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Soumahoro: “Gli accordi sulla migrazione violano i diritti umani”

Speciale per Africa ExPress
Federica Iezzi
Lampedusa, 4 ottobre 2023

Le tensioni continuano ad aumentare sulle coste del Mediterraneo e non cessa l’eterna questione della gestione dei flussi migratori in Europa. La migrazione è diventata lo strumento di tutti gli eccessi politici esterofobi che oggi sono parte integrante nel dibattito pubblico. Spesso la lettura di coloro che fuggono dal proprio Paese si traduce in una tendenza volta a limitare i diritti basilari. È questo l’approccio giusto? In ogni caso, non è il più umano.

Aboubakar Soumahoro, Deputato della Repubblica Italiana

Aboubakar Soumahoro, è arrivato in Italia come migrante ed ora è diventato deputato della Repubblica Italiana. Volentieri ha concesso questa intervista ad Africa Express.

La voce di chi viene ascoltato può spostare l’opinione pubblica. E le parole si capillarizzano nelle case, nelle scuole, nelle aule di tribunale. Il problema è che la migrazione è stata sempre vista come crisi, invece è la più alta forma di adattamento. E allora chi è veramente un migrante?

La migrazione è nella natura dell’essere umano. Migrare è un diritto, ma anche restare è un diritto. Spetta all’attività politica e a quella legislativa, costruire il tessuto sociale, tale da garantire la salvaguardia della vita dei migranti, e creare condizioni dignitose per chi vuole restare, senza che la permanenza diventi un’imposizione, una costrizione, una dannazione.

Migrare fa parte dei diritti inalienabili dell’essere umano, come l’atto di rimanere. E le sfide che sono alla base di determinati processi migratori e che dovrebbero interrogare la comunità umana, sono sfide che partono dalla crisi climatica, dalle disuguaglianze economiche, dall’iniqua redistribuzione di ricchezze e di profitto.

Se osserviamo i dati macroeconomici, mettendo a confronto alcune aree geografiche, come lo spazio Euro e quello dell’Africa sub-sahariana, è evidente come la crescita dell’Africa sub-sahariana, in termini di prospettiva macroeconomica, sia superiore.

Ma sul piano della redistribuzione qualitativa ci sono enormi disuguaglianze, che dovrebbero interrogare la classe politica. Le discussioni sulle sfide globali ci dicono che se non facciamo fronte comune, in termini di creazione di opportunità, anziché riuscire ad accompagnare, ad indirizzare i Paesi africani, si creeranno situazioni che travolgeranno un tessuto giuridico-legislativo lontano dalla realtà. Ed è quello che sta emergendo da alcune scelte politiche inadeguate e irrealistiche, sia sul piano europeo, sia sul piano italiano.

Quali effetti hanno prodotto gli accordi e i pacchetti finanziari offerti dall’Unione Europea per gestire la migrazione con partner come la Libia o la Tunisia? Sono scelte politiche che hanno un senso, che siano razionali?

Innanzitutto sono accordi in violazione dei principi basilari della dichiarazione universale dei diritti umani. Se davvero questa dichiarazione è carne viva della nostra vita quotidiana, l’atto di legiferazione non può non tener conto dell’esistenza stessa di questi principi, sia sul piano europeo, sia su quello italiano. Per non parlare di quanto riportato sull’articolo 10 della nostra Carta Costituzionale.

Qui si sta parlando di violazioni sistemiche, piegando le regole di vita a una volontà di orientamento politico, che non solo è irrealizzabile ma che, oltretutto, trasforma la vita delle persone in una sorta di oggetto di scambio.

L’accordo firmato tra il nostro Paese e la Libia è un esempio di come la salvaguardia della vita dell’essere umano viene messa in secondo piano. Stesso concetto vale per il memorandum firmato tra Unione Europea e Tunisia. Tutto questo fa parte di una visione politica che pone in cima una deriva propagandistica, che tende a trasformare i processi migratori in merce elettorale.

Basta parlare con i migranti, che sono accolti nell’hotspot di Lampedusa, per capire cosa sta succedendo oggi in Libia o Tunisia, nei confronti di chi proviene dall’Africa sub-sahariana. Sono evidenti le violenze subite. Allora, noi che stiamo facendo? Stiamo sottoscrivendo accordi con Paesi che hanno ampiamente dimostrato di non tutelare la vita delle persone.

Quindi entrando nel contesto della prossima scadenza elettorale, il clima ruota attorno all’alimentare e al fermentare una sorta di mercato elettorale, che si basa sullo stare a guardare i migranti obbligati ad affrontare il mare, anziché creare canali di ingresso, attraverso il rafforzamento della rete consolare.

Bisogna avere una certa lungimiranza. E’ necessario analizzare la situazione, parlando con gli operatori che si trovano a diretto contatto con i migranti, che non solo sbarcano nel nostro Paese, ma sbarcano in Europa. Quale tipo di percorso noi possiamo creare con i Paesi africani, in termini di partenariato?

Leggendo i punti presentati dalla presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, in occasione della sua recente visita a Lampedusa, sembrerebbe che il concetto di migrazione e le eventuali soluzioni non siano state affatto messe a fuoco.
Qual è la sua opinione?

Siamo di fronte ad un fenomeno globale e affrontarlo con un approccio propagandistico, condito da un certo sentimento afro-fobico, o con una dimensione paternalista non aiuta. Alla luce dei fatti, i vari protagonisti politici, che si sono alternati in Italia negli ultimi anni, hanno dimostrato tutti i loro limiti, quando si parla di processi migratori.

E allora bisognerebbe fermarsi e chiedersi come creare delle opportunità, come costruire vie o proporre soluzioni concrete, attorno ad un fenomeno diventato così globale.
Se oggi lottiamo contro i canali di ingresso, attraverso quelle cosiddette “vie della morte”, perché nello stesso modo non costruiamo le basi e le premesse per il rafforzamento di canali diplomatici? Il tutto attraverso una prospettiva europea che possa permettere alle persone di viaggiare con l’utilizzo di reti consolari, rilascio di visti di ingresso. Oggi questa possibilità di movimento cambia a seconda del colore del passaporto.

E invece si sceglie la strada del potenziamento e rafforzamento dei Centri di Permanenza per il Rimpatrio (CPR). Che è un fallimento totale. Sono strutture che nascono nel lontano 1998, cambiando denominazione e configurazione.

Fino agli ultimi giorni, con i famosi 5.000 euro barattati con la libertà. Sono tutte direttive che dimostrano il fallimento di una prospettiva. Se una persona viene rinchiusa in questi luoghi e non si ha il nulla osta del Paese di origine, vuol dire che quella stessa persona non verrà mai messa su un aereo per essere rimpatriata.

Quindi si ritorna al tema di costruire percorsi di condivisione, attraverso il coinvolgimento diretto dei Paesi di origine. E allora quali percorsi si possono costruire con chi migra? E ancora quali percorsi si possono costruire con la diaspora italiana afro-discendente e con la diaspora migrante presente nel nostro Paese? Sono tutti protagonisti che possono portare all’individuazione di percorsi.

Ma è chiaro che un approccio di questo tipo non genera profitto sul piano elettorale. Avere più seggi in Parlamento, vincere un’elezione sulla base di progetti irrealistici e fallimentari, vuol dire che non esiste né l’idea né la volontà di lanciare un messaggio chiaro che possa lasciare tracce tangibili. Parliamo semplicemente di consenso, che non porta a nessun cambiamento di fatto.

Migranti, rotta atlantica verso le Isole Canarie, Spagna

Il dovere di soccorrere le persone in pericolo in mare, senza ritardi, è una regola basilare del diritto marittimo internazionale. Da anni sulla rotta migratoria del Mediterraneo si gioca ad una roulette russa con la vita. Cosa non manca? Lacune nell’attività di ricerca e soccorso e garanzia di canali migratori regolari e sicuri. Come far virare questa realtà?

Bisogna costruire la prospettiva di un piano, che abbia come premessa la condivisione di un destino comune, dando risposte concrete alle persone e considerando la prossimità tra Europa e Africa.

Una proposta è sicuramente quella di rivedere il Regolamento di Dublino. Non nascondendosi dietro ai vari nazionalismi, che giocano sulla parola sovranità. La mia sovranità vale a discapito della sovranità altrui, come ha scelto l’attuale governo.

E no, sovranità vuol dire sovranità in termini di condivisione, di solidarietà. Come si vuole costruire questa prospettiva in Europa? La si vuole costruire a prescindere dal rapporto con i Paesi africani? Mentre si dice “non vogliamo un’altra colonizzazione”, di fatto prepariamo un piano per i Paesi africani, senza coinvolgere nessuno di loro. Bisogna saper legger la complessità all’interno del Paese stesso.

Altra proposta tangibile riguarda il tema del tipo di partenariato che si vuole costruire con i Paesi africani. Quale tipo di approccio si vuole avanzare? Diventa, dunque, fondamentale il coinvolgimento della diaspora afro-discendente italiana, che continua a chiedere di rafforzare il legame con l’Africa, non rimanendo spettatori e osservatori passivi. Questo significa trasformare il futuro in un speranza.

Federica Iezzi
federicaiezzi@hotmail.it
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A Lampedusa tra i migranti privati di tutto, anche della loro identità

E’ il Benin la nuova fortezza di Europa e America contro i terroristi del Sahel

Speciale per Africa ExPress
Antonio Mazzeo
3 ottobre 2023

La Repubblica Presidenziale del Benin si candida a fare da fortezza armata dell’Unione Europea contro la presenza delle milizie jihadiste in Africa occidentale. Il 25 settembre la Commissione Ue ha deciso di elargire un pacchetto di aiuti militari del valore di 11,75 milioni di euro a favore delle forze armate dello Stato africano.

Nuove forniture belliche al Benin, finanziate dall’UE

Secondo il sito specializzato Analisi Difesa, la fornitura di sistemi di guerra comprenderebbe droni e aerei ai fini di intelligence per l’acquisizione di obiettivi, sorveglianza e riconoscimento nell’ambito della Operazione Mirador, la campagna militare anti-terrorismo lanciata lo scorso anno dal governo del Benin per contrastare la minaccia dei gruppi jihadisti nelle regioni settentrionali al confine con Burkina Faso e Niger.

Il pacchetto di “aiuti” è stato erogato da Bruxelles attraverso l’European Peace Facility, lo strumento utilizzato per assicurare le forniture militari destinate all’Ucraina e “finalizzato a rafforzare la capacità militare nei Paesi terzi e delle organizzazioni regionali e internazionali impegnate a preservare la pace, la stabilità e la sicurezza internazionale”.

Prima della decisione della Commissione dell’Unione Europea era stato il governo francese del presidente, Emmanuel Macron, ad armare e migliorare l’efficienza delle forze armate del Benin. Il 27 luglio 2022, in occasione della sua visita ufficiale a Cotonou, Macron aveva annunciato che i militari francesi avrebbero supportato operativamente l’esercito beninese contro i gruppi armati islamico-radicali, assicurando veicoli blindati, equipaggiamento anti-mine, giubbotti anti-proiettile, visori notturni, intelligence, supporto addestrativo ed “aiuti umanitari” alla popolazione civile.

Negli ultimi mesi il Benin ha potenziato i propri arsenali bellici grazie a una serie di commesse. A giugno sono stati acquistati tre elicotteri da trasporto multiruolo H215 “Super Puma” già in dotazione all’Aeronautica militare della Giordania, mentre a febbraio sono giunti dalla Spagna due elicotteri leggeri da trasporto tattico, intelligence e addestramento H125M, prodotti come i “Super Puma” dal gruppo francese Airbus.

“Grazie alle sofisticate apparecchiature tecnologiche ospitate a bordo, gli H125M potranno essere impiegati in missioni di sicurezza, sorveglianza, ricerca e soccorso per proteggere le frontiere, le truppe e le infrastrutture critiche del Benin”, hanno spiegato i manager di Boeing.

Secondo il sito sudafricano Defenceweb, nel corso del 2023 il Benin avrebbe ricevuto anche alcuni veicoli corazzati VAB di seconda mano provenienti dall’esercito francese, componenti elettroniche e hardware e sei veicoli da trasporto truppe CSK-131 di produzione cinese. A inizio anno il Pentagono ha consegnato alle forze armate di Cotonou una decina di battelli pattugliatori di 10 metri di lunghezza per l’impiego anti-pirateria nel Golfo di Guinea.

Il comandante di AFRICOM, Michael E. Langley, in visita ufficiale in Benin

US Africa Command, in collaborazione con l’ambasciata USA in Benin, ha fornito i nuovi pattugliatori e assicurerà le attività di manutenzione, le infrastrutture di lancio e l’addestramento alle unità special fluviali e alla Polizia marittima beninensi”, ha riferito il dipartimento della Difesa degli Stati Uniti. “Il Corpo del Genio di US Army in Europa ha curato la costruzione di una facility rinforzata per l’uso delle imbarcazioni. Sempre il Genio sta curando per conto del Comando di U.S. Africom alcuni progetti di assistenza umanitaria in alcune regioni remote del nord Benin dove operano le organizzazioni violente estremiste, in particolare la ristrutturazione di scuole e presidi sanitari”.

Anche l’Unione Europea sta sperimentando nel Paese dell’Africa occidentale la vecchia e consolidate politica del bastone e della carota. Oltre alla fornitura di armi e apparecchiature militari, il 20 luglio 2023 il direttore generale della Commissione europea per la cooperazione internazionale, Koen Doens, ha firmato un accordo con il ministro dell’Economia e della Finanza Romuald Wadagni, per implementare il programma “PAGODES” per supportare “le riforme di governance democratica, economiche e sociali” del Benin nel triennio 2023-25.

Grazie a “PAGODES” l’Unione Europea fornirà fondi per 63.75 milioni di euro al fine di “contribuire allo sviluppo sostenibile e inclusivo del Benin e alla riduzione della povertà e dell’ineguaglianza”. Complessivamente nell’ultimo quinquennio Bruxelles ha destinato a Cotonou aiuti economici alla “stabilità macroeconomica” per 255 milioni di euro, prevalentemente in tre “assi strategici”: sviluppo umano, crescita digitale verde, società prospera e sicura. Una formula assai ambigua che sembra voler riprodurre in toto i detestabili intenti del neocolonialismo neoliberista europeo in terra d’Africa.

Antonio Mazzeo
amazzeo61@gmail.com
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Commando di cento jihadisti in moto massacra un villaggio in Benin

 

Nicaragua, la nuova rotta dei giovani africani per raggiungere gli USA

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
2 ottobre 2023

Il Nicaragua è ormai sulla bocca di molti giovani africani che hanno deciso di lasciare il proprio Paese. Sì, il piccolo Stato dell’America centrale è diventato il nuovo trampolino di lancio per entrare negli Stati Uniti, il sogno di tanti.


Molti mauritani, ma anche senegalesi, maliani, somali e giovani di altre nazionalità africane hanno scoperto tramite i social media questa nuova rotta verso il Paese dello zio Sam. Un modo per bypassare il pericolosissimo Darien Gap, una foresta pluviale montagnosa tra la Colombia e il Panama. Molti muoiono durante questa lunga marcia, che dura almeno sei giorni.

Ma anche i viaggi via mare, attraverso l’Atlantico verso la Spagna o la traversata del Mediterraneo centrale sono sempre più pericolosi. Sono in molti, anzi moltissimi a morire nelle acque o essere respinti dalla guardia costiera libica. Basti pensare che nei primi sei mesi di quest’anno sono annegate o date per disperse almeno 1.300 persone nel tentativo di raggiungere le nostre coste.

Il terribile naufragio del 3 ottobre 2013, durante il quale morirono 368 migranti, è ancora vivo nella memoria di molti. Allora la maggior parte dei politici europei aveva dichiarato: “Non succederà mai più”. Subito dopo il governo Letta lanciava l’operazione “Mare Nostrum”, bloccata dopo un solo anno – nell’ottobre 2014 – perché troppo onerosa.

Sta di fatto che recentemente sono arrivati parecchi migranti a Tijuana, città messicana settentrionale, al confine con gli Stati Uniti, e a Oaxaca, nel meridione del Paese. Hanno spiegato di essere arrivati in Messico via il Nicaragua, che concede visti a basso costo per gli africani.

Strage di Lampedusa
3 ottobre 2013

Infatti, anche OIM (Organizzazione Internazionale per i Migranti) ha riferito a Reuters, che quest’anno il trend della rotta verso gli States è cambiato. Tra gennaio e luglio 2023, solamente 4.100 africani hanno attraversato il Darien Gap, ben il 65 per cento in meno rispetto all’anno scorso. Mentre nei primi sette mesi di quest’anno, 19.412 sono passati per l’Hounduras, Paese confinante con il Nicaragua, vale a dire il 553 per cento in più del 2022.

Il viaggio verso gli USA è complesso e costoso. I giovani che possono permettersi questa rotta provengono da famiglie agiate, oppure hanno parenti che vivono già negli Stati Uniti, disposti a finanziarli.

Uno studente senegalese ha raccontato che il prezzo si aggira attorno a 8.000 euro e il tragitto è il seguente: Dakar – Casablanca – Madrid – Salvador – Nicaragua.

Hamidou, un organizzatore di questi viaggi, residente negli Stati Uniti e che i candidati alla migrazione chiamano “businessman”, si occupa dell’acquisto dei biglietti, facilita le operazioni all’aeroporto di partenza per evitare che i suoi clienti siano costretti a lasciare “laute mance” a poliziotti corrotti. In seguito istruisce i ragazzi anche sull’itinerario da seguire durante le varie tappe. Inoltre, ad ogni nuova trasferta invia loro un po’ di cash –  denaro versato dai migranti sul suo conto in precedenza – per evitare che vengano derubati strada facendo.

Una volta atterrati in Nicaragua, i giovani continuano il pellegrinaggio in pullman o vetture collettive. Grazie a una rete di contrabbandieri e guide locali, i migranti generalmente riescono a attraversare senza problemi l’Honduras e il Guatemala per arrivare infine in Messico.

Migranti africani tentano di raggiungere gli USA via Nicaragua

Una volta entrati clandestinamente negli USA, molti si consegnano poi spontaneamente alla polizia di frontiera per depositare una richiesta di asilo – 1.176 senegalesi hanno inoltrato domanda nel 2022 secondo l’UNHCR -. Una volta depositata la domanda, generalmente vengono poi trattenuti per qualche giorno nei campi di detenzione americani, ma poi, per la maggior parte dei migranti inizia una corsa contro il tempo per regolarizzare la propria situazione e per ottenere un permesso di lavoro. I più fortunati sono coloro che hanno familiari negli States. Gli altri, invece, a quel punto incontrano spesso grandi difficoltà, ma ovviamente ciò non viene mai menzionato sugli account dei social network dei trafficanti che pubblicizzano i viaggi della speranza.

Le motivazioni che spingono gli africani a lasciare le proprie radici sono sempre le stesse: “Scappiamo dall’insicurezza, dalle violenze, vogliamo una vita tranquilla, un futuro”, dichiarano i più.

I giovani senegalesi, per esempio, sono preoccupati per l’instabilità politica che sta attraversando il loro Paese. “Parecchi studenti del collegio di Bakel, nell’est del Senegal, dove insegno, sono partiti in questi ultimi mesi” – ha precisato un professore ai reporter di Le Monde.

Mentre una ragazza della Mauritania ha spiegato che i genitori hanno venduto parte della loro mandria per finanziare il suo viaggio. Molti di coloro partiti dall’aeroporto di Nouakchott hanno affermato di essere in fuga dall’insicurezza economica e dalle violenze di Stato nei confronti della popolazione nera del Paese.

La società mauritana è ancora suddivisa in caste. I “mauri” bianchi o “beydens”, di origini arabe-berbere, costituiscono la classe dominante, mentre gli haratines e gli afro-mauritani appartengono alla classe inferiore e non hanno quasi mai potuto occupare posti di prestigio nella società. E, non va dimenticato, che anche se la schiavitù è stata ufficialmente abolita nel 1981, di fatto esiste ancora. La ex colonia francese è stato l’ultimo Paese a cancellare tale asservimento.

Cornelia I. Toelgyes
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Pur di scappare dall’inferno africano si tenta di entrare in America Centrale

Vessati, maltrattati e abusati: l’ONU ha indagato e verificato che gli schiavi in Mauritania esistono ancora

Ucraina ed Emirati intervengono in Sudan e la pace si allontana

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
1° ottobre 2023

La popolazione continua a essere ostaggio dei due generali, Mohamed Hamdan Dagalo, meglio noto come Hemetti, leader delle Rapid Support Forces (RSF) e Abdel Fattah Abdelrahman al-Burhan, presidente del Consiglio Sovrano e delle forze armate sudanesi. Il conflitto interno è scoppiato il 15 aprile scorso.

I morti non si contano più, uccisi da fame, pallottole e bombe lanciate da aerei e droni. E c’è chi mormora che persino l’Ucraina abbia inviato armi per sostenere al-Burhan.

CNN: droni ucraini in Sudan

La notizia è stata diffusa dalla CNN, citando una fonte militare ucraina, secondo cui i servizi di intelligence di Kiev sarebbero responsabili del trasferimento di materiale bellico. Alcuni attacchi con droni che avrebbero colpito le posizioni del RSF siano stati inviati dal Paese dell’Europa orientale. Il condizionale è d’obbligo, perché nemmeno la CNN è riuscita a verificare in modo indipendenti la notizia. Alcuni filmati, effettuati con un aeromobile senza pilota, ottenuti dall’emittente statunitense mostrano l’intervento ucraino.

Due tipi di droni disponibili in commercio e ampiamente utilizzati dalle forze armate di Kiev contro i russi, sono stati lanciati in almeno otto attacchi in Sudan, con testo ucraino visibile sul controller del mezzo aereo. Gli esperti hanno anche detto che le tattiche – in particolare lo schema dei droni che si dirigono in picchiata direttamente verso l’obiettivo – non è quello generalmente in uso in Sudan e in altri Paesi africani.

Ma perché Kiev interviene nel conflitto sudanese e si concentra sui miliziani RSF? Gli uomini di Hemetti sono stati anche addestrati dai paramilitari di Wagner, che combattono accanto ai soldati di Mosca nella guerra in Ucraina. Ovviamente il governo di Volodymyr Oleksandrovyč Zelens’kyj non ha rivendicato ufficialmente la responsabilità dell’aggressione. Ma dopo la pubblicazione del rapporto del 20 settembre scorso, Andrii Yusov, rappresentante dell’intelligence della Difesa ucraina, ha dichiarato alla CNN: “Non possiamo né confermare né smentire”.

Anche altri attori stranieri sono coinvolti nell’invio di armi in Sudan. Il New York Times, in un suo articolo del del 29 settembre scorso, afferma che gli Emirati Arabi Uniti stanno fornendo armi e assistenza sanitaria alle RSF da una base in Ciad.

Cargo proveniente dagli Emirati Arabi Uniti

Secondo il NYT, gli EAU con il pretesto di salvare rifugiati, forniscono armi potenti e droni, curano combattenti feriti e trasportano quelli più gravi via aerea in uno dei loro ospedali militari. Tali interventi sono stati confermati al quotidiano statunitense da una dozzina di ex funzionari e altri ancora in servizio degli USA, dell’UE e di diversi Paesi africani.

Gli incessanti voli partiti dagli Emirati Arabi Uniti verso il Ciad sono stati rintracciati anche da Gerjon, air tracker, e condivisi sul suo account X (ex Twitter). Da maggio a settembre sono arrivati ben oltre cento aerei nella piccola base della ex colonia francese.

Il centro operativo degli emiratini è Amdjarass. Da quando è iniziata la guerra in Sudan, l’agenzia di stampa degli EAU, ha pubblicato foto e sostiene di aver curato almeno 6.000 feriti sudanesi in un ospedale da campo. Ma gran parte degli oltre 400.000 profughi sudanesi che cercano protezione in Ciad si trovano a Adre, molto vicino al confine con il Darfur, pochissimi, invece, sarebbero quelli registrati a Amdjarass.

Non è la prima volta che Abu Dhabi interviene in conflitti interni in Africa. Durante la guerra in Tigray aveva fornito droni a Abiy Ahmed, primo ministro etiopico e, contravvenendo a un embargo internazionale sul materiale bellico, aveva armato il controverso generale libico Haftar.

Al-Burhane durante l’assemblea generale dell’ONU a New York

Durante il suo intervento all’assemblea generale dell’ONU a New York, il presidente sudanese al-Burhan ha affermato di essere pronto a incontrare Dagalo, capo delle RFS, che fino all’inizio della guerra era il suo vice. Al-Burhan ha però precisato che la controparte deve assolutamente rispettare la protezione dei civili, impegno preso a Gedda lo scorso maggio.

Formalmente gli Emirati Arabi Uniti stanno lavorando per riportare la pace in Sudan, in quanto fanno parte del gruppo diplomatico che comprende anche Stati Uniti, Gran Bretagna e Arabia Saudita. I quattro stanno cercando di mediare una fine negoziata del conflitto. Ma nel frattempo, le armi emiratine non fanno altro che alimentare il conflitto, seminando morte e disperazione.

Piove sempre sul bagnato. In questi 5 mesi sono già morti oltre 1.200 piccoli sotto i cinque anni. Gran parte di loro sono vittime di malnutrizione grave. Altri, invece, sono stati contagiati dal morbillo, che da quelle parti una malattia letale. In molti campi l’assistenza medica è precaria e i cicli vaccinali sono stati sospesi.

A Gedaref e nelle sue vicinanze si è aggiunto anche il colera, dove sono già morte 16 persone. Si teme che il batterio possa espandersi anche in altre regioni. E per non far mancare nulla alla popolazione tanto provata, il ministero della Sanità di Khartoum ha lanciato anche l’allerta della febbre dengue (malattia virale diffusa da alcuni tipi di zanzare), già registrata in 8 Stati del Sudan.

Cornelia I. Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
@cotoelgyes

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Photocredit: CNN

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Jihadisti all’attacco in Mozambico: undici cristiani trucidati in base al nome

Speciale per Africa ExPress
Sandro Pintus
29 settembre 2023

“I terroristi sono arrivati nel primo pomeriggio e hanno radunato gli abitanti del villaggio. Hanno diviso i musulmani dai cristiani in base al nome poi hanno aperto il fuoco sul gruppo di cristiani, crivellandoli di colpi”.

Lo racconta frate Boaventura, missionario brasiliano dei Poveri di Gesù Cristo, alla ong Aid of the Church in Need (ACN) International. Il risultato del massacro è di almeno 11 morti mentre diversi feriti sono scappati nella foresta. Si sospetta che le vittime siano molte di più.

mappa mozambico massacro cristiani
Mappa del Mozambico con il luogo del massacro dei cristiani (Courtesy GoogleMaps)

L’ACN ha riferito che ci sono testimonianze di case bruciate e proprietà distrutte. Domenica 17 agosto lo Stato islamico ha rivendicato l’attacco. Il terribile fatto di sangue è successo il 15 settembre a Naquitengue, vicino a Mocimboa da Praia, nella provincia di Cabo Delgado.

Una prova di forza?

È molto probabile che il massacro dei cristiani sia una prova di forza. La dimostrazione che l’uccisione di Ibn Omar, uno dei capi jihadisti e “nemico pubblico numero uno”, non ha decapitato il gruppo.

Bonomade Machude Omar, conosciuto come Abu Sulayfa Muhammad e Ibn Omar è stato ucciso lo scorso 22 agosto durante uno scontro armato.

Mocimboa da Praia, ex quartier generale del gruppo jihadista Al Sunnah wa-Jammà (ora IS-Mozambico), è a un’ottantina di chilometri a sud di Palma. Palma, assediata dai jihadisti nel marzo 2021 per una decina di giorni, è la capitale degli enormi giacimenti di gas naturale del Bacino del Rovuma.

Coral Sul FLNG
Primo carico di GNL-LNG della Coral Sul FLNG (Courtesy ENI)

Il gas di Cabo Delgado e le multinazionali

Nella penisola di Afungi, una decina di chilometri a sud di Palma, opera TotalEnergies. Ha dovuto chiudere i suoi cantieri a causa del terrorismo islamista e attende che la zona sia in sicurezza per riprendere i lavori. L’area è difesa dai militari ruandesi.

La multinazionale petrolifera statunitense ExxonMobil, dopo aver ridotto del 30 per cento il suo budget, ha garantito l’impegno sugli investimenti per lo sfruttamento del gas naturale nel Bacino del Rovuma. Ovviamente se torna la sicurezza ad Afungi.

L’unica multinazionale energetica che lavora è l’italiana ENI. Nei giacimenti off-shore estrae e liquefà il gas trasformandolo in gas naturale liquido (GNL-LNG) sulla piattaforma fluttuante Coral Sul FLNG. Il primo carico di GNL è partito per il Regno Unito lo scorso ottobre. 

Dal giugno 2021, a Cabo Delgado, sono sul terreno i militari ruandesi e i soldati SADC della Southern african mission in Mozambique (SAMIM). Combattono con le Forze armate mozambicane (FADM) per liberare Cabo Delgado dal terrorismo jihadista.

Sandro Pintus
sandro.p@catpress.com

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@sand_pin
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Ucciso il jihadista più ricercato del Mozambico, decapitato il gruppo terrorista

Destinazione Europa: dal Mozambico partito il primo supercarico ENI di gas naturale

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Covid-19, terrorismo e gas in Mozambico, ExxonMobil taglia investimenti del 30 %

 

Il regime in Burkina annuncia di aver sventato un golpe che però forse non c’è stato

Africa ExPress
28 settembre 2023

In uno comunicato di poche righe, il portavoce delle giunta militare del Burkina Faso, ha annunciato nella tarda serata di ieri, di aver sventato un golpe il 26 settembre scorso. Non appena divulgata la notizia, 27 settembre, è stato rinforzato di almeno un chilometro il cordone di sicurezza attorno al palazzo presidenziale.

Ibrahim Traoré, presidente del governo di transizione militare in Burkina Faso

Il comunicato stampa è stato emesso solo poche ore dopo la pubblicazione di un messaggio di Traoré: “Assicuro la mia determinazione nel portare a termine la transizione, nonostante le avversità e le varie manovre volte a ostacolare la nostra inesorabile marcia verso la rivendicazione della sovranità. Grazie a tutto il popolo del Burkina Faso che vigila costantemente sui propri concittadini”.

Dopo un appello delle autorità, martedì 26 settembre, migliaia di persone sono scese nelle strade e nelle piazze della capitale Ougadougou a sostegno del presidente ad interim, Ibrahim Traoré, salito al potere con un colpo di Stato il 30 settembre dello scorso anno. Allora aveva defenestrato un suo compagno d’armi, Paul-Henri Sandaogo Damiba, che, a sua volta, aveva rimosso il presidente, Roch Marc Christian Kabore nel gennaio dello stesso anno.

Questa mattina la procura militare ha comunicato che quattro ufficiali, implicati nel presunto putsch, sono stati arrestati, mentre le forze dell’ordine sono alla ricerca di altri due che avrebbero partecipato al tentato golpe.

Già lo scorso dicembre la procura aveva annunciato un tentativo di destabilizzazione dell’attuale regime. La situazione a Ouagadougou è tranquilla. Sta di fatto che in tutta questa situazione ci sono molte ambiguità, come ha sottolineato anche Serge Daniel, apprezzato giornalista e profondo conoscitore delle questioni nel Sahel.

Lunedì scorso le autorità del Paese hanno sospeso la diffusione del quotidiano Jeune Afrique, sia l’edizione su cartaceo che quella online. Il giornale aveva pubblicato ben due articoli nei quali annunciava disordini in diversi campi militari del Paese la sera del 20 settembre, nonché tensioni e malcontento tra le truppe. Ovviamente osservazioni non gradite al regime.

Inoltre, secondo alcune fonti, diverse frange dell’esercito non avrebbero apprezzato l’invio di truppe in Niger in caso di aggressione da parte dell’ECOWAS (Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale). L’organizzazione regionale aveva minacciato più volte il dispiegamento di militari a Niamey dopo il colpo di Stato dello scorso luglio, per ristabilire l’ordine costituzionale e riportare al potere Mohamed Bazoum, eletto democraticamente nel 2021 e a tutt’oggi ancora ostaggio dei golpisti nigerini.

E’ davvero difficile capire cosa sia successo davvero a Ouagadougou in questi giorni, per ora si conosce solamente la versione rilasciata dalle autorità di transizione.

Burkina Faso: oltre un milione di bambini non possono frequentare la scuola.

Traoré, poco meno di un anno fa aveva dichiarato di aver preso in mano la situazione per ristabilire la sicurezza nelle zone fuggite al controllo del governo centrale. Ma anche sotto il suo governo la situazione non è migliorata. Gli attacchi dei jihadisti continuano e proprio qualche settimana fa a Koumbri, nella provincia di Yatenga, nel nord del Paese, sono stati brutalmente ammazzati diciassette soldati e trentasei VDP (Volontari per la Difesa della Patria, ausiliari civili dell’esercito). Le truppe erano state inviate in quell’area per permettere alla popolazione, che era fuggita dagli attacchi dei terroristi, di ritornare nei propri villaggi.

Intanto dall’inizio di agosto la Francia ha sospeso tutti gli aiuti al Burkina Faso, dopo la dichiarazione delle autorità di Ouagadougou di voler appoggiare i golpisti del Niger. Le ONG francesi sono ancora autorizzate a operare nel Paese, ma senza il supporto economico di Parigi (oltre 200 milioni di euro), la realizzazione di un centinaio di progetti in favore della popolazione locale sono fortemente minacciati.

Oltre un milione di bambini non possono frequentare la scuola a causa degli incessanti attacchi dei terroristi, oltre 6 mila istituti sono chiusi. John Agbor, direttore nazionale di UNICEF in Burkina Faso, ha sottolineato che un numero così elevato di bimbi e giovani che non possono ricevere un’istruzione mette a rischio il futuro della prossima generazione bourkinabé. Agbor ha poi aggiunto: “I piccoli e adolescenti rischiano di essere costretti a lavorare o di essere reclutati come bambini soldato da parte di gruppi armati, per non parlare di altri abusi, come lo sfruttamento e la violenza sessuale e i matrimoni precoci forzati”.

La situazione umanitaria è a dir poco devastante. Secondo l’ultimo rapporto (giugno 2023) del Norvegian Refugee Council, dall’inizio della crisi, oltre 2 milioni di persone sono state costrette a fuggire dalle proprie case e quasi un quarto della popolazione ha bisogno di aiuti per sopravvivere.

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In Nigeria cambia il presidente, non i problemi: terrorismo e caro vita sempre al primo posto

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
27 settembre 2023

I sindacati nigeriani sono sul piede di guerra contro Bola Tinubu, presidente della ex colonia britannica, eletto lo scorso febbraio. National Labour Congress (NLC) e Trade Union Congress (TUC), due delle più grandi associazioni di lavoratori, hanno indetto uno sciopero a tempo indeterminato a partire dal prossimo 3 ottobre per protestare contro il caro vita.

Persino lo storico traffico caotico e gli infiniti ingorghi di Lagos, capitale economica del Paese, stanno scomparendo. La circolazione è ridotta, perché i prezzi sono lievitati a dismisura dopo la rimozione dei sussidi sul prezzo del carburante e il controllo sulla valuta estera, riforme apportate dal governo di Abuja.

Nigeria: aumento del costo dei generi alimentari

Tinubu ha dichiarato che le riforme sono necessarie per attrarre nuovi investimenti e rilanciare le finanze dello Stato. Ma la popolazione non ci sta. Moltissime famiglie fanno fatica a portare in tavola anche un solo pasto al giorno, per non parlare delle rette scolastiche per mandare i figli a scuola.

Recentemente le autorità di Abuja hanno chiuso diversi campi per sfollati nel Borno State (nord-est del Paese), dove vivevano da anni decine di migliaia di persone dopo essere scappate dalla furia dei terroristi di Boko Haram e ISWAP (acronimo per Islamic State West Africa Province).

Molte famiglie si trovano attualmente in cosiddetti campi di reinsediamento. Gran parte dei sussidi sono stati tagliati. Fanno fatica a sopravvivere. Trovare un lavoro è un’impresa ardua, se non impossibile. E proprio per la mancanza di risorse, gli sfollati che sono stati trasferiti nell’accampamento di Shuwari a Jere (Borno State) sono costretti a mangiare Biri Gamda, (un particolare mangime per animali), per non morire di fame. Biri Gamda (parola che deriva dalla lingua Kanuri) viene solitamente utilizzato per far ingrassare gli animali domestici. In pratica si tratta di una farina solida, il tuwo, a base di riso, mais o miglio, poi essiccata al sole finché non si formano bocconcini duri.

Nigeria, Borno state, Shuwari camp

Ma i problemi del presidente nigeriano non finiscono qui. Bola Tinubu, durante la campagna elettorale aveva promesso di risolvere quanto prima lo stato di insicurezza che da anni affligge molte zone della ex colonia britannica. Anche Muhammadu Buhari, dello stesso partito di Tinubu, All Progressives Congress (APC), appena salito al potere nel 2015, aveva dichiarato che in 6 mesi avrebbe sconfitto i terroristi Boko Haram.

Da anni lo Zamfara state, nel nord-ovest della Nigeria, è l’hot spot dei sequestri di persone a scopo di lucro. Dopo il pagamento di lauti riscatti, generalmente gli ostaggi vengono liberati. Venerdì corso un gruppo di uomini armati ha rapito una ventina di studenti e diversi impiegati dell’università federale di Gusau nel distretto di Bungudu (Zamfara state).

Nigeria, Università Federale, Gusau

Lunedì, 14 giovani e altre due persone sono stati liberati dalle forze di sicurezza; nessuna notizia invece di tutti gli altri ancora in ostaggio dei loro aguzzini. Comprensibile la disperazione di genitori e familiari: “E’ un incubo – si è sfogato il padre di una strudentessa -. I malviventi hanno forzato le porte degli alloggi, hanno spinto fuori i giovani e li hanno portati nella vicina foresta”, ha poi aggiunto.

I sequestri di massa nelle scuole/università continuano anche con questo governo. Si ritiene che le “bande di criminali” siano formate per lo più da fulani, tra loro molti pastori, ma anche mercenari provenienti da Ciad e Niger. La loro attività è concentrata sui sequestri di persona in diversi Stati della Federazione, Sokoto, Kebbi, Katsina, Kaduna e altri. Colpiscono non solo scuole, studenti e insegnati. Anche politici, commercianti, religiosi (imam, pastori, predicatori, sacerdoti), cittadini di tutti ceti della società.

Secondo il Centre for Democracy and Development (l’organizzazione non profit con sede a Abuja, che mira a promuovere i valori della democrazia, della pace e dei diritti umani in Africa, in particolare nella parte occidentale del continente, ndr), dal 2011 al 2022, 12mila persone sono state brutalmente ammazzate da queste bande, mentre, a causa degli incessanti sequestri, centinaia di migliaia sono fuggite dalle proprie case.

Le autorità, come sempre, promettono di prendere provvedimenti, di controllare scuole e università. Ma gran parte delle forze armate sono impegnate da anni a dare la caccia ai terroristi di Boko Haram (legati a al quaeda) e ISWAP (Islamic State’s West Africa Province) nel nord-est del Paese, dove entrambi i gruppi sono sempre molto attivi e non danno tregua alla popolazione.

Solo pochi giorni fa sono stati brutalmente ammazzati dieci agricoltori a Gozwa, nel Borno state, nel nord-est della Nigeria, da miliziani probabilmente appartenenti a ISWAP. La stagione del raccolto si avvicina e, come è già successo in passato, i terroristi vogliono costringere i contadini a lasciare le fattorie per potersi appropriare dei loro beni e di quanto prodotto nei campi.

La popolazione di Gozwa è disperata, negli ultimi anni gli attacchi sono più che raddoppiati nella zona. Humangle, un quotidiano online con base in Nigeria, ha riportato che i residenti stanno protestando pacificamente contro le continue aggressioni dei terroristi, con la speranza di attirare l’attenzione delle autorità. Su alcuni cartelloni si legge: “Gozwa è insanguinata, basta con questi massacri continui”. La loro campagna contro le atrocità perpetrate da miliziani di Boko Haram e ISWAP è stata condivisa sui maggiori social network con diversi hashtag: #gwozaisbleeding, #gwozadailymassacre e #weneedpeace.

Non c’è pace nel più popoloso Stato dell’Africa. Altri attacchi dei sanguinari Boko Haram sono stati segnalati in questi giorni in altre aree del Borno State. A tutt’oggi gli sfollati sono oltre 3,5 milioni. Tra loro 270.000 hanno chiesto protezione in Paesi limitrofi. Finora il neo-presidente non ha ancora chiarito come intende affrontare la questione della diffusa insicurezza.

Cornelia I. Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
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Oltre 17 milioni di affamati in Nigeria: troppe bocche da sfamare, le famiglie costrette a mandare via i figli

Rapimento di massa in una chiesa battista nel nord-ovest della Nigeria

Al Summit sul Clima di Nairobi la società civile condanna il business dei “crediti di carbonio”

Speciale per Africa ExPress
Federica Iezzi
26 settembre 2023

Si è tenuto al Kenyatta International Convention Centerdi Nairobi, in Kenya, l’AfricaClimate Summit 2023, vertice inaugurale sulla crisi climatica che ha abbracciato tutti i Paesi africani. In quella sede è stata adottata la Dichiarazione di Nairobi come modello per guidare il continente nei futuri negoziati con la Comunità globale.

Proteste a Nairobi della comunità Turkana – Photo credit The New Humanitarian

Il vertice è stato convocato per costruire una posizione comune africana per la prossima Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (COP28), che si terrà negli Emirati Arabi Uniti, il prossimo novembre. Tuttavia, la sua eredità potrebbe essere quella di aver dato il via a un dibattito più ampio sul clima all’interno di un continente abituato all’imposizione esterna (segnatamente dall’Occidente) di idee e strategie.

Al centro della dichiarazione c’è la vulnerabilità dell’Africa all’impatto dei cambiamenti climatici, nonostante la sua ridotta impronta sul carbonio. Le principali città africane entro il 2050 ospiteranno più di 1 miliardo di persone, i cui livelli di povertà e disuguaglianza li renderanno estremamente vulnerabili ai rischi che hanno trasformato queste aree in punti caldi dei disastri naturali.

Si trovano in Africa i 17 dei 20 Paesi più colpiti dalla crisi climatica, anche se il continente rappresenta meno del 4 per cento delle emissioni globali di anidride carbonica. Eppure la stessa conferenza si è concentrata sulle soluzioni economiche alla crisi climatica, piuttosto che occuparsi più direttamente dei suoi impatti sulla vita delle popolazioni.

Nonostante gli oltre 40 milioni di rifugiati e sfollati interni e l’aumento della malnutrizione, raddoppiata rispetto al 2012, le questioni relative alla crisi umanitaria, indotte dal clima, non hanno avuto un posto di rilievo nell’agenda. E’ chiaro il nesso tra clima, pace e sicurezza. E questo necessita di strategie che affrontino le fragilità, promuovano l’inclusione e si adattino ai cambiamenti climatici, non dimenticando le zone di conflitto.

https://twitter.com/UNClimateSummit/status/1698546470742270239

Cinquecento gruppi della società civile africana, sotto l’egida dell’Africa People’s Climate Assembly, hanno espresso all’unisono la loro preoccupazione riguardo le “false soluzioni” come i mercati del carbonio, i crediti di carbonio e l’uso della tecnologia come valida alternativa all’eliminazione graduale dei combustibili fossili dannosi.

La dichiarazione di Nairobi chiede all’Occidente di investire nell’ecologizzazione delle economie africane, nonché di supportare la riduzione delle emissioni e fornire fondi per l’adattamento.

Le soluzioni del vertice hanno puntato alla monetizzazione delle riserve naturali di carbonio del continente africano e alla ricerca di investimenti per garantire il proprio futuro verde.

Mentre pochi contestano il fatto che l’Africa debba arginare le perdite economiche derivanti dai cambiamenti climatici – che ammontano al 5-15 per cento del PIL annuo – la questione più ampia rimane quella di come rispondere all’intransigenza dell’Occidente sulle emissioni e come prepararsi alle inevitabili conseguenze.

E allora, monetizzare gli effetti del sequestro di carbonio delle foreste e delle mangrovie africane, condividere le tecnologie verdi e consentire l’estrazione redditizia e responsabile dei suoi minerali verdi è davvero “la soluzione africana” a un problema globale?

Federica Iezzi
federicaiezzi@hotmail.it
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Travellers’ tales Racconti di un viaggio complicato e difficile dallo Zimbabwe all’ Italia

Speciale per Africa ExPress
Angus Shaw
Harare, 25 settembre 2023

Non c’erano alcolici sull’EgyptAir, da Johannesburg al Cairo a Roma, e così ho iniziato a leggere il miglior libro che mi si mai capitato su “Lucky” Lord Lucan, il conte scomparso nel 1974 dopo aver ucciso la tata dei suoi figli, “molto” britannica, a Londra.

Il libro “A Different Class of Murder” di Laura Thompson è ricco di dettagli finora poco noti sulle classi alte, storicamente brutali e sgradevoli. Lucan è scomparso e il suo corpo non è  mai stato ritrovato. Dichiarato ufficialmente morto di recente, anche se per anni sono stati segnalati avvistamenti del conte in Zimbabwe.

La sua famiglia aristocratica, come molte altre con velleità coloniali, aveva un conto bancario Barclays a Bulawayo, che però non è mai stato toccato e rimasto in sospeso. Ci sono state affermazioni mai verificate che si nascondeva sulle montagne orientali di Nyanga, coltivando mele, e poi nella boscaglia selvaggia del circolo meridionale di Tuli, al confine con il Botswana.

Il mistero di Lucan ossessionò la stampa britannica al punto che a un mio amico che lavorava per il London Daily Mirror bastò dire che c’era stato un altro avvistamento in Africa meridionale per ottenere un viaggio tutto pagato per andare a trovare sua madre in pensione a Durban.

Con i segni del dollaro negli occhi, sognava di trovare Lucan un giorno: ci sarebbe stata una lauta ricompensa da parte dei magnati dei giornali dell’epoca.

Il libro di Laura Thompson mi ha aiutato a superare il mio viaggio di 36 ore verso Italia. Ormai è risaputo che ho una malattia che mi priva della mobilità e dell’indipendenza.

Tranne che sul campo da golf, handicap è una parola spregiativa, secondo gli etimologi. Storpio è peggio.

Zoppicare con un bastone da passeggio senza potersi spostare molto, figuriamoci velocemente è davvero una maledetta seccatura. Ma come dicono giustamente gli etimologi, tale disabilità può essere sopportata con nobiltà e coraggio.

Negli aeroporti moderni il punto A e il punto B spesso sono distanti chilometri. Bisogna usare sedie a rotelle, carrozzine elettriche e ascensori. Non provate le scale mobili da soli, perché se non vi rompete il collo salendo, ve lo romperete sicuramente scendendo. (Nella foto: l’aggeggio per salire e scendere dall’aereo).

I compagni di viaggio vi guardano con pietà, con risentimento quando venite portati in prima fila e con gelosia quando attraversate senza problemi i varchi diplomatici della dogana e dell’immigrazione.

Come sarebbe bello essere un vero VIP. Non uno con un’importanza rubata da elezioni truccate come quelli che conosco. VIP significa anche uno con soldi, molti soldi.

Gli amici dell’alta borghesia di Lord Lucan sono rimasti uniti. Era un tipo terribilmente rispettabile, non poteva essere stato lui. Sui suoi abiti dismessi è stato trovato del sangue. Forse si è buttato da un traghetto in partenza dalle coste britanniche. Questa è solo una supposizione. Potrebbe essersi anche imbattuto in un ladro e che tutto sia andato terribilmente storto, così è fuggito. Aveva debiti di gioco fin sopra il collo? Voleva forse liberarsi della sua difficile moglie?

Non lo sapremo mai. Ma è una bella storia – e io amo le storie.

Quando le cose si mettono male, dovrebbe sempre esserci una via d’uscita, un ponte sulle acque agitate. Di sicuro ho intenzione di dominare le strade acciottolate in salita della vecchia Ostuni per vedere la splendida vista sull’oceano che si apre davanti a me, con questo anziano signore che mi aiuta a rinfrescarmi in cima. Si tratta di Luigi Menazzi Moretti, che ha avviato l’attività familiare di produzione di birra 130 anni fa.

Ricominciare a vivere. Carpe diem. Cogliere il giorno, cogliere l’attimo come se fosse l’ultimo.

Angus Shaw

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Questo l’articolo originale in inglese:

Special for Africa ExPress
Angus Shaw
Harare, September 23th, 2023

No booze on EgyptAir from Joburg to Cairo to Rome and so I got stuck into the best book I’ve yet seen on ‘Lucky’ Lord Lucan, the earl of the realm who disappeared in 1974 after murdering his children’s very British nanny in London.

Italy, Rome: The Colosseum

Laura Thompson’s “A Different Class of Murder” is full of hitherto little-known detail on the upper classes, historically a brutal and unsavoury lot. Lucan disappeared never to be found. Officially declared dead recently, sightings of the errant earl were reported on-and-off in Zimbabwe for years.

His aristocratic family, like many with colonial hankerings, had a Barclays bank account in Bulawayo but it wasn’t touched and duly went into abeyance. There were never-verified claims he was hiding in the eastern mountains of Nyanga, evidently growing apples, and then in the wild bush of the southern Tuli Circle bordering Botswana.

The Lucan mystery obsessed the British press to the extent that a friend of mine working for the London Daily Mirror  only needed to say there had been another sighting in southern Africa to get an all-expenses-paid trip to see his mother retired in Durban. With dollar signs in his eyes, he dreamt of finding Lucan one day – there would be a bounteous reward from the newspaper moguls of the day.

Laura Thompson’s book helped me through my 36-hour journey to Italy. Well known by now is that I have an affliction that robs me of my mobility and independence.

Except on the golf course, handicap is a derogatory word, according to etymologists. Cripple is worse.

Hobbling around with a walking stick not being able to move very far nor very fast is a bloody nuisance.  Correctly speaking, say the etymologists, such a disability can be nobly and bravely borne.

At modern airports Point A to Point B can be miles apart. Wheelchairs, little electric buggies and elevators are necessary. Don’t try escalators on your own because if you don’t break your neck getting on you’ll surely break it getting off. (Pictured: the lift contraption to get you into and out of the aircraft.)

Fellow travellers look at you with pity, with resentment when you are taken to the front of the queues and with jealousy when you sail through diplomatic customs and immigration gates with no fuss.

How nice it would be to be a genuine VIP. Not one with an importance stolen from rigged elections like those I know. VIP also means one with very important money.

Lord Lucan’s upper-class chums stuck together. He was an awfully decent sort of chap, he couldn’t possibly have done it. Blood was found on his discarded clothing. Perhaps he jumped off a ferry leaving British shores. That was one theory. Another that he confronted a burglar and it all went horribly wrong so he fled. He had  gambling debts up to his eyeballs. Was it his difficult wife he really wanted to get rid of?

We’ll never know. But it’s a great story – and how I love stories.

When things get bad, there should always be a way out, a bridge over troubled water. I  certainly intend to  master the uphill cobbled streets of old Ostuni to see the beautiful ocean vista unfold before me with this old gentleman to help refresh me at the top. He is Luigi Menazzi Moretti who started the family beer-making business 130 years ago.

Start living again. Carpe diem. Seize the day, seize the moment as if it were your last.

Angus Shaw

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Gli atleti africani abbattono altri due muri alla maratona di Berlino

Dal Nostro Corrispondente Sportivo
Costantino Muscau
24 settembre 2023

È caduto un (altro) muro a Berlino, anzi due: il limite di velocità della maratona femminile e quello del numero di vittorie di uno stesso corridore nella gara maschile dei km 42,195.

Maratona di Berlino 2023

A sbriciolare il primo ci ha pensato, nella radiosa mattinata di domenica 24 settembre, una giovane etiope, Tigst Assefa, 26 anni, che ha sbalordito il mondo dell’atletica. E ha fatto storcere il naso a qualcuno per la sua improvvisa ascesa nell’Olimpo delle donne più forti di sempre.

A demolire il secondo è stato l’immarcescibile, insuperabile, immenso kenyano doppio campione olimpionico, Eliud Kipchoge, che a quasi 39 anni ha conquistato il quinto successo, dopo quelli ottenuti nel 2015, 2017, 2018 e 2022, anno in cui ha anche registrato il record mondiale in 2h01’09”.

Stavolta si è dovuto accontentare del tempo, pur sempre eccezionale, di 2h02’42”, l’ottavo della storia. In fondo, poi, si tratta della sedicesima vittoria delle 19 cui ha partecipato. “Non sono andato come mi sarei aspettato – ha dichiarato, ammettendo che suo obiettivo era scendere sotto il suo record mondiale – ma così è lo sport. Ogni corsa insegna qualcosa. Ora punto alle Olimpiadi di Parigi nel 2024 per cercare di essere il primo “umano” a vincere la maratona per la terza volta”.

Maratona di Berlino: medaglia d’oro per il keniota Eliud Kipchoge

Primato planetario, inimmaginabile un tempo per una donna, è, invece, quello della stupenda (nel senso che ha stupito) di Tigst Assefa.

È passata sotto le porte di Brandenburgo, sul traguardo della 49° edizione della BMW Berlin Marathon, fermando i cronometri su 2h11’53”. Ovvero: ha migliorato di due minuti e 11 secondi il record (2h14’04”) segnato dalla keniana Brigid Kosgei, 29 anni, a Chicago nel 2019.

La sorpresa però non è solo questo risultato strabiliante, a detta di chi se ne intende. La ragazza di Addis Abeba, infatti, aveva esordito in giovanissima età non sulle corse di lunga distanza, ma sugli 800 metri. In questa disciplina aveva ottenuto un argento ai Campionati Africani Juniores del 2013. Nel 2016 aveva poi rappresentato il suo Paese alle Olimpiadi di Rio.

L’etiope Tigst Assefa, vincitrice della Maratona di Berlino

Nello stesso anno però aveva avuto un incidente al tendine di Achille e allora nel 2018 ha puntato prima sulle mezze maratone e poi sulla corsa maggiore. Fra i suoi trionfi anche quello sui 10 km di Telese Terme (Benevento) nel giugno 2022.

Proprio un anno fa, il 25 settembre, aveva esordito con la vittoria, neanche a dirlo, proprio a Berlino, con un tempo, però ben lontano da quello record: 2h15’37, anche se era il terzo della storia.

Insomma, in un anno ha guadagnato a Berlino quattro minuti, ha lasciato dietro di sé la keniana Sheila Chepkirui, 32 anni, (a 6 minuti) e la tanzaniana Magdalena Shauri, 27, terza, a 7 minuti. Devastante.

Dopo il traguardo, avvolta nella bandiera etiopica, Assefa si è fatta il segno della croce per due volte, poi ha baciato le nuove scarpe di Adidas, che pare facciano miracoli, se si hanno le gambe buone. E 500 euro da spendere: tanto, infatti, costano questi calzari da road running di circa 140 grammi, più leggere del 40 per cento – dicono – di qualsiasi altra super scarpa mai creata.

Quindi, ecco gli ingredienti del successo: aiuto divino, scarpette tecnologicamente avanzatissime, allenamenti pesanti cui la sottopone il suo guru Gemedu Dedefo, dopo essere stata preparata anche da due tecnici italiani giramondo (allenano campioni africani e non solo, in Kenya ed Etiopia) Gabriele Nicola e Renato Canova, della scuderia del trentino Gianni Demadonna. Il manager dei campioni, come è stato definito, non credeva ai propri occhi dopo lo strabiliante risultato della campionessa etiope, da cui è stato abbracciato calorosamente.

Ci sarebbe da aggiungere la lepre, Azmera Gebru, 29 anni, un maratoneta che le ha dato il ritmo e la ha accompagnata per l’intera corsa. “E’ il risultato del duro lavoro cui mi sono sottoposta nell’ultimo anno – ha confermato Assefa all’arrivo – non mi aspettavo di battere il record con questo margine, ma sapevo di ottenere il primato”.

Questi risultati, naturalmente, non portano solo gloria, ma anche denaro sonante. I due vincitori di Berlino hanno messo in tasca 30 mila euro ciascuno, ma la super runner Assefa in più ha avuto un bonus da 50 mila euro per il record mondiale. E ora anche lei ha nel mirino Parigi, 2024.

Costantino Muscau
muskost@gmail.com
© RIPRODUZIONE RISERVATA

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E’ nuovamente medaglia d’oro a Berlino per il keniota Eliud, il maratoneta superman