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Algeria, liberata Maria Sandra Mariani, tre milioni di euro di riscatto

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Massimo A. Alberizzi
17 aprile 2012
Maria Sandra Mariani, la turista italiana rapita nei pressi di Djanet, nel sud dell’Algeria il 2 febbraio dell’anno scorso è stata liberata ed è arrivata in mattinata a Roma, all’aeroporto di Ciampino. La donna è stata accompagnata in procura a Roma dove verrà sentita dai magistrati. Maria Sandra Mariani, visibilmente dimagrita è stata accolta dalla sorella, il figlio e la nipote. 

primo pianoFonti vicine al gruppo di Abu Zaid, uno dei capi di Al Qaeda nel Maghreb Islamico, Aqmi, hanno confermato aas Africa Express che per la sua liberazione sono stati versati 3 milioni di euro anche se la Farnesina in una nota ha precisato che «il governo italiano non paga riscatti». A mediare il rilascio il presidente del Burkina Faso, Blaise Campaorè, attraverso suoi emissari.

IL LUOGO DEL RILASCIO 
Cinquantaquattro anni, di San Casciano Val di Pesa, in provincia di Firenze, Maria Sandra, che è stata rilasciata proprio alla frontiera tra Mali e Burkina Faso ed è stata presa in consegna dalla polizia burkinabé, era stata sequestrata da un gruppo di uomini armati mentre era in viaggio nel deserto, assieme al suo autista e alla sua guida.

Questi ultimi erano stati rilasciati qualche giorno dopo. Esperta della regione, che ha visitato più volte, non era una turista tradizionale, perché portava anche aiuti a favore delle popolazioni disgraziate che vivono da quelle parti. Ha passato 14 mesi nelle mani dei terroristi e di lei non si erano avute più notizie.

milizianiRAPITI
Si sapeva soltanto che a sequestrarla era stato un gruppo legato a Abu Zeid il cui vero nome è Abid Hamadou, un algerino dalla fama leggendaria, conosciuto anche per il suo pugno di ferro. Dallo stesso gruppo era stata rapita il 18 dicembre 2009 in Mauritania una coppia di italiani: Sergio Cicala (che allora aveva 65 anni ) e la moglie, originaria del Burkina Faso ma con passaporto italiano, Philomene Kabouree (39 anni). Erano residenti in Sicilia, a Carini (in provincia di Palermo), e stavano viaggiando sulla loro minibus con targa italiana, per raggiungere la famiglia di lei a Ouagadougou, capitale del Burkina Faso.

NEL DESERTO
«Io – ha raccontato Sergio Cicala ad Africa Express – sono stato trattato bene . Il capo divideva con me cibo e acqua. Certo la situazione logistica non era delle migliori. Dormivamo su giacigli stesi sulla sabbia, ma, ripeto, nessuno ci ha picchiati o minacciati». «Ci spostavamo ogni due o tre giorni e ci fermavamo anche in pieno deserto dove i nostri custodi scavavano e trovavano provviste (zucchero, farina, acqua) armi e carburante). È gente che conosce benissimo il terreno, viaggia su auto nuove di zecca ed è dotata di sistemi sofisticatissimi di navigazione».

Maria Sandra Mariani è già arrivata a Ouagadougou, dove è stata presa in consegna da inviati italiani, e ora si riposa in albergo. Dovrebbe partire al più presto per l’Italia. Resta nelle mani di Al Qaeda nel Maghreb Islamico, Rossella Urru rapita in Algeria la notte tra il 22 e il 23 ottobre scorso. Secondo fonti maliane (purtroppo non confermate) dovrebbe essere anche lei liberata al più presto.

Massimo A. Alberizzi
massimo.alberizzi@gmail.com
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Burundi, agguato in una missione: uccisi un volontario italiano e una suora croata

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Massimo A. Alberizzi
29 novembre 2011
Sembra proprio un’esecuzione. Suor Lucrezia Manic, croata, è stata ammazzata in casa, mentre il volontario italiano, Francesco Bazzani, veronese, è stato rapito insieme a suor Carla Brianza, di Pontoglio in provincia di Brescia, e anche lui ucciso con un colpo a sangue freddo.
DOMENICA SERA – Tutto è cominciato domenica a tarda sera alla missione di Kiremba, nella provincia di Ngozi a più o meno duecento chilometri dalla capitale burundese, Bujumbura, dove le missionarie Ancelle della Carità gestiscono da parecchi anni un ospedale finanziato dalla diocesi di Brescia.
IRRUZIONE IN CONVENTO BURUNDI: UCCISI SUORA E COOPERANTELA DINAMICA – Le suore avevano appena finito di cenare quando è saltata la luce. Hanno chiesto a Francesco, economo della missione, di andare a vedere cosa fosse successo: qualcuno – che evidentemente conosceva bene la missione – aveva tolto la corrente manovrando l’interruttore generale.
IL DENARO – In quel momento due banditi hanno fatto irruzione nella casa urlando di consegnare i soldi. Gli è stato dato tutto il denaro disponibile intorno ai 4 mila euro, ma gli intrusi non si sono accontentati e costretto Francesco e suor Carla a seguirli all’auto dell’ospedale.
LA POLIZIA – Suor Antonietta, un’altra consorella, voleva partire con i rapitori al posto di suor Carla, ma loro hanno detto. “No, vogliamo lei”.  Quindi la conoscevano bene. Si sono allontanati i due rapitori suor Carla e Francesco a bordo della macchina mentre arrivava la polizia che si è messa a sparare all’impazzata per quasi un’ora.BANDITI – I due uomini sono stati catturati nella mattina di lunedì: sono due banditi comuni e non c’è nessun movente politico. Il portavoce della polizia Pierre-Chanel Ntarabaganyi spiega: “Hanno rispettivamente 20 e 24 anni e siamo sicuri si tratti dei due assassini”, visto che “abbiamo le prove”.

IRRUZIONE IN CONVENTO BURUNDI: MUORE COOPERANTE, FERITA SUORALA RICOSTRUZIONE – A otto chilometri dalla missione i banditi hanno fermato il veicolo e fatto scendere gli ostaggi. Francesco Bazzani è stato ammazzato a sangue freddo. Suor Carla si è ribellata e, pronta di riflessi, ha afferrato la canna del fucile che uno dei banditi gli puntava contro. Non mollava la presa e così l’uomo l’ha colpita con un coltello alle mani. Le sue condizioni non sono gravi.

VENDETTA – “Sembra proprio una vendetta – ha raccontato un testimone ad Africa ExPress – sembra che suor Carla e Francesco qualche giorno fa avessero licenziato un operaio, il quale forse ha organizzato gli omicidi per ritorsione. I due rapitori avevano ottenuto tutto il denaro che c’era in missione e se ne sarebbero potuti andare indisturbati. Invece si sono accaniti e hanno scelto accuratamente gli ostaggi. Escludo comunque una matrice politica”.

EVACUAZIONE – L’ambasciata italiana in Uganda, che ha competenza anche per il Burundi, sta organizzando l’evacuazione entro stasera, degli italiani che ancora sono in ospedale: tre medici e le due suore, Antonietta e Carla.

Michael Aidan CourtneyIL CASO DEL NUNZIO – Il 29 dicembre 2003 in un agguato a una cinquantina di chilometri da Bujumbura fu ucciso il nunzio, originario dell’Irlanda, Michael Aidan Courtney. Le indagini della polizia locale stabilirono che fu un attacco mirato. Non fu una rapina, come fu spiegato in un primo momento, e neanche fu un errore: gli assassini volevano uccidere proprio lui. Come mi raccontò a suo tempo a Bujumbura un funzionario burundese, “il nunzio viaggiava su un’automobile con targa diplomatica, con tanto di bandierina vaticana. Chi ha sparato sapeva dove colpire: su quattro occupanti dell’automobile è stato ucciso solo il Nunzio”.

L’ONU – IRIN, la newsletter delle Nazioni Unite pubblicata a Nairobi citò il presidente del Burundi, Domitien Ndayzeye, e il vescovo di Bududira e vicepresidente della conferenza episcopale burundese, Bernard Bududira, che addossarono la responsabilità dell’omicidio ai ribelli del FNL, il Fronte Nazionale di Liberazione del Burundi, un gruppo radicale hutu che solo nel 2008 ha firmato un accordo di pace con il governo, una sorta di coalizione hutu/tutsi che ha gestito il processo di pace cominciato nel 2001. Le scorse elezioni, boicottate dall’opposizione, hanno creato una certa tensione.

TENSIONE – Qualcuno aveva avanzato l’ipotesi che l’attacco a Kiremba potesse essere l’inizio di una nuova guerra civile ma l’arresto dei due banditi , la dinamica e i testimoni lo escludono decisamente.

Massimo A. Alberizzi
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Nelle moschee fondamentaliste di Eastliegh, dove si predica la vendetta contro gli infedeli

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Dal Nostro Inviato
Massimo A. Alberizzi
Nairobi, 7 novembre 2011

Omar, la guida che mi conduce nei meandri dei Eastleigh, assume un’aria piuttosto preoccupata quando gli chiedo di portarmi alla moschea nella Sesta Strada, quella guidata dagli imam fondamentalisti.

Rapita nel Sahara Rossella Urru cooperante italiana. Rivendica Al Qaeda nel Maghreb islamico

Massimo A. Alberizzi
Milano, 23 ottobre 2011

Una volontaria italiana, Rossella Urru, della organizzazione CISP è stata rapita nella notte tra sabato e domenica in un campi di rifugiati sarahui in Algeria. Con lei i terroristi hanno catturato anche due spagnoli Aino Fernadez Coin, membro dell’Associazione degli amici del popolo sahraui in Estremadura, e Enric Gonyalons, dell’organizzazione non governativa Munupat. Il sequestro dei tre cooperanti è stato rivendicato dall’Aqmi, l’Al Qaeda del Mali. Lo rendono noto fonti della sicurezza della sicurezza mauritana.

IL SEQUESTRO 

Un gruppo di uomini armati, venuti dal Mali si è infiltrato in Algeria e ha attaccato il campo dei profughi a ovest di Tinduf, a bordo di fuoristrada. C’è stato uno scontro a fuoco e uno degli ostaggi, Enric Gonyalons, è stato ferito. Anche una delle guardie sahraui è stata colpita dagli assalitori che dopo il sequestro dei tre cooperanti sono scappati in Mali. Il governo in esilio della Rasd (Repubblica Araba Sarahui Democratica), che rivendica il territorio del Sahara Spagnolo occupato dal Marocco, ha condannato l’atto terroristico e «ha preso tute le misure per catturare i criminali».

Massimo A. Alberizzi
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Muore prigioniera in Somalia la turista francese rapita dagli shebab in Kenya

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Speciale per Africa ExPress
Massimo A. Alberizzi
20 ottobre 2011

A Manda, Marie Dedieu la conoscevano tutti e ora la piangono commossi. I gangster somali, gli shebab, che la notte del 1° ottobre l’ hanno prelevata dalla sua casa sul mare dell’ arcipelago keniota di Lamu, sono stati impietosi: lei non poteva muoversi, era costretta su una sedia a rotelle. L’ hanno trascinata in spiaggia come un sacco, gettata sul motoscafo veloce con cui erano giunti dalla loro base in Somalia e sono ripartiti a tutta velocità.

Non le hanno fatto prendere né la sedia a rotelle, né le medicine, essenziali per restare in vita. È morta nelle mani dei suoi carnefici. “Sapevamo che non sarebbe sopravvissuta – racconta una sua intima amica -. Era molto malata: il cuore era debolissimo e aveva un tumore. I farmaci le permettevano di vivere”.

A Parigi, Marie era stata una famosa ballerina di danza classica, nonché, alla fine degli anni 60, una delle fondatrici e animatrici del femminismo francese. Un brutto incidente d’ auto, più di venticinque anni fa, l’aveva fiaccata e provocato una sorta di distrofia muscolare, con paralisi progressiva. Camminava ancora quando è arrivata a Lamu, sono passati 23 anni, e si era innamorata di quella costa africana dove si godono le bellezze della natura, si respira il profumo del monsone e si ammirano le bellezze dell’ antica civilizzazione araba con i suoi misteri: “Qui trovo la pace e la serenità che non ho più in Europa”, diceva.

Marie Dedieu, si era trasferita nel paradiso di Manda, un’isoletta di fonte a Lamu

Non era tornata a Parigi neppure l’anno scorso per curare un infarto. “Abbiamo sperato fino a domenica che i criminali, resisi conto delle sue condizioni, la liberassero – continua l’ amica di Marie -. Da sola non era in grado di fare niente: non poteva afferrare un bicchiere e bere, né impugnare una forchetta o un coltello per mangiare. Tantomeno andare in bagno. Per entrare in mare, in quattro la portavano nell’ acqua e l’ adagiavano sulla sabbia. Parlava a malapena, la paralisi aveva raggiunto anche la bocca. A rapirla è stata gente spietata senza un briciolo di umanità. Spero solo che non abbia sofferto, che il suo cuore debolissimo non abbia retto e sia spirata subito”.

Lamu, fino a due mesi fa, era considerata un’ oasi di sicurezza in un Kenya dove la povertà scatena talvolta appetiti brutali. Malindi, centro turistico per eccellenza, è diversa. Gli attacchi ai turisti sono frequenti. Non a Lamu. “Viviamo tutti con le porte aperte. Al massimo un guardiano in giardino, disarmato naturalmente, il cui compito si avvicina più a quello di un portiere che a quello di un agente di sicurezza”, spiega ancora l’ amica di Marie.

Quella maledetta notte a portar via la donna sono scesi da un barchino 10 uomini armati di mitra e mascherati. Nulla ha potuto il compagno masai di Marie, bloccato dai criminali e lasciato lì, sulla spiaggia. Probabilmente i banditi hanno sbagliato villa e volevano invece attaccare il vicino hotel Majlis, gestito da Stefano Moccia.

Un’ azione che avrebbe ricalcato quella organizzata in un’ altra struttura turistica di lusso, sempre gestita da italiani, nella vicina isola di Kiwayu, l’ 11 settembre. Quella notte un commando sceso da un barchino veloce assalì un villaggio esclusivo, per sequestrare una coppia di turisti britannici.

David Tebbutt reagì per difendere la moglie Judith. Lui fu ucciso, lei rapita. Quando hanno portato via Marie, l’ allarme si è diffuso immediatamente e un pilota che gestisce due piccoli aerei nel minuscolo aeroporto di Lamu, all’ alba, si è messo a caccia dei banditi. Racconta: “Mi sono diretto verso le acque somale e ho visto un motoscafo che correva velocissimo. L’ ho seguito volteggiandogli sopra, ma a debita distanza per paura di essere bersagliato dai mitra. La barca ha attraccato e ho visto che i marinai hanno scaraventato un fagotto su un camion”.

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Cacciati dalle terre in Uganda: il dramma di 20 mila contadini

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Dal Nostro Inviato Speciale
Massimo A. Alberizzi
Kicucula (Uganda), 24 settembre 2011

Dall’alto della collina Paulo Ntesemana guarda con le lacrime agli occhi quella che fino a pochi mesi fa era la sua terra. Fa un ampio gesto con il braccio: “Ecco, tutto questo era mio. Coltivavo caffè  e patate, avevo mucche, capre e pecore. Guadagnavo bene e ogni anno con un milione di scellini (262 euro, ndr) potevo permettermi di mandare i miei tre figli a scuola. Volevo che diventassero dottori. Invece, un anno fa mi hanno confiscato tutto, bruciato la casa e picchiato brutalmente. Ho abbandonato la terra e sono andato a vivere da mio fratello. Ospite, senza più un lavoro. E i miei figli non vanno più a scuola”.

L’acquisto delle terreni agricoli da parte di grandi compagnie occidentali non è una pratica che si registra solo in Uganda. Come spiegano diverse indagini dell’ONU e di alcune Organizzazioni non Governative, si è ormai diffusa in tutta l’Africa e non solo. La riforestazione e l’uso intensivo di campagne finora sottoutilizzate, perché destinate a un’agricoltura di sostentamento, potrebbe giovare sia alle economie povere sia all’ambiente.

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Ma invece non è così perché i contadini che da anni abitavano quelle terre sono stati allontanati senza alcuna ricompensa né in denaro, né in altre campagne da coltivare. Dal 2001 nei Paesi in via di sviluppo, 227 milioni di ettari, una superficie grande quanto l’Europa Occidentale, è stata data in concessione a società straniere perché le coltivino: cinesi e indiane soprattutto, ma anche coreane o europee.

campo distrutto per palma da olio

In particolare in Uganda ad accaparrarsi le campagne è stata la britannica New Forests Company (NFC) il cui presidente, Julian Ozanne, coisce bene l’africa, perché è stato corrispondente del Finacial Times da Nairobi. Uno dei più competenti giornalisti al tempo della guerra dell’Onu in Somalia all’inizio degli anni ’90. Julian, che ho conosciuto bene in quegli anni, scriveva di business, ora il business lo fa.

In Uganda, Tanzania e Mozambico, la NFC gestisce 90 mila ettari: la coltivazioni originali, banani, manghi, avocado, fagioli, cereali e altro, sono state distrutte e la terra è stata riconvertita a pini e eucalipti.

“Le nuove piantagioni – sottolinea Matt Grainger dell’ONG Oxfam International – hanno portato lavoro e gli alberi contribuiranno ad evitare che la produzione di legname avvenga sfruttando le foreste naturali. Inoltre si potranno vantare i carbon credit, previsti dal trattato di Kyodo”.

scolari

“Non solo – aggiunge Matt -. La NFC in Uganda ha aperto scuole, piccoli ambulatori, programmi economici con le comunità locali. Ha scavato pozzi e costruito latrine. Il contratto non prevede è una vera vendita ma un permesso di utilizzo che – per evitare un effetto devastante sull’economia locale – vieta comunque di coltivare piante destinate al cibo, allevare animali e costruire case. Il progetto è buono”.

Allora cos’è che non quadra? Al di là dei problemi che possono sorgere nei mercati interni, in Africa la gestione della terra è legata a sistemi di proprietà e di utilizzo consuetudinari con altrettanti diritti che in Europa si chiamerebbero “acquisiti” e in Africa “tradizionali”.

Un sistema che coinvolge l’organizzazione sociale. Insomma la proprietà fondiaria é un punto assai sensibile che coinvolge emotività antiche. Oggi nel continente solo una piccola parte della terra é oggetto di un titolo di proprietà individuale.

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In Uganda le piantagioni della NFC sono tre, nei distretti di Mubende, Kiboga e Bugiri, per un totale di 20 mila ettari, nei quali sono già stati piantati 12 milioni di pini e eucalipti. I terreni appartengono allo Stato che a sua volta li aveva dati in uso ai veterani di guerra come ricompensa per aver combattuto a fianco delle truppe britanniche in Egitto e in Birmania.

In Kiboga alcuni contadini le coltivavano da più di 40 anni e le avevano consegnate a figli e nipoti. Non solo, alcune proprietà erano passate di mano con regolari contratti di vendita.

amazon-deforestation

“Avevo tre ettari di terra. Mi avevano assicurato che mi avrebbero ricompensato. Invece inatteso è arrivato un gruppo di militari, guidato a distanza da tre ‘muzungo’, tre bianchi – racconta Besigye Chance –. Hanno intimato di sloggiare immediatamente. Visto che esitavo mi hanno picchiato e minacciato di violentare mia moglie. Mentre scappavamo abbiamo visto che distruggevano la mia casa e bruciavano il mio bananeto”.

Testimonianze come quella di Besigye che ne sono parecchie nei villaggi ai margini delle piantagioni della NFC. Oxfam stima che il numero di persone cacciate dalle loro case ammonti a oltre 20 mila.

“Ci chiamano abusivi o occupanti illegali – racconta Bumusiba Ridia, 11 figli, il marito in ospedale, mostrando i documenti di proprietà di un terreno confiscato – ma non è così. Sono loro che hanno agito illegalmente per portar via le nostre proprietà. Eravamo ricchi ora siamo poverissimi”.

“Il progetto – ripete Matt Grainer – è buono, ma perché cacciar via la gente così? I contadini sono disposti a spostarsi se potessero ricevere nuove terre o i soldi per comprarle. In questo modo non si fanno gli interessi delle popolazioni autoctone ma, invece di produrre ricchezza e condizioni di vita migliori, si impoveriscono sempre più interi villaggi che vengono ridotti alla fame e all’indigenza. Gli effetti di questa politica potrebbero essere catastrofici

Massimo A. Alberizzi
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Cambiano in Somalia i vertici Shebab, Godane diventa responsabile per l’Africa orientale

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Massimo A. Alberizzi
15 agosto 2011

Radio Risaala, una stazione indipendente somala, ha annunciato un cambio di leadership nell’organizzazione Al Shebab, cioè gli integralisti islamici che combattono il Governo Federale di Transizione e il suoi alleati.

Ibrahim Haji Jama Me’ad Afghan conosciuto come Abu Bakar al-zayli’I è stato nominato nuovo leader del gruppo militare mentre l’ex capo, Shekh Muktar Abdirahman Abu Zubeyr, detto Ahmed Godane, sarà il nuovo coordinatore di Al Qaeda nell’Africa Orientale.

SHEBAB IN MOTOFonti vicine al gruppo ribelle – sostiene Radio Risaala – hanno raccontato che la nomina di Ibrahim Haji risale alla fine del 2010 ma che è stata congelata per evitare spaccature all’interno del gruppo dirigente del movimento estremista islamico. Ora comunque il nuovo leader ha preso in toto la responsabilità di Al Shebab.

Ibrahim Haji Afghan sarà il terzo capo del gruppo fondato nel 2004. Il primo è stato Aden Hashi Aeru, ammazzato dagli americani con un missile lanciato nella casa in cui dormiva a Dusa Mareb il 1° maggio 2008. Aeru nel 1993, per un breve periodo, è stato autista del Corriere della Sera. Alla sua morte ha preso le redini del movimento islamico lo sceicco Muktar Robow, detto Abu Mansur, che comunque aveva solo un ruolo ad interim.

Un’altra emittente, questa volta vicina agli shebab, Radio Andalus, ha raccontanto che l’ex leader del gruppo Hizbul-Islam e attualmente una sorta di presidente onorario di al-Shabaab, lo sceicco Hassan Daher Aweys, ha visitato le zone della Somalia colpite dalla carestia. Ha aperto campi di raccolta degli sfollati e centri di distribuzione del cibo.

Shek Hassan ha lanciato un appello ai commercianti somali perché aiutino “i loro fratelli musulmani”.

 Massimo A. Alberizzi
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Scontro a fuoco con i soldati: ucciso il capo della rete qaedista in Somalia

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Dal Nostro Inviato Speciale
Massimo A. Alberizzi
Sanaa (Yemen), 11 giugno 2011

Nella notte ha sbagliato strada e invece di entrare nella zona di Mogadiscio controllata dagli shebab, i miliziani islamici fedeli ad Al Qaeda, il capo dell’organizzazione terrorista per l’Africa Orientale, Fazul Abdallah, è finito in un posto di blocco dei soldati del Governo Federale di Transizione somalo. Ha sbagliato una seconda volta perché ha reagito, sparando all’impazzata, mentre forse i militari, che non l’hanno riconosciuto neanche dopo morto, l’avrebbero lasciato passare.

Così il comoriano Fazul, cittadino del network del terrore, conosciuto con una serie innumerevoli di alias, cui lo stesso Osama Bin Laden aveva affidato il compito di organizzare Al Qaeda in Africa Orientale, è stato ucciso mercoledì sera tardi al posto di controllo sulla strada che da Mogadiscio porta ad Afgoi, nei pressi di quella che una volta era l’università della capitale somala.

Passaporto sudafricano

Il leader terrorista aveva un passaporto sudafricano con la sua foto ma intestato a Daniel Johnson. Il documento aveva un visto di ingresso in Tanzania datato il 16 marzo. Quando la sua auto si è avvicinata al posto blocco i soldati hanno chiesto di spegnere i fari per illuminare i tre passeggeri con le loro torce tascabili. E’ stato a quel punto che gli occupanti devono aver capito di aver sbagliato strada e che non si trovavano in una zona controllata dai miliziani shebab, ma dai soldati fedeli al TFG. Hanno aperto il fuoco.

L’ambasciata americana dopo l’attentato dell’agosto 1998

I militari hanno risposto e l’auto è stata crivellata di proiettili. Nonostante ciò uno degli occupanti è riuscito a fuggire. Assieme a Fazul è stato ucciso un secondo terrorista che aveva con sé  un passaporto canadese intestato a Abdurhanam Al Canadian.

Sull’auto sono state trovate armi, munizioni, 50 mila dollari e alcuni laptop. Giovedì i due cadaveri sono stato mostrati alla stampa e subito dopo consegnati ai burundesi dei contingente dell’Amisom (la missione dell’Unione Africana in Somalia) perché indagassero chi fossero i due stranieri uccisi nello scontro a fuoco. Solo sabato mattina è stato scoperta la vera identità del cadavere.

Gli attentati alle ambasciate

Fazul è accusato di aver organizzato il 7 agosto 1998 gli attentati contro le ambasciate americane di Nairobi e Dar es Salaam (231 morti), e di essere la mente degli attacchi a Mombasa il 28 novembre del 2000: due missili tirati contro l’aereo israeliano dell’Arkia fallirono il bersaglio ma un’autobomba lanciata contro l’hotel Paradise, frequentato da turisti dello stato ebraico, falciò la vita a 12 kenioti e 2 israeliani.

Nonostante la taglia di 5 milioni di dollari messa sulla sua testa dal governo americano, Fazul ha continuato indisturbato la sua vita in Somalia, un po’ a Mogadiscio e un po’ nell’area di Ras Chiamboni, ai confini con il Kenya, dove, secondo l’intelligence keniota, aveva organizzato un paio di campi d’addestramento per terroristi.

Secondo l’FBI, in questi anni ha utilizzato un gran numero di pseudonimi (Abdallah Fazul, Abdalla Fazul, Abdallah Mohammed Fazul, Fazul Abdilahi Mohammed, Fazul Adballah, Fazul Abdalla, Fazul Mohammed, Haroon, Harun, Haroon Fazul, Harun Fazul, Fadil Abdallah Muhamad, Fadhil Haroun, Abu Seif Al Sudani, Abu Aisha, Abu Luqman, Fadel Abdallah Mohammed Ali, Fouad Mohammed e ora si scopre anche Daniel Johnson) ma a Mogadiscio dai suoi fedeli si faceva chiamare semplicemente Sadak Al Hadj.

Delle 6 fotografie che compaiono sul sito dell’FBI solo una – secondo qualcuno chi lo conosceva, intervistato da me qualche anno fa a Mogadiscio – ricordano con una certa precisione la faccia del fondamentalista.

L’eredità del terrore

Nella capitale somala pregava nella moschea Al Idayha nel quartiere di Wahara’ Adde a poche centinaia di metri dalla vecchia “Strada imperiale” Mogadiscio-Addis Abeba, una zona dove è sempre stato pericoloso avventurarsi.

Una zona fondamentalista dove le donne già 20 anni fa usavano coprirsi con una sorta di burka che lascia intravedere solamente gli occhi e dove già allora non era difficile incontrare facce pachistane o afgane, di persone vestite con la tradizionale shalwar camise, che si usa a Peshawar o a Kabul.

Il comando passa ad Hassan Turki

Ora il timone del comando di Al Qaeda in Somalia verosimilmente passerà nelle mani di Hassan Turki, anche lui un amico di Bin Laden e islamista della prima ora. Rispetto a Fazul, che conosceva ben 6 lingue arabo, inglese, francese, swahili, comoro e Somalo, Turki ha meno possibilità di essere un leader internazionale del terrore.

Però ha una scuola militare formidabile, essendo un ex colonnello dell’esercito somalo del vecchio dittatore Siad Barre, cacciato nel 1991. Hassan Turki nel 1993 mise a punto la tecnica con la quale furono abbattuti gli elicotteri americani Black Hawk a Mogadiscio nell’ottobre di quell’anno: una granata anticarro (Rpg), normalmente assai imprecisa, modificata in modo tale da non esplodere all’urto con la carlinga, ma all’impatto con il vortice d’aria dei rotori. Le schegge danneggiano le lame e il velivolo precipita. E’ chiaro che in questo modo il raggio d’azione del razzo aumenta. Una tecnica più tardi adoperata contro gli elicotteri alleati in Iraq e in Afghanistan.

Massimo A. Alberizzi
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Assalto al petrolio in Congo K/2: i negoziati dell’ENI, i personaggi inquietanti e l’opposizione della società civile

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DAL NOSTRO INVIATO SPECIALE
Massimo A. Alberizzi
Goma, 4 maggio 2011

I contratti dell’ENI
nella Repubblica Democratica del Congo dunque sono in pole position, anche se non sembra che tutto fili liscio. Per sfruttare appieno le concessioni sul Lago Tanganika, la compagnia di Paolo Scaroni avrebbe bisogno di ottenere i diritti di sfruttamento anche sul versante tanzaniano. Su quella costa gli italiani sono in concorrenza con la britannica Tullow Oil, (sì, la stessa cui il presidente congolese Joseph Kabila aveva sottratto le concessioni già affidate per girarle alle due società sudafricane Caprikat e Foxwelp). La società, particolarmente aggressiva e presente in Africa centrale da diversi anni in partnership con la Heritage Oil, ha concluso diversi contratti con l’Uganda.

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La Tullow Oil tra l’altro, già opera nella parte ugandese del Lago Edoardo e, suo malgrado, non ha ottenuto i diritti di sfruttamento nelle parte congolese. Forse per evitare di trovarsi nelle condizioni della società britannica (metà lago sì, metà lago no) l’ENI ha chiesto le concessioni alla Tanzania sul bacino del Tanganika, di fronte a quelle che vorrebbe ottenere in Congo-K. Aggregare due concessioni limitrofe in due Paesi differenti, significa sicuramente unire sforzi e iniziative, con grande risparmio.

Per inciso la Heritage Oil Corporation ha come azionista di riferimento e amministratore delegato Anthony Leslie Rowland, detto “Tony”, Buckingham, il fondatore della società sudafricana di mercenari Executive Outcomes. Buckingham conosce un bel po’ di segreti e di verità inconfessabili in Africa.

Kabila firmaI suoi uomini, secondo documenti originali rinvenuti da Africa ExPress, hanno partecipato alla difesa del vecchio dittatore congolese Mobutu Sese Seko nel 1996/7 e la società ha avuto rapporti d’affari con Victor Bout, il trafficante tagico indiziato per aver fornito armi in molte guerre africane.

Nel 2010 Bout, dopo essere stato arrestato in Thailandia, è stato estradato negli Stati Uniti. La figura di Bout ha ispirato il film “Lord of war” (Signore delle guerra).

L’ENI, in questa logica, comunque starebbe trattando anche con la Tullow Oil per cercare di farsi vendere (o per lo meno sfruttare assieme) le concessioni sulla sponda ugandese del Lago Edoardo.

NON PERDERE TEMPO

La rivista Africa Intelligence sostiene addirittura che la società del cane a sei zampe non vuol perdere tempo e, per costruire la piattaforma sul lago Tanganika prevista dal contratto in definizione con il Congo, ha già contattato compagne coreane.Tony Buckingam

Non solo. Sempre secondo fonti congolesi non confermate, l’ENI starebbe tentando di accaparrarsi le due concessioni affidate a Caprikat e Foxwelp, i blocchi 1 e 2 sul lago Alberto. Dirigenti della Tullow Oil, che pure avevano fatto causa allo Stato congolese per essersi visto cancellare un ghiotto accordo ma ora si sono ritirati dall’affare, hanno fatto sapere che, secondo loro, le due società sudafricane non sono interessate a sfruttare i giacimenti, ma solo a rivenderli per lucraci sopra.

UN POTENTE MEDIATORE

A Kinshasa e Johannesburg gli uomini d’affari contattati da Africa ExPress sono certi che per trattare e ottenere le concessioni l’ENI ha utilizzato i buoni uffici di un potentissimo mediatore, anche lui piuttosto chiacchierato ma capace di aprire tutte le porte di Kinshasa: l’israeliano Dan Gertler.

Secondo fonti di intelligence, Gertler era anche il vero proprietario delle società Caprikat e Foxwelp che avevano sottratto alla Tullow le concessioni sul Lago Alberto. Il nonno di Gertler, Moshe Schnitzer, è stato uno dei fondatori della Borsa Israeliana dei diamanti e lui, a 27 anni, aveva ottenuto dal presidente Laurent Kabila, padre di Joseph, il monopolio delle esportazioni dei diamanti congolesi. Ora è uno degli uomini più ricchi del suo Paese e forse del mondo.

Nel 2007, una delle sua compagnie, la Nikanor, riesce in una grande impresa: ottiene le concessioni di alcune miniere congolesi di cobalto e rame. Eppure non ha alcuna esperienza nel settore!

Victor BoutIl successo del tycoon è legato soprattutto all’amicizia e alle relazioni con la presidenza, prima con Laurent Kabila e poi con il figlio Joseph, e con quello che è la loro eminenza grigia: Katumba Mwanke. A Kinshasa è di dominio pubblico che Katumba è il collettore delle tangenti destinate al “grande capo”.

Gertler, uno dei pochi stranieri invitati al matrimonio di Joseph Kabila nel 2006, è un fervente ebreo ortodosso e due delle sue compagnie in Israele, la Green Park and Green Mount, fino a qualche anno fa finanziavano la costruzione di nuove colonie nei territori occupati.

I rapporti tra ENI e Tullow non sono stati sempre idilliaci e sono esplosi in una rissa nel 2009. La Tullow, in joint ventures con la Heritage, deteneva i diritti di produzione sulla parte ugandese del Lago Alberto, i blocchi 1 e 3. La compagnia italiana raggiunge un accordo con la Heritage per comprare le sue quote ma la Tullow si oppone sostenendo di avere un diritto di prelazione che intende esercitare. Il governo ugandese prima dà ragione all’ENI, poi alla Tullow.

Comunque l’accordo attuale che l’ENI va a sottoscrivere con i dirigenti congolesi prevede che alla società italiana vada l’80 per cento delle concessioni, alla Cohydro, (Congolaise des hydrocarbures), la società statale che si occupa di petrolio, il 10 per cento e il restante 10 per cento a investitori privati congolesi, normalmente società di proprietà di politici o di faccenderi che hanno assicurato la buona riuscita dell’operazione e che in questo modo si garantiscono un ritorno consistente di denaro per poter rimpinguare i loro conti all’estero. Chi ci sia dietro questo 10 per cento non è chiaro. Qualcuno, ma senza prove, parla di Dan Gerlter e Katumba Mwanke, cioè del presidente Joseph Kabila.

SOCIETA’ CIVILE SUL PIEDE DI GUERRA

Gruppi locali che lottano pDan Gertlerer la difesa dei diritti umani e che temono i rischi di un disastro ambientale (come è accaduto in Nigeria, nel delta del Niger) sono sul piede di guerra. I contratti con cui vengono assegnate le concessioni, sono opachi e false le promesse con cui le compagnie petrolifere si impegnano a tutelare l’ambiente. In una regione traballante come quella dell’Africa centrale (e, in particolare, la zona orientale del Congo, l’Ituri) per nulla pacificata, dove prosperano gruppi armati, grandi e piccoli, una guerra di grandi proporzioni può scoppiare da un momento all’altro, specie se si innestano elementi di instabilità proclamata, come la produzione petrolifera. Le conseguenze sono imprevedibili.gertler al matrimonio

Ad Africa ExPress risulta che contatti tra i gruppi armati del delta del Niger, il MEND (Movement for the Emancipation of the Niger Delta) in particolare, siano già in corso e una delegazione dei militanti nigeriani abbia già visitato le regioni del Congo Orientale. In un’intervista di qualche tempo fa, uno dei leader dei militanti nigeriani, sentito in Ruanda mentre era in viaggio verso l’Ituri, aveva dichiarato: “Dobbiamo impedire che le multinazionali del petrolio distruggano l’ambiente e il tessuto sociale come hanno fatto in Nigeria. I presidenti delle compagnie dovrebbero vergognarsi di questi comportamenti immorali”.

Massimo A. Alberizzi
massimo.alberizzi@gmail.com
2 – fine

Nelle foto: La mappa dei blocchi assegnati sul Lago Alberto. Il presidente della Repubblica Democratica del Congo, Joseph Kabila. L’ex capo dei mercenari Tony Buckingham, fondatore di Executive Outcames e ora proprietario di Heritage Oil. Il tagiko accusato di traffico d’armi, Victor Bout.  Primo piano del  businessman Dan Gertler e subito dopo al matrimonio di Joseph Kabila nel 2006.

Assalto al petrolio in Congo K/1: l’ENI in pole position, ma in agguato un disastro ecologico e la ripresa della guerra

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DAL NOSTRO INVIATO SPECIALE
Massimo A. Alberizzi
Goma, 29 aprile 2011

Da un paio d’anni è cominciata l’operazione “assalto al petrolio congolese”. La Repubblica Democratica del Congo, o Congo-K dal nome della sua capitale Kinshasa, il Paese forse più ricco di tutta l’Africa, dopo i risultati delle prospezioni che hanno evidenziato la presenza di enormi giacimenti, è diventata oggetto degli appetiti delle multinazionali del settore. I contratti in corso di negoziazione valgono miliardi di euro e la corsa ad accaparrarseli è frenetica. Dall’Oceano Atlantico, a ovest, ai Grandi Laghi, a est, tutti vogliono perforare. Ma attenzione: gli ecologisti e i difensori dei diritti umani sono sul piede di guerra, perché si rischia la distruzione di uno degli ultimi paradisi terrestri.

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Non solo: quando arriva il petrolio arriva anche la guerra e c’è chi mette in guardia sui rischi di un’escalation bellica in un Paese che, in realtà, non è mai stato pacificato del tutto, proprio perché le sue ricchezze fanno gola a troppa gente.

La rivista specializzata Africa Intelligence, solitamente ben informata, pubblica un articolo dal titolo “L’ENI vuole tutto e subito”, in cui si racconta come l’ente petrolifero italiano da un po’ di tempo sta cercando con grandi sforzi di ottenere concessioni per sette blocchi petroliferi nella valle del lago Alberto, nel lago Tanganika e nel bacino centrale dei Grandi Laghi.

Il presidente del Congo Kinshasa, Joseph Kabila, sta probabilmente mettendo in pratica quello che ha annunciato il 10 dicembre scorso durante l’annuale discorso davanti al parlamento: “Basta – aveva detto – con le concessioni alle piccole imprese petrolifere che non hanno soldi da investire. D’ora in poi daremo le concessioni solo alle grandi multinazionali”. In effetti nel giugno 2010 Kabila aveva già stipulato patti con due compagnie sudafricane, la Caprikat e Foxwelp, assolutamente sconosciute nel mondo del petrolio, registrate nelle Isole Vergini britanniche e di proprietà di Khulubuse Zuma, nipote del presidente sudafricano Jacob Zuma, la prima, e del suo avvocato (“Un prestanome”, giurano a Johannesburg) sempre sudafricano, Michael Hulley, la seconda.

MISTERIOSI PROPRIETARI

L’assegnazione dei blocchi 1 e 2 sul Lago Alberto, nelle cui acque corre una parte della frontiera con l’Uganda, aveva creato dure polemiche sia in Congo sia in Sud Africa. Il contratto era oscuro e controverso; stranamente non prevedeva la partecipazione della compagnia statale Cohydro, (Congolaise des hydrocarbures), e, tra l’altro, non si capiva bene perché le concessioni fossero state ritirate alla britannica Tullow Oil, che le aveva stipulate nel 2006 in termini vantaggiosi per l’ex colonia belga, e girate – senza alcuna trasparenza – a due sconosciute compagnie, nate solo qualche mese prima, modificando le condizioni in peggio.

LOgo ENIConsigliere speciale di Khulubuse Zuma, il milanese Giuseppe Ciccarelli, ex impiegato dell’ENI e capo della società svizzera Medea Development SA (ora in liquidazione) consulente tecnico dei due blocchi di cui la Caprikat e la Foxwelp avevano la concessione, aveva dichiarato in un primo tempo che Zuma e Hulley non avevano alcuna proprietà sulle due società chiacchierate. Poi aveva ammesso la proprietà del nipote del presidente ma – secondo un dispaccio di Katrina Manson, della Reuters, pubblicato il 16 agosto 2010 – si era rifiutato di fornire i nomi dei reali investitori.

Per altro il portavoce della Tullow Oil, piuttosto stizzito aveva commentato così la vicenda: “Senza trasparenza e sacralità del contratto è molto difficile attrarre investimenti puliti e chiari da cui può trarre beneficio la popolazione in generale e non solo alcuni pochi. La concessione delle licenze (alla Caprikat e Foxwelp, ndr) – aveva aggiunto – non aiutano per niente l’Africa a costruire una reputazione di trasparenza e correttezza”.

Il blocco numero 3, invece è stato assegnato a un’altra società poco trasparente e chiacchierata: la sudafricana Divine Inspiration Group (DIG), che ancora detiene i diritti.

AFFITTATO UN PALAZZO

Nel marzo scorso l’arrivo della Total (già presente in Congo-K nel settore della distribuzione) nei campi di sfruttamento e le trattative in corso con l’ENI, sembrano confermare l’intenzione di Kabila di affidarsi solo a grandi gruppi.

Logo TullowSecondo quanto scrive Africa Intelligence, un alto dirigente del gruppo di Metanopoli, Luca Dragonetti, e un geologo della società, Davide Casini Ropa, un paio di settimane fa sono stati a Kinshasa per un secondo raund di negoziati sui blocchi 15, 16 e 17 nel Bacino Centrale, 1,2 e 3 a nord del Lago Tanganika e il numero 4 nella valle del Lago Alberto.

I due dirigenti dell’ENI, che già possiede una concessione nell’area di Ndunda, del distretto del Bas-Congo (il Basso Congo), nell’ovest del Paese ai confini con l’Angola, non hanno neppure atteso l’esito dei colloqui e, probabilmente sicuri del risultato positivo, hanno preso in affitto diversi piani di un palazzo nel quartiere Gombe, il più moderno di Kinshasa.

Perforazione al tramontoFonti locali contattate da Africa ExPress nella capitale congolese hanno confermato che le trattative con l’ENI dovrebbero concludersi entro pochi giorni o forse si sono già concluse, ma ancora tenute riservate.

Secondo queste informazioni la compagnia italiana si è impegnata a investire 200 milioni di dollari (136 milioni di euro), così ripartiti: 40 milioni allo sfruttamento dei campi del Lago Alberto, 60 per il Lago Tanganika e 100 per il Bacino Centrale, cioè il Lago Edoardo. E’ prevista anche una piattaforma da costruire nelle acque del Tanganika, da utilizzare, nel caso in cui l’ENI riesca a portare a casa anche una concessione chiesta alla TPDC, Tanzania Petroleum Development Corporation, per esplorare un blocco sul versante tanzaniano del lago.

Massimo A. Alberizzi
massimo.alberizzi@gmail.com
1 – Continua

LA SECONDA PUNTATA

Assalto al petrolio in Congo K/2: i negoziati dell’ENI, i personaggi inquietanti e l’opposizione della società civile