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Congo K, quel paradiso terrestre diventato un inferno dove imperversano le milizie mai-mai

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Dal Nostro Inviato Speciale
Massimo A. Alberizzi
Goma (Congo-K), 18 gennaio 2013

Ti fermeresti ore sulla cresta di una collina per ammirare i panorami, goderti il profumo delle piante selvatiche attorno a te, seguire i vortici dei pennacchi lanciati verso il cielo dai due vulcani. E poi lo specchio del Lago Kivu circondato dalle montagne. Ricorda la Svizzera con in più palme, banani, alberi di avocado, di mango, cespi di papaya; e quei due ciuffi di fumo.

Due vulcani, il Nyamulagira e il Nyiragongo, molto vicini tra loro, distanti appena pochi chilometri. Come spiega il vulcanologo italiano Dario Tedesco, che li studia e li segue, non hanno nulla in comune: eruttano lava completamente differente, sia in consistenza, sia in composizione.

Qui il panorama non si perde neppure durante le tenebre. Le cime dei due vulcani si illuminano di un rosso intenso, come se volessero segnare la rotta ai viandanti. Le notti di luna nuova sono surreali. Buio pesto e due scrigni rossi che sembrano volteggiare in cielo pulsando nell’oscurità.

Miliziani Mai Mai

L’est del Congo non è solo una cornucopia spropositata di minerali rari, perciò preziosi, e quindi oggetto di bramosie di uomini d’affari e di politici senza scrupoli. E’ anche un paradiso terrestre, sebbene difficile da godere a causa della guerra perenne che imperversa da una cinquantina d’anni e della povertà, profonda e diffusa, che affoga le popolazioni locali.

La natura è stupenda, selvaggia, misteriosa ma anche terribile. L’ultima disastrosa eruzione del Nyiragongo, nel 2002, ha provocato 147 morti e distrutto un terzo della città di Goma.

Racconta Dario Tedesco: “La sua colata lavica è una delle più veloci del mondo. Alla bocca raggiunge anche i 100 chilometri all’ora. E’ un vulcano pericolosissimo ed è uno dei pochissimi del pianeta con un lago di magma liquido nel cratere. E’ da tenere quindi costantemente sotto checkup.

Avevamo sette stazioni di rilevamento e controllo. Ma qualcuno ha rubato tutti gli strumenti”. Cosa ne avranno fatto, non si sa, ma da queste parti è difficile trattenersi dal gusto di razziare. Tanto, con la polizia corrotta, si è sicuri dell’impunità. Al massimo si divide il bottino con gli agenti.

Il permesso di entrata nel Vulcano National Park per visitare la valle dove vivono i gorilla

Al momento dell’indipendenza, nel 1960, un giovane sognatore, Patrice Emery Lumumba, avendo intuito quale sarebbe stata la fine del suo Paese cercò di mettersi di mezzo. Come dimostrato da una commissione d’inchiesta indipendente, fu assassinato dai parà belgi, intervenuti nella loro ex colonia per bloccare una guerra civile, fomentata dal loro stesso Paese per evitare che Bruxelles perdesse l’influenza avuta fino al momento della decolonizzazione.

Lumumba (la sua vita è stata immortalata in un film che all’estero ha avuto un certo successo, ma che in Italia è finito solo in qualche sala d’essai) sognava un Paese democratico, dove i proventi delle risorse minerarie avrebbero dovuto essere destinati alla costruzione di infrastrutture necessarie allo sviluppo e al progresso della sua gente.

Se fosse sopravvissuto sarebbe diventato un feroce dittatore? Con il “se” non si fa la storia, ma certamente, visto il contesto africano, è molto probabile. Sono in tanti i leader nati come combattenti per la libertà e finiti nel girone dei tiranni.

Il sociologo svizzero Jean Zigler, autore di decine di saggi sui temi della povertà e sugli abusi e le ingiustizie dei sistemi finanziari internazionali, http://it.wikipedia.org/wiki/Jean_Ziegler ha ben definito la situazione dei congolesi: “Sono come dei mendicanti poveracci seduti su una montagna d’oro”. Mai immagine è stata più appropriata. E’ difficile fare un elenco delle risorse minerarie del Paese. Platino, oro, argento, diamanti, rame, cobalto, uranio, tantalio, niobio (chiamato anche colombio) e poi quisquilie come ferro, stagno, piombo….Insomma c’è tutto e quest’elenco è incompleto.

Elicotteri nell’Onu parcheggiati sotto il vulcano

La ricchezza è sparsa nel Paese, ma le due provincie orientali del Kivu, il nord e il sud, sono quelle in cui la concentrazione di questo ben di dio è più intensa. E ora che sulle rive dei laghi Edoardo e Alberto sono stati scoperti vasti  giacimenti di petrolio, le mani arruffone si sono demoltiplicate. Shell, Total, Chevron, Esso, Eni si sono precipitate in Congo.

“Il giochino è questo – spiega un dirigente della Chevron che per comprensibili motivi non vuol vedere rivelato il suo nome -. Negli Stati Uniti c’è una ferrea legge anticorruzione che vale anche all’estero. Se ci scoprono che paghiamo una ‘kick back’, cioè una tangente, finiamo nelle grinfie del governo che non perdona. Quindi incarichiamo una compagnia straniera o una società sconosciuta creata ad hoc, di seguire le trattative, pagare le relative tangenti a governati, politici e ai loro mediatori e poi consegnarci la concessione chiavi in mano a un prezzo finale, dove non compaiono questi fastidiosi ammennicoli. E’ un mondo opaco dove gigantesche truffe sono in agguato e dove si muovono pescecani pronti ad azzannare. Gente disposta a tutto, che nei salotti buoni si presenta in smoking e sul campo, con in fronte una bandana, imbraccia mitra, maneggia pistole e lancia bombe a mano”.

Personaggi inquietanti che circolano nei fetidi alberghi di Goma e di Bukavu, la due capitali del Nord e del Sud Kivu, scolando fiumi di birra. Di solito loro non si fermano ad ammirare gli incantevoli panorami di questo paradiso terrestre, non si curano dei vulcani o degli umanissimi (e impressionanti) gorilla di montagna che popolano la catena del Virunga, al confine con il Ruanda.

Piuttosto vanno a negoziare con i signori della guerra, con i capi delle differenti fazioni e con i criminali che controllano il territorio. Alcuni restano nei salotti buoni, non si sporcano le mani, ma con grande cinismo arruolano mercenari, chiamati con un eufemismo (politicamente corretto) guardie di sicurezza, pronti ad ammazzare o allontanare scomodi curiosi, compresi i giornalisti.

Cosa che è accaduta qualche giorno fa a Piero Pomponi, un famoso ed esperto fotografo italiano attivo da anni sulle rotte africane (ora abita a Kampala). Era entrato in Congo per indagare sul traffico e contrabbando di coltan (colombite-tantalite, un minerale i cui componenti servono negli apparecchi elettronici) passando dalla frontiera ugandese di Port Mahagi (sul lago Alberto).

Stava andando a Beni, nelle zone controllate dal governo. Dopo pochi chilometri è stato fermato da cinque individui: “Uno, l’autista, era mulatto – racconta Piero –, un secondo aveva gli occhi a mandorla e gli altri tre bianchi che parlavano inglese con un forte accento russo. ‘Cosa sei venuto qui a curiosare? Vattene via e non ti fare vedere mai più’, hanno intimato. Per intimidirmi mi hanno accoltellato al braccio sinistro”.

L’ennesima guerra, cominciata nell’aprile scorso, vede da una parte l’esercito regolare, mal pagato mal organizzato, mal equipaggiato, alleato con miliziani hutu ruandesi (i rimasugli dei responsabili del genocidio del 1994, nel quale furono uccisi in 100 giorni un milione di tutsi e hutu moderati) e guerrieri tradizionali mai-mai. Dall’altra i ribelli dell’M23 (Marzo 23, dal giorno del 2009 in cui fu firmato un accordo di pace, mai rispettato dal governo), organizzati alla perfezione, ben pagati, ben istruiti, ben riforniti (probabilmente dai ruandesi e dagli ugandesi).

Fino a qualche settimana fa i ribelli controllavano qualche settimana fa anche la città di Goma, ma non era difficile attraversare il fronte a una ventina di chilometri di distanza poco dopo il villaggio di Sake e passare dalla parte governativa. Pochi i regolari, tanti i mai-mai, guerrieri tradizionali non perché combattano con lance e frecce, ma perché il loro addestramento prevede un’iniziazione di magia nera, il rispetto di regole esoteriche, l’assunzione di pozioni prodigiose, la protezione del corpo con oli miracolosi. Tutte cose che, secondo loro, li rendono invincibili. Sono convinti che le pallottole quando li colpiscono si sciolgano e diventino acqua (a qui il nome, mai-mai e cioè acqua-acqua).

Il sorprendente non è che loro – persuasi dai loro capi – credano a queste superstizioni, ma che ci credano anche persone che dovrebbero essere lontane da credenze popolari: “Certo le pallottole si trasformano in acqua”, assicura il prete della minuscola chiesa cattolica di Sake. Gli fa eco lo stringer della France Presse: “E’ vero”.

E a Shasha, altro villaggio mai-mai a una trentina di chilometri da Goma, alla domanda rivolta a un guerriero “ma avrai visto qualche tuo compagno cadere davanti a te colpito a morte? Come mai?”, arriva la stupefacente risposta: “Certo, ma non avrà onorato le nostre regole”. Regole ferree, da rispettare. Tra le altre, il giorno prima del combattimento non avere rapporti sessuali, mangiare solo cibo preparato da sé, non stringere la mano a sconosciuti. E poi non saccheggiare (se non le armi e le munizioni), né stuprare. Ecco, questi ultimi due precetti, da queste parti, sono difficilissimi da rispettare. Da qui, probabilmente, l’ecatombe di guerrieri mai-mai, quando si lanciano contro i nemici che scaricano gragnole di colpi. “Avranno saccheggiato una capanna e stuprato la proprietaria nella battaglia precedente”, giustifica serio e senza una smorfia un capo mai-mai.

E i caschi blu dell’ONU, soprattutto uruguayani, che dovrebbero monitorare il conflitto, impedire le violazioni dei diritti umani e proteggere i civili, che fanno? Risponde il presidente dell’Uganda, Yoweri Museveni, con una battuta graffiante: “Turismo militare”.

Effettivamente il loro discusso comportamento è piuttosto marginale, compresso dalla difesa dell’indifendibile imbelle governo congolese e l’ordine di proteggere a ogni costo la popolazione civile vessata dai soldati che taglieggiano la gente. Una contraddizione inestricabile. Quindi gli interventi del contingente – in Congo il più potente del mondo, quasi 20 mila militari – sono sporadici e rari. I caschi blu si limitano a “osservare” una situazione che si sta deteriorando sempre più.

Quei funzionari delle Nazioni Unite che, invece, interpretano il loro lavoro come una missione, venuti in Congo non per godere panorami e ambiente, ma per salvare vite umane e contribuire allo sviluppo della regione, sono demoralizzati e frustrati: “Disgustata è la parola giusta – spiega una giovane – . I soldati hanno razziato villaggi, stuprato donne e bambini sotto gli occhi dei caschi blu e nessuno ha denunciato la cosa. Sono tutti intenti a arraffare i propri stipendi e dilapidare, con una burocrazia inefficiente, i finanziamenti di una missione che costa decine di milioni di euro all’anno. No, io me ne vado. La mia coscienza mi impedisce di restare. Gli uomini sono riusciti a trasformare questo paradiso in un inferno. Qui regna una sola cosa: l’interesse personale. E a farne le spese è la popolazione civile che continua da decenni a soffrire”.

Massimo A. Alberizzi
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Storie di corruzione, petrolio e di supremazia nel delta dietro il sequestro dei tre italiani in Nigeria

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Massimo A. Alberizzi
27 dicembre 2012

Il sequestro è avvenuto domenica sera, poco prima delle 8, ora locale, ma se ne è avuta notizia la vigilia di Natale. Il rimorchiatore d’altura, battente bandiera italiana, Asso 21, è stato assalito 60 chilometri al largo delle coste nigeriane dai pirati che hanno rapito quattro membri dell’equipaggio: il comandante, Emiliano Astarita, 37 anni, di Piano di Sorrento, il primo ufficiale, Salvatore Mastellone, 39 anni, di Sant agnello in zona sorrentina, il secondo ufficiale motorista, Giuseppe d’Alessio, 32 anni, di Pompei. Il quarto è un marittimo ucraino,  Anatoly Alexelev, 35 anni.

SEQUESTRO ANOMALO
Il sequestro appare molto diverso da quelli che si devono registrare in continuazione nel golfo di Guinea (almeno 50 nel 2012., l’ultimo il 17 dicembre scorso). Normalmente i bucanieri salgono a bordo delle navi, le saccheggiano, rapinano il carico, o una parte di esso, trasferendolo su battelli di più piccoli, e si dileguano rifugiandosi e nascondendosi in una delle migliaia di isolette che punteggiano il delta del Niger. Sono rari i sequestri di persona come quello di domenica.

Infatti stavolta il commando è salito a bordo dell’Asso 21, che appartiene alla  compagnia napoletana Augusta Offshore, ha portato sulla tolda i quattro stranieri dell’equipaggio e li ha rapiti. Non si conosce l’ammontare del riscatto richiesto.

GUERRA POLITICA
Le notizie
 che arrivano dalla Nigeria sono frammentarie. Secondo fonti solitamente ben informate a Port Harcourt, capitale del Rivers State, ma la più importante città del Delta del Niger, il sequestro degli italiani e dell’ucraino si inquadra nella guerra politica che sta devastando il sud della Nigeria.

Due gruppi sono in lotta per la supremazia nel ricco di petrolio Beyelsa State, lo Stato della federazione nigeriana davanti alle cui coste si è consumato il rapimento dei quattro europei. I Diete-Spiff e i Briggs. I primi di etnia ijaw, governano la regione da almeno 300 anni; hanno ampi interessi nel petrolio, una lunga storia di corruzioni e tangenti ed espresso il presidente della repubblica nigeriana, Godluck Ebele Jonathan. Attorno a Ankio Briggs, una agguerrita signora di etnia igbo, si sono invece raccolti gruppi di militanti ecologisti che accusano il presidente Jonathan (del quale in un primo tempo erano sostenitori) di non ha fatto abbastanza per la popolazione locale, sia dal punto di vista della distribuzione delle  risorse, sia da quello della reazione alle recenti inondazioni che hanno devastato il sud del Paese.

Ankio Briggs viene sospettata anche di avere simpatie secessioniste, sulla falsariga di quelle che portarono all’indipendenza del Biafra dal maggio 1967 al gennaio 1970. Tentazioni biafriane si sono manifestate quest’anno con dimostrazioni di piazza, nella regione del Delta del Niger.

FORTISSIMI INTERESSI
Ma non è solo
 politica. In realtà dietro le tesi espresse dai due gruppi ci sono fortissimi interessi, Proprio pochi giorni prima del sequestro, le compagnie petrolifere che operano nel delta del Niger hanno pagato ai capi tribali e a quelli delle milizie il cosiddetto “Bonus Natalizio”, una sorta di “pizzo” che viene elargito in cambio dell’assicurazione che non saranno toccati impianti e maestranze. Una pratica che va avanti da anni e che quindi ha provocato la demoltiplicazione dei questuanti, sempre più avidi.

BONUS NATALIZIO
A proposito del sequestro dei quattro marittimi, sono due le ipotesi che vengono fatte in Nigeria: il “bonus” di quest’anno non ha soddisfatto qualcuno o la guerra tra ijaw e igbo è diventata così dura che uno dei due gruppi ha dato ai propri militanti l’ordine di attacco per destabilizzare la situazione. In particolare sarebbero stati gli uomini di Diete-Spiff a catturare gli ostaggi.

L’ Asso 21 sarebbe stato scelto con cura. In queste settimane, infatti, non lavorava per le società petrolifere, cui i Diete-Spiff sono particolarmente legati (soprattutto per l’ingente quantità di denaro che viene loro elargito ogni anno) e riconoscenti. E’ bene in questo senso ricordare, come esempio,  che uno dei loro capi, Alfred (detto Debo)  Diete-Spiff, qualche anno fa ha avuto un gravissimo incidente d’auto ed è stato ricoverato in Europa (dove gli hanno amputato entrambe le gambe) a spese dalla NAOC (Nigerian Agip Oil Company) la società mista Stato nigeriano e Eni. Ora è ridotto in carrozzella e quelli che vorrebbero sottrargli il posto di gran capo (in Africa un leone ferito viene fatto fuori dai suoi simili) non ci riescono.

Gabriele Volpi

GABRIELE VOLPI
Il rimorchiatore
 assalito è stato noleggiato dalla società italiana INTELS (Itegrated Logistic Systems di Gabriele Volpi) che a Port Harcourt gestisce un immenso “rifugio per espatriati” http://www.intelservices.com/ cioè una cittadella cintata e blindata con villette, campi da tennis piscine, ristoranti, ma soprattutto guardie di sicurezza che sorvegliano dappertutto contro ladri, rapinatori e sequestratori, gente che nella ricca area del Delta del Niger abbonda. Lì vivono, praticamente tutti, gli stranieri che lavorano nell’industria del petrolio.

Ma non solo. Con interessi diversificati nel business del petrolio la INTELS (che ha praticamente il monopolio della logistica e un giro d’affari che si aggira sul 1,5 miliardi di dollari) ha fatto di Gabriele Volpi uno degli uomini più ricchi del pianeta, definito dal settimanale economico Il Mondo, “il Roman Abramovic italiano”.

ATIKU ABUBAKAR
Come l’oligarca
 russo, Volpi (che è anche cittadino nigeriano) possiede una squadra di calcio (il La Spezia) ed è proprietario della Pro Recco, storico team di pallanuoto. Ultimamente, come ha scritto Il Sole 24 ore, ha affidato una parte del suo del suo patrimonio a un trust di diritto britannico proprietario di “Santa Benessere & Social”, società che ha tra i suoi progetti lo sviluppo del porto turistico di Santa Margherita Ligure.

Socio di Volpi  è Atiku Abubakar, ex vicedirettore generale del servizio doganale nigeriano divenuto poi vice-presidente e uno degli uomini più ricchi e potenti del Paese. Atiku e Volpi sono indagati da una commissione di inchiesta del Senato americano che ha accertato ingenti pagamenti provenienti da tangenti pagate alla coppia dalle società petrolifere.

BUSINESSMEN IN SMOKING
L’attacco
 all’Asso 21 quindi si deve inquadrare in un contesto particolarmente intricato e difficile e non è certo opera di una banda di criminali senza guida “politica”. Il sequestro degli italiani e dell’ucraino è maturato in un complicato arcipelago nigeriano in cui coabitano uomini d’affari occidentali in smoking, politici corrotti, militari senza scrupoli, banditi da strada e, naturalmente, 007. Se il riscatto verrà pagato in fretta la liberazione sarà immediata. Ma c’è il pericolo che le trattative si protraggano per mesi con gravi conseguenze per la salute, anche psicologica degli ostaggi.

Massimo A. Alberizzi
twitter @malberizzi
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Nelle foto Reuters e Ap, dall’alto: il rimorchiatore Asso 21, un impianto petrolifero, una raffineria illegale, Gabriele Volpi e  il suo socio, Atiku Abubakar.

CONGO K/Forte rischio di corruzione. Coinvolta la Glencore (Alcoa). IMF ferma un prestito

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E’ coinvolta la multinazionale svizzera Glencore (la società che voleva comprare l’Alcoa di Carbonia/Iglesias) nello scandalo finanziario congolese per il quale il Fondo Monetario Internazionale ha bloccato un prestito di 200 milioni di dollari al governo di Kinshasa. Qualche giorno fa le agenzie di stampa Bloomberg e Reuters hanno riportato che il Fondo Monetario Internazionale (IMF) ha fermato il suo programma di prestiti con la Repubblica Democratica del Congo a causa delle preoccupazioni per la trasparenza nel settore minerario del paese.

Congo, Prima di ritirasi da Goma l’M23 pone precise condizioni al presidente Kabila

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Dal Nostro Inviato Speciale
Massimo A. Alberizzi
Goma, 28 novembre 2012

Grande confusione in Congo dove ieri per tutta la giornata si sono susseguite notizie di pace e di guerra. Comincia la mattina presto il capo militare del ribelli dell’M23, Sultani Makenga, in Uganda per colloqui con la sua controparte congolese. Sultani, sostiene che era stato raggiunto un accordo con il governo per il ritiro dei suoi miliziani da Goma e dai dintorni. “Ci ritireremo in 24 ore”, è l’annuncio da Kampala.

Jean-Marie Runiga Lugerero

In città si diffonde il panico. “Se i ribelli si ritirano e tornano i governativi il saccheggio è certo”, sostengono all’unisono la decina di cittadini interpellati sulla questione. I poliziotti che sono raggruppati nello stadio di Goma e che pochi giorni fa hanno giurato fedeltà alla rivoluzione, in attesa di essere ricollocati tra le forze dell’ordine, sono piuttosto preoccupati. Se veramente tornano i loro capi scappati all’arrivo dell’M23  riusciranno a mantenere il loro posto? La gente è conscia dei percoli, ma poche ore dopo, alla fine della mattinata il presidente dei ribelli Jean-Marie Runiga,  in una conferenza stampa, sostiene che i suoi combattenti sono pronti a lasciare le posizioni. Ma pone per il ritiro precise condizioni al presidente del Paese, Joseph Kabila.

Tra le altre che Kabila liberi i prigionieri politici, levi gli arresti domiciliari per l’oppositore storico Etienne Tchtsekedi, e che apra inchieste indipendenti, sulle elezioni del 2011 (vinte da Kabila con i brogli , come a suo tempo sostennero gli osservatori internazionali)  e sugli omicidi politici avvenuti nel Paese. Condizioni che gli osservatori giudicano inaccettabili dal presidente congolese, perché significherebbero il suicidio politico dell’attuale presidente.

Nel pomeriggio l’ultima notizia. L’M23 non intende ritirarsi da Goma e procederà nella sua guerra per il controllo del Paese. Notizia confermata la sera. Il Generale Orenga, capo di stato maggiore dell’esercito congolese aveva lanciato un ultimatum di 48 ore ai ribelli perché abbandonino le loro posizioni, minacciando con un’eccessiva bellicosità: “Se non lo faranno li distruggeremo”. “Avevamo aperto un canale per negoziare – commenta Jean Marie Runiga – e Orenga ci minaccia già. E’ chiaro: loro vogliono la guerra e noi accetteremo la sfida”.

Massimo A. Alberizzi
massimo.alberizzi@gmail.com
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Congo-K, i ribelli dell’M23 si istallano a Goma. In fuga le truppe governative

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Dal Nostro Inviato Speciale
Massimo A. Alberizzi
Kigali (Ruanda) , 20 novembre 2012

Goma, la capitale economica del Congo Orientale, è stata catturata dai ribelli dell’M23, gruppo conosciuto anche come Armata Rivoluzionaria Congolese. Per il controllo della città non c’è stata quella che fino a ieri qualcuno paventava la “Grande battaglia di Goma”.

I miliziani non hanno trovato resistenza e, come sempre è capitato in queste circostanze, l’esercito regolare congolese è scappato a gambe levate.

Congo Ribelli M23.jpg

Se è vero che dietro i ribelli – la maggior parte sono di etnia tutsi – c’è l’appoggio logistico (e probabilmente militare) di Ruanda e Uganda, è anche vero che i governativi hanno avuto il sostegno dei cashi blu della Monusco, la missione delle Nazioni Unite in Congo, i cui vertici – fino a ieri – erano certi che la città non sarebbe caduta, tant’è vero che non hanno diramato nessun ordine di evacuazione e sono ancora in controllo dell’aeroporto.

la strada Goma-Rutshuru è infestata da milizie e irregolari sbandati, banditi, tagliagole e assassini, che controllano piccole porziomi di territorio lucrando su piccooli e grandi traffici. Percorrendo la strada è facile imbattersi in gruppi di miliziani armati di tutto punto. anche con armi pesanti

Molti degli espatriati presenti in città hanno passato il confine e sono andati in Ruanda. Ma chi ha voluto è rimasto in Congo sotto la protezione dei caschi blu. Nessuno degli almeno cento occidentali è intrappolato a Goma, neppure un gruppetto di italiani tra cui il vulcanologo Dario Tedesco, che tiene sotto controllo il Nyiragongo. Una delle sue colate laviche qualche anno fa seppellì una parte di Goma.

I ribelli dell’M23 sembrano determinati forse perché consci che lo Stato centrale si spappola davanti a ogni seria minaccia.

Congo gente in fuga.jpg

Il presidente congolese Joseph Kabila da Kinshasa, la capitale, ha lanciato un appello alla mobilitazione generale, ma pare molto difficile che venga accettato dai suoi concittadini. Se sui ribelli pesa il sospetto che siano guidati da fuori, su Kabila la certezza (come avevano a suo tempo dichiarato gli osservatori internazionali) che abbia truccato le elezioni attraverso cui è arrivato al potere per un secondo mandato.

Il presidente dell’M23, il vescovo Jean Marie Runiga Lugerero, raggiunto al telefono, ha sostenuto che i ribelli hanno accelerato la loro entrata a Goma perché erano cominciate le vendette (leggi assassinii mirati) sui civili tutsi loro simpatizzati.

Decine di migliaia di persone sono scappate abbandonando le loro case e i loro averi. Un campo profughi a pochi chilometri da Goma ospitava 60 mila persone: ora è stato completamente vuoto.

Massimo A. Alberizzi
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Congo-K: furiosi combattimenti tra ribelli dell’M23 ed esercito per il controllo di Goma

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Dal Nostro Inviato Speciale
Massimo A. Alberizzi
Nairobi, 17 novembre 2012

Furiosi combattimenti nell’est del Congo tra i ribelli dell’M23 (appoggiati da soldati ruandesi) da una parte e le truppe governative (sostenute dai ribelli ruandesi del Fronte Democratico per la Liberazione del Ruanda) dall’altra. Gli uomini dell’M23 minacciano la città di Goma, capoluogo del nord Kivu, che si è svuotata. Migliaia di persone in fuga hanno trovato rifugio sia in Uganda che in Ruanda.

I due nemici si accusano l’un l’altro di aver cominciato le ostilità. Sul campo i guerriglieri hanno guadagnato terreno e hanno catturato Kibumba un villaggio a 30 chilometri da Goma. Nonostante la Monusco (la missione dell’Onu in Congo) abbia usato elicotteri per bombardare le posizioni ribelli, l’avanzata degli irregolari verso Goma sembra irresistibile. “Sono sostenuti da truppe ruandesi”, ha accusato il governatore del Nord Kivu, Julien Paluku, ammettendo che le sue truppe sono in ritirata.

Il Ruanda ha respinto le accuse e ha invitato ribelli e governo a deporre le armi (anche perché, ha protestato, “alcune bombe sono cadute sul nostro territorio, ferendo alcuni contadini”) e a sedersi al tavolo della trattative.

Funzionari delle Nazioni Unite hanno assicurato che le truppe ruandesi sono presenti in Congo e hanno chiesto che il Consiglio di sicurezza imponga sanzioni al Ruanda. Ma il Ruanda oggi siede in Consiglio di Sicurezza (eletto qualche settimana fa) e quindi è quasi impossibile che possa passare una risoluzione contro Kigali.

Abitanti di Goma, contattati via internet (è il modo migliore, i telefoni potrebbero essere controllati e quindi questo genera paura negli interlocutori dei giornalisti), hanno raccontato “che soldati ruandesi travestiti da congolesi sono già in città”. (C’è da dire, però che molti congolesi di origine tutsi possono essere facilmente essere scambiati per ruandesi). “La mia famiglia – ci ha raccontato un cittadino di Goma – l’ho già spedita a Giseni (la città gemella di Goma ma in territorio ruandese, ndr). Io sono rimasto qui a difendere la mia casa. Se l’M23 prende la città ci saranno saccheggi e vendette”.

Secondo questo interlocutore il personale dell’ONU è stato evacuato da Goma e i posti di frontiera con il Ruanda sono intasati dalla gente in fuga. E’ difficile fare un bilancio dei morti che sono comunque parecchi.

Al telefono il presidente del gruppo ribelle M23, il vescono Jean-Marie Runiga Lugerero, non ha dubbi: “Noi cercavamo una soluzione pacifica, sono stati i responsabili dell’esercito congolese che giovedì ci hanno attaccato e aperto le ostilità. Siamo convinti che solo un dialogo sincero possa portare alla pace: siamo pronti ma siamo pronti anche a perseguire la soluzione armata se ci costringono a questo”

Massimo A. Alberizzi
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Berlusconi, con gli amici ritorna a Malindi da Briatore

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Massimo Alberizzi FrancobolloAfrica ExPress
Massimo A. Alberizzi
1° novembre 2012

Silvio Berlusconi è arrivato a Malindi questa mattina a bordo di un aero Gulf stream 5 privato. Dal velivolo allo scalo della località turistica keniota sono scesi oltre al ex premier e a Flavio Briatore, Antonino Battaglia, Maurizio Cicero, Francesca Pascale, Maria Rosaria Rossi, Dafni Di Boni, Giovani Battista Gamondi, Giorgio Puricelli, Valentino Valentini, Tarak Ben Ammar, Alberto Zangrillo. Tutti saranno ospiti della splendida villa che Briatore possiede a Malindi, il Lion in The Sun (il Leone al Sole). 

Briatore e Berlusconi all’aeroporto di Malindi
Briatore e Berlusconi all’aeroporto di Malindi

E’ questa la seconda visita in meno di due mesi di Berlusconi sulla costa keniota dove Briatore sta costruendo un immenso e lussuoso resort, il club Billionaire. A Malindi la comunità italiana, assai numerosa, si domanda se l’ex premier parteciperà o finanzierà l’operazione immobiliare (da quasi 5 milioni di euro), osteggiata dagli ecologisti kenioti.

Gli ambientalisti sostengono infatti che il club Billionaire è stato costruito in una zona spiaggia esclusiva che era classificata come una zona protetta per la riproduzione delle tartarughe marine. Ma secondo l’agenzia conservazionista governativa, il Kenya Wildlife Service, che ha affittato la terra a Briatore, le questioni ambientali sono stati risolte e l’edificio che ospita l’hotel è stato costruito lontano dalla battigia, distante insomma dal tratto di spiaggia dove le tartarughe marine depongono le uova.

Appena sceso dall’aereo il gruppo è salito bordo di una Range Rover Vogue di proprietà del magnate della Formula 1, cui è stato permesso di entrare sulla pista. La sicurezza all’aeroporto è stata rafforzata con numerosi agenti della GSU (General Service Unit, un corpo paramilitare addestrato con compiti di polizia) armati di tutto punto schierati per prevenire possibili attentati. 

Massimo A. Alberizzi
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Morto Melles, il capo guerrigliero che amava Bob Marley e credeva nella democrazia

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Meles Zenawi, primo ministro dell’Etiopia e uomo forte del Paese, è morto nella notte.
Gravemente ammalato era ricoverato da un paio di mesi in un ospedale belga.
Ultimamente sembrava che le sue condizioni fossero migliorate e si attendeva
un suo ritorno ad Addis Abeba. Aveva 57 anni.
Gli succede il suo vice Haile Mariam Desalegn. Meles Zenawi è spirato pochi giorni dopo
un altro leader etiopico: il patriarca Abuna Paulos, il papa del copti d’Abissinia.

Speciale per Africa ExPress
Massimo A. Alberizzi
21 agosto 2012

Meles Zenawi, primo ministro dell’Etiopia e uomo forte del Paese, è morto nella notte. Gravemente ammalato era ricoverato da un paio di mesi in un ospedale belga. Ultimamente sembrava che le sue condizioni fossero migliorate e si attendeva un suo ritorno ad Addis Abeba. Aveva 57 anni. Gli succede il suo vice Haile Mariam Desalegn. Meles Zenawi è spirato pochi giorni dopo un altro leader etiopico: il patriarca Abuna Paulos, il papa del copti d’Abissinia.

Avevo un buon rapporto con Meles che incontravo regolarmente a ogni visita nella capitale etiopica. Bastava una telefonata e trovava un’oretta per incontrarmi, magari a colazione (anche alle 6,30 del mattino). A differenza del suo vicino eritreo, Isayas Afeworki, era riuscito nella trasformazione da capo guerrigliero ad abile statista, uno dei leader più stimati del continente.

Il direttore di Africa ExPress, Massimo Alberizzi, e, a destra, l’ex premier Melles Zenawi, morto nel 2012, durante un’intervista nel palazzo presidenziale ad Addis Abeba. Al cetro il consigliere diplomatico del Primo Ministro

Tigrino, aveva guidato la rivolta del TPLF ( Tigray People’s Liberation Front) negli anni ’70 e ’80, quando l’ho conosciuto. Il gruppo, che si collocava su posizioni filo albanesi (cioè vetero marxiste) nel 1991 aveva sconfitto, il dittatore militar comunista Mengistu Haile Mariam, grazie all’aiuto dei ribelli eritrei con cui aveva stabilito una solida alleanza e al sostegno degli Stati Uniti. Nei due anni di governo transitorio, Meles era stato scelto come presidente. Quando in quei giorni l’ho rivisto nell’ex reggia di Hailè Selassie, invece di trovarlo seduto dietro un’enorme e preziosa scrivania (cosa che fanno tutti i leader africani per mostrare agli interlocutori la loro importanza) si era sistemato al posto della segretaria. «Meles – gli dissi scherzando – ti ho lasciato filo albanese e ti ritrovo filoamericano! Cos’è successo?». Si mise a ridere di gusto. «Tutti maturano. Quella era un’utopia per una società ideale, che non esiste».

Parlò di programmi di ricostruzione, democrazia reale, lotta alla povertà, sviluppo, cooperazione regionale. «Devo stare attento a non trasformare il mio Paese in una dittatura», confessò preoccupato. Mise anche in discussione – con un atteggiamento eretico – l’articolo 1 dello statuto dell’Unione Africana che fissa come un dogma l’intangibilità delle frontiere africane. Due anni dopo sarebbe stata varata una delle costituzioni più moderne del mondo, l’unica parlamentare e non presidenziale di tutta l’Africa, che prevede, seppure con una procedura complicata, il diritto alla secessione. Nel 2003 l’Etiopia è il primo Paese a riconoscere l’indipendenza dell’Eritrea e si congratula con il leader fino ad allora amico e fratello d’armi, Isaias Afeworki.

Nel 1998 tutto cambia. L’Eritrea attacca l’Etiopia e Meles che aveva smobilitato gran parte del sue esercito è costretto a ricostruirlo indirizzando verso la difesa risorse che avrebbero dovuto essere impiegate per lo sviluppo. Nel 2000 contrattacca e caccia gli eritrei che avevano conquistato una parte del territorio etiopico. Subito dopo, però, rifiuta di ottemperare alla sentenza della corte de L’Aja e non ritira le sue truppe da Badme, un piccolo villaggio diventato simbolo della guerra tra i due Paesi, assegnato dai giudici al controllo di Asmara. Si giustificò così: «Anche se la consideriamo iniqua e ingiusta, abbiamo accettato la sentenza dell’arbitrato internazionale che assegna all’Eritrea Badme, ma non ce ne andremo finché non si stabiliranno relazioni chiare e stabili con Asmara». Nel 2004 lo incontro a Kigali, durante la commemorazione del genocidio in Ruanda. Allo stadio siede sul palco assieme a decine di presidenti, primi ministri, dignitari. Io sono nel campo di calcio assieme agli altri giornalisti. Mi vede e, violando l’etichetta, si sbraccia sorridente in un saluto cortese e gentile.

Nel febbraio 2005 assiste al megaconcerto per celebrare il sessantesimo anniversario della nascita del re del reggae, Bob Marley, morto di cancro nel 1981, all’apice della sua carriera. Mi presenta la moglie e i figli e confessa. «Vorrei ritirarmi. Vedi mi piacerebbe avere una vita normale con concerti, visite ad amici, vacanze». E assieme a Rita Marley, la vedova di Bob: «Vogliamo che in Africa non parlino più mitra e cannoni, ma chitarre e tamburi». Il cammino sulla democratizzazione e lo sviluppo del Paese si interrompe brutalmente pochi mesi dopo, quando vengono indette le elezioni generali. Meles è convinto di vincerle, ma durante lo spoglio perde il sindaco di Addis Abeba e si delinea la sua sconfitta. Si imbrogliano così le carte e il risultato finale si ribalta. Le polizia mitraglia la folla che protesta. I morti sono almeno 200. Ne parlammo e sembrava veramente sconvolto e pentito: «Non ho dato io l’ordine di sparare». Durante un nostro incontro alla domanda seccata sul perché tanti giornalisti cacciati in galera, ordinando alla fedele segretaria Aster (che parla perfettamente italiano) di tradurmi alcune parti degli articoli da loro pubblicati risponde: «Hai visto? Questi non scrivono né storie, né commenti, ma incitano all’odio etnico. Non posso permetterglielo, altrimenti mi “salta” il Paese».

Meles sogna un’Etiopia democratica e avanzata ma si scontra con la realtà africana: su due cose riesce a tenere inchiodato il Paese: l’abolizione di fatto della pena di morte (Mengistu viene condannato in contumacia all’ergastolo) e la lotta alla corruzione, contenuta a un livello basso, rispetto agli altri Paesi del continente. Nel 2008, pochi giorni dopo che l’ONU ha lanciato il mandato di cattura per crimini di guerra e contro l’umanità verso il presidente sudanese Omar Al Bashir, fa una dichiarazione a suo favore. Gli telefono: «Ma come? Mi avevi detto che gente come lui deve essere condannata!». «Non posso, altrimenti lui mi organizza una guerriglia ai confini e devo fronteggiare un’altra minaccia», si scusa. Un anno prima, alle mie rimostranze sulla rete (assai scadente) dei cellulari affidata ai cinesi: «Lo so non funzionano. Non immaginavo, altrimenti avrei rifiutato il loro aiuto nonostante ci abbiano dato un sacco di soldi».

Nel 2010 nuove elezioni che vince con un sospettoso 99 per cento dei voti: troppi. Forse è già malato e si moltiplicano le voci che voglia “lasciare” e nomina in suo vice Haile Mariam Desalegn, esponente di un’etnia minore, i Wolaytta, e non copto ma protestante, con studi in Finlandia. Nonostante le contraddizioni della sua politica l’Etiopia sotto il governo di Meles ha conosciuto una rapida crescita economica. Vedremo cosa accadrà con la sua morte. Una cosa è certa: il suo arcinemico Isaias Afeworli starà festeggiando.

Massimo A. Alberizzi
massimo.alberizzi@gmail.com
twitter @malberizzi

Pagato il riscatto, Rossella Urru è libera ma ancora nella capitale degli islamici

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Massimo A. Alberizzi
e da Gao Serge Daniel
19 luglio 2012
Rossella Urru, la cooperante italiana del Cisp rapita da Al Qaeda nel Maghreb Islamico, Aqmi, il 23 ottobre scorso, è stata liberata, assieme ai suoi due compagni di prigionia spagnoli: Ainhoa Fernandez de Rincon e Enric Gonyalons. 

Rossella UrruIeri sembrava che i ragazzi fossero già partiti verso Ouagadougou, capitale del Burkina Faso, dove saranno presi in consegna dai servizi italiani e spagnoli che l’attendono al Libya Hotel, il migliore della città. Ma a tarda sera è arrivata la notizia di un ritardo nel programma: una tempesta di sabbia, che si è scatenata per tutta la giornata, ha impedito il viaggio. I tre cooperanti sono stati costretti a dormire a Gao. Si muoveranno stamattina.

La Urru e i suoi compagni erano sati sequestrati a Tinduf, nel sud dell’Algeria, in un campo che ospita almeno 100 mila profughi sahraui, la popolazione dell’ex Sahara Occidentale spagnolo.

Dopo mesi di trattative avviate dagli emissari del presidente del Burkina Faso, Blaise Campaoré, con gli emiri di Aqmi, la stretta finale del processo di liberazione comincia domenica scorsa, quando il riscatto inviato dall’Europa arriva in Burkina Faso, sotto l’occhio vigile degli emissari italiani e spagnoli.

Il denaro viene quindi trasferito all’emiro Abdul Hakim a Gao, nel nord del Mali, nell’Azawad, quel territorio in cui i radicali islamici di Aqmi, tuareg e non solo, pochi mesi fa, hanno proclamato l’indipendenza.

L’emiro lunedì mattina forse è impegnato a contare il denaro o forse sta festeggiando l’arrivo dei pacchi di dollari (si parla di 10 milioni a ostaggio, per un totale quindi di trenta milioni) e così fa saltare l’appuntamento che ha preso con Serge Daniel.

Si scusa e lo lascia in attesa nel suo ufficio perché, sostiene, deve incontrare degli stranieri, probabilmente gli inviati del Burkina Faso, ai quali consegnare gli ostaggi.

Con loro a Gao c’è una vecchia conoscenza: il mediatore (meglio non fare il nome) che ha ottenuto il 17 aprile scorso la liberazione di Maria Sandra Mariani, altro ostaggio italiano catturato in Algeria il 2 febbraio 2011.

Abdul Hakim, che intende procedere immediatamente alla liberazione, deve però fare i conti con i suoi. All’interno della sua katiba, la cellula islamica, si alzano voci contro la liberazione degli spagnoli: oltre al pagamento del riscatto, i dissidenti pretendono il rilascio di sette dei loro compagni di prigionia detenuti nei Paesi del Sahel. Un ufficiale italiano conferma che alcuni membri di Aqmi in carcere sono stati liberati.

L’atmosfera si rilassa e, probabilmente, contribuisce a rilassarla la promessa che una parte del riscatto verrà ridistribuita ai militanti islamici.

MappaMartedì gli ostaggi vengono portati a Gao, la città principale del nord del Mali e base dei fondamentalisti. Per farli uscire dalla città l’emiro Abdul Hakim mette a disposizione la sua automobile, che poi non è altro che quella del console algerino in città, sequestrato con sei dei suoi collaboratori qualche mese fa. Il convoglio parte in direzione del confine con il Burkina Faso ma poi rientra, costretto dalla tempesta di sabbia.

Ieri sera il telefono del mediatore a tratti era spento e a tratti acceso. Per un momento ha preso la linea e il proprietario ha risposto, ma quando stava per passare Rossella è caduta la conversazione.

Secondo testimoni sentiti a Gao, Rossella Urru è in buone condizioni, certamente migliori di quelle dei due spagnoli, suoi compagni di prigionia.

La notizia della liberazione è stata salutata con sollievo e gioia dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e dal premier Mario Monti: entrambi hanno apprezzato la professionalità dei nostri servizi di sicurezza.

Massimo A. Alberizzi
da Gao, Serge Daniel
twitter @malberizzi
massimo.alberizzi@gmail.com

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Pagato il riscatto, Rossella Urru è libera ma ancora nella capitale degli islamici

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Massimo A. Alberizzi
19 luglio 2012

Rossella Urru, la cooperante italiana del Cisp rapita da Al Qaeda nel Maghreb Islamico, Aqmi, il 23 ottobre scorso, è stata liberata, assieme ai suoi due compagni di prigionia spagnoli: Ainhoa Fernandez de Rincon e Enric Gonyalons.

urru 1Ieri sembrava che i ragazzi fossero già partiti verso Ouagadougou, capitale del Burkina Faso, dove saranno presi in consegna dai servizi italiani e spagnoli che l’attendono al Libya Hotel, il migliore della città. Ma a tarda sera è arrivata la notizia di un ritardo nel programma: una tempesta di sabbia, che si è scatenata per tutta la giornata, ha impedito il viaggio. I tre cooperanti sono stati costretti a dormire a Gao. Si muoveranno stamattina.

La Urru e i suoi compagni erano stati sequestrati a Tinduf, nel sud dell’Algeria, in un campo che ospita almeno 100 mila profughi sahraui, la popolazione dell’ex Sahara Occidentale spagnolo.

Dopo mesi di trattative avviate dagli emissari del presidente del Burkina Faso, Blaise Campaoré, con gli emiri di Aqmi, la stretta finale del processo di liberazione comincia domenica scorsa, quando il riscatto inviato dall’Europa arriva in Burkina Faso, sotto l’occhio vigile degli emissari italiani e spagnoli.

Il denaro viene quindi trasferito all’emiro Abdul Hakim a Gao, nel nord del Mali, nell’Azawad, quel territorio in cui i radicali islamici di Aqmi, tuareg e non solo, pochi mesi fa, hanno proclamato l’indipendenza. L’emiro lunedì mattina forse è impegnato a contare il denaro o forse sta festeggiando l’arrivo dei pacchi di dollari (si parla di 10 milioni a ostaggio, per un totale quindi di trenta milioni) e così fa saltare l’appuntamento che ha preso con il collaboratore di Africa  ExPress.

urru e bimboAspetta qui, gli dice e lo lascia nel suo ufficio perché, sostiene, deve incontrare degli stranieri, probabilmente gli inviati del Burkina Faso, ai quali consegnare gli ostaggi. Con loro a Gao c’è una vecchia conoscenza: il mediatore (meglio non fare il nome) che ha ottenuto il 17 aprile scorso la liberazione di Maria Sandra Mariani, altro ostaggio italiano catturato in Algeria il 2 febbraio 2011.

Abdul Hakim, che intende procedere immediatamente alla liberazione, deve però fare i conti con i suoi. All’interno della sua katiba, la cellula islamica, si alzano voci contro la liberazione degli spagnoli: oltre al pagamento del riscatto, i dissidenti pretendono il rilascio di sette dei loro compagni di prigionia detenuti nei Paesi del Sahel. Un ufficiale italiano conferma che alcuni membri di Aqmi in carcere sono stati liberati.

L’atmosfera si rilassa e, probabilmente, contribuisce a rilassarla la promessa che una parte del riscatto verrà ridistribuita ai militanti islamici.

Mali map 1Martedì gli ostaggi vengono portati a Gao, la città principale del nord del Mali e base dei fondamentalisti. Per farli uscire dalla città l’emiro Abdul Hakim mette a disposizione la sua automobile, che poi non è altro che quella del console algerino in città, sequestrato con sei dei suoi collaboratori qualche mese fa. Il convoglio parte in direzione del confine con il Burkina Faso ma poi rientra, costretto dalla tempesta di sabbia.

Ieri sera il telefono del mediatore a tratti era spento e a tratti acceso. Per un momento ha preso la linea e il proprietario ha risposto, ma quando stava per passare Rossella è caduta la conversazione.

Secondo testimoni sentiti a Gao, Rossella Urru è in buone condizioni, certamente migliori di quelle dei due spagnoli, suoi compagni di prigionia.

La notizia della liberazione è stata salutata con sollievo e gioia dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e dal premier Mario Monti: entrambi hanno apprezzato la professionalità dei nostri servizi di sicurezza.

Massimo A. Alberizzi
da Gao, Serge Daniel
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