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Sfida al potere: l’oppositore Mondlane torna trionfante in Mozambico e giura come presidente eletto

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Giorgia Meloni in Mozambico e Congo per negoziare il rifornimento di gas

Speciale per Africa ExPress
Sandro Pintus
13 ottobre 2023

Viene prima la “Differenziazione energetica” o il “Piano Mattei per l’Africa”? Sono queste le due parole d’ordine che portano la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, in Mozambico e Repubblica del Congo (Congo-B).

Descalzi e Meloni
Da sin: L’ad di ENI Claudio Descalzi e la premier Giorgia Meloni

Non è un caso che l’accompagni Claudio Descalzi, amministratore delegato di ENI, gigante energetico presente anche in Mozambico e in Congo.

Viaggio breve e intenso per la premier e per l’ad ENI: venerdì 13 l’incontro con il presidente mozambicano Filipe Nyusi. Sabato 14 il meeting con Denis Sassou Nguesso, presidente della Repubblica del Congo.

Gas e scenari geopolitici imprevedibili

La crisi portata dalla Russia con l’invasione dell’Ucraina, ha messo in difficoltà i rifornimenti energetici europei. E l’attacco di Hamas a Israele sta portando ulteriori problemi geopolitici ancora imprevedibili.

In questo scenario l’Algeria con la quale, a gennaio scorso, l’Italia ha firmato accordi per il rifornimento di gas si è schierato con Hamas. Una situazione nella quale diventa quindi prioritario l’approvvigionamento energetico anche da altri partner oltre che dall’Algeria. Eccoci quindi in Mozambico e Congo-B.

Per il momento sul “Piano Mattei” mancano dettagli. Intanto Mozambico e Congo sono considerati esempi dell’approccio “paritario e non predatorio”. L’unica intenzione certa è data dagli sforzi per interrompere l’emigrazione verso l’Europa ma non si sa ancora come visto che gli accordi con la Tunisia sono stati un fiasco.

Meloni Descalzi mappe Mozambico e Congo-B
Mappe del Mozambico e Congo-B

I giacimenti mozambicani

Ecco allora che Giorgia Meloni con la guida di Claudio Descalzi si muove dove abbonda il gas estratto da ENI.

Con il progetto Coral Sul la multinazionale italiana è presente in Mozambico dal 2006 . Da novembre 2022, al largo di Cabo Delgado, estremo nord del Paese colpito dalla guerra contro i jihadisti, ENI opera nel Bacino del Rovuma con la Coral Sul FLNG.

È una piattaforma fluttuante che estrae il gas dal fondo marino a una profondità di 2.600 metri e lo trasforma in GNL (gas naturale liquefatto). Una volta liquefatto lo carica su apposite navi per il trasporto.

Il giacimento di gas ENI ha una capacità di 450 miliardi di metri cubi di gas. La Coral Sul FLNG ha un capacità produttiva di  3,4 milioni di tonnellate di gas per anno.

Finora sono partiti una trentina di carichi verso Gran Bretagna, Corea del Sud, Giappone e altri Paesi. È in progetto la Coral North, una seconda piattaforma fluttuante.

Coral Sul FLNG primo carico di gas naturale
Mozambico, Coral Sul FLNG, primo carico di gas naturale (Courtesy ENI)

Il gas del Congo

Presente dal 1968 in Congo, ENI opera on-shore e off-shore nell’esplorazione e produzione di petrolio. Nel 2022, secondo dati ENI, sono stati prodotti 15 milioni di barili di petrolio e condensati, 2 miliardi di metri cubi di gas e 28 milioni di barili equivalenti di idrocarburi.

L’estrazione del gas è in off-shore profondo di fronte a Pointe-Noire, sud ovest del Paese. Nel 2022 lo start-up del giacimento in produzione Nené-Banga e l’accordo per aumentare l’export di GNL verso l’Europa.

L’obiettivo dell’accordo ENI-Brazzaville è esportare 1 miliardo di metri cubi di gas nell’inverno 2023-2024 e fino a 4,5 miliardi dall’inverno 2024-2025.

Il presidente Denis Sassu Nguesso subito dopo un’intervista con il direttore di Africa Express, Massimo Alberizzi. Con loro il mitico ex producer ella CNN Robert Wiener e un interprete del leader congolese

Il progetto prevede due impianti galleggianti di liquefazione del gas naturale (FLNG) con una capacità di liquefazione di 600.000 tonnellate/anno di LNG nel 2023. Saliranno a 3 milioni di tonnellate/anno dal 2025.

Un test per Meloni e Descalzi per verificare l’approccio “paritario e non predatorio” e quanto gas riusciranno a portare a casa.

Sandro Pintus
sandro.p@catpress.com

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(Twitter): @sand_pin
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Crediti immagini:
– Denis Sassou Nguesso
Amanda Lucidon / White House – File:Denis Sassou Nguesso with Obamas 2014.jpg Pubblico dominio

Filipe Nyusi, President, Republic of Mozambique – 2018
Chatham House – https://www.flickr.com/photos/chathamhouse/40689535485/ 
CC BY 2.0

Mozambico: l’ENI si aggiudica maxi-contratto per sfruttare giacimento di gas offshore

Giacimenti di gas nel nord del Mozambico sono una bomba ecologica a tempo

Destinazione Europa: dal Mozambico partito il primo supercarico ENI di gas naturale

Il presidente Denis Sassu Nguesso subito dopo un’intervista con in direttore di Africa Express, Massimo Alberizzi. Con loro il mitico ex producer ella CNN Robert Wiener e un interprete del leader congolese

Siria, quando con il narcotraffico si finanzia la guerra

Speciale per Africa ExPress
Federica Iezzi
12 ottobre 2023

Secondo quanto dichiarato da Samih Maaytah, ex ministro dell’informazione giordano, Bashar al-Assad potrebbe utilizzare la proliferazione dello stupefacente captagon per attaccare la Giordania e gli altri Paesi arabi della regione, aperti sostenitori di politici dell’opposizione e gruppi ribelli che cercavano di rovesciare il leader siriano, dopo l’inizio della rivolta nazionale del 2011.

Compresse di captagon – Photo credit Al-Arabiya

Definita la “cocaina dei poveri”, il captagon è una sostanza prodotta in laboratorio che crea dipendenza, simile all’anfetamina, bandita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Già popolare in alcune zone del Medio Oriente, tra i lavoratori a basso reddito, il narcotico è facile da produrre ed è socialmente accettabile.

L’ultima operazione di sequestro di captagon, in ordine di tempo, porta la firma di Dubai. Nel 2021, le autorità malesi, informate dalla loro controparte saudita, hanno sequestrato circa 95 milioni di pezzi, del peso di 16 tonnellate e con un valore di mercato stimato di circa 1,2 miliardi di dollari. E l’anno precedente, l’Italia aveva sequestrato 84 milioni di pezzi, arrivati al porto di Salerno dalla città portuale siriana di Latakia.

Captagon era il marchio di un medicinale psicoattivo prodotto negli anni ’60 in Germania, successivamente etichettato come “fuori legge” in tutto il mondo. Venduto a un prezzo che va dai 3 ai 25 dollari a compressa, oggi il captagon è prodotto e trafficato principalmente da gruppi legati al presidente siriano al-Assad e alla milizia libanese Hezbollah, almeno secondo il Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti e il Ministero degli Esteri del Regno Unito.

Il captagon è diventato un generatore di entrate vitale per al-Assad per un valore compreso tra 7 e 10 miliardi di dollari, solo negli ultimi tre anni.

L’imposizione di sanzioni statunitensi e multilaterali alla Siria, intese a indebolire la presa del regime sul potere, ha indotto al-Assad a cercare nuove fonti di entrate con cui acquistare sostegno interno, costruire risorse al di fuori del Paese e proteggersi dall’opposizione popolare. A causa della capacità di contrastare l’effetto delle sanzioni sul regime di al-Assad, il commercio di captagon ha guadagnato l’attenzione dei governi occidentali.

Il regime siriano in risposta ha condotto una serie di sequestri di facciata, sostanzialmente per rafforzare relazioni con i governi arabi.

La lotta al commercio di captagon in Siria diventerà una priorità significativa per gli Stati Uniti. Intanto il Dipartimento del Tesoro (OFAC) ha incluso nella Specially Designated Nationals and Blocked Persons List (SDN List), i soggetti chiave legati alla produzione e all’esportazione di captagon.

Il Segretario di Stato americano Antony Blinken, ha presieduto lo scorso luglio la Global Coalition to Address Synthetic Drug Threats, evento che ha fornito le basi per la prevenzione alla produzione e al traffico di droghe sintetiche illecite, per l’identificazione delle tendenze emergenti e dei modelli di utilizzo delle stesse droghe, in risposta all’impatto sulla salute pubblica.

Federica Iezzi
federicaiezzi@hotmail.it
Twitter @federicaiezzi
©️ RIPRODUZIONE RISERVATA

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Washington Post: le preoccupanti analogie della nuova guerra tra Israele e Hamas

Washinton Post
Ishaan Tharoor*
11 ottobre 2023

(Alla fine dell’articolo tradotto in italiano c’è il testo originale in inglese)

Sembra imminente un’invasione di terra della Striscia di Gaza, mentre le autorità israeliane intraprendono una campagna per sradicare il gruppo islamista Hamas. Sabato, i militanti della fazione hanno orchestrato il giorno più sanguinoso nei 75 anni di storia del moderno Stato israeliano, irrompendo attraverso il confine fortificato con Israele e compiendo un’orrenda carneficina nei vicini villaggi israeliani e in un affollato festival musicale. Almeno 1.000 persone sono state uccise nella furia, mentre il destino di oltre 100 ostaggi rapiti e portati a Gaza è in bilico.

Guerra Israele Hamas

Martedì, in un breve discorso dalla Casa Bianca, il presidente Joe Biden ha dichiarato che gli Stati Uniti “sono al fianco di Israele”. Ha descritto gli eventi del fine settimana come “pura malvagità” e ha affermato che Israele non ha solo il diritto ma anche il “dovere” di rispondere all’attacco di Hamas con la forza. L’incessante campagna israeliana di attacchi aerei sull’enclave palestinese densamente popolata ha già ucciso almeno 920 palestinesi, con rapporti e immagini provenienti dal territorio di ospedali stracolmi e quartieri rasi al suolo.

In Israele, lo shock dell’attacco ha lasciato il posto a una risoluta determinazione. Si profilano interrogativi sul sorprendente fallimento dell’intelligence che ha preceduto l’assalto di Hamas, nonché sul futuro politico del polarizzante Primo Ministro Benjamin Netanyahu, che non è riuscito a sventare la carneficina. Per ora, però, le autorità danno una dimostrazione di unità. “Prima di porci domande difficili, abbiamo una missione”, ha dichiarato martedì ai giornalisti il generale Dan Goldfuss, che comanda la 98ª Divisione paracadutisti del Paese. “Stiamo passando all’offensiva ora con tutti i tipi di capacità e angolazioni”.

Ha aggiunto che l’obiettivo della campagna israeliana sarà quello di “insegnare all’altra parte che non c’è modo di farlo senza che noi cambiamo la realtà”. È una triste notizia per gli oltre 2 milioni di persone intrappolate nella Striscia di Gaza, di cui circa la metà sono bambini.

La natura senza precedenti di ciò che è accaduto e l’incertezza di ciò che accadrà in seguito hanno portato gli analisti a guardare al passato per trovare qualche precedente. Ecco tre analogie che possono aiutare i lettori a riflettere sull’ampia e tragica portata di quanto sta accadendo.

L’11 settembre di Israele

Il parallelo più immediato emerso sulla scia dell’attacco di Hamas è stato il riferimento l’aggressione di Al-Qaeda agli Stati Uniti dell’11 settembre 2001. Pro capite, in termini di numero di vittime, sabato Israele ha subito diversi 11 settembre. Ma l’analogia sta nello shock e nella sorpresa di ciò che è accaduto, nelle dimensioni della tragedia e nell’irrefrenabile desiderio nazionale di vendetta.

“L’effetto che questo avrà sulla nostra psiche collettiva e sulla nostra coscienza condivisa, sul nostro senso di sicurezza e sulla nostra fiducia nella capacità di vivere liberamente e in sicurezza in questa terra, si farà sentire per decenni, se non per generazioni”, ha scritto Avi Mayer, direttore del Jerusalem Post, che ha salutato questo momento come l’11 settembre di Israele.

L’analogia ha implicazioni preoccupanti: gli Stati Uniti hanno trascorso la maggior parte di due decenni a portare avanti costose guerre al terrorismo, invadendo Paesi e lanciando una rete globale contro gli estremisti islamici. Ma la minaccia dei militanti non è stata eliminata. I talebani sono tornati al potere in Afghanistan e l’Iraq rimane una polveriera geopolitica, in qualche modo allineata al regime teocratico dell’Iran.

Una vittoria israeliana su Hamas difficilmente garantisce una pace duratura. “Anche supponendo che Hamas possa essere distrutto, né Biden né Netanyahu sono in grado di rispondere alle difficili domande su cosa accadrà dopo la punizione di Israele: chi gestirà Gaza e quale sarà lo status dei palestinesi in mezzo a Israele?”, ha osservato Gregg Carlstrom dell’Economist.

Guerra dello Yom Kippur 1973

Fino a questo sabato, nessun giorno nella storia di Israele era stato così traumatico come il 6 ottobre 1973, quando gli eserciti di Egitto e Siria lanciarono un’invasione coordinata e a sorpresa del territorio israeliano nella penisola del Sinai e nelle alture del Golan. Alla fine Israele si riprese e respinse le forze arabe con l’aiuto militare degli Stati Uniti. Le battaglie di allora erano esistenziali: sembrava, anche se per poco, che il nascente Stato israeliano potesse essere spazzato via. Oggi non è più così, data la grande asimmetria di potere tra Israele e le fazioni militanti schierate contro di lui.

Israele, Hamas,Gaza

Ma le prospettive potrebbero essere ancora più fosche. “La vittoria, anche se definibile, sarà probabilmente di Pirro”, ha scritto l’ex diplomatico israeliano Michael Oren. “La guerra del 1973 ha creato le condizioni per i negoziati tra Egitto e Israele e ha portato, sei anni dopo, agli accordi di Camp David. Ma il presidente egiziano di allora, Anwar Sadat, cercava la pace; i leader di Hamas cercano il genocidio”.

Martedì Biden ha ricordato il suo incontro con l’allora primo ministro Golda Meir, che incontrò da giovane senatore durante un viaggio in Israele avvenuto circa cinque settimane prima dello scoppio della guerra dello Yom Kippur. Ha raccontato che Meir gli confidò che l'”arma segreta” di Israele era che il suo popolo non aveva “nessun altro posto dove andare”.

Questa settimana, la domanda più urgente è dove andranno i 2 milioni di abitanti di Gaza. Martedì scorso, un funzionario israeliano ha dichiarato al canale 13 del Paese che Gaza sarebbe stata ridotta a “una città di tende”. I valichi di frontiera sono chiusi, per ora, e il bilancio delle vittime è in costante aumento.

Invasione israeliana del Libano nel 1982

Nell’estate del 1982, le truppe israeliane, con il tacito appoggio degli Stati Uniti, entrarono in Libano per eliminare la presenza dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina. Le forze israeliane assediarono addirittura la capitale Beirut per due mesi. Sebbene siano riuscite a cacciare l’OLP dal Libano, l’eredità della “prima guerra di terra su larga scala di Israele contro un’entità non statale”, come ha scritto Kim Ghattas sul Financial Times, è stata quella di un costoso errore strategico.

Le milizie cristiane libanesi di destra alleate degli israeliani compirono orrendi massacri di fino a 2.000 palestinesi nei campi profughi di Sabra e Shatila e di centinaia di civili libanesi. In reazione all’invasione, la Siria e l’Iran formarono un “asse di resistenza” che ancora oggi modella l’equazione geopolitica.

“La lezione degli ultimi quarant’anni è che ogni tentativo di spazzare via i gruppi armati palestinesi ha prodotto solo iterazioni più estreme e peggiori enigmi”, ha scritto Ghattas. “Due giorni dopo l’invasione del Libano da parte di Israele, un aereo di Guardie rivoluzionarie iraniane è arrivato a Damasco e si è diretto nella Valle della Bekaa in Libano con la benedizione del presidente siriano Hafez al-Assad. Da quando l’Iran è arrivato nel Levante, non se n’è più andato”.

Ghattas ha concluso: “Il pericolo ora è quello di altri errori strategici che non faranno altro che perpetuare la violenza per gli anni a venire”.

Ishaan Tharoor

*Ishaan Tharoor è un editorialista di affari esteri del Washington Post, dove è autore della newsletter e della rubrica Today’s WorldView. Nel 2021 ha vinto l’Arthur Ross Media Award in Commentary dell’American Academy of Diplomacy. In precedenza è stato redattore senior e corrispondente della rivista Time, prima a Hong Kong e poi a New York.

The troubling analogies surrounding the new Israel-Hamas war

Washington Post
*Ishaan Tharoor
11 october 2023

A ground invasion of the Gaza Strip appears imminent, as Israeli authorities embark on a campaign to root out Islamist group Hamas. On Saturday, the faction’s militants orchestrated the single bloodiest day in the 75-year history of the modern Israeli state, bursting across the fortified border with Israel and carrying out a hideous killing spree in nearby Israeli villages and at a crowded music festival. At least 1,000 people were killed in the rampage, while the fate of more than 100 hostages abducted and taken to Gaza hangs in the balance.

In a short speech from the White House on Tuesday, President Biden declared that the United States “stands with Israel.” He described the events of the weekend as “pure unadulterated evil” and said that Israel had not just a right but a “duty” to respond to Hamas’s attack with force. Already, a relentless Israeli campaign of airstrikes on the densely populated Palestinian enclave has killed at least 920 Palestinians, with reports and images coming out from the territory of overflowing hospitals and neighborhoods flattened.

In Israel, the shock of the strike has given way to a steely resolve. Questions loom over the astonishing intelligence failure that preceded Hamas’s assault, as well as the political future of polarizing Prime Minister Benjamin Netanyahu, who failed to thwart the carnage. For now, though, authorities are projecting a show of unity. “Before we go and ask ourselves tough questions, we have a mission,” Gen. Dan Goldfuss, who commands the country’s 98th Paratroopers Division, told reporters Tuesday. “We are moving into the offensive now with all kinds of capabilities and angles.”

He added that the goal of the Israeli campaign would be to “teach the other side that there is no way that they can do this without us changing the reality.” That’s grim tidings for the more than 2 million people trapped within the Gaza Strip, roughly half of whom are children.

The unprecedented nature of what’s taken place and the uncertainty of what comes next has led to analysts reaching back into the past for some precedent. Here are three analogies that may help readers think through the broad, tragic sweep of what’s in motion.

‘Israel’s 9/11’

The most immediate parallel that emerged in the wake of Hamas’s attack was reference to the al-Qaeda strike on the United States on Sept. 11, 2001. Per capita, in terms of the death toll, Israel suffered multiple 9/11s on Saturday. But the analogy lies in the shock and surprise of what happened, in the scale of the tragedy, and in the overwhelming national desire for retribution. “The effect this will have on our collective psyche and our shared consciousness, on our very sense of security and our confidence in our ability to live freely and securely in this land — it will be felt for decades if not generations,” wrote Avi Mayer, editor in chief of the Jerusalem Post who hailed the moment as Israel’s 9/11.

The analogy carries some worrying implications: The United States spent the better part of two decades prosecuting costly wars on terror, invading countries and casting a global dragnet against Islamist extremists. But the Islamist militant threat has not been expunged. The Taliban is back in power in Afghanistan and Iraq remains a geopolitical powder keg, somewhat aligned to Iran’s theocratic regime.

An Israeli victory over Hamas hardly guarantees a lasting peace. “Even assuming Hamas can be destroyed, neither Biden nor Netanyahu can answer the hard questions about what happens after Israel’s retribution: who will run Gaza, and what will be the status of the Palestinians in Israel’s midst?” noted the Economist’s Gregg Carlstrom.

1973 Yom Kippur War

Until this Saturday, no day in Israeli history had been as uniquely traumatic as Oct. 6, 1973, when the armies of Egypt and Syria launched a coordinated surprise invasion of Israeli territory in the Sinai Peninsula and Golan Heights. Israel eventually recovered its footing and pushed back the Arab forces with U.S. military aid. The battles then were existential — it seemed, if briefly, that the fledgling Israeli state could be snuffed out. That’s less the case today, given the vast asymmetry of power between Israel and the militant factions arrayed against it.

But the outlook may be all the more bleak. “Victory, even if definable, will likely be Pyrrhic,” wrote former Israeli diplomat Michael Oren. “The 1973 war created the conditions for negotiations between Egypt and Israel and led, six years later, to the Camp David Accords. But Egypt’s president at the time, Anwar Sadat, sought peace; Hamas’s leaders seek genocide.”

On Tuesday, Biden recalled his encounter with then-prime minister Golda Meir, whom he met as a young senator on a trip to Israel that took place some five weeks before the breakout of the Yom Kippur War. He said that Meir confided in him that Israel’s “secret weapon” was that its people had “nowhere else to go.”

This week, the more urgent question is where will Gaza’s 2 million people go. On Tuesday, an Israeli official told the country’s Channel 13 that Gaza would be reduced to “a city of tents.” The border crossings are shut, for now, and the death toll is steadily rising.

1982 Israeli invasion of Lebanon

In the summer of 1982, Israeli troops, with tacit U.S. backing, entered Lebanon to eliminate the presence there of the Palestine Liberation Organization. Israel’s forces even besieged the capital Beirut for two months. While they succeeded in driving the PLO out of Lebanon, the legacy of “Israel’s first large-scale ground war against a non-state entity,” as Kim Ghattas wrote in the Financial Times, was that of a costly strategic blunder.

Right-wing Lebanese Christian militias allied to the Israelis carried out the hideous massacres of up to 2,000 Palestinians at the Sabra and Shatila refugee camps, as well as hundreds of Lebanese civilians. In reaction to the invasion, Syria and Iran forged an “axis of resistance” that shapes the geopolitical equation to this day.

“The lesson of the past four decades is also that every attempt to wipe out Palestinian armed groups has only produced more extreme iterations and worse conundrums,” Ghattas wrote. “Two days after Israel’s invasion of Lebanon, a planeload of Iranian Revolutionary Guards arrived in Damascus and headed to Lebanon’s Bekaa Valley with Syrian president Hafez al-Assad’s blessing. Since Iran arrived in the Levant, it has never left.”

Ghattas concluded: “The danger now is of more strategic blunders that will only perpetuate the violence for years to come.”

Ishaan Tharoor*

*Ishaan Tharoor is a foreign affairs columnist at The Washington Post, where he authors the Today’s WorldView newsletter and column. In 2021, he won the Arthur Ross Media Award in Commentary from the American Academy of Diplomacy. He previously was a senior editor and correspondent at Time magazine, based first in Hong Kong and later in New York

Apocalisse in Palestina e il lento suicidio di Israele

Il NY Times sulla tempesta in Medio Oriente: un attacco da Gaza e una dichiarazione di guerra israeliana. E adesso?

Apocalisse in Palestina e il lento suicidio di Israele

Speciale per Africa ExPress
Giuseppe Cassini*
10 ottobre 2023

Con lo sguardo lungo si vede meglio quando è iniziato il cammino d’Israele verso il suicidio: è iniziato il 4 novembre 1995, con l’assassinio di Rabin per mano di un ebreo estremista. Il mese prima eravamo al Vertice di Amman: le parole di Rabin e dei leader palestinesi lasciavano presagire compromessi risolutivi. Incontrai Rabin un’ultima volta: i suoi occhi di un azzurro intenso infondevano un senso di visione. “La pace si negozia con i nemici – ripeteva con forza – e la faremo ad ogni costo”. Ad ogni costo? A lui costò la vita: quei tre colpi di pistola chiusero la prima porta verso la pace. Poi fu un seguito di occasioni sprecate.

Marzo 2002. Al Vertice della Lega Araba a Beirut ricordo il re saudita presentare un piano di pace impeccabile, accettato dall’intera Lega Araba. Ecco, finalmente ci siamo – pensavo io. Invece no, il governo d’Israele chiuse il piano in un cassetto. Gennaio 2006. L’Autorità Palestinese indisse libere elezioni, a cui Hamas partecipò vincendole a Gaza (74 seggi contro 45 ad al-Fatah). Gli osservatori internazionali confermarono la regolarità delle elezioni, ma su pressione israeliana gli Usa e l’Ue non accettarono i risultati. Démocratie à la carte?

Luglio 2006. Nella guerra sul fronte israelo-libanese vidi Tsahal seminare di rovine e di morte mezzo Libano per eliminare Hezbollah e i suoi razzi. Oggi Hezbollah possiede missili (altro che katiusce!) con gittate in grado di colpire Israele dovunque. 2008 – 2015. Su Gaza piovvero nove valanghe di fuoco intese ad eliminare razzi, tunnel e capi di Hamas, al prezzo di migliaia di vittime civili, inclusi feriti e rifugiati in ospedali e scuole dell’Onu. Erano “centimazioni”, non decimazioni: il rapporto fra vittime palestinesi e israeliane fu di 1 a 100. Quelle nove operazioni erano battezzate con nomi immaginifici: Arcobaleno – Giorni di Penitenza – Prime Piogge – Attacco Illuminante – Piogge d’Estate – Inverno Caldo – Piombo Fuso – Pilastro di Difesa – Margine di Protezione. Ora è arrivata la decima: operazione Spade di Ferro.

Hamas venne fondata nel 1987 da un gruppo di Fratelli Musulmani (con la collusione d’Israele al fine di indebolire Arafat). La loro guida spirituale e politica era Ahmed Yassin, capo carismatico costretto dalla paralisi su una sedia a rotelle. Yassin aveva proposto fin dal 1993 delle tregue che portassero a concludere un vero armistizio senza rinunciare ai propri principi. Ma Israele le aveva sempre snobbate, sostenendo che erano solo “cortina fumogena”; e a sottolineare meglio il concetto, il 22 marzo 2004 un elicottero inviato sopra Gaza fulminò sulla sedia a rotelle Yassin con altri nove palestinesi all’uscita della moschea dopo la preghiera del tramonto.

Chi viaggia oggigiorno in Terrasanta non trova traccia dello spirito ideale dei kibbutz; incrocia piuttosto gruppi di ortodossi che ti squadrano con occhiate lampeggianti di fanatismo, e se cammini di sabato nei loro quartieri puoi beccarti anche qualche sassata. Da oltre un decennio Netanyahu invita ebrei invasati ad occupare terre non loro, erige muri su muri, rende impraticabile la soluzione dei due Stati, umilia i palestinesi moderati… e lo stesso presidente Obama davanti al Congresso americano.
Al punto da indurre l’ex-presidente Carter a intitolare “Apartheid” un suo libro di critica a Israele.

Identificare il popolo ebraico con lo Stato israeliano finisce per “giustificare” – in una logica uguale e contraria – il dilagare dell’antisemitismo in Europa e in America. Memorabile lo scambio di battute fuori onda di Obama con Sarkozy al G20 di Cannes nel 2011: “Non ne posso più di Netanyahu, è un bugiardo!” aveva bisbigliato Sarkozy; e Obama di rimando: “Lo dici a me che devo trattare ogni giorno con lui?”. I sionisti americani che vedono in Israele la realizzazione in terra delle profezie bibliche – tipi come il pastore John Hagee, faccia e stazza texana, che benediva i raid israeliani con prediche ispirate («L’umanità verrà giudicata per le sue azioni nei riguardi d’Israele») – potrebbero con pari fanatismo riabbracciare l’antisemitismo se un giorno si risvegliassero chiedendosi: possibile che un piccolo Stato straniero tenga in scacco da mezzo secolo la super-potenza del mondo?

Non per niente Israele si guarda bene dall’associarsi agli altri 123 membri dell’Onu che hanno aderito alla Corte Penale Internazionale, dato che il suo obiettivo non è di accettare la sfida nei processi, bensì di star fuori dai processi (perciò Berlusconi faceva il tifo per Netanyahu).

Ebrei ultraordossi, Israelel

L’occupazione dei Territori mette in pericolo la sicurezza stessa d’Israele, dal momento che il diritto internazionale autorizza a ribellarsi chi è sottoposto – come i palestinesi – ad occupazione militare condannata dall’Onu. E chi persiste a giustificare l’impunità ad Israele sta in realtà scavandogli la fossa: l’ha capito da tempo l’ex-presidente della Knesset, Avraham Burg, quando ha scongiurato di “salvare Israele da sé stesso”.

Giuseppe Cassini*

*Giuseppe Cassini è stato un diplomatico italiano, ambasciatore in Somalia e in Libano. Ha lavorato anche in Belgio, Algeria, Cuba, Stati Uniti, Ginevra (ONU). Autore di Gli anni del declino. La politica estera del governo Berlusconi (2001-2006) (Bruno Mondadori 2007) e dell’ebook Anatomia di una guerra. Quella “stupida” guerra in Iraq (Narcissus 2013), conosce bene l’America profonda, l’America che afferma: “Washington non è la soluzione, è il problema”.
https://www.africa-express.info/2019/03/18/20-marzo-1994-lomicidio-di-italia-e-miran-e-il-ruolo-della-disinformazione-parte-1/

20 marzo 1994: Ilaria e Miran dalle speculazioni ora si passi alle indagini (3a e ultima parte)

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Giovanni Porzio in un libro racconta le atrocità della guerra

La recrudescenza della guerra tra palestinesi e israeliani
rende questo libro di Giovanni Porzio ancora più attuale.

Speciale per Africa ExPress
Massimo A. Alberizzi
Milano, ottobre 2023

Quello di Giovanni Porzio “Sui sentieri del Jihad” non è un libro da leggere, ma da divorare. Bisogna fare attenzione perché quando cominci a sfogliare le pagine, non smetti più. E’ un testo pieno di informazioni, annotazioni e storie narrate in prima persona che affascinano il lettore e riescono a coinvolgerlo quasi fosse anche lui parte del racconto.

Giovanni Porzio è un inviato di lungo corso. Le guerre e più in generale le aree di crisi sono il suo pane. Sa muoversi a dovere e sa che incidenti in cui puoi perdere persino la vita sono sempre possibili: “Sono rischi di questo mestiere. Se vuoi conoscere e capire la realtà, spesso tragica e difficile, devi essere là. Non puoi restare a casa comodamente accomodato su un divano e scrivere di guerra se non ci sei dentro”. Aveva spesso spiegato.

E infatti zaino in spalla, taccuino in una mano e macchina fotografica a tracolla, si metteva (e si mette ancora) in viaggio verso l’inferno in Terra.

Giovanni Porzio in Ciad, 2004, foto di Giancarlo Zizola

E così già dalle prime pagine il libro trascina il lettore nella sofferenza. Sia essa in Afghanistan, in Somalia, in Palestina, nell’infuocato Sahara o in altre parti del pianeta dove l’autore si muove con difficoltà, logistiche e organizzative, ma anche a proprio agio. Nell’inferno non ci sono autostrade né confortevoli alberghi con aria condizionata e piscina e neppure ristoranti con cibi prelibati, ghiotti o pantagruelici, ma solo poca roba commestibile che serve solo per nutrirsi.

Ma il libro non è solo cronaca. I racconti non possono essere distaccati dalla realtà e dalle immagini che emergono dipingendo tragedie epocali.

Obedia è una donna palestinese che ha perso il fidanzato ucciso da un missile israeliano. Il fratello kamikaze si era fatto saltare alla stazione degli autobus di Tel Aviv. Decide di seguirne l’esempio ma viene scoperta è cacciata per sei anni in galera. Uscita di prigione convola a nozze con un matrimonio combinato e infelice con un figlio che non arrivava mai.

Il carcere l’ha cambiata profondamente anche se resta partigiana della patria palestinese. E il suo sfogo raccontato da Porzio non solo è toccante ma spiega anche tante cose che purtroppo sfuggono al grande pubblico. “So che non potrò mai vivere una vita normale, che non potrò mai essere una madre come e altre. Ma non sono un mostro assetato di sangue. Sono un essere umano: è questo che vorrei dire agli israeliani. Tra i kamikaze ci sono donne come me, studenti universitari, impiegati, gente comune. Persone quali sempre spinte a scelte e azioni estreme spinte dalla disperazione per la perdita di un congiunto della casa o del lavoro. Per molti di noi la morte è preferibile all’umiliazione di una vita senza futuro, senza patria e senza libertà. Non è la testa che ci guida. E’ il cuore”. Una confessione agghiacciante che spiega parecchie cose sulla motivazione dei terroristi. Se si vuol combattere il terrorismo occorre rimuovere le cause che muovono i terroristi. E spesso non è cieco fanatismo o incomprensibile esaltazione.

Il questo libro non ci sono solo pagine toccanti. Quando parla dei documenti sulla ricostruzione dell’Afghanistan pubblicati dal Washington Post nel 2019 racconta risvolti noti ma sconosciuti al grande pubblico, specie a quello italiano. “Quei documenti – scrive Porzio – non facevano che confermare ciò che era evidente a tutti gli afghani e agli osservatori sul campo: la dilagante corruzione di un governo inetto e cleptocratico (quello afgano, n.d.r.) l’impreparazione e la debolezza delle forze di sicurezza, la piaga del traffico di droga, l’impunità dei warlord sul libro paga della CIA, l’avanzata dei taliban”.

E ancora: “Gli Afghanistan Papers dimostravano che l’opinione pubblica americana, come i tempi del Vietnam, era stata deliberatamente manipolata con l’avallo di tre inquilini della Casa Bianca, Bush, Obama e Trump. Generali e funzionari del Pentagono enfatizzavano i progressi della campagna militare e della ricostruzione diffondendo notizie false, statistiche distorte o inesistenti. E brancolavano nel buio. ‘Che cosa stavano facendo in quel Paese?’, Si domandava il generale Douglas Lute, consigliere per l’Afghanistan di Bush e Obama. ‘Che cosa stiamo cercando di fare? Con quali obiettivi? Non lo sapevamo’ “.

Porzio mostra le rovine di un palazzo distrutto a Karkiv, in Ucraina

Nel libro si trovano poi le risposte ad alcune domande semplici ma spesso rimaste inevase. “Nei documenti che avevo trovato nei covi di al Qaeda a Kabul, le parole d’ordine più frequentemente ribadite erano la riconquista di Gerusalemme e la cacciata degli americani dei territori arabi -racconta Giovanni Porzio -. L’avversione per gli Stati Uniti, di cui un Occidente in malafede e privo di memoria storica pareva non capire le ragioni, era un sentimento diffuso nel mondo islamico. Erano missili americani quelli che provocavano i ‘danni collaterali’ in Afghanistan e polverizzavano le case dei palestinesi, erano armi americane quelle in mano le milizie falangista di Beirut che nel 1982 massacrarono e stuprarono i profughi dei campi di Sabra e Chatila, ed era Israele – alleato di ferro degli Stati Uniti – che occupava il Golan e la Cisgiordania e che durante l’invasione del Libano aveva ucciso 17.500 civili. Ed erano gli americani ad aver imposto all’Iraq le sanzioni economiche che avevano causato la morte di quasi mezzo milione di bambini”.

Nel 2003 al lavoro nella sua camera d’albergo a Baghdad

Una constatazione banale tenuta purtroppo lontana dall’opinione pubblica occidentale. Così le si possono imporre scelte dannose che favoriscono l’industria delle armi, i trafficanti che ne fanno parte. Insomma il commercio di morte. Un apparato economico che applaude freneticamente ogni volta che viene tirato un missile e gioisce a ogni massacro e a ogni carneficina. Ogni arma e ogni proiettile usato, dovrà essere rimpiazzato negli arsenali.

Il libro di Porzio è pieno zeppo di informazioni e di spunti illuminanti. Chiarimenti di cui c’è assai bisogno ora, tempo di guerra in Ucraina. La narrazione del conflitto attuale è a senso unico e chi solleva dubbi sulla sua necessità e ineluttabilità viene insultato e accusato di essere amico dei dittatori e dei tiranni. Le guerra e le sue cause non sono avvenimenti semplici da narrare e descrivere. E qualche velo lo scritto di Porzio lo solleva.

Massimo A. Alberizzi
massimo.alberizzi@gmail.com
twitter @malberizzi
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A Chicago maratona dei record e strapotere del Kenya

Dal Nostro Corrispondente Sportivo
Costantino Muscau
9 ottobre 2023

E’ stata una corsa al record, ma soprattutto all’oro, anzi al dollaro, la 45esima edizione della ambitissima maratona di Chicago.

Chicago Marathon: And the winner is Kelvin Kiptum, Kenya, record mondiale

E Kelvin Kiptum, 23 anni, keniano, domenica 8 ottobre, alle 16.30 circa (ora italiana) ha fissato il nuovo primato mondiale sui 42,195 km e ha messo in tasca 150 mila dollari: 100 mila per la vittoria, 50 mila di bonus per le 2 h00’ 35”, il tempo mai impiegato da un uomo a coprire la distanza di Fidippide.

Il giovane africano, col suo risultato straordinario, vicino al limite umano, ha detronizzato il suo “anziano” maestro rivale, il connazionale Eliud Kipchoge, 38 anni, mito vivente, tanto da essere chiamato sua maestà, sia per essere il detentore del record (2h01’09”, stabilito a Berlino lo scorso anno) sia per avere vinto due Olimpiadi consecutive e mirare alla terza nel 2024 a Parigi, dove troverà di nuovo il giovane sfidante.

“Preparatevi allo spettacolo” aveva annunciato. E così è stato, anche se neppure lui aveva previsto un tale evento.

Kelvin Kiptum, nato il 2 dicembre 1999, è cresciuto a pane e mezze maratone in quel di Eldoret, dove sorgono i campioni e la sua performance, a Chicago era attesa, ma ha superato ogni aspettativa.

E’ stato il primo a riconoscerlo. Sul traguardo ha dichiarato: ”Ero venuto per battere il record della corsa, non quello mondiale! Sapevo che un giorno o l’altro c’è l’avrei fatta ma non oggi. Ovviamente sono felicissimo”.

Kelvin era visto come il maratoneta del futuro perché a Londra, alla sua seconda maratona, il 23 aprile, aveva stupito il mondo dell atletica correndo in 2h01’25” sfiorando il primato di Eliud.  Aveva esordito in questa massacrante distanza appena a dicembre 2022, a Valencia, in Spagna con il miglior debutto di sempre: 2:01’53”.

Ora domenica c’è l’ha fatta grazie al percorso piatto e scorrevolissimo, al clima fresco e alle…scarpe supertecnologiche, con piastre in carbonio, che – si scherza- farebbero piacere anche a Hermes, il messaggero degli dei.

“Ora dove arriverà?”, si domandano gli esperti. Sarà il primo a raggiungere vette un tempo inavvicinabili, ovvero a toccare le due ore e a sfondarle? Inutile dire che la sua prestazione ha oscurato tutti gli altri concorrenti di livello mondiale: il secondo, Benson Kipruto, 32 anni,  keniano, pure lui, è arrivato tre minuti dopo in 2h04’02” (dollari 50 mila comunque), il terzo, Bashir Abdi, 34, belga-somalo, con 3 minuti e mezzo di ritardo, un posto che vale comunque 25 mila dollari.

Chicago Marathon 2023:
l’olandese di origini etiopiche, Sifan Hassan, vince la gara femminile

La manifestazione di Chicago, svoltasi sotto un “tunnel umano” di oltre un milione e mezzo di spettatori (45 mila gli iscritti, 642 italiani) ha riservato cose dell’altro mondo anche fra le donne. La dominatrice, l’olandese di origini etiopiche, Sifan Hassan, 30 anni, segna il secondo tempo di sempre con 2h13’44”. Ed era alla sua seconda maratona, che le vale sempre 100 mila dollari. (I premi sono uguali per maschi e femmine).

Alle sue spalle una perdente velocissima, Ruth Chepngetich, 29 anni, un peso piuma sotto i 50 chili, alta 1,67, vincitrice nel 2021 e 2022, che ha fermato il cronometro su 2h15’37”. Inutile ricordare che anche lei è delle parti di Nairobi.

Cose “mostruose”, dunque, succedono alla maratona di Chicago, dove, comunque, si conferma lo strapotere dei maratoneti keniani, che dal 2010, tra uomini e donne, hanno vinto 16 volte.

Costantino Muscau
muskost@gmail.com
© RIPRODUZIONE RISERVATA

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E’ nuovamente medaglia d’oro a Berlino per il keniota Eliud, il maratoneta superman

Kenya e Etiopia conquistano il podio; terminata la stagione delle maratone fra sorprese e sospetti

Il NY Times sulla tempesta in Medio Oriente: un attacco da Gaza e una dichiarazione di guerra israeliana. E adesso?

Dal New York Times
Steven Erlander*
Berlino, 8 ottobre 2023

(Alla fine del testo in italiano l’articolo originale in inglese)

A quasi 50 anni dalla guerra dello Yom Kippur del 1973, Israele è stato nuovamente colto di sorpresa da un attacco improvviso, che ricorda in modo sorprendente come la stabilità in Medio Oriente rimanga un sanguinoso miraggio.

A differenza dell’ultima serie di scontri con le forze palestinesi a Gaza negli ultimi tre anni, questo sembra essere un conflitto su larga scala organizzato da Hamas e dai suoi alleati, con lanci di razzi e incursioni nel territorio israeliano, con morti e ostaggi israeliani.

L’impatto psicologico sugli israeliani è stato paragonato allo shock dell’11 settembre in America. Quindi, dopo che l’esercito israeliano avrà respinto l’attacco iniziale palestinese, si porrà il problema di cosa fare dopo. Ci sono poche opzioni valide per il primo ministro Benjamin Netanyahu, che ha dichiarato guerra e sta subendo pressioni per una risposta militare importante.

Una palazzina palestinese distrutta da un bombardamento israeliano – credit Samar Abu Elouf for The New York Times

Considerando che finora sono morti 250 israeliani e che un numero imprecisato di persone è stato preso in ostaggio da Hamas, non si può escludere un’invasione israeliana di Gaza, e persino una temporanea rioccupazione del territorio, cosa che i governi israeliani che si sono succeduti hanno cercato di evitare.

Come ha detto Netanyahu agli israeliani nel dichiarare guerra: “Li combatteremo con una forza e una portata che il nemico non ha ancora conosciuto”, aggiungendo che i gruppi palestinesi pagheranno un prezzo pesante.

Ma una grande guerra potrebbe avere conseguenze impreviste. Sarebbe probabile che produca ingenti perdite palestinesi – civili e combattenti – interrompendo gli sforzi diplomatici del presidente statunitense Joe Biden e di Netanyahu, primo ministro israeliano, per ottenere il riconoscimento saudita di Israele in cambio di garanzie di difesa da parte degli Stati Uniti.

Ci sarebbero anche pressioni sugli Hezbollah, il gruppo militante sostenuto dall’Iran che controlla il Libano meridionale, per aprire un secondo fronte nel nord di Israele, come ha fatto nel 2006 dopo la cattura di un soldato israeliano e fatto prigioniero a Gaza.

L’Iran, nemico giurato di Israele, è un importante sostenitore di Hamas e degli Hezbollah e ha fornito armi e intelligence a entrambi i gruppi.

Il conflitto unirà Israele al proprio governo, almeno per un po’, con l’opposizione che annullerà le manifestazioni previste contro i cambiamenti giudiziari proposti da Netanyahu e obbedirà all’appello dei riservisti. Questo darà a Netanyahu “piena copertura politica per fare ciò che vuole”, ha dichiarato Natan Sachs, direttore del Centro per la Politica del Medio Oriente della Brookings Institution.

Cadaveri di civili israeliani abbattuti nei villaggi poco dopo la frontiera con Gaza – credit Ammar Awad/Reuters

Tuttavia, ha aggiunto Sachs, Netanyahu ha respinto in passato le richieste di inviare migliaia di truppe a Gaza per cercare di distruggere i gruppi armati palestinesi come Hamas, visti i costi e l’inevitabile domanda su cosa accadrà il giorno dopo.

“Ma l’impatto psicologico per Israele è simile a quello dell’11 settembre”, ha specificato infine, “Quindi i costi  potrebbero essere ben diversi questa volta”.

La domanda sarà sempre la stessa: “cosa succederà dopo”, ha detto Mark Heller, ricercatore senior presso l’Istituto israeliano per gli Studi sulla Sicurezza Nazionale. Quasi ogni anno ci sono state operazioni militari israeliane limitate nei territori occupati, ma senza alcuna soluzione.

“Ci sono già molte pressioni per un’incursione su larga scala, per “farla finita con Hamas”, ma non credo che risolverà nulla nel lungo periodo”, ha poi aggiunto Heller.

Ma Carl Bildt, ex primo ministro e ministro degli Esteri svedese, ha affermato che un attacco israeliano su larga scala a Gaza è quasi inevitabile, soprattutto se soldati israeliani sono stati presi in ostaggio. “Se Hamas ha preso dei soldati israeliani come prigionieri e li ha portati a Gaza, un’operazione israeliana su larga scala a Gaza sembra altamente probabile”, ha dichiarato su X (ex Twitter). “Un’altra guerra”. Lo stesso presumibilmente varrebbe per i cittadini israeliani.

Israele e Netanyahu sono stati cauti nell’inviare forze di terra a Gaza. Anche nel 2002, quando Ariel Sharon era primo ministro e le forze israeliane schiacciarono una rivolta palestinese in Cisgiordania, il governo scelse di evitare l’invio di truppe supplementari significative a Gaza, dove allora erano presenti insediamenti israeliani.

Nel 2005, Israele ha ritirato unilateralmente i propri soldati e cittadini da Gaza, pur mantenendo il controllo effettivo di ampie zone della Cisgiordania occupata. Il fallimento di quel ritiro nel garantire qualsiasi tipo di accordo di pace duraturo, ha lasciato Gaza quasi orfana, in gran parte tagliata fuori dagli altri palestinesi della Cisgiordania e praticamente completamente isolata sia da Israele che dall’Egitto, che controllano i confini di Gaza e la sua costa. I palestinesi chiamano spesso Gaza “una prigione a cielo aperto”.

Gli israeliani si ritirano nella striscia di Gaza era il 2005 – Credit Uriel Sinai/Getty Images

Dopo il ritiro israeliano da Gaza e il conflitto del 2006, una lotta interna tra il movimento Fatah del presidente palestinese Mahmoud Abbas e il movimento islamista più radicale Hamas, si è conclusa con la presa di controllo del territorio da parte di Hamas nel 2007, spingendo Israele a cercare di isolare ulteriormente Gaza.

Anche durante il lungo conflitto del lungo del 2008 e del 2009, le forze israeliane sono entrate a Gaza e nei suoi centri abitati, ma hanno scelto di non muoversi troppo in profondità nel territorio o di rioccuparlo, con un cessate il fuoco mediato dall’Egitto dopo un conflitto durato tre settimane.

I governi israeliani che si sono succeduti insistono sul fatto che, dopo il ritiro del 2005, non hanno più responsabilità su Gaza. Ma dato il controllo israeliano sui confini e la sua schiacciante superiorità militare, molti gruppi come B’Tselem, che monitora i diritti umani nei territori occupati, sostengono che Israele mantenga responsabilità e obblighi legali significativi per Gaza, in base al diritto umanitario internazionale.

Sebbene non sia stato chiaro perché Hamas abbia scelto di attaccare ora, una delle risposte potrebbero essere i crescenti legami di Israele con il mondo arabo, in particolare con l’Arabia Saudita, che ha negoziato un trattato di difesa con gli Stati Uniti in cambio di una normalizzazione delle relazioni con Israele, potenzialmente a scapito dei palestinesi.

Questa è l’opinione di Amberin Zaman, analista di Al-Monitor, un sito web di notizie con sede a Washington che si occupa di Medio Oriente. “La risposta di Israele agli attacchi di oggi sarà probabilmente di una portata tale da far arretrare gli sforzi statunitensi per la normalizzazione saudita-israeliana, se non addirittura da farli fallire del tutto”, ha affermato in un messaggio su X, ex Twitter.

L’Arabia Saudita non riconosce Israele dalla sua fondazione nel 1948 e finora aveva segnalato che non avrebbe nemmeno preso in considerazione la normalizzazione delle relazioni, finché Israele non avrebbe accettato di consentire la creazione di uno Stato palestinese.

Ma di recente anche il sovrano de facto dell’Arabia Saudita, il principe Mohammed bin Salman, ha affermato pubblicamente che una sorta di accordo con Israele sembrava plausibile. In un’intervista rilasciata a Fox News il mese scorso, ha sottolineato che  discorsi sulla normalizzazione erano “per la prima volta reali”.

Ora questo sarà messo in discussione, a seconda di quanto durerà il conflitto e del numero di morti e feriti.

Ma Sachs di Brookings sostiene che gli obiettivi di Hamas potrebbero essere più semplici: prendere ostaggi per liberare i prigionieri palestinesi della Cisgiordania e di Gaza nelle carceri israeliane.

Aaron David Miller, ex diplomatico americano che si occupa di Medio Oriente, ha detto che Hamas è stato frustrato dalle quantità di denaro che arrivano dai Paesi Arabi a Gaza e dalle restrizioni sui lavoratori che ottengono il permesso di lavorare in Israele. “Per molti versi si tratta di un attacco di prestigio, per ricordare agli israeliani che siamo qui e possiamo farvi del male in modi che non potete prevedere”, ha aggiunto infine.

Netanyahu il mese scorso all’assemblea generale delle Nazioni Unite -Credit Maansi Srivastava/The New York Times

Israele, scioccato, dovrà ora fare i conti con i risultati di quello che Miller, ora al Carnegie Endowment, ha definito il suo “eccesso di fiducia e compiacimento e la mancanza di volontà di immaginare che Hamas potesse lanciare un attacco transfrontaliero come questo”.

Le ramificazioni della guerra e le sue conseguenze saranno “di vasta portata e richiederanno molto tempo per manifestarsi”, ha detto Sachs. Ci saranno commissioni d’inchiesta sulle agenzie militari e di intelligence “e anche i vertici politici non sfuggiranno alle proprie responsabilità”.

Ma prima, come ha notato Heller, viene la guerra. “E queste cose tendono a sfuggire al controllo”

Steven Erlanger*

*Steven Erlanger è il capo del servizio  diplomatico del Times in Europa, con sede a Berlino. In precedenza ha lavorato a Bruxelles, Londra, Parigi, Gerusalemme, Berlino, Praga, Belgrado, Washington, Mosca e Bangkok.

Nearly 50 years to the day after the Yom Kippur war of 1973, Israel has again been taken by surprise by a sudden attack, a startling reminder that stability in the Middle East remains a bloody mirage.

Unlike the last series of clashes with Palestinian forces in Gaza over the last three years, this appears to be a full-scale conflict mounted by Hamas and its allies, with rocket barrages and incursions into Israel proper, and with Israelis killed and captured.

The psychological impact on Israelis has been compared to the shock of Sept. 11 in America. So after the Israeli military repels the initial Palestinian attack, the question of what to do next will loom large. There are few good options for Prime Minister Benjamin Netanyahu, who has declared war and is being pressured into a major military response.

Given that 250 Israelis have died so far and an unknown number been taken hostage by Hamas, an Israeli invasion of Gaza — and even a temporary re-occupation of the territory, something that successive Israeli governments have tried hard to avoid — cannot be ruled out.

As Mr. Netanyahu told Israelis in declaring war: “We will bring the fight to them with a might and scale that the enemy has not yet known,” adding that the Palestinian groups would pay a heavy price.

But a major war could have unforeseen consequences. It would be likely to produce sizable Palestinian casualties — civilians as well as fighters — disrupting the diplomatic efforts of President Biden and Mr. Netanyahu to bring about a Saudi recognition of Israel in return for defense guarantees from the United States.

There would also be pressure on Hezbollah, the Iran-backed militant group that controls southern Lebanon, to open up a second front in northern Israel, as it did in 2006 after an Israeli soldier was captured and taken prisoner in Gaza.

Iran, a sworn enemy of Israel, is an important backer of Hamas as well as Hezbollah and has supplied both groups with weapons and intelligence.

The conflict will unite Israel behind its government, at least for a while, with the opposition canceling its planned demonstrations against Mr. Netanyahu’s proposed judicial changes and obeying calls for reservists to muster. It will give Mr. Netanyahu “full political cover to do what he wants,” said Natan Sachs, director of the Center for Middle East Policy of the Brookings Institution.

Nevertheless, he added, Mr. Netanyahu has in the past rejected calls to send thousands of troops into Gaza to try to destroy armed Palestinian groups like Hamas, given the cost and the inevitable question of what happens the day after.

“But the psychological impact of this for Israel is similar to 9/11,” he said. “So the calculus about cost could be quite different this time.”

The question will always be what happens afterward, said Mark Heller, a senior researcher at Israel’s Institute for National Security Studies. Nearly every year there have been limited Israeli military operations in the occupied territories, but they have not provided any solutions.

“There is a lot of heavy pressure already for a large-scale incursion, to ‘finish with Hamas,’ but I don’t think it will solve anything in the longer run,” Mr. Heller said.

But Carl Bildt, the former Swedish prime minister and foreign minister, said a major Israeli assault on Gaza was almost inevitable, particularly if Israeli soldiers were taken hostage. “If Hamas has taken Israeli soldiers as prisoners and taken them to Gaza, a full-scale Israeli operation into Gaza looks highly likely,” he said on X. “Another war.” The same presumably would hold true for Israeli citizens.

Israel and Mr. Netanyahu have been wary of sending ground forces into Gaza. Even in 2002, when Ariel Sharon was prime minister and Israeli forces crushed a Palestinian uprising in the West Bank, the government chose to avoid sending significant extra forces into Gaza, where it then had Israeli settlements.

Israeli unilaterally withdrew its soldiers and citizens from Gaza in 2005, while retaining effective control of large parts of the occupied West Bank. The failure of that withdrawal to secure any sort of lasting peace agreement has left Gaza a kind of orphan, largely cut off from other Palestinians in the West Bank and almost entirely isolated by both Israel and Egypt, which control Gaza’s borders and its seacoast. Palestinians often call Gaza “an open-air prison.”

After the Israeli withdrawal from Gaza and the conflict of 2006, an internal struggle between the Fatah movement of the Palestinian president, Mahmoud Abbas, and the more radical Islamist Hamas movement ended with Hamas taking control of the territory in 2007, prompting Israel to try to isolate Gaza even further.

Even in an extended conflict of 2008 and 2009, Israeli forces entered Gaza and its population centers but chose not to move too deeply into the territory or to reoccupy it, with a cease-fire brokered by Egypt after three weeks of warfare.

Successive Israeli governments insist that after the 2005 withdrawal, it no longer has responsibility for Gaza. But given Israel’s control over the borders and its overwhelming military advantage, many groups like B’Tselem, which monitors human rights in the occupied territories, argue that Israel retains significant legal responsibilities and obligations for Gaza under international humanitarian law.

While Hamas has not been clear about why it chose to attack now, it may be a response to growing Israeli ties to the Arab world, in particular to Saudi Arabia, which has been negotiating a putative defense treaty with the United States in return for normalizing relations with Israel, potentially to the neglect of the Palestinians.

That is the view of Amberin Zaman, an analyst for Al-Monitor, a Washington-based news website that covers the Middle East. “Israel’s response to today’s attacks will likely be of a scale that will set back U.S. efforts for Saudi- Israeli normalization, if not torpedo them altogether,” she said in a message on X, formerly Twitter.

Saudi Arabia has not recognized Israel since it was founded in 1948 and until now had signaled that it would not even consider normalizing relations until Israel agreed to allow the creation of a Palestinian state.

But recently even the de facto ruler of Saudi Arabia, Prince Mohammed bin Salman, has gone public with affirmations that some sort of deal with Israel seemed plausible. In an interview with Fox News last month, he said that talk of normalization was “for the first time, real.”

That will now be in question, depending on how long this conflict lasts and with what level of dead and wounded.

But Mr. Sachs of Brookings says that the goals of Hamas may be simpler: to take hostages in order to free Palestinian prisoners from both the West Bank and Gaza in Israeli jails.

Aaron David Miller, a former American diplomat dealing with the Mideast, said that Hamas had been frustrated with the amounts of money coming into Gaza from Arab countries and restrictions on workers getting permission to work in Israel. “In many ways this is a prestige strike, to remind the Israelis that we’re here and can hurt you in ways you can’t anticipate,” he said.

Israel, shocked, will now have to deal with the results of what Mr. Miller, now with the Carnegie Endowment, called its “overconfidence and complacency and unwillingness to imagine that Hamas could launch a cross-border attack like this.”

The ramifications of the war and its aftermath will be “far-reaching and take a long time to manifest,” Mr. Sachs said. There will be commissions of inquiry into the military and intelligence agencies “and the political echelon won’t escape blame, either.”

But first, as Mr. Heller noted, comes the war. “And these things tend to get out of control,” he said.

Steven Erlanger*

*Steven Erlander is The New York Times’s chief diplomatic correspondent in Europe, based in Berlin. He previously reported from Brussels, London, Paris, Jerusalem, Berlin, Prague, Belgrade, Washington, Moscow and Bangkok.

Scienziati all’attacco della malaria: OMS autorizza secondo vaccino

Speciale per Africa ExPress
Sandro Pintus
8 ottobre 2023

Si chiama R21/Matrix-M. È il secondo vaccino per bambini contro la malaria. L’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) lo ha autorizzato e raccomandato con un comunicato pubblicato sul sito istituzionale lo scorso 2 ottobre.

R21 segue il vaccino RTS-S (Mosquirix) autorizzato OMS due anni fa. Con questo nuovo farmaco salvavita che ha dimostrato un’efficacia del 77 per cento, la lotta alla malattia fa un lungo salto in avanti.

Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore generale dell’OMS: “Come ricercatore sulla malaria, sognavo il giorno in cui avremmo avuto un vaccino sicuro ed efficace contro la malaria. Ora ne abbiamo due”.

“La domanda per il vaccino RTS,S supera di gran lunga l’offerta. Questo secondo vaccino è uno strumento aggiuntivo vitale per proteggere più bambini più velocemente. Ma anche per avvicinarci alla nostra visione di un futuro libero dalla malaria”.

vaccino contro la malaria
Vaccino contro la malaria

Oltre 100 milioni di dosi all’anno

L’R21, sviluppato con l’Università di Oxford, verrà prodotto dal Serum Institute of India, il maggior produttore di vaccini al mondo. L’azienda indiana ha concordato una capacità produttiva di 100 milioni di dosi all’anno, che nei prossimi due anni verrà aumentata a 200 milioni di dosi.

Il vaccino RTS-S è prodotto dalla GlaxoSmithKline Biologicals (GSK Bio) e, dal 2021, sperimentato in Burkina Faso, Gabon, Ghana, Kenya, Malawi, Mozambico e Tanzania. GSK Bio non ha le capacità produttive dal Serum Institute ma entro il 2025 prevede di consegnare 18 milioni di dosi a 12 Paesi africani.

Per il momento la disponibilità dell’RTS,S è limitata. Ambedue i vaccini hanno però dimostrato di essere sicuri ed efficaci nel prevenire la malaria nei bambini. Con l’aggiunta del R21 all’elenco dei vaccini contro la malattia si prevede una fornitura di vaccini per tutti i bambini delle aree a rischio.

Il vaccino R21 ha un’efficacia elevata se somministrato appena prima dell’alta stagione di trasmissione della malattia. Dodici mesi dopo una serie di tre dosi ha dimostrato di ridurre del 75 per cento i casi sintomatici di malaria.

malaria Plasmodium falciparum
Il protozoo parassita Plasmodium falciparum, responsabile della malaria

Un’efficacia simile a quella dimostrata dall’RTS,S quando viene somministrato stagionalmente. Il prezzo del R21 è tra i due e quattro dollari americani per dose. L’OMS conferma che è una cifra “paragonabile ad altri interventi raccomandati contro la malaria e ad altri vaccini infantili”.

“Questo secondo vaccino ha un potenziale reale per colmare l’enorme divario tra domanda e offerta”, ha dichiarato Matshidiso Moeti, direttore regionale dell’OMS per l’Africa.

Distribuiti su larga scala e ampiamente diffusi, i due vaccini possono contribuire a rafforzare gli sforzi di prevenzione e controllo della malaria. Possono contribuire a salvare centinaia di migliaia di giovani vite in Africa da questa malattia mortale”.

L’incubo malaria

La malaria – conosciuta anche come paludismo perché si credeva che fosse causata dalla mala aria delle paludi – colpisce soprattutto l’Africa.

La malattia viene trasmessa dalla femmina della zanzara anofele (Anopheles stephensi) che, durante la puntura, inietta il protozoo parassita Plasmodium falciparum. Questo parassita è il più pericoloso della sua specie perché causa le maggiori complicanze e la più alta mortalità dei malati.

OMS mappa malaria nel mondo
Mappa della malaria nel mondo (Courtesy OMS-WHO)

I numeri della malaria

Dati dell’OMS (World malaria report 2020) del 2019 ci dicono che sono stati 229 milioni di casi di malaria stimati globalmente in 87 Paesi dove la malattia è endemica. Sono morti oltre 400.000 bambini.

I bambini sotto i 5 anni morti per malaria sono stati 274.000 (67 per cento del totale). Su base globale, i bambini colpiti dalla malaria sono stati 215 milioni (94 per cento) mentre il 95 per cento dei decessi sono avvenuti in 29 Paesi africani. Sei Stati africani hanno avuto oltre il 50 per cento dei morti di malaria.

I numeri più alti li hanno Nigeria (23 per cento) e Congo-K (RDC) (11 per cento). Seguono Tanzania (5 per cento), Mozambico, Niger e Burkina Faso (4 per cento).

I vaccini R21 e Mosquirix
potrebbero farci vedere un mondo futuro senza malaria.

(ultimo aggiornamento 11 ottobre 2023, 18:09)

Sandro Pintus
sandro.p@catpress.com

X (Twitter):
@sand_pin
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Crediti immagini:
– Plasmodium falciparum
Content Providers(s): CDC/Dr. Mae Melvin Transwiki approved by: w:en:User:Dmcdevit – This media comes from the Centers for Disease Control and Prevention‘s Public Health Image Library (PHIL), with identification number #2704.
Pubblico dominio, Collegamento

Malawi, Kenya e Ghana dal 2018 sperimentano Mosquirix, il primo vaccino anti malaria

Team di scienziati mette a punto un vaccino RNA contro la malaria

Scienziato italiano scopre come eliminare la zanzara che trasmette la malaria

Al summit dell’Unione Africana si celebrano i buoni risultati contro la malaria

Allarme degli scienziati: la Terra si scalda e la malaria invade nuove zone

La nuova “guerra” si combatte in Centrafrica: mercenari americani contro mercenari russi

Africa ExPress
6 ottobre 2023

Secondo alcune indiscrezioni rivelate da Corbeaunews Centrafrique e Africa Intelligence, il governo di Bangui sarebbe in trattative con la società statunitense, Bancroft Global Development, che in Africa è attualmente presente anche in Somalia. Nella ex colonia italiana la società si occupa soprattutto dell’addestramento delle forze governative e di quelle del contingente dell’Unione Africana presente nel Paese per combattere i terroristi di al-Shebab.

Finora è trapelato poco della bozza dell’accordo tra Bangui e la società paramilitare americana, ma a grandi linee dovrebbe comprendere la cooperazione tecnica e l’addestramento militare delle forze centrafricane.

La collaborazione tra la società di mercenari statunitensi e il governo centrafricano, sarebbe stato “suggerito” dal governo di Washington a margine del summit USA-Africa del dicembre 2022. Allora gli USA avevano proposto a Bangui di voler addestrare le truppe centrafricane e di aumentare le sovvenzioni economiche  agli aiuti umanitari. In realtà, con le “generose” proposte, Washington invitava Bangui a prendere le distanze dal gruppo paramilitare Wagner, il cui leader, Evgueni Prigozhin, secondo quanto hanno riportato le autorità di Mosca, sarebbe morto in un incidente aereo lo scorso agosto.

Proprio oggi Vladimir Putin ha dichiarato che i capi di Wagner sarebbero saliti a bordo completamente ubriachi e avrebbero gettato bombe a mano all’interno dell’aeromobile. L’inchiesta è chiusa, insabbiata. La verità probabilmente non si saprà mai.

Il tentativo americano di disimpegnare i miliziani di Wagner farebbe parte di una strategia più ampia. Secondo Charles Bouessel, consulente senior dell’organizzazione non governativa, International Crisis Group, “Tali manovre sono volte a indebolire la Russia, che da anni sta mettendo in campo una diplomazia aggressiva in Africa”.

I mercenari russi sono arrivati in Centrafrica nel 2018, da allora sono presenti ovunque nel Paese. Fanno parte della scorta personale del presidente, Faustin-Archange Touadéra, come supporto alle forze armate,  assicurano la sicurezza dei convogli, ma soprattutto gestiscono diverse miniere e controllano le dogane del Paese. Inoltre sono  impegnate nel commercio di legno pregiato, venduto dalla società Bois Rouge persino a fabbriche europee in Francia e Danimarca.

I legami tra la Bois Rouge e Wagner sono stati documentati nel 2022 grazie a una inchiesta internazionale. Ora la società ha cambiato nome, si chiama Wood International Group, che ha ereditato i permessi, il numero fiscale e doganale dalla precedente. Continua a esportare il pregiato legname dalla foresta di  Lobaye verso il porto di Douala in Camerun, come ha rivelato l’emittente statunitense CBS.

Molti siti minerari sono stati dati in gestione dal governo centrafricano a società collegate a Wagner, come la Lobaye Invest, che ora controlla molti giacimenti d’oro, di diamanti e altri e non di rado i responsabili hanno cacciato in malo modo i piccoli minatori artigianali, rimasti ora senza mezzi di sostentamento.

Mercenari russi della Wagner decorati a Bangui

I soldati di ventura sono stati accusati ripetutamente di gravi violazioni dei diritti umani. La popolazione centrafricana è terrorizzata dalle atrocità commesse dai russi.

Chissà se Touadéra è pronto a voltare pagina. Sta di fatto che il presidente centrafricano è stato ricevuto qualche settimana fa a Parigi dal suo omologo francese, Emmanuel Macron. I due capi di Stato si erano visti anche a marzo in Gabon.  Entrambi auspicano di poter riprendere le relazioni bilaterali dopo anni di tensioni, causate dall’arrivo delle milizie Wagner nel Paese.

Qualora l’accordo tra Bangui e la società paramilitare americana dovesse andare in porto, riuscirà a dare stabilità al Paese? E quale sarà il ruolo di Wagner? E cosa dovrà dare in cambio l’attuale governo?

Bancroft Global Development è stata fondata da Michael Stock come società di bonifica di mine nel 1999. Fino al 2008, il nome dell’organizzazione è stato Landmine Clearance International poi ha assunto l’attuale denominazione. La sua sede è a Washington D.C. La sua missione è quella di fornire formazione e capacità di sviluppo in regioni dilaniate da conflitti armati.

Africa ExPress
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Stravolta la Costituzione con un referendum farsa: il Centrafrica si trasforma in una dittatura filorussa

Il medico Mukwege, premio Nobel per la Pace, candidato presidente, spera di trovare la cura giusta per il Congo-K

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
5 ottobre 2023

Il medico congolese, Denis Mukwege, premio Nobel per la Pace 2018, si è candidato alle presidenziali, che si terranno il prossimo dicembre.

Il ginecologo e ostetrico Denis Mukwege nel suo ospedale in Congo
Il ginecologo e ostetrico Denis Mukwege nel suo ospedale in Congo

Mukwege non è ovviamente il solo in lizza per la corsa alla poltrona più ambita. La lista è già lunga e fino alla fine di questa settimana CENI (Commissione elettorale Nazionale Indipendente) accetta i dossier di altri possibili aspiranti alla presidenza. Il capo di Stato uscente, Félix Tshisekedi, è tra questi, e, già nel 2020, aveva annunciato che si sarebbe ricandidato alla prossima tornata elettorale. Nel lungo elenco troviamo anche Martin Fayulu e Moïse Katumbi, oppositori al regime, due nomi forti, che daranno certamente del filo da torcere a tutti, soprattutto a Tshisekedi.

E’ ancora presto, eppure nel Paese ci si interroga già sulle possibili alleanze e sui raggruppamenti che potrebbero emergere da qui alle elezioni. Attualmente Tshisekedi è in tour nel Katanga, feudo del suo rivale Katumbi.

Il ginecologo congolese, conosciuto nel mondo intero per aver curato e essersi occupate delle donne vittime di stupri nel suo Paese, ora vuole anche “prendersi cura” del proprio Paese, che, secondo lui, è diventato la “vergogna del continente”.

Solo fino a qualche mese fa il 68enne ginecologo non ha mostrato molto interesse per la vita politica, ha sempre rifiutato di candidarsi, perché temeva che il nuovo percorso potesse portarlo a un impasse, un vicolo cieco senza via d’uscita. In fine ci ha ripensato, e lunedì a Kinshasa ha detto ai suoi sostenitori: “Sono pronto. Sono il vostro candidato. “Il nostro Paese è lo zimbello del mondo, guidato da una classe dirigente corrotta e minacciato dalla balcanizzazione”, ha dichiarato Mukwege. Con queste parole ha manifestato apertamente di essere un oppositore del presidente uscente, suo rivale in questa prossima tornata elettorale.

Dopo la visita del Santo Padre a gennaio, il Congo-K è sparito dalle prime pagine dei media internazionali. Eppure gli attacchi continuano senza sosta, la gente muore ed è costretta a fuggire dalle proprie case per timore di essere ammazzata dai gruppi armati sempre, presenti nell’est del Paese. La situazione umanitaria è drammatica. Nelle province di Ituri, Nord-Kivu e Sud Kivu ci sono attualmente oltre 6 milioni di sfollati. Le violenze sessuali sulle donne sono all’ordine del giorno, un’arma da guerra antica quanto il mondo.

Congo-K: in forte aumento violenze sui minori

Ma sono sempre i bambini a pagare il prezzo più alto nei conflitti. Nei giorni scorsi UNICEF ha annunciato che nella Repubblica Democratica del Congo l’aumento dei casi di omicidio, mutilazione e rapimento di bimbi, dovuto all’intensificarsi delle violenze, gli sfollamenti di massa e la presenza dei gruppi armati vicino alle comunità, è davvero allarmante.

Sheema Sen Gupta, direttrice della Protezione dell’infanzia dell’UNICEF, ha raccontato in un comunicato: “Ho incontrato bimbi che sono sopravvissuti agli orrori del reclutamento forzato da parte di gruppi armati. Altri sono passati attraverso il trauma indescrivibile della violenza sessuale, atrocità che nessuno dovrebbe subire, tanto meno i minori”.

Nei primi sei mesi di quest’anno i bambini soldato sono aumentati del 45 per cento rispetto all’anno precedente, alcuni di loro sono addirittura al di sotto dei 5 anni. Mentre omicidi e mutilazioni sono cresciuti del 32 per cento.

Intanto MONUSCO (missione di pace dell’ONU presente in Congo-K dal 1999) sta preparando i bagagli. La partenza dei caschi blu è stata sollecitata lo scorso settembre da Tshisekedi, durante il suo discorso all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a New York. “In quasi 25 anni, MONUSCO, con i suoi 15mila uomini, non è riuscita a far fronte ai ribelli e ai gruppi armati che stanno dilaniando il nostro Paese e tantomeno a proteggere la popolazione civile.

Una pattuglia di caschi blu dell’ONU in Congo-K

Il Consiglio di sicurezza ha preso atto della rinnovata richiesta del leader congolese ma ha riserve su una partenza accelerata dei caschi blu. Teme infatti che la popolazione possa essere troppo esposta alle violenze. Secondo i primi accordi, MONUSCO avrebbe dovuto lasciare il Congo-K per la fine del 2024, ora le autorità congolesi chiedono che il corpo di pace lasci il Paese già quest’anno.

Nell’est della ex colonia belga sono presenti forze armate di diverse nazionalità per dare la caccia ai  molti gruppi armati presenti in quell’angolo di mondo. Oltre a quelle congolesi (FARDC), da oltre due anni ci sono anche militari di Kampala per contrastare il gruppo terrorista ADF (Allied Democratic Forces, un’organizzazione islamista ugandese, presente anche nel Congo-K dal 1995).

Alla fine di agosto 2022 sono arrivate anche le truppe burundesi nell’ambito di EAC (East African Community, che comprende Kenya, Tanzania, Uganda, Burundi, Ruanda, Sudan del Sud e Repubblica Democratica del Congo). Da tempo i militari di Gitega sono stati raggiunti da altri soldati provenienti da alcuni Paesi membri di EAC. Il mandato di EACRF (East African Community Regional Force), è stato rinnovato proprio i primi di settembre per altri tre mesi. Scadrà dunque poco prima delle elezioni.

Cornelia I. Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
@cotoelgyes
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