C’è quasi tutto: il computer è un po’ ammaccato, manca l’Ipad e le flash card che permettono di connettersi a internet.

Resto in caserma altre quattro ore. L’agente William prende la mia deposizione scritta con una penna stilografica e una bellissima e chiarissima calligrafia. Una deposizione dettagliatissima su aspetti assolutamente insignificanti (ha voluto sapere perfino in cosa, dove e quando mi sono laureato!) nella quale ho chiesto che venissero inseriti un plauso all’operato della polizia, le condoglianze alla famiglia dell’agente ucciso e la speranza di ritrovare il mio Ipad.

Massimo A. Alberizzi
malberizzi@africa-express.it
twitter @malberizzi

Nella foto International House, il palazzo dove c’è il posto di polizia e la sede dell’ambasciata italiana

I fondamentalisti cristiani all’assalto dell’Uganda Primo obbiettivo la legge anti gay

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Massimo A. Alberizzi
10 ottobre 2010
Le sette fondamentaliste cristiane americane hanno individuato da diversi mesi l’Uganda come obbiettivo per le loro campagne contro l’omosessualità. I gruppi conservatori, penetrati nel Paese grazie ai consistenti finanziamenti pubblici stanziati dall’amministrazione del presidente George W. Bush, hanno fatto un pesante lavoro di lobbying sui parlamentari, ma non solo. La propaganda antigay è fiorita sui giornali, sui pamphlet, sui volantini.

Superstizioni africane, in Tanzania un albino fatto a pezzi e bollito vale 220 mila euro

Massimo Alberizzi FrancobolloDal Nostro Inviato Speciale
Massimo A. Alberizzi
Nairobi, 22 agosto 2010

Ha tentato di vendere per 220 mila euro l’amico albino agli stregoni che l’avrebbero ammazzato, smembrato, fatto a pezzi come un pollo, bollito e trasformato in una pozione cotta per garantire, a chi l’avesse bevuta, ricchezze e buona salute. Così un keniota, arrestato in Tanzania, è stato condannato per direttissima a 17 anni di galera.

La storia allucinante comincia a Kitale, in Kenya, dove Nathan Mutei, 28 anni, convince l’amico albino, Robinson Mkwama, 20 anni, a seguirlo in Tanzania. Gli promette un lavoro da autista di autobus. Le superstizioni da quelle parti sono dure a morire. Gli albini, che in Africa sono parecchi, molti di pù che in Europa, sono considerati portatori di sventure e catastrofi. Così Robinson appena dopo la nascita viene abbandonato dal padre e dalla madre, che non vogliono problemi causati da quel bambino così bianco e diverso dagli altri fratelli e sorelle. Lui cresce in un orfanotrofio di Nairobi, la capitale del Kenya, finché, l?anno scorso, viene adottato da una donna di Kitale, nella Rift Valley, che lo fa lavorare come guardiano nel suo albergo, il Motherland Hotel.

L'albino (zeruzeru in lingua swahili) Robinson Mkwama salvato dalla polizia in Tanzania
L’albino (zeruzeru in lingua swahili) Robinson Mkwama salvato dalla polizia in Tanzania

Lì Robinson incontra Nathan e i due diventano amici. Ma Nathan già pensa al suo nuovo compagno come a una montagna di soldi e prende contatto con alcuni stregoni che abitano in Tanzania e si occupano di magia nera. Lui sa che gli albini valgono parecchio e che ne sono stati ammazzati tanti, anche ultimamente. Cosi convince l’amico “muzungu” (cioè bianco in swahili, termine che è normalmente usato per gli europei ma che è stato affibbiato come nomignolo a Robinson) a seguirlo.

Inventa di sana pianta di essere stato convocato a Mwanza, in Tanzania, perché c’è per entrambi un buon lavoro ben pagato: conducente di autobus. Robinson, che dalla nascita viene trattato come un paria e un reietto, crede alle promesse dell’amico, forse l?unico amico (almeno così crede) che ? a parte la madre adottiva – ha avuto nella sua vita. E entusiasta decide di seguirlo.

Quando arrivano a Mwanza, i membri di un’associazione di buoni samaritani le notano: “Che ci fa lì quel keniota con l’amico albino?”, si chiedono e avvisano la polizia. Gli agenti, li tengono d?occhio e si accorgono che Nathan prende contatto con alcuni stregoni. Si fingono così loro stessi acquirenti e si sentono chiedere l’equivalente di 220 mila euro in cambio di Robinson. Vivo. Avrebbero dovuto pensarci loro ad ammazzarlo, farlo a pezzi e ad utilizzare come avessero voluto le parti del suo corpo. Anzi, se avessero preferito, avrebbero potuto smembrarlo da vivo. Il rito macabro di magia nera avrebbe avuto più effetto. I poliziotti salvano l?albino da una fine orrenda e arrestano Nathan che viene processato per direttissima e condannato a 17 anni di prigione con due capi di imputazione: traffico di esseri umani e sequestro di persona al fine di omicidio. Ora Robinson vive protetto dalla polizia tanzaniana in un luogo segreto. Le autorità temono che possa subire vendette e ritorsioni.

Da secoli parti del corpo umano vengono utilizzate in Africa nelle pratiche di magia nera. Per procurarsi la materia prima i mercanti di morte ammazzano gli albini li tagliano in pezzi che rivendono agli stregoni. Una pratica normale (quasi tollerata) prima dell’indipendenza. Oggi che l’omicidio viene punito severamente, l’unico modo per procurarsi braccia gambe, occhi, testicoli e seni degli albini (attenzione: non si butta nulla dal corpo) è sul mercato nero: dagli assassini trafficanti di organi.

La scomparsa da casa degli albini in alcuni Paesi dell’Africa nera è quasi una routine. Si calcola che dal 2007 siano stati ammazzati 53 albini in Tanzania e 11 in Burundi.

Secondo il South African Police Service Research Centre, il centro di ricerca della polizia sudafricana, è radicata la convinzione che le parti del corpo prelevate da vittime vive abbiano un?azione più potente, grazie alle loro urla. Dunque prima di ammazzare un albino è bene farlo soffrire, meglio con tanto dolore. Omicidi rituali sono stati segnalati in Mozambico la cui polizia comunque indaga su traffici di organi anche per trapianti. Al mercato della superstizione secondo la polizia keniota è molto ricercata la pelle umana. Casi di persone scuoiate sono  state segnalati casi a Mbeya regione della Tanzania e Mwiki periferia di Nairobi. La pelle umana viene utilizzata però soprattutto in Malawi, Zambia, Mozambico e Sud Africa. Quella di un individuo adulto si può comprare per un prezzo che varia da 2 mila a 9 mila euro a seconda dell?età del corpo.

Nel tentativo di sensibilizzare l’opinione pubblica, il governo della Tanzania durante una fiera internazionale a Dar Es Salaam ha organizzto una mostra in cui sono stati esibiti al pubblico pelle e altre parti del corpo umano.

Il record degli massacri rituali tocca alla Nigeria, le storie di sacrifici rituali vengono, tra l’altro, narrate nei film girati dalla fiorente industria cinematografica dell’ex colonia britannica. Gli omicidi sono perpetrati da persone conosciute come “cacciatori di teste” che agiscono su ordine di stregoni conclamati.

Massimo A. Alberizzi
massimo.alberizzi@gmail.com
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Nella foto Robinson Mkwama, 20 anni, l’abino salvato dalla polizia in Tanzania

 

Raid americano in Somalia: ucciso Saleh Nabhan, un leader di al Qaeda

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Dal Nostro Inviato
Massimo A. Alberizzi
Da Bordo della fregata Libeccio, 16 settembre 2009

Con un raid a sorpresa un gruppo di truppe d’elite americane trasportate da almeno due elicotteri (secondo alcune fonti sarebbero addirittura sei), partiti da una o due navi da guerra che incrociano davanti alle coste somale, ha attaccato un convoglio di due automobili e ammazzato uno dei terroristi più ricercati del mondo: Saleh Ali Saleh Nabhan.

L’attacco, durato 15 minuti, è avvenuto nei pressi di Brava, un centinaio di chilometri a sud di Mogadiscio, area controllata dai fondamentalisti. Gli incursori hanno recuperato due corpi, quello di Nabhan e di un suo compagno, e sono scomparsi nella nuvola di polvere rossa sollevata dai velivoli.

Saleh Ali Saleh NabhanDavanti alle coste somale staziona la portaerei Anzio, ma la sua missione comporta soprattutto compiti di antipirateria. La marina USA ha però altre unità nell’area da mesi impegnate in incarichi di antiterrorismo. Dipendono dalla base che Washington ha costituito nel 2001 a Gibuti dopo gli attentati alle due torri.

NABHAN – Nato a Mombasa, in Kenya il 4 aprile 1979, Nabhan era uno dei “most wanted”, cioè dei più ricercati, dall’FBI, che sulla sua testa aveva messo una taglia di 25 milioni di dollari. Il terrorista era ricercato dal 2002 dopo gli attentati di Mombasa contro l’albergo Paradise che ospitava turisti israeliani e un aereo delle linee israeliane Arkia diretto a Gerusalemme. Si sapeva che dopo quegli attacchi era fuggito in Somalia e si era unito ai gruppi fondamentalisti, anche se si sospetta che possa essere tornato clandestinamente in Kenya per organizzare cellule di estremisti islamici.

A Mogadiscio gli shebab (i gruppi estremisti che combattono il governo), alla notizia della morte del loro compagno, hanno giurato vendetta: «Ora testeranno la qualità delle nostre risposte», ha dichiarato alla BBC uno de loro leader. A Mombasa la moglie del terrorista ucciso ha annunciato di aver cominciato i quaranta giorni di lutto.

L’ultimo raid americano per colpire un terrorista era stato organizzato il primo maggio 2008. Quel giorno fu ucciso Adan Hashi Aeru. La casa dove dormiva fu colpita da un missile lanciato da una nave americana. Tra i grandi terroristi ricercati dall’FBI in Somalia resta ora Fazul Harun (o Fazul Abdallah) l’uomo che nel 1998 ha organizzato gli attentati contro le ambasciate americane di Nairobi e Dar es Salaam. 

Massimo A. Alberizzi
massimo.alberizzi@gmail.com
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Libero il Baccaneer: pagato il riscatto ha lasciato la Somalia

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Dal Nostro Inviato Speciale
Massimo A. Alberizzi
Nairobi, 10 agosto 2009

Dunque finalmente il rimorchiatore italiano Buccaneer, sequestrato l’11 aprile dai pirati somali è stato liberato assieme al suo equipaggio: 10 connazionali, cinque rumeni e un croato. A Roma il ministro degli esteri, Franco Frattini, ha sostenuto che non è stato pagato alcun riscatto. I pirati, raggiunti a bordo, ieri sera, prima di rilasciare nave ed equipaggio, avevano invece raccontato che stavano contando 4 milioni di dollari.

Secondo quanto riferito ad Africa ExPress da Andrew Mwangura, che da Mombasa, in Kenya, coordina il monitoraggio delle acque dell’Oceano Indiano attraverso l’organizzazione East African Seafarers’ Assistance Programme,  “è stato pagato un riscatto che va da 4 a 5 milioni di dollari”.

In this photo released by the US Navy on November 10, 2008, the crew of the hijacked merchant vessel MV Faina stand on the deck on November 9 after a US Navy request to check on their health and welfare, at sea off the coast of Somalia. The Belize-flagged cargo ship owned and operated by Kaalbye Shipping, Ukraine, was seized by pirates September 25 and forced to proceed to anchorage off the Somali Coast. The ship is carrying a cargo of Ukrainian T-72 tanks and related military equipment. MCS2 Jason R. Zalasky/ RELEASED RESTRICTED TO EDITTORIAL USE = GETTY OUT =
In this photo released by the US Navy on November 10, 2008, the crew of the hijacked merchant vessel MV Faina stand on the deck on November 9 after a US Navy request to check on their health and welfare, at sea off the coast of Somalia. The Belize-flagged cargo ship owned and operated by Kaalbye Shipping, Ukraine, was seized by pirates September 25 and forced to proceed to anchorage off the Somali Coast. The ship is carrying a cargo of Ukrainian T-72 tanks and related military equipment. MCS2 Jason R. Zalasky/ RELEASED RESTRICTED TO EDITTORIAL USE = GETTY OUT =

Ecoterra un altro autorevole gruppo, impegnato a seguire le azioni dei pirati somali, scrive sul suo notiziario che già alcune settimane fa i bucanieri hanno ricevuto 250 mila dollari a patto che non parlassero più con i giornalisti.

Ecco probabilmente perché il telefono satellitare di bordo è stato spento e sono stati attivati nuovi numeri di cellulare con cui le autorità italiane hanno tenuto i contatti con i rapitori.

Festa grande a bordo del Buccaneer – dove l’equipaggio ha finalmente mangiato un pasto decente portato a bordo dagli ufficiali italiani dalla nave militare San Giorgio che per tutto questo tempo è stata di vedetta poco lontano dal rimorchiatore sequestrato – ma festa grande a che a Las Qorey, il villaggio di pescatori dove vivono i pirati, tornati a terra con il loro riscatto.

Conferma un alto funzionario del governo del Puntland, la regione semiautonoma del nord della Somalia. “Senza il pagamento di una forte somma i pirati non sarebbero mai stati convinti a rilasciare nave ed equipaggio. Ha sbagliato il governo italiano a pagare. Così la pirateria non si sconfigge e ogni riscatto pagato inventiva altri pescatori a cambiare mestiere e trasformarsi in banditi del mare. Rende molto di più”.

Massimo A. Alberizzi
massimo.alberizzi@gmail.com
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Gli ostaggi di MSF liberati in Darfur, pagato il riscatto, Frattini smantisce

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Dal Nostro Inviato Speciale
Massimo A. Alberizzi
Nairobi, 15 marzo 2009

Finalmente liberi i quattro operatori umanitari di Medici Senza Frontiere Belgio rapiti mercoledì a Seraf Umra nel nord Darfur. Hanno raggiunto Khartoum ieri sera abbastanza tardi. Il medico italiano Mauro D’Ascanio, l’infermiera canadese Laura Archer e il coordinatore sanitario francese Raphael Meonier, nel pomeriggio erano stati prelevati da un elicottero militare sudanese dal luogo di detenzione e portati a El Fasher, capitale del nord Darfur. Lì un aereo li ha caricati a bordo e hanno potuto così raggiungere la capitale sudanese dove li ha accolti l’ambasciatore italiano Roberto Cantone e una delegazione di Msf, che li ha presi in consegna e li ha portati all’ospedale centrale di Khartoum per i primi accertamenti sullo stato di salute. Sono comunque in buone condizioni, la loro prigionia è durata meno di tre giorni.

croce rorraResta il mistero di cosa sia accaduto nelle ultime 24 ore. Venerdì sera la loro liberazione era stata data per certa dalla Farnesina e da Msf. Poi però era giunta la smentita del governatore del nord Darfur, che aveva, senza mezzi termini, criticato il ministero degli esteri italiano per aver diffuso una notizia “non corretta”. “Sto trattando io la liberazione – aveva detto Osmane Mohammed Yousif Kibir, parlando al servizio arabo della BBC – . Gli ostaggi sono ancora prigionieri”. Poi, contattato al telefono dallo stringer di Africa ExPress a Khartoum, aveva aggiunto: “Impossibile che siano stati rilasciati. I soldi sono ancora sulla mia scrivania!”

Secondo fonti confidenziali del governo sudanese, tutte da verificare, l’accordo sulla liberazione era stato veramente raggiunto venerdì ma, all’ultimo momento, si è verificato un intoppo. Tra le richieste iniziali dei rapitori – un gruppo filogovernativo conosciuto come Border Gards (Guardie di frontiera) – non figurava solo  un milione di dollari di riscatto, ma soprattutto l’impegno della Francia a muoversi per cancellare il mandato d’arresto della Corte Penale Internazionale (Cpi) contro il presidente sudanese Omar Al Bashir per crimini contro l’umanità e crimini di guerra.

La pretesa aveva imbarazzato non poco lo stesso governo sudanese che, durante le trattative, aveva chiesto alla gang di rapitori di non insistere. Una parte del gruppo aveva accettato, ma l’ala più oltranzista, e più realista del re, non aveva intenzione di cedere e si era rifiutata di consegnare gli ostaggi. Da qui il ritardo. Il negoziato era continuato serrato ieri mattina, finché sono dovute intervenire le sfere più alte del regime (qualcuno dice lo stesso Al Bashir) per convincere i più radicali. Alla fine ci sono riusciti, la rivendicazione politica è stata abbandonata ma sul riscatto non c’è stato niente da fare.

** FILE ** In this Monday, April 23, 2007 file photo, Sudanese Darfur survivor Ibrahim holds human skulls at the site of a mass grave where he says the remains of 25 of his friends and fellow villagers lie, on the outskirts of the West Darfur town of Mukjar, Sudan. The International Criminal Court issued an arrest warrant Wednesday, March 4, 2009 for Sudanese President Omar al-Bashir on charges of war crimes and crimes against humanity in Darfur. (AP Photo/Nasser Nasser, File)
** FILE ** In this Monday, April 23, 2007 file photo, Sudanese Darfur survivor Ibrahim holds human skulls at the site of a mass grave where he says the remains of 25 of his friends and fellow villagers lie, on the outskirts of the West Darfur town of Mukjar, Sudan. The International Criminal Court issued an arrest warrant Wednesday, March 4, 2009 for Sudanese President Omar al-Bashir on charges of war crimes and crimes against humanity in Darfur. (AP Photo/Nasser Nasser, File)

Le autorità sudanesi immediatamente hanno detto che non si doveva versare un soldo, ma la prigionia sarebbe andata ancora avanti per qualche giorno. Per velocizzare il rilascio qualcuno ha deciso di pagare “le spese”. Dal milione iniziale si è scesi a 400/500 mila dollari, probabilmente pagati dai tre governi interessati. Il ministro degli esteri italiano, Franco Frattini ha smentito che sia stato pagato alcun riscatto.

Comunque ieri pomeriggio l’elicottero militare ha potuto raggiungere il luogo di detenzione e portare via gli ostaggi, risparmiando loro un viaggio in auto di più di quattro ore sulle disastrate piste darfuriane.

Christopher Stokes, direttore generale di MSF Belgio ha detto di essere indignato per il rapimento “che rappresenta una grave violazione di tutto ciò per cui ci battiamo. Il sequestro di operatori umanitari mette in pericolo l’assistenza alle popolazioni. Il nostro lavoro medico indipendente deve essere rispettato se vogliamo continuare a operare in zone di conflitto per salvare le vite ci coloro che soffrono di più.”.

“Questo rapimento  – ha concluso il direttore di MSF Belgio – rappresenta un’escalation dell’insicurezza che gli operatori umanitari devono fronteggiare in Darfur. Come conseguenza MSF è stata costretta a ridurre notevolmente tutte le attività mediche nella regione”.

Massimo A. Alberizzi
massimo.alberizzi@gmail.com
twitter @malberizzi

Darfur, liberati i 4 cooperanti Msf Il rilascio dopo il giallo sulla liberazione

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Dal Nostro Inviato Speciale
Massimo A. Alberizzi
Nairobi, 14 marzo 2009

Indietro tutta. Gli ostaggi di Medici Senza Frontiere Belgio rapiti la sera di mercoledì a Seraf Umra nel nord Darfur, non sono stati liberati. Ieri sara la Farnesina, violando un silenzio stampa da lei chiesto perentoriamente, aveva trionfalmente annunciato: “Sono liberi”. Invece a tarda sera aveva fatto macchina indietro “Stiamo verificando”. Il medico italiano Mauro D’Ascanio, l’infermiera canadese Laura Archer, il coordinatore sanitario francese Raphael Meonier e una delle loro guardie sudanesi, dunque, sono ancora nelle mani della gang che li ha catturati.

Ieri sera infatti – dopo l’annuncio della Farnesina – era apparso  strano che mancassero ancora i dettagli sulla liberazione e in particolare nessuna autorità, né le famiglie, avessero ancora parlato con i tre volontari, nemmeno Medici Senza Frontiere. Sulla loro sorte era nata quindi un po’ di confusione. Tanto che più tardi il ministero degli Esteri è stato costretto a precisare: “Alla luce del mancato contatto di Medici Senza Frontiere con i loro operatori coinvolti nel sequestro, stiamo cercando di verificare quanto precedentemente appreso sulla liberazione”. Stamattina alle 7.30 ora italiana radio Omdurman, monitorata a Khartoum dallo stringer di Africa ExPress ha annunciato che saranno liberati entro poche ore.Unamid in Darfur

Gli ostaggi, secondo quanto appreso nella capitale sudanese, avrebbero dovuto viaggiare in auto quattro ore per raggiungere dal luogo della loro detenzione, la città più vicina, El Fasher. L’attesa è stata vana. Finora agli uffici dell’ONU del capoluogo del nord Darfur non si è presentato nessuno.

Altri dubbi sulla liberazione erano sorti quando il governo del nord Darfur, contattato a tarda sera al telefono dallo stringer del Corriere a Khartoum, si era rifiutato di confermare la liberazione. Poco dopo lo stesso governatore, Osmane Mohammed Yousif Kibir, parlando al servizio arabo della Bbc aveva dichiarato: “L’informazione del ministero degli Esteri italiano non è corretta. Sono io che sto trattando con i sequestratori che hanno ancora in mano gli ostaggi”. Nessuna conferma della liberazione era stata data dalle autorità francesi e canadesi.

Forse a trarre in inganno Medici Senza Frontiere (che per primo ha dato la notizia) era stata la dichiarazione di ieri pomeriggio del sottosegretario agli Esteri sudanese Mutrif Siddig: “Sono cominciate le trattative per il loro rilascio”, aveva sostenuto, senza menzionare l’ammontare del riscatto richiesto: un milione di dollari.

“Non è stato pagato alcun prezzo”, aveva aggiunto Msf nel suo comunicato sulla liberazione, forse per compiacere alla Farnesina che, anche davanti all’evidenza, nega sempre che siano pagati riscatti in cambio di liberazioni.

Il luogo in cui sono stati tenuti gli ostaggi, secondo informazioni che vengono dall’intelligence sudanese a Nairobi, “è isolato in mezzo alla boscaglia e lontano da villaggi”. La stessa fonte ammette: “Nel commando che li ha portati via mercoledì sera c’era un uomo che portava un’uniforme. Difficile dunque che si tratti di banditi ma piuttosto di miliziani filogovernativi”.

Le richieste iniziali dei rapitori non riguardavano solo un milione di dollari di riscatto, ma anche l’impegno della Francia a sostenere la richiesta al Consiglio di Sicurezza, che si discuterà nei prossimi giorni, di procrastinare di un anno l’esecuzione del mandato di cattura per crimini di guerra e contro l’umanità emesso dalla Corte Penale Internazionale contro il presidente sudanese Omar Al Bashir.

Mutrif Siddig ieri aveva anche smentito questa notizia pubblicata da un giornale arabo. E aveva aggiunto — per rassicurare le ambasciate occidentali — che non era nelle intenzioni del governo di organizzare blitz per liberare gli ostaggi.

In ogni caso quello dei tre cooperanti sembra un sequestro anomalo, probabilmente da attribuirsi non a banditi comuni, né a ribelli darfuriani, ma piuttosto a sostenitori del presidente Omar Al Bashir.

Il Jem (Justice and Equality Movement), il gruppo ribelle più forte e attivo in Darfur, ha accusato Mussa Hilal, uno dei capi riconosciti dei Janjaweed, i miliziani arabi che scorrazzano su puledri o su cammelli, bruciano i villaggi, seviziano e ammazzano le popolazioni di origine africana, di avere organizzato il rapimento, per ammorbidire le posizioni della Cpi.

Il sequestro ha provocato la partenza in massa del personale internazionale delle organizzazioni umanitarie. La popolazione del Darfur e i rifugiati (che le Nazioni Unite calcolano in 2,7 milioni) nei campi di sfollati resteranno praticamente senza assistenza.

Massimo A. Alberizzi
massimo.alberizzi@gmail.com

Darfur, localizzati i cooperanti rapiti: “È stato chiesto un maxi riscatto”

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Dal Nostro Inviato Speciale
Massimo A. Alberizzi
Nairobi, 13 marzo 2009

Stanno bene e sono stati localizzati dalle autorità sudanesi i tre cooperanti di Medici Senza Frontiere Belgio rapiti mercoledì sera a Seraf Umra, in nord Darfur, da un commando di uomini armati fino ai denti. Il medico italiano Mauro D’Ascanio, l’infermiera canadese Laura Archer e il coordinatore sanitario francese Raphael Meonier hanno potuto parlare con i loro colleghi e rassicurarli sulle loro condizioni di salute. Intanto insistenti voci a Khartoum parlano di un milione di dollari di riscatto chiesti per ottenere il loro rilascio.

Il governo ha fatto sapere che riuscirà a chiudere la vicenda il un paio di giorni segno che le autorità avrebbero qualche influenza sui rapitori. La zona del sequestro è controllata dai governativi e si teme che la banda possa far parte dei miliziani janjaweed, i famosi diavoli a cavallo. Il gruppo avrebbe agito su ordine preciso delle autorità centrali. Resta il fatto, accertato, che si tratta di arabi bianchi e non di africani neri.

dascanio liberato

In un comunicato inviato ai corrispondenti occidentali a Nairobi, Hassabo Abdel-Rahman dell’ufficio degli affari umanitari del governo sudanese, ha annunciato appunto che i tre rapiti hanno potuto telefonare ai loro colleghi di MSF e assicurarli che non è stato torto loro un capello. “Abbiamo interrogato le due guardie sequestrate con loro qualche attimo e poi rilasciate ma non ci hanno fornito elementi per individuare i rapitori. Non sappiamo ancora chi siano. E’ un atto isolato e immorale”, ha concluso Abdel-Rahman.

Ahmed Hussein Aden, portavoce del JEM (Justice and Equality Movement), principale movimento ribelle, che si trova nella sua base in Darfur, contattato al telefono satellitare, usa parole durissime: “Da informazioni precise, sappiamo che il commando dei rapitori era composto da 9 miliziani arrivati con una camionetta. Fanno parte di un gruppo janjaweed chiamato Border Guard. I tre occidentali sono stati portati a Gellyh un campo paramilitare a nord est di Kebkabiya, quartier generale di Mussa Hilal, uno dei più sanguinari capi delle milizie filogovernative”.

E’ la prima volta che si registra un rapimento in Darfur. Si teme soprattutto per la vita del volontario francese. Nei giorni scorsi il presidente Nicolas Sarkozy è stato assai duro con il capo dello stato Omar Al Bashir, contro il quale il 4 marzo è stato autorizzato dalla Corte Penale Internazionale un mandato d’arresto per crimini di guerra e crimini contro l’umanità.

Gli ambienti diplomatici delle Nazioni Unite a Khartoum sono assai preoccupati della piega che potrebbero prendere gli avvenimenti. Qualche giorno fa il presidente Bashir aveva minacciato di espellere dal Paese tutti i diplomatici occidentali e tutte le Ong se non avessero rispettato le leggi locali, una delle quali, recente, proibisce di collaborare con gli investigatori della Corte Penale Internazionale.

Le trattative con i rapitori sulla base della richiesta di un riscatto sono state confermate dall’Unamid, la missione mista Unione Africana/Nazioni Unite in Darfur. Josephine Guerriero, portavoce dell’organizzazione a Khartoum, contattata al telefono dal Corriere, ha raccontato: “Alcune richieste sono state già avanzate”.

Non si esclude che le rivendicazioni possano anche essere politiche: una pressione sul Consiglio di Sicurezza che nei prossimi giorni dovrà decidere se rimandare di un anno l’esecuzione del mandato di cattura nei confronti del presidente Al Bashir.

Hassan Al Turabi, l’islamista e oppositore storico di Bashir uscito di galera l’8 marzo, per aver dichiarato in gennaio che il presidente sudanese avrebbe dovuto consegnarsi alla Corte Internazionale per evitare al Paese sanzioni internazionali, non ha dubbi. Turabi (certamente uomo di gran coraggio) al telefono con il Corriere sentenzia: “I rapitori? Probabilmente servi del governo. La nazionalità dei sequestrati non deve avere importanza. Erano qui per aiutare la popolazione. Questa è una minaccia contro le organizzazioni umanitarie per impedirgli di continuare a lavorare”.

Subito dopo il rapimento Msf ha annunciato la chiusura di tutte le attività nella provincia occidentale sudanese. Qualche giorno fa erano stati espulse le sezioni olandese e francese dell’agenzia, assieme ad altre 11 organizzazioni non governativa. La catastrofe umanitaria rischia di diventare sempre più smisurata

Massimo A. Alberizzi
massimo.alberizzi@gmail.com
twitter @malberizzi

Sudan, Bashir libera il suo oppositore storico Hassan Al Turabi

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Dal Nostro Inviato Speciale
Massimo A. Alberizzi
Nairobi, 9 marzo 2009

Hassan al Turabi, l’ideologo islamico ex alleato del presidente sudanese Omar Al Bashir al momento del colpo di Stato che lo portò al potere il 30 giugno 1989, è stato liberato stanotte alle 23 dalla prigione di Port Sudan. Alle 3 del mattino un aereo militare l’ha riportato a Khartoum. Turabi è tra i più fieri oppositori del regime militare sudanese ed era stato messo in manette per l’ennesima volta il 14 gennaio dopo aver dichiarato ai giornalisti che «Al Bashir farebbe bene a consegnarsi al tribunale internazionale per evitare altre sofferenze al Paese e alla sua popolazione». Considerato dagli americani un vicino ad Al Qaeda o comunque ai fondamentalisti radicali, Hassan Al Turabi è l’unico leader politico sudanese che gode di un prestigio e di un’autorevolezza tali da poter impensierire politicamente Bashir e i suoi amici. Le sue opinioni – rilasciate in diverse interviste al Corriere della Sera – non sono per nulla integraliste, ma piuttosto liberali, naturalmente visto il contesto islamico e sudanese. Turabi, 77 anni nel febbraio scorso, ha studiato alla Sorbona di Parigi e a Londra e parla correntemente francese e inglese. E così le sue tre figlie che non solo non usano il burqa ma coprono il capo con un velo leggerissimo che lascia intravedere capelli e collo.

Hassan Al Turabi con Massimo Alberizzi durante un’intervista tre anni fa

LA MOGLIE: «SONO FELICE» – Al telefono di casa Turabi risponde la moglie Wisal, sorella di un altro leader politico sudanese, Sadiq Al Mahadi, primo ministro al momento del colpo di stato di Bashir. «Siamo felicissimi anche se non sappiamo perché è stato rilasciato. Per altro non abbiamo mai saputo perché è stato imprigionato. Non gli sono mai state rivolte accuse specifiche. Mio marito è stanchissimo e dorme. Ha i postumi di una brutta polmonite. Gli hanno ridato anche il passaporto», conclude con un ottimo inglese.

LA SCELTA DI BASHIR – Con la liberazione del suo più acerrimo nemico, Bashir tenta di blandire l’opinione pubblica islamica. Con il viaggio in Darfur di domenica ha voluto sfidare la Corte Penale Internazionale che ha spiccato un mandato di cattura contro di lui. Ha così ribadito che è in controllo della situazione. La scarcerazione di Turabi invece è una mossa per ammorbidire l’opposizione interna, soprattutto islamica, ma anche politica; quella della setta Ansar e del suo braccio operativo, il partito Umma, dell’ex primo ministro Sadiq Al Mahadi, e quella del partito-setta Khatmia dell’ex presidente Osman Al Mirghani. Sadiq e Mirghani sono stati cacciati da Bashir con il colpo di stato del 1989 che lo portò al potere. Il presidente oggi può fidarsi ciecamente solo della tribù dei Giaali, la sua, che vive a nord di Khartoum. La Corte Penale Internazionale probabilmente non riuscirà mai a arrestare il leader incriminato, finché rimane capo dello stato. Ma se dovesse esserci un cambio di regime, forse le cose per lui potrebbero mettersi male.

Massimo A. Alberizzi
massimo.alberizzi@gmail.com
twitter @malberizzi

09 marzo 2009 (ultima modifica: 10 marzo 2009)