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Gli atleti africani abbattono altri due muri alla maratona di Berlino

Dal Nostro Corrispondente Sportivo
Costantino Muscau
24 settembre 2023

È caduto un (altro) muro a Berlino, anzi due: il limite di velocità della maratona femminile e quello del numero di vittorie di uno stesso corridore nella gara maschile dei km 42,195.

Maratona di Berlino 2023

A sbriciolare il primo ci ha pensato, nella radiosa mattinata di domenica 24 settembre, una giovane etiope, Tigst Assefa, 26 anni, che ha sbalordito il mondo dell’atletica. E ha fatto storcere il naso a qualcuno per la sua improvvisa ascesa nell’Olimpo delle donne più forti di sempre.

A demolire il secondo è stato l’immarcescibile, insuperabile, immenso kenyano doppio campione olimpionico, Eliud Kipchoge, che a quasi 39 anni ha conquistato il quinto successo, dopo quelli ottenuti nel 2015, 2017, 2018 e 2022, anno in cui ha anche registrato il record mondiale in 2h01’09”.

Stavolta si è dovuto accontentare del tempo, pur sempre eccezionale, di 2h02’42”, l’ottavo della storia. In fondo, poi, si tratta della sedicesima vittoria delle 19 cui ha partecipato. “Non sono andato come mi sarei aspettato – ha dichiarato, ammettendo che suo obiettivo era scendere sotto il suo record mondiale – ma così è lo sport. Ogni corsa insegna qualcosa. Ora punto alle Olimpiadi di Parigi nel 2024 per cercare di essere il primo “umano” a vincere la maratona per la terza volta”.

Maratona di Berlino: medaglia d’oro per il keniota Eliud Kipchoge

Primato planetario, inimmaginabile un tempo per una donna, è, invece, quello della stupenda (nel senso che ha stupito) di Tigst Assefa.

È passata sotto le porte di Brandenburgo, sul traguardo della 49° edizione della BMW Berlin Marathon, fermando i cronometri su 2h11’53”. Ovvero: ha migliorato di due minuti e 11 secondi il record (2h14’04”) segnato dalla keniana Brigid Kosgei, 29 anni, a Chicago nel 2019.

La sorpresa però non è solo questo risultato strabiliante, a detta di chi se ne intende. La ragazza di Addis Abeba, infatti, aveva esordito in giovanissima età non sulle corse di lunga distanza, ma sugli 800 metri. In questa disciplina aveva ottenuto un argento ai Campionati Africani Juniores del 2013. Nel 2016 aveva poi rappresentato il suo Paese alle Olimpiadi di Rio.

L’etiope Tigst Assefa, vincitrice della Maratona di Berlino

Nello stesso anno però aveva avuto un incidente al tendine di Achille e allora nel 2018 ha puntato prima sulle mezze maratone e poi sulla corsa maggiore. Fra i suoi trionfi anche quello sui 10 km di Telese Terme (Benevento) nel giugno 2022.

Proprio un anno fa, il 25 settembre, aveva esordito con la vittoria, neanche a dirlo, proprio a Berlino, con un tempo, però ben lontano da quello record: 2h15’37, anche se era il terzo della storia.

Insomma, in un anno ha guadagnato a Berlino quattro minuti, ha lasciato dietro di sé la keniana Sheila Chepkirui, 32 anni, (a 6 minuti) e la tanzaniana Magdalena Shauri, 27, terza, a 7 minuti. Devastante.

Dopo il traguardo, avvolta nella bandiera etiopica, Assefa si è fatta il segno della croce per due volte, poi ha baciato le nuove scarpe di Adidas, che pare facciano miracoli, se si hanno le gambe buone. E 500 euro da spendere: tanto, infatti, costano questi calzari da road running di circa 140 grammi, più leggere del 40 per cento – dicono – di qualsiasi altra super scarpa mai creata.

Quindi, ecco gli ingredienti del successo: aiuto divino, scarpette tecnologicamente avanzatissime, allenamenti pesanti cui la sottopone il suo guru Gemedu Dedefo, dopo essere stata preparata anche da due tecnici italiani giramondo (allenano campioni africani e non solo, in Kenya ed Etiopia) Gabriele Nicola e Renato Canova, della scuderia del trentino Gianni Demadonna. Il manager dei campioni, come è stato definito, non credeva ai propri occhi dopo lo strabiliante risultato della campionessa etiope, da cui è stato abbracciato calorosamente.

Ci sarebbe da aggiungere la lepre, Azmera Gebru, 29 anni, un maratoneta che le ha dato il ritmo e la ha accompagnata per l’intera corsa. “E’ il risultato del duro lavoro cui mi sono sottoposta nell’ultimo anno – ha confermato Assefa all’arrivo – non mi aspettavo di battere il record con questo margine, ma sapevo di ottenere il primato”.

Questi risultati, naturalmente, non portano solo gloria, ma anche denaro sonante. I due vincitori di Berlino hanno messo in tasca 30 mila euro ciascuno, ma la super runner Assefa in più ha avuto un bonus da 50 mila euro per il record mondiale. E ora anche lei ha nel mirino Parigi, 2024.

Costantino Muscau
muskost@gmail.com
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E’ nuovamente medaglia d’oro a Berlino per il keniota Eliud, il maratoneta superman

 

 

La giunta militare del Mali: “Riprenderemo il controllo di tutto il territorio”, ma jihadisti e tuareg hanno ripreso gli attacchi

Africa ExPress
23 settembre 2023

In seguito alla forte recrudescenza delle violenze in diverse zone del Mali, le celebrazioni ufficiali per il 63° anniversario dell’indipendenza sono state ridotte al minimo in tutto il territorio nazionale.

A Bamako, il capo della giunta, Assimi Goïta, a margine di una parata militare, ha assicurato che lo Stato riprenderà il totale controllo di tutti i territori, senza però precisare entro quanto tempo.

Assimi Goïta, capo della giunta militare di transizione in Mali

Intanto questa mattina si è schiantato un aereo Illouchine 76, numero di registrazione TZ98, durante la fase di atterraggio all’aeroporto di Gao. Il mezzo trasportava attrezzature e uomini. Finora non si sa se si ci sono stati morti o feriti. Secondo quanto riferito da testimoni oculari, sono state udite diverse esplosioni provenienti dal serbatoio del carburante. Le indagini sono tutt’ora in corso, ma secondo alcune indiscrezioni non confermate, l’aeromobile sarebbe stato gestito dai paramilitari russi di Wagner.

Nel frattempo nel nord della ex colonia francese l’insicurezza peggiora di giorno in giorno: Timbuctù, il gioiello del Sahel (iscritta nel 1988 nella lista dell’UNESCO dei patrimoni dell’umanità), è sotto assedio di JNIM (Gruppo di sostegno dell’Islam e dei musulmani) dall’inizio di agosto. Da allora è sottoposta a un blocco totale, che impedisce alle decine di migliaia di abitanti di lasciare la città o di ricevere rifornimenti dall’esterno.

E giovedì, secondo quanto riferito dal governatore Bakoun Kanté, cinque persone sono morte mentre la città veniva colpita da diverse granate, lanciate dai terroristi. Altri 20 residenti sarebbero rimasti feriti, ha confidato ai reporter di Le Monde un operatore sanitario che vuol restare anonimo.

Il raggruppamento JNIM è stato fondato nel marzo 2017, guidato da Iyad Ag-Ghali, vecchia figura indipendentista touareg, diventato capo jihadista e fondatore di Ansar Dine, in italiano: ausiliari della religione (islamica). Il “consorzio” comprende diverse sigle, oltre a Ansar Dine, Katiba Macina, sono presenti anche AQMI (al Qaeda nel Magreb Islamico), Al-Mourabitoun.

CMA nuovamente sul piede di guerra in Mali

Da qualche settimana si è riaperto anche un altro conflitto nel nord del Mali tra l’esercito dei golpisti di Bamako e i ribelli dell’Azawad, firmatari dell’accordo di Pace e di riconciliazione del 2015. Accordo più che mai traballante. Anzi, alcuni esperti, come Serge Daniel, giornalista e una delle voci più autorevoli dell’Africa sub sahariana, ritengono che l’accordo sia ormai praticamente nullo.

 Il cessate il fuoco accordato anni fa malgrado la sfiducia reciproca, è stato seriamente compromesso nelle ultime settimane, facendo temere una diffusa ripresa degli scontri.

Basti pensare che una settimana fa i combattenti del CMA (acronimo francese per Coordination des mouvements de l’Azawad, raggruppamento dei principali gruppi ribelli che hanno firmato l’accordo di Algeri, ndr), lo scorso 17 settembre hanno mostrato i muscoli, occupando per breve tempo la base delle forze maliane (FAMa) di Léré, a sud-est di Timbuctù, al confine con la Mauritania.

“Hanno colto di sorpresa i soldati di FAMa e li hanno scacciati, sequestrando armi e attrezzature militari, prima di ritirarsi in buon ordine”, ha riferito un dignitario di un altro gruppo ribelle.

Durante i combattimenti, la CMA ha anche rivendicato l’abbattimento di un caccia Albatros L-39, uno degli aerei forniti a Bamako da Mosca all’inizio dell’anno.

Solo qualche giorno prima, i ribelli hanno attaccato un altro campo dell’esercito maliano a Bourem, città strategica per i belligeranti. Infatti si trova su un asse trasversale est-ovest che collega Timbuctù a Gao e all’incrocio delle vie d’accesso che portano a Kidal, santuario dei ribelli tuareg. Nel 2012 i militanti avevano proclamato l’indipendenza dell’Azawad nel nord del Mali. A metà agosto nella stessa zona si sono verificati combattimenti per il controllo della base di Ber.

Da quando hanno preso il potere i golpisti nel 2020, il monitoraggio dell’accordo di pace è praticamente stato bloccato . Il ritiro dell’operazione francese Barkhane e l’imminente partenza dei caschi blu di MINUSMA (missione di pace delle Nazioni Unite in Mali), hanno risvegliato le ostilità. E, secondo quanto riferito dal rappresentante speciale dell’ONU in Mali, El Ghassim Wane, durante il Consiglio di Sicurezza del 28 agosto scorso, le posizioni dei firmatari dell’accordo di Algeri sull’occupazione delle basi liberati da MINUSMA sono in forte contrasto.

Le autorità di Bamako riprenderanno tutti i campi di MINUSMA una volta evacuati ma “La CMA si oppone al dispiegamento dell’esercito nelle aree sotto il loro controllo”, ha aggiunto infine l’alto diplomatico dell’ONU, preoccupato per “la grave mancanza di fiducia tra le parti”.

“La giunta militare ci tratta come terroristi e ha messo alla porta la comunità internazionale (Barkhane nel 2022, con l’arrivo dei mercenari di Wagner e i caschi blu ora, ndr) e rifiuta qualsiasi mediazione da parte degli stranieri. Non c’è più alcun dialogo con Bamako, dunque siamo costretti ad andare in guerra”, ha precisato un membro della CMA.

“Il CMA, pur di proteggere Kidal, sarebbe anche disposto a unire le proprie forze con i terroristi del JNIM”, ha denunciato un leader tuareg, pur sperando ancora in una ripresa del dialogo con Bamako.

Va però però ricordato che nel 2012 i movimenti indipendentisti tuareg e arabi sono stati completamente sopraffatti dai gruppi jihadisti, che ancora oggi sono i più attivi in tutta la zona.

Una settimana fa i leader delle giunte golpiste di Bamako, Niamey e Ouagadougou hanno siglato un accordo militare, Charte du Liptako-Gourma (prende il nome delle aree nella cosiddetta regione delle tre frontiere: Mali, Burkina Faso, Niger). Si tratta di un’alleanza degli Stati del Sahel con lo scopo di creare un sistema di difesa collettivo e di assistenza reciproca.

Africa ExPress          
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Mali: nuove forniture di aerei da Mosca, ma i terroristi continuano i cruenti massacri

Terroristi scatenati in Mali: una settimana di continui massacri e carneficine

Cinque gruppi jihadisti attivi nel Sahel si sono riuniti sotto la guida di un capo tuareg

Marocco due settimane dopo il terremoto: “E’ venuto giù tutto. In briciole”

Speciale per Africa ExPress
Federica Iezzi
22 settembre 2023

Dopo due settimane si iniziano a fare i conti del post terremoto in Marocco, mentre le ferite rimangono ancora aperte e la campagna mediatica inizia a spegnersi: “E’ cascato tutto giù come in briciole. Non è rimasto più niente”, ripetono gli abitanti dell’Alto Atlante.

Photo credit – Forces Armées Royales Marocco

Il Ministero della Salute del Marocco cerca di far fronte alle migliaia di persone che bussano alle porte degli ospedali. Più di 300 tonnellate di medicinali e dispositivi medici sono stati consegnati nell’area di Al-Haouz e sono state rafforzate le scorte presso tutte le strutture sanitarie presenti nelle aree colpite.

Un arsenale logistico e umano si è mobilitato sia nelle zone vicine all’epicentro e di difficile accesso, sia nelle località contigue, in particolare nelle regioni di Tahanaoute, Taroudant e Marrakech.

Il sistema sanitario nel Paese era già messo a dura prova prima della pressione aggiuntiva del terremoto. Le statistiche dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) parlano di circa sette medici ogni 10.000 abitanti.

Intanto, in meno di 48 ore, le Forces Armées Royales marocchine hanno allestito a Asni, a sud di Marrakech, un ospedale militare da campo, per il trattamento di almeno 1.400 pazienti con gravi traumi. Dislocato in un enorme parcheggio, con accampamenti di vittime attorno, l’ospedale dispone di sale operatorie, posti di terapia intensiva, servizi sanitari essenziali (radiologia, farmacia, banca del sangue) e servizi di psicologia. Ad ogni tenda dell’ospedale corrisponde una specialità medica.

Secondo gli ultimi aggiornamenti del Ministero della Salute marocchino, si contano almeno 18.000 feriti. Dunque, negli ospedali si continua a lavorare ininterrottamente a ritmi serrati. La presenza di volontari è diventata indispensabile. Questi includono non solo medici, ma anche studenti di medicina, infermieri, tecnici di laboratorio e di radiologia.

In tutto il Marocco, oltre alle auto cariche di materiale di primo soccorso che si dirigono verso le aree rurali, fuori da ogni ospedale e da ogni clinica mobile ci sono file di persone che aspettano anche ore per poter donare il sangue.

Molti ospedali, sull’esempio del Centre Hospitalier Universitaire Mohammed VI di Marrakech, hanno curato i traumi minori negli atri esterni, temendo nuovi danni da scosse di assestamento.

I servizi di emergenza-urgenza come i reparti sono quasi saturi. Elicotteri e ambulanze restano ancora impegnati nel trasporto delle vittime dalle più impervie zone di montagna, nelle province di Al-Haouz, Ouarzazate, Azilal, Chichaoua e Taroudant, agli ospedali attrezzati delle principali città.

Accanto alla crisi, oggi diventa fondamentale garantire la continuità degli aiuti e delle prestazioni. La carenza di servizi di base porta inevitabilmente verso epidemie e malattie legate alla mancanza di igiene e acqua potabile. E’ altrettanto importante ristabilire la continuità dell’assistenza, in particolare per la popolazione che convive con malattie croniche, quindi cure per i diabetici, dialisi, monitoraggio delle gravidanze, con l’obiettivo di minimizzare i rischi e prevenire future complicanze.

Federica Iezzi
federicaiezzi@hotmail.it
Twitter @federicaiezzi
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L’Ucraina come la Palestina: all’ONU il paradosso degli aggrediti

EDITORIALE
Eric Salerno
Roma, 21 settembre 2023

“L’umanità non crede più nell’Onu”, ha detto con enfasi e tristezza Volodymyr Zelensky davanti all’Assemblea generale delle Nazioni unite. “Purtroppo si trova in stallo quando bisogna risolvere un conflitto”.

Zelensky, presidente ucraino all’ONU

Quasi cinquanta anni fa, il 14 novembre 1974, un altro leader anche lui in divisa militare si presentò davanti ai rappresentanti di mezzo mondo. Yasser Arafat sperava nell’assise internazionale. “Questa è un’occasione molto importante. La questione della Palestina viene riesaminata dalle Nazioni Unite e consideriamo questo passo come una vittoria per l’Organizzazione mondiale tanto quanto una vittoria per la causa del nostro popolo. Ciò indica nuovamente che le Nazioni Unite di oggi non sono le Nazioni Unite del passato, proprio come il mondo di oggi non è il mondo di ieri”.

Lo scetticismo dell’attore diventato presidente dell’Ucraina è giustificato se solo guardiamo alla storia del popolo palestinese e alle speranze del suo storico leader.

Zelensky vorrebbe togliere il potere di veto alla Russia che, diceva, “occupa illegalmente” uno dei cinque seggi permanenti del Consiglio di sicurezza. A parere suo – e anche di molti membri dell’Onu – uno stato che viola la Carta delle Nazioni unite non dovrebbe avere diritto di veto al Consiglio di sicurezza.

Una revisione della Carta significherebbe anche affrontare l’uso del veto per difendere le azioni illegali degli altri membri. E questo ci riporta in Medio Oriente. Al conflitto più lungo della storia moderna, come viene definito la guerra per la Palestina. Gli Stati Uniti forniscono un sostegno politico su larga scala a Israele e Washington ha usato il potere di veto del Consiglio di Sicurezza 83 volte di cui 42 contro risoluzioni che condannano il governo israeliano.

Arafat durante il suo discorso all’ONU nel 1974

Si è parlato poco, in questi giorni, all’Onu dei conflitti che tormentano il Medio Oriente ma gli Usa, a un anno dalle elezioni presidenziali sono alle prese con una quasi isterica pre-campagna elettorale legata anche alle sorti dell’attuale inquilino della Casa Bianca e alla battaglia per il Congresso.

Israele, più forse di altre volte, è una pedina importante. La rivolta di una parte della popolazione ebraica dello stato contro il premier Netanyahu e la sua coalizione di estrema destra influisce molto sugli ebrei americani divisi tra il desiderio di difendere la democrazia israeliana in pericolo e dall’altra parte mostrare il loro sostegno di sempre per il paese a cui sono o si sentono legati.

L’altro giorno Thomas Friedman, storico editorialista del New York Times, che incontrai molti anni fa a Gerusalemme dove era andato a commentare l’Intifada palestinese (aveva appena vinto il Pulitzer per i suoi reportage sulla guerra in Libano e il suo libro su quel conflitto), ha suggerito al presidente Biden di rivolgere tre domande precise a Netanyahu.

Non sappiamo cosa si sono detti nel loro breve incontro ai margini dell’Assemblea generale dell’Onu. Per il futuro dei palestinesi, la prima domanda indicata dal collega americano ci pare la più importante.

“Primo Ministro Netanyahu, l’accordo di coalizione del suo governo è il primo nella storia di Israele a definire l’annessione della Cisgiordania come uno dei suoi obiettivi – o, come dice, l’applicazione della “sovranità israeliana in Giudea e Samaria”.

Ma in precedenza hai sostenuto il piano di pace di Trump per il Medio Oriente che proponeva di dividere la Cisgiordania, con Israele che controllava circa il 30% e lo Stato palestinese che otteneva circa il 70%, anche se con strette garanzie di sicurezza e nessuna contiguità. Intendete annettere la Cisgiordania o ne negozierete la futura disposizione con i palestinesi? Sì o no? Dobbiamo sapere. Perché se intendi annetterti, tutti i tuoi accordi di normalizzazione con gli stati arabi crolleranno e non saremo in grado di difenderti alle Nazioni Unite dalle accuse di costruzione di uno stato di apartheid”.

La domanda non tiene molto conto del passato: né del vecchio discorso di Arafat, né delle numerose risoluzioni del Consiglio di sicurezza mai rispettate da Israele riguardo i territori palestinesi. Una parte del mondo ha ricordato pochi giorni fa quella cerimonia sul prato della Casa Bianca in cui Arafat e Rabin hanno stretto la mano accettando gli accordi di pace negoziati a Oslo.

Sono passati 30 anni e la situazione sul terreno è cambiata. Sono aumentati gli insediamenti, le barriere e le strade che consentono-impongono israeliani e palestinesi a evitarsi. La violenza ha ripreso fiato anche se non esiste una intifada organizzata. E forse ancora più importante una generazione nuova, da una parte e dall’altra, non riuscirà quasi mai a incontrarsi da pari. La maggioranza dei giovani arabi vede soltanto giovani israeliani in divisa e armati e sempre più aggressivi. Gli scontri in Cisgiordania si sono intensificati: dall’inizio del 2023 fino ad agosto sono morti almeno 200 palestinesi e 21 israeliani.

E, come quasi sempre, il rituali incontri annuale a New York non sembrano preoccupare molto i non molti leader del mondo o i loro rappresentanti.

Eric Salerno

Trent’anni gli accordi di Oslo fra Israele e Palestina: ora sono carta straccia

Giulio Regeni? Chi era costui? L’Italia mostra i muscoli in un’esercitazione militare in Egitto con l’Egitto

Speciale per Africa ExPress
Antonio Mazzeo
21 settembre 2023

Bright Star 2023, la più grande esercitazione militare della storia in terra d‘Egitto: l’Italia vi partecipa con due navi da guerra e con le truppe da sbarco della Marina ma lo tiene segreto fino alla conclusione dei war games.

Egitto: Esercitazione Bright Star 2023

Dal 31 agosto al 14 settembre si è tenuta nella regione settentrionale della Repubblica Araba d’Egitto l’esercitazione multinazionale Bright Star (Stella luminosa) a cui hanno partecipato 8.400 militari di 34 paesi con 140 velivoli aerei, 17 unità navali e 250 tra blindati e carri armati. 

Il numero maggiore di uomini e mezzi sono stati forniti dal Paese ospitante, l’Egitto (oltre 2.300 unità più un imprecisato numero di agenti delle forze di polizia), e dagli Stati Uniti d’America (1.500).

Alla maxi-esercitazione erano presenti inoltre reparti di Arabia Saudita, Camerun, Cipro, Francia, Germania, Giordania, Grecia, India, Kuwait, Malawi, Pakistan, Qatar, Regno Unito, Sud Africa e Italia. Hanno inviato propri osservatori le forze armate di Australia, Bahrain, Brasile, Emirati Arabi Uniti, Giappone, Nigeria, Oman, Polonia, Repubblica del Congo, Rwanda, Sudan, Tanzania, Tunisia, Uganda e Ungheria. Presente infine pure una delegazione del Comitato Internazionale della Croce Rossa. Quartier generale dell’esercitazione la base militare “Mohamed Naguib” a circa 150 km di distanza dalla città di Alessandria.

Bright Star è la più vecchia esercitazione militare multilaterale in Medio Oriente e in Africa: viene svolta ogni due anni a partire dal 1980 sotto la supervisione dell’U.S. Central Command (USCENTCOM) di stanza a Tampa, Florida”, spiega in una nota il Dipartimento della Difesa Usa. “Organizzata inizialmente per costruire una relazione strategica nel settore difesa tra l’Egitto e gli Stati Uniti, essa è cresciuta nel tempo fino a diventare l’esercitazione guida per la sicurezza dell’intera regione”.

“La partecipazione ad essa rafforza le relazioni militari tra le forze armate Usa e i nostri partner egiziani nell’area sotto la responsabilità del Central Command, così come quelle con le altre nazioni partecipanti”, aggiunge Washington. “L’esercitazione migliora la cooperazione, la stabilità regionale e l’interoperabilità nella guerra irregolare contro le minacce moderne”.

Nel corso di Bright Star 2023 è stato svolto un ampio ventaglio di attività e simulazioni belliche: manovre combinate di tiro a fuoco, sicurezza marittima, difesa integrata aerea e missilistica, sbarchi anfibi, assalti aerei, controterrorismo, controllo tattico aereo, operazioni di cyber security e pianificazione congiunta su diversi livelli tattici, manovre integrate di unità terrestri, controllo delle frontiere. Per i war games l’US Air Force ha trasferito in Egitto i cacciabombardieri a capacità nucleare F-16 “Fighting Falcon” e i micidiali aerei d’attacco al suolo A-10 “Thunderbolt II”.  

“La qualità e la varietà delle opportunità addestrative in sede multinazionale con 34 nazioni dimostra il valore di Bright Star”, ha espresso il generale Michael “Erik” Kurilla, alla guida dell’U.S. Central Command. “Portare qui queste numerose nazioni, persone, equipaggiamento ed esperienze è anche un testamento per la leadership dell’Egitto nella regione. La conclusione con un’esercitazione a fuoco dal vivo è un esempio di interoperabilità tra uomini e mezzi, con più di 70 carri armati, aerei ed elicotteri d’attacco, artiglieria e difesa aerea schierati in maniera integrata da multipli reparti in un’unica formazione. Questa esercitazione militare continua ad offrire un contributo chiave alle attività di anti-terrorismo nella regione e agli sforzi per combattere la diffusione dell’estremismo violento”.

Grande enfasi per gli esiti di Bright Star 2023 anche nelle parole dello Stato maggiore egiziano. “L‘esercitazione ha dimostrato l’abilità dell’Egitto a combinare differenti dottrine militari delle scuole di guerra orientali e occidentali”, hanno dichiarato i leader delle forze armate del Cairo a dailynewsegypt.com. “Gli Stati Uniti d’America e i paesi della NATO considerano Bright Star un’esercitazione fondamentale per combattere nelle aree desertiche. L’Egitto a tanti altri Paesi ne beneficiano inoltre per ottenere nuove conoscenze sulle armi e le tattiche di guerra dell’Occidente”.

Il governo italiano, presumibilmente imbarazzato per la ripresa in grande stile delle relazioni militari ed economiche con il repressivo regime di Abdel Fattah al-Sisi, ha tenuto top secret la presenza delle forze armate nazionali in territorio egiziano.

Solo lo scorso 18 settembre, quattro giorni dopo la fine di Bright Star 2023, lo Stato Maggiore della Marina Militare ha diffuso un comunicato stampa in cui vengono riportati i nomi delle unità partecipanti: la nave anfibia da sbarco “San Giorgio”, il cacciatorpediniere lanciamissili “Francesco Mimbelli”, i marò della Brigata Marina “San Marco”.

“L’obiettivo dell’esercitazione è stato quello di addestrarsi in maniera congiunta simulando il moderno scenario d’impiego nel quale sono chiamate ad operare le forze marittime”, esordisce lo Stato Maggiore. “In particolare è stata valorizzata l’integrazione di navi, incluse quelle anfibie, impegnate congiuntamente in un contesto di crisis response in presenza di diversi rischi e di minacce anche asimmetriche”.

Le prime attività delle unità italiane si sono svolte dal 4 al 9 settembre, nel poligono di Mohamed Naguib e nella Naval Force Base di Alessandrina, congiuntamente alle navi e al personale militare di Egitto, Stati Uniti d’America, Cipro, Grecia, Giordania, India, Emirati Arabi e Qatar. La seconda fase delle esercitazioni è stata condotta in mare dal 10 al 13 settembre.

“In particolare, nel primo periodo sono stati svolti incontri, conferenze, seminari teorici e attività pratiche su temi di comune interesse, quali: training di combattimento in aree costiere, procedure e tattiche di force integration e boarding, sicurezza a terra e a bordo, corsi di sopravvivenza e di primo soccorso, organizzazione ed impiego delle squadre di pronto intervento per il contrasto del danno in caso di incendio e allagamento provocato da falla”, aggiunge lo Stato Maggiore della Marina Militare. “La fase underway, seconda parte dell’attività addestrativa, ha offerto la possibilità di mettere in pratica quanto di teorico appreso, con simulazioni di eventi reali di attacco asimmetrico, difesa contro sabotaggi sottomarini, esercitazioni di guerra elettronica, ecc.”.

“Le attività anfibie dal mare a terra, con protagonisti i Leoni dalla brigata marina San Marco, sono state uno degli elementi cardine dell’attività addestrativa, con esercitazioni di assalto anfibio, conduzione attività di superficie e controllo traffici mercantili”, spiega la nota della Difesa. “Immancabile, inoltre, la fase di addestramento nel campo della condotta dell’unità in mare, mediante l’esecuzione di manovre cinematiche in formazione tattica”.

La missione italiana in Egitto si è conclusa con una parata alla presenza del colonnello generale Mohamed Ahmed Zaki, alla guida del ministero della Difesa egiziano. Zaki ha espresso il proprio “ringraziamento per l’ospitalità ricevuta e la conferma della solidità dei rapporti di cooperazione internazionale sempre viva e in crescita fra i Paesi partecipanti”, conclude lo Stato Maggiore.

Giulio Regeni

Il barbaro omicidio del ricercatore Giulio Regeni e gli ignobili depistaggi da parte delle massime autorità egiziane sono ormai acqua passata e l’oblio assoluto regna tra gli alti comandi della Difesa e il governo Meloni-Crosetto-Tajani.

Antonio Mazzeo
amazzeo61@gmail.com
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“Ai giochi di guerra in Egitto, l’Italia non c’è”: ma video e foto smentiscono la Difesa

Cinismo della diplomazia europea: l’Egitto è un buon amico per respingere i migranti, quindi alleiamoci

Il Rinascimento made in Arabia Saudita: in forte aumento le esecuzioni capitali e le violazioni dei diritti umani

Speciale per Africa ExPress
Luciano Bertozzi
Settembre 2023

In Arabia Saudita il boia lavora senza sosta. Dall’inizio di quest’anno, l’agenzia di stampa saudita Saudi Press Agency (SPA), strettamente controllata dal regime, ha pubblicato in questi giorni la notizia della centesima esecuzione capitale dall’inizio del 2023.

Esecuzioni capitali in Arabia Saudita

“In netto contrasto – ha dichiarato Heba Morayef, direttrice per il Medio Oriente e Africa del nord di Amnesty International – con le ripetute promesse dell’Arabia Saudita di limitare l’uso della pena capitale, le autorità saudite hanno già messo a morte 100 persone quest’anno, manifestando il loro inquietante disprezzo per il diritto alla vita. La spietata spirale di sangue delle autorità suscita seri timori per la vita dei giovani uomini nel braccio della morte, minorenni quando hanno commesso i reati”.

“L’Arabia Saudita – ha affermato Morayef – è uno dei principali esecutori di sentenza di morte al mondo. Amnesty International ha documentato numerosi casi in cui sono state condannate a morte persone per motivi che vanno da pochi tweet non graditi dalle autorità, a reati legati alla droga, in seguito a processi gravemente iniqui e ben lontani dagli standard internazionali dei diritti umani”.

Le esecuzioni avvengono in pubblico, mediante decapitazione. Non è fantasia pensare alla possibilità che nel regno wahabita si superi il numero record di giustiziati del 2022 pari, secondo Amnesty, a 196, il triplo rispetto al 2021 e sette volte superiore a quello del 2020!

L’Arabia Saudita si sarebbe macchiata, secondo Human Right Watch, di altri crimini gravissimi: uccisioni di massa di migranti etiopici al confine con lo Yemen.

Le guardie di frontiera avrebbero ammazzato centinaia di migranti etiopici mentre tentavano di attraversare il confine Arabia Saudita-Yemen nel periodo marzo 2022 – giugno 2023.

L’Organizzazione ha affermato in un suo rapporto  “They Fired on Us Like Rain”  che gli agenti avrebbero utilizzato armi da fuoco per uccidere molti migranti. In alcuni casi, le guardie di frontiera saudite avrebbero chiesto persino in quale parte del loro corpo preferivano essere colpiti, prima di sparare a distanza ravvicinata. Avrebbero aperto anche il fuoco contro migranti che appena rilasciati dalla detenzione temporanea saudita, mentre tentavano la fuga verso lo Yemen.

Le guardie di confine dell’Arabia Saudita accusate di aver ucciso migranti etiopici mentre tentavano do entrare nel Paese

Molti etiopi da anni tentano di raggiungere gli Stati del Golfo, in fuga dalla povertà estrema e dalle brutali violazioni dei diritti umani nel loro Paese. Cercano scampo attraverso la rotta orientale. Prima di raggiungere Obock, sulla costa meridionale di Gibuti, da dove partono molte imbarcazioni cariche di migranti alla volta dello Yemen, i giovani devono attraversare lande aride e impervie e caldissime. Non di rado nella regione del lago Assal, abitata degli Afar, vengono rinvenuti resti umani. E’ un deserto di sale, infuocato. Una depressione a 155 metri sotto il livello del mare: il punto più basso di tutta l’Africa. I migranti muoiono di stenti, fame e sete. Altri annegano durante la traversata del Mar Rosso.

Secondo il New York Times, Washington sarebbe stato al corrente di tali crimini, ma per non dover prendere provvedimenti verso un alleato di fondamentale importanza,  non li avrebbe resi pubblici.

Nel regno è anche vietata la libertà di religione. Il gesto del super campione Ronaldo che in una partita in Arabia Saudita si è fatto il segno della croce dopo aver segnato un gol è stato tollerato, in quanto è stato ingaggiato come testimonial mondiale dell’impegno saudita di “normalizzazione” davanti al mondo, avanguardia di tanti atleti attratti da ingaggi stellari. Ma il semplice gesto del segno della croce avrebbe comportato per i comuni mortali persecuzioni e sofferenze.

Ronaldo e il segno della croce vietato in Arabia Saudita

La petromonarchia spende miliardi di dollari per comprare fette importanti dello sport mondiale: nel golf professionistico, nel mondo del calcio vengono acquistati alcuni fra i migliori giocatori. Organizza grandi eventi di intrattenimento, per rifarsi un’immagine e anche per distogliere l’attenzione dagli orrendi crimini che commette quotidianamente. Del resto, secondo un rapporto dell’Onu del 19 settembre 2019 fu Mohammad Bin Salman, principe ereditario e primo ministro, il mandante dell’uccisione del giornalista Khashoggi, letteralmente fatto a pezzi e arrostito sulla griglia del barbecue del consolato del regno a Istambul.

In un tale contesto ci si aspetterebbe che Ryad venisse sottoposta ad un isolamento internazionale. Il regno wahabita resta protagonista della politica e dell’economia mondiale, forte degli enormi introiti petroliferi. Non a caso ha partecipato all’incontro del G-20 in India, con pari dignità degli altri potenti della terra.

Il Paese arabo è anche coinvolto nella guerra dello Yemen, dove, secondo l’ONU, si consuma da anni una delle più gravi crisi umanitarie del mondo. Attualmente il conflitto è in una fase di stasi. E proprio per la tregua in corso, il nostro governo ha rimosso una moratoria momentanea sulla fornitura di bombe aeree all’Arabia Saudita. Ciò è coerente con la linea del nostro esecutivo di favorire, in tutti i modi, l’industria militare italiana.

Per ultimo va sottolineato che la monarchia è, in base ai dati SIPRI, il secondo acquirente mondiale di armi, con circa il dieci per cento del totale, in gran parte “made in USA” e ciò garantisce prosperità a tanti lavoratori nordamericani. Andrebbe posto, pertanto, il problema, della riconversione dalla produzione militare in quella civile, per esempio per contrastare il cambiamento climatico.

Mentre venivano divulgati gli orrendi crimini, per incrementare le relazioni economiche fra Roma e Riyad, il nostro governo ha organizzato il primo Forum Italia-Arabia Saudita, con la partecipazione di 1.200 aziende, il fior fiore del “made in Italy”, fra cui Leonardo, leader del settore della difesa. L’evento si è aperto con un Memorandum of Understanding sugli investimenti, firmato dal ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, e il ministro degli Investimenti del Regno dell’Arabia Saudita, Khalid Al-Falih.

Luciano Bertozzi
luciano.bertozzi@tiscali.it
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Yemen: la paura non frena i migranti. Fame e speranza sono più forti della guerra

Non dimenticare Masha Amini: in un libro l’omicidio che un anno fa innescò le proteste in Iran

Speciale per Africa ExPress
Francesca Canino
Cosenza, 18 settembre 2023

Uccisa per un ciocca di capelli. Accadeva un anno fa a Teheran, quando la giovane Mahsa Amini fu arrestata e uccisa mentre era sotto custodia della polizia morale iraniana (organo della polizia religiosa n.d.r).

L’urlo delle donne iraniane

I motivi? Il suo velo non copriva tutti i capelli. L’uccisione di Masha si rivelò una miccia mortale: il Paese insorse, migliaia di iraniani scesero nelle piazze nella speranza di far cadere la Repubblica Islamica, un regime che da oltre 40 anni opprime il popolo.

Ma le autorità ordinarono di agire con fermezza contro i dimostranti, un pugno di ferro che in breve fece un’altra vittima, Hadith Najafi, la donna simbolo dei cortei, anche lei uccisa dopo essere stata arrestata dalla polizia morale. Il clima presto divenne rovente, centinaia di persone furono uccise e migliaia finirono nelle temibili carceri del regime. Una sanguinosa situazione da guerra civile che spinse una cittadina iraniana, Sadyra, a chiedere aiuto ad Africa Express tramite WhatsApp per divulgare quanto stava accadendo in terra persiana.

A distanza di un anno dall’uccisione della giovane e dopo mesi di scontri e sangue, in Iran sembra tornata la calma. Ma è una calma apparente, il fuoco sotto la cenere “è sempre pronto a sprigionare altre scintille”, ha fatto sapere Sadyra alla redazione di Africa Express.Le troppe vittime, giovanissime, hanno terrorizzato il popolo, che, suo malgrado, ha dovuto per ora piegare il capo. I cittadini da soli forse non ce la faranno mai a sconfiggere il sistema, speriamo solo che avvenga qualcosa di inaspettato. Intanto, in diverse città del Kurdistan iraniano sono in corso disordini per ricordare quello che è accaduto un anno fa, quando, va ricordato, furono uccisi molti minori, nel silenzio di tante ONG e dell’Unicef”.

In Italia, l’anniversario della morte di Masha non è passato in silenzio. Diverse le commemorazioni in molti comuni italiani, tra cui Cosenza, che ha voluto ricordare la giovane martire per la libertà. Un dibattito nel cuore della città calabrese è seguito alla presentazione del libro illustrato Ti abbraccio, Teheran”, di Doris Bellomusto e Tiziana Tosi, rispettivamente autrice e illustratrice.

Doris Bellomusto è stata ispirata dalla storia di Mika, una ragazza di 16 anni che, in seguito alla morte di Masha Amini, decise di prendere parte alle proteste e purtroppo fu barbaramente uccisa dalla polizia morale. “Ho appreso la notizia sui giornali – dice l’autrice – e immediatamente ho sentito il bisogno, l’urgenza di darle voce, quindi ho immaginato che prima di morire avesse scritto un diario. E ho immaginato che questo diario fosse fatto di frasi brevi, per lo più anche spezzate, che ho affidato all’illustratrice Tiziana Tosi. Il libro, edito da Le Pecore Nere, è un albo illustrato che ha aggiunto un carico di poesia notevole alla storia in sé, perché la suggestione dell’immagine accompagna le parole”.

Il lavoro di Bellomusto e Tosi è, dunque, nato da una tempesta di sentimenti provocata dalla storia di Mika, «troppo giovane per morire, aveva l’età delle mie alunne – continua l’autrice – forse è stata proprio l’urgenza di comunicare alle mie studentesse questa notizia, con un linguaggio che potesse essere immediato, a spingermi a scrivere il libro. Una reazione forte, che ci ha creato alcune perplessità quando dovevamo decidere quale immagine mettere in copertina. Un’immagine col velo oppure no? Sono state le mie alunne a suggerirmi di inserire in copertina il velo e di “spogliarla” pian piano nelle pagine successive, fino ad arrivare alla pagina in cui Mika fa la ruota senza vestiti in una stanza. Libera, finalmente. Non so se questo libro potrà arrivare a Teheran, sarebbe il segno dell’interesse che la comunità internazionale ha nei riguardi del popolo iraniano, delle donne in special modo. Ma è un sogno troppo grande per essere sognato».

Francesca Canino
francescacanino7@gmail.com
@CaninoFrancesca
#africaexpressperliran

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Le donne iraniane in lotta per la libertà si rivolgono ad Africa ExPress: “Aiutateci”

 

A Lampedusa tra i migranti privati di tutto, anche della loro identità

Dalla Nostra Inviata Speciale
Federica Iezzi
Lampedusa, 18 settembre 2023

A soli 187 chilometri dalla costa della Tunisia, Lampedusa è il primo passo sull’Europa. Con un disperato via vai, le autorità continuano a spostare i migranti dentro e fuori la struttura temporanea sull’isola, originariamente progettata per ospitare diverse centinaia di persone, ma che spesso ne accoglie alcune migliaia.

Photo credit – SOS Humanity

Mentre il sole picchia tutto il giorno sulle viuzze e sulle case dai tetti colorati, passano, tra i ristoranti affollati di turisti, autobus pieni di migranti diretti verso i traghetti per la Sicilia. Questo balletto è quotidiano sulla piccola isola. Partono dal centro di accoglienza costruito lontano dagli occhi. Ha una sola strada, arida e remota, che termina in una valle senza uscita. I percorsi che portano alla spiaggia sono altrove.

Gli arrivi non sono stati rallentati dall’immorale accordo anti-migranti che l’Unione Europea ha siglato con la Tunisia. La strategia è quella di rendere gli aiuti economici condizionali alla gestione dei flussi migratori. Crescono le gravi violazioni dei diritti umani subite dai migranti e richiedenti asilo di origine sub-sahariana, a partire dalle pratiche violente della guardia costiera tunisina per finire alla campagna mediatica che sta diffondendo in Tunisia una retorica sovranista e intollerante, avvolta da una discriminazione istituzionale.

Dunque niente è cambiato. Si continuano a riversare risorse e sforzi nei programmi di controllo delle frontiere come Frontex (European Border and Coast Guard Agency), European Integrated Border Management ed Eurosur (European Border Surveillance system).

Secondo gli ultimi dati diffusi dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), nel 2023 sono già più di 113.000 i migranti arrivati in Italia via mare e oltre 2.000 i deceduti nel tentativo di raggiungere l’Europa. Di questi, almeno 73.000 partono proprio dagli hubs tunisini. E dagli ultimi aggiornamenti della Croce Rossa Italiana, si aggiungono gli almeno 7.000 migranti che la scorsa settimana, in meno di 48 ore, hanno raggiunto l’isola, quasi tutti partiti dalla Tunisia.

Lampedusa è diventata una zona ultramilitarizzata dove i migranti vengono parcheggiati in un campo.
L’esercito vigila e controlla. Ai volontari che lasciano il campo non è permesso parlare, altrimenti viene revocato il diritto di ingresso alle organizzazioni di appartenenza.

Riescono a trapelare pochi particolari: “E’ invivibile. Ci sono più di 4.000 persone in un campo che dovrebbe contenerne 300”.

Lampedusa conta circa 6.000 abitanti, il coro che si leva all’unanimità non è mai cambiato negli anni: “Queste persone vengono qui e noi le rinchiudiamo. Sono in arresto. Non possiamo più parlare con loro, perché sono diventati numeri”.

Dopo aver esaurito gli argomenti emotivamente e politicamente rilevanti, nessuno si sofferma sulla complessa situazione che caratterizza i luoghi di frontiera, al di là dei periodi di emergenza. Nessuno analizza cosa attende i sopravvissuti alla traversata del Mediterraneo, una volta entrati nel sistema amministrativo che regola la loro permanenza e la loro futura partenza verso un’altra struttura di accoglienza o trattenimento, o addirittura verso il Paese di origine.

Questa situazione teoricamente eccezionale è diventata ordinaria ed è accompagnata da pratiche altrettanto ambigue. Il laissez-faire della polizia che consente ai migranti di uscire dal centro. I tempi amministrativi nel trattamento delle pratiche che regolarmente superano la durata massima di permanenza nel centro stesso. L’eccezionalità delle misure di confinamento amministrativo, in assenza di reato, nei luoghi di confine, che diventa emblematica per la mobilità ostacolata.

Questa politica è omicida e lo si testa ogni volta che i migranti vengono trasferiti dal centro di accoglienza al traghetto che li porta in Sicilia. Stipati, senza identità, spogliati dei loro stessi occhi. Con le labbra cucite in un silenzio senza rimedio. Migliaia di uomini e donne cui è negata la mobilità e che cercano di sopravvivere alle conseguenze della migrazione e delle politiche di asilo basate sul rifiuto. Rimane solo una linea bianca di spuma che la nave si lascia dietro, sul liscio mare azzurro scuro.

Il governo italiano dice che ci sono meno morti nel Mediterraneo, non è vero, perché il Mediterraneo non lo controlla più nessuno.

Di Lampedusa i politici parlano come di un’arena dove fare la guerra contro i migranti. Mai riusciti a impedire le partenze disperate dalle coste libiche e tunisine, hanno invece alimentato sentimenti discriminatori, mettendo da parte una narrativa umanitaria protagonista di un passato lontano.

Federica Iezzi
federicaiezzi@hotmail.it
Twitter @federicaiezzi
©️ RIPRODUZIONE RISERVATA

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A Khartoum tra furiosi combattimenti i janjaweed vogliono costituire un governo

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
16 settembre 2023

Guerra continua in Sudan. Giovedì scorso il capo delle Rapid Support Forces (nuovo nome dei janjaweed), Mohamed Hamdan Dagalo, meglio noto come Hemetti ha minacciato di varare un governo nelle aree controllate dalle sue milizie, se il nemico, Abdel Fattah Abdelrahman al-Burhan, presidente del Consiglio Sovrano (cioè di fatto presidente della Repubblica) dovesse a sua volta formare un nuovo esecutivo. Il mese scorso il generale Burhan aveva annunciato la necessità di un regime provvisorio da insediare a Port Sudan, sul Mar Rosso.

Sudan: bombardamenti delle forze armte su Khartoum

“Se l’esercito dovesse formare un governo, avvieremo immediatamente ampie consultazioni per istituire una vera autorità civile nelle aree sotto nostro ampio controllo, con capitale Khartoum”, ha annunciato Hemetti, blandendo la società civile. Ha poi aggiunto che qualsiasi mossa da parte dell’esercito in questo senso, dividerebbe il Paese.

Nei giorni scorsi l’esercito sudanese ha lanciato nuove offensive aeree sulla capitale e dintorni. E’ stato colpito anche il mercato del bestiame Hilet Kuku di Khartoum nord. L’attacco era mirato contro i paramilitari di RSF, ma come spesso accade, sono morti solamente civili. Almeno 46 le vittime, oltre a numerosi feriti. Altri droni si sono abbattuti anche sul ponte Shambat che collega Khartoum con Bahri, il terzo agglomerato urbano della capitale.

Sin dall’inizio della guerra molti residenti sono scappati dalla città. A tutt’oggi manca all’appello almeno la metà dei suoi abitanti, in fuga terrorizzati e disperati per le violenze. La mancanza di cibo, acqua, corrente elettrica e dei servizi di base, causati dai continui combattimenti e bombardamenti indiscriminati.

Giovedì scorso l’esercito  ha colpito pesantemente anche Nyala, città nel Darfur meridionale.

“Le parti in causa utilizzano armi pesanti in aree densamente popolate, con conseguenze devastanti per la popolazione. Entrambi “prendono deliberatamente di mira aree popolate, strutture civili, ospedali e luoghi di culto”, ha spiegato Mohamed Salah di Emergency Lawyers  (gruppo di avvocati locali che monitora e segue tutte le violazioni dei diritti umani in Sudan).

Nel luglio 2023, la Corte penale internazionale ha aperto un’indagine sui crimini commessi in Darfur, dove continua la pulizia etnica su grande scala da parte dei paramilitari golpisti della Rapid Support Forces.

In Darfur, dove sono cresciuti e si sono sviluppati e si chiamavano janjaweed prima di essere integrati nella RSF per ripulirne l’immagine, continuano a attaccare i villaggi delle etnie africane. Tra questi i masalit, popolazione musulmana sì, ma non araba, che vive a cavallo tra Sudan e Ciad. Si pensi solo che la loro lingua è scritta in caratteri latini e non arabi.

A questo punto va ricordato che nel 2016, come riportato da Africa ExPress, i paramilitari di RSF sono stati finanziati dall’Unione Europea per controllare i confini sudanesi  e arginare così il flusso migratorio verso il Mediterraneo. Nel 2022 sono strati addestrati da istruttori italiani.

I janjaweed hanno ricevuto aiuti logistici e militari anche dalla Russia. Dagalo, infatti, ha concesso ai mercenari del gruppo Wagner, lo sfruttamento di miniere d’oro nel nord del Paese. Gli Italiani, dal canto loro, li hanno addestrati e finanziati come ha rivelato Africa ExPress, pubblicando un video in cui Dagalo conferma l’aiuto italiano e ringrazia l’Italia. Quindi, italiani e russi assieme a insegnare ai tagliagole a far la guerra seriamente.

Mohamed Hamdan Daglo, detto Hemetti, capo delle RSF

Il Darfur è completamente isolato da internet e telefono. Le gente, per dare le proprie notizie a parenti e amici, è stata costretta a tornare ai messaggi manoscritti affidati agli autisti dei taxi collettivi  Ma a volte tali lettere impiegano anche oltre una settimana per arrivare a destinazione, sempre che il destinatario sia ancora in vita.

Secondo ACLED (Armed Conflict Location & Event Data Project), dall’inizio della guerra sarebbero morte 7.825 persone. Tuttavia, proprio per l’estrema violenza del conflitto e del limitato accesso in certe aeree, la mancanza di comunicazione, cercare di calcolare il numero esatto di vittime umane è quasi impossibile. Tanti ospedali sono ormai chiusi, altri lavorano sotto regime, per mancanza di personale sanitario, medicinali e quant’altro.

In continuo aumento anche gli sfollati. In base all’ultimo rapporto di ACLED, a tutt’oggi sarebbero 4,1 milioni, mentre, secondo OIM (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni) oltre 1,1 milione di sudanesi avrebbero cercato protezione nei Paesi limitrofi, tra cui i poverissimi e afflitti anch’essi da enormi problemi interni, come Ciad, Repubblica Centrafricana e Sud Sudan.

Con l’inizio della stagione delle piogge, la situazione sanitaria sta peggiorando. Con il ridotto accesso all’acqua e ai sistemi igienico-sanitari, si rischia l’insorgere di malattie su larga scala, come malaria, morbillo, dengue e diarrea acquosa acuta.

Quasi la metà della popolazione sudanese necessita di aiuti umanitari, mentre sono oltre 3 milioni i bambini sotto i cinque anni affetti da malnutrizione acuta. Oltre 650mila tra questi in forma grave.

Volker Perthes, inviato speciale delle Nazioni Unite per il Sudan, ha presentato le sue dimissioni al Consiglio di Sicurezza mercoledì scorso, probabilmente perché messo sotto pressione dal regime sudanese. Infatti Khartoum aveva dichiarato Perthes “persona non grata” già lo scorso giugno.

Nel suo ultimo rapporto, il diplomatico dell’ONU ha precisato: “Quello che è iniziato come un conflitto tra due formazioni militari potrebbe trasformarsi in una vera e propria guerra civile, i combattimenti non stanno diminuendo e nessuna delle due parti sembra vicina a una vittoria militare decisiva”. E infine ha condannato bombardamenti aerei indiscriminati dell’esercito sudanese, violenze sessuali e saccheggi dei soldati.

Cornelia I. Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
Twitter: @cotoelgyes
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Accuse all’Italia per l’addestramento dei janjaweed: “Avete creato un mostro”

Sudan: nella guerra contro i migranti l’Italia finanzia e aiuta i janjaweed

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Trent’anni gli accordi di Oslo fra Israele e Palestina: ora sono carta straccia


EDITORIALE
Eric Salerno

Roma, 15 settembre 2023

Una speranza o una trappola? O le due cose insieme? Trenta anni fa furono firmati sul prato della Casa Bianca i famosi accordi di Oslo. Ero tra i giornalisti presenti a Washington per l’occasione. Arrivato di corsa da Gerusalemme dove per anni ho seguito, come inviato de Il Messaggero, il conflitto in Medio Oriente. Bill Clinton appariva soddisfatto. Gioioso. Arafat sembrava contento, sembrava dire: “Finalmente ho vinto la guerra di sopravvivenza del mio popolo”: i palestinesi avevano compiuto un grande passo verso la creazione di uno Stato indipendente accanto a Israele. Itzhak Rabin, il premier israeliano, che sarebbe stato poi ucciso a Tel Aviv da un ebreo fanatico religioso, appariva perplesso quando fu il momento di stendere la mano al vecchio nemico. Peres, da sempre volto buono di Israele, dava l’impressione di aver vinto una grande causa.

Yitzhak Rabin, Bill Clinton e Yasser Arafat durante la firma degli Accordi di Oslo del 13 settembre 1993, Photo Credit-Wikipedia

Due giorni dopo, di ritorno a Gerusalemme, nel patio dello storico American Colony Hotel, splendido ritrovo di giornalisti e spie, diplomatici e rappresentanti dei Paesi di mezzo mondo, un gruppo di colleghi italiani intorno a una tavolata si chiedeva, un po’ allegri un po’ tristi, dove trasferirsi per vedere altre sofferenze e raccontarle. Il conflitto sembrava finito. “Calma ragazzi. Ci sono ancora molte cose in sospeso. Temo che questa sia soltanto una pausa”, suggerii mentre fuori, per le strade della Città Santa, ragazzi palestinesi infilavano fiori nei mitragliatori delle truppe d’occupazione: erano incerti, perplessi. Avevano ragione.

“Negli accordi di Oslo firmati trent’anni fa – scrive il quotidiano di Tel Aviv, Haaretz – Israele accettò di ridurre gradualmente l’occupazione, mentre i palestinesi furono costretti a cessare istantaneamente ogni resistenza. Ogni parte ha interpretato l’accordo come meglio credeva. I rappresentanti palestinesi hanno capito o sperato che in cambio della rinuncia al 78 per cento della Palestina storica entro la fine del 1999 (senza rinunciare al legame personale-familiare, culturale, emotivo o storico del loro popolo), il controllo militare israeliano sui territori occupati nel 1967 sarebbe finito e i palestinesi vi avrebbero stabilito uno Stato”. I negoziatori israeliani hanno fatto in modo che l’accordo scritto descrivesse le fasi del processo senza menzionare obiettivi concreti (lo Stato, un territorio e confini)”.

Gli autori, o meglio, i rappresentanti di quella pace-non-pace sono tutti morti. Rabin e Peres non potranno mai dire se la loro decisione di andare avanti con un accordo più cinematografico che realistico fosse motivato del desiderio di tentare, in buona fede, una via d’uscita dal conflitto tra i due popoli che rivendicano la stessa terra o una specie di trappola per convincere i più deboli a rinunciare alla lotta armata e gradualmente accettare l’attuale situazione di apartheid.

“Grazie a Oslo – scrive sull’Haaretz Amira Hass, da sempre una sostenitrice dei diritti palestinesi – Israele si è liberata della responsabilità che spetta a un occupante per il benessere del popolo sotto occupazione. E ha mantenuto il controllo della terra, dell’acqua, delle lunghezze d’onda del cellulare, dello spazio marittimo e aereo, della libertà di movimento, dell’economia e dei confini, sia esterni che quelli che separano in settori diversi la Cisgiordania”.

E aggiunge: “Israele trae enormi profitti da queste leve di controllo, poiché supervisiona un grande laboratorio umano dove sviluppa e testa le sue esportazioni più redditizie: armi, munizioni e tecnologia di controllo e sorveglianza. I palestinesi in questo laboratorio – privati dell’autorità e le cui risorse si stanno riducendo – sono stati lasciati liberi di gestire i loro problemi e gli affari civili”.

Qualcuno, oggi, attribuisce il fallimento degli accordi, in primo luogo all’uccisione di Rabin, un fatto traumatico per Israele ma anche un’assassinio che ha sorpreso pochi. Le carte segrete di alcune riunioni a Gerusalemme in cui prima della firma i protagonisti degli accordi discutevano tra di loro e con altri esponente del governo, dei servizi segreti e capi militare sull’opportunità o meno di andare avanti mostrano un quadro di confusione e incertezza. Soprattutto fa capire che la maggioranza degli israeliani, di destra come a sinistra, puntava da sempre a uno Stato per gli ebrei che andasse dal Mediterraneo al fiume Giordano, ossia tutto il territorio della Palestina sotto mandato britannico. Il progetto era ben delineato nel programma del Likud da dove scomparve, in maniera politicamente opportuna, solo anni dopo.

Oggi la popolazione di coloni israeliani in Cisgiordania ammonta a più di mezzo milione di persone. E aumentano gli insediamenti ebraici anche a Gerusalemme Est che doveva essere, nel progetto di pace, la capitale dello Stato palestinese. “Abbiamo raggiunto un traguardo enorme”, ha detto Baruch Gordon, un dei dirigenti dell’insediamento di Beit El. “Siamo qui per restare.”

Non tutti gli israeliani sono d’accordo ma solo pochi, in questi lunghi mesi di proteste pubbliche contro Netanyahu e il suo governo di estrema destra, da molti definito “fascista”, hanno voluto parlare pubblicamente della questione palestinese. E ora tutti aspettano l’Assemblea generale dell’Onu a New York per vedere se dopo mesi di boicottaggio il capo della Casa Bianca cederà e per i propri interessi politici o quelli del partito democratico, con le elezioni presidenziali alle porte, stenderà più di una mano al premier israeliano Netanyahu.