Speciale per Africa ExPress Cornelia I. Toelgyes
22 ottobre 2023
Mohamed Bazoum, presidente del Niger spodestato con un colpo di Stato alla fine dello scorso luglio, è a tutt’oggi ostaggio della giunta militare, perché non ha mai rassegnato le sue dimissioni.
Giovedì scorso i golpisti avevano comunicato che Bazoum avrebbe cercato di evadere dagli arresti domiciliari insieme ai familiari e alcune altre persone. Sempre secondo la giunta al potere, il gruppo avrebbe voluto raggiungere la periferia di Niamey, per fuggire in elicottero nella vicina Nigeria. “Il loro piano è fallito – ha poi precisato la giunta, e ha aggiunto – . I principali responsabili e alcuni dei loro complici” sono stati arrestati.
Gli avvocati di Bazoum hanno negato fermamente un tentativo di fuga del loro assistito e dei suoi familiari. E il presidente francese, Emmanuel Macron ha chiesto proprio venerdì l’immediata liberazione dell’ex presidente, di suo figlio e della moglie.
ECOWAS (Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale) ha infine rinunciato a un intervento militare nella ex colonia francese. L’operazione era stata presa in considerazione subito il putsch, per ristabilire l’ordine costituzionale e reintegrare Bazoum, democraticamente eletto nel 2021.
Intanto il Niger ha ordinato ai militari francesi di preparare i bagagli e di lasciare il Paese entro il 31 dicembre 2023. Qualche giorno fa, Eric Ozanne, comandante delle forze d’oltralpe nel Sahel, ha dichiarato a Niamey che tale data sarà rigorosamente rispettata.
Cacciati dal Niger, i soldati francesi si stanno temporaneamente ritirando in Ciad. Impossibile transitare via il Benin, visto che la frontiera con il Niger è stata chiusa per le sanzioni imposte da ECOWAS dopo il putsch.
Le autorità di Parigi sono molta riservate non rilasciano informazioni sulla loro ritirata, visto che anche a N’Ddjamena i sentimenti anti-francesi sono manifesti. Niamey è ben più loquace: “Due grandi convogli di mezzi militari stazionati nel nord del Paese sono già partiti per il Ciad”, ha fatto sapere il 10 ottobre Mamane Sani Kiaou, capo di Stato maggiore dell’esercito. Che poi ha aggiunto: “Molti altri ne seguiranno, carichi di container. Dei 1.400 militari francesi presenti, 282 hanno già lasciato il Niger”.
Insomma una bella impresa, non semplice dal punto di vista logistico. Materiale e uomini dovranno percorrere circa 3.000 chilometri, dato che molto probabilmente il materiale bellico dovrà partire via mare dal Camerun.
Secondo quanto ha riferito Kiaou, il tragitto è stato perfettamente pianificato dalle autorità nigerine: “Abbiamo lavorato insieme ai francesi, anche se non siamo sempre stati d’accordo su tutti punti”. Dopo il braccio di ferro, durato parecchi mesi, sembra che la situazione si sia sbloccata, almeno in parte.
Dopo aver dichiarato l’ambasciatore francese come persona non grata, una decina di giorni fa Niamey ha messo alla porta anche la canadese Louise Aubin, coordinatrice delle Nazioni Unite nel Paese. In una lettera inviata al segretario generale dell’ONU, Antonio Guterres, la giunta militare ha denunciato “manovre subdole, sabotaggi” e quant’altro, volti a danneggiare il Niger, dietro istigazione della Francia.
I putschisti non hanno digerito di non aver potuto partecipare all’Assemblea generale delle Nazioni Unite a metà settembre, alle riunioni dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (AIEA) e al congresso straordinario dell’Unione postale universale.
Il Palazzo di Vetro non ha ovviamente gradito il gesto di Niamey. Il portavoce di Guterres ha comunque assicurato che l’Organizzazione continuerà ad assistere i 4,3 milioni di nigerini che necessitano di aiuti umanitari.
In seguito al golpe sono stati tagliati quasi 1,2 miliardi di dollari di finanziamenti internazionali. Stati Uniti, diversi Paesi europei e la Banca mondiale hanno sospeso gran parte dei fondi destinati allo sviluppo del Paese, finanziamenti che rappresentano il 6 per cento del PIL del Niger.
La situazione è davvero poco rosea, specie per i bambini, che pagano sempre il prezzo più alto. Secondo la Banca mondiale, quasi 2milioni di piccoli non potranno essere iscritti a scuola quest’anno, tra loro anche 800mia bambine.
Bisogna poi tener conto che oltre alla sospensione degli aiuti internazionali, anche ECOWAS ha imposto sanzioni importanti dopo il golpe, come la chiusura delle frontiere, blocco degli scambi commerciali e dei beni del governo sul mercato finanziario regionale.
Niamey è sempre più isolata sulla scena internazionale. E’ dunque ovvio che cerchi nuovi alleati, come lo hanno fatto i suoi vicini putschisti di Mali, Burkina Faso e Guinea. Intanto all’inizio del mese l’ambasciatore russo accreditato in Niger, ma residente a Bamako, Igor Gromyko, è stato ricevuto dal presidente della giunta militare, Abdourahamane Tchiani e dal ministro della Difesa. Dal colloquio non sono trapelati dettagli finora. Il diplomatico russo ha semplicemente dichiarato di aver discusso con i suoi interlocutori di interessi comuni tra i due Paesi.
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Speciale per Africa ExPress Sandro Pintus 21 ottobre 2023
Il copione è sempre lo stesso ormai in tutto il continente africano. E il Mozambico, con le elezioni amministrative (autarquicas) appena terminate, conferma questa tendenza.
L’11 ottobre 8,7 milioni di cittadini hanno votato per eleggere gli amministratori dei 65 distretti nelle 10 province. Fin da subito ci sono state proteste per irregolarità nei seggi. Tutte contro il Fronte di Liberazione del Mozambico (Frelimo), il partito al potere dal 1975, a danno dei partiti di opposizione.
Denunciate irregolarità
La vittoria, contestata da tutti, è andata ufficialmente al Frelimo, partito del capo dello Stato Filipe Nyusi. Tra i primi a denunciare le irregolarità ilConsorzio Elettorale Più Integrità (CE) organismo composto da otto associazioni della società civile. Il Consorzio era presente nel seggi con 1.238 osservatori e 65 corrispondenti.
Ha denunciato la collusione del Frelimo con la Commissione Elettorale Nazionale (CEN) e la Segreteria Tecnica per l’Amministrazione Elettorale (STAE). Una collusione che avrebbe dato garanzia di vincita al partito al potere.
“Notiamo l’abuso della forza da parte delle Forze di Difesa e di Sicurezza – scrive CE nel resoconto -. Forza usata per intimidire ed espellere osservatori e candidati, delegati dei partiti di opposizione dai seggi elettorali. Forza usata per deviare le urne verso luoghi sconosciuti diversi da quelli dove dovrebbe avvenire lo spoglio”.
Il Consórcio denuncia anche il processo di accreditamento degli osservatori: “…era semplicemente terribile e progettato per rendere difficile l’osservazione elettorale”. Anche il direttore del distretto STAE di Nhlamankulu (Maputo), è stato trovato con le mani nel sacco:“…trasportava 42 copie false dei risultati dei seggi elettorali in una busta non sigillata”. La frode è stata confermata dal tribunale distrettuale di Nhlamankulu.
In molti seggi il controllo delle schede è stato fatto senza luce elettrica. “Mentre si leggevano i risultati delle schede a lume di lampada, all’esterno le case erano illuminate con l’elettricità”.Inoltre in diverse provincie sono state trovate schede premarcate a favore del Frelimo.
Frelimo: abbiamo vinto
“Il Frelimo ha vinto in modo giusto e trasparente in 64 delle 65 circoscrizioni. La vittoria si prepara e si organizza”, ha annunciato Roque Silva, segretario generale del partito. C’é stata la protesta di tutte le opposizioni a cominciare dalla Resistenza Nazionale Mozambicana (Renamo), secondo partito del Paese dopo il Frelimo.
Renamo: vogliamo la verità elettorale
“Questa rivoluzione non si ferma se la giustizia elettorale non diventa pubblica – ha gridato durante una manifestazione Ossufo Momade, leader Renamo, tra gli applausi della folla -. Noi vogliamo che il Frelimo ci restituisca la verità elettorale. Il Frelimo è l’unico partito che è rimasto armato perché usa la polizia della Repubblica del Mozambico”.
Conferma di frodi
Mentre in tutto il Paese continuano le manifestazioni per i supposti brogli, la polizia carica per impedire le proteste. Nella capitale, Maputo, la polizia ha usato gas lacrimogeni mentre a Manica – centro del Paese – la marcia è stata impedita dalla polizia. In altre province mozambicane le manifestazioni sono state impedite.
Alcuni tribunali distrettuali hanno stabilito che le elezioni si devono ripetere nei loro distretti: Chokwe provincia di Gaza e Cuamba, in Niassa. Il tribunale di Maputo invece ha emesso una sentenza senza precedenti a favore della trasparenza.
Altri tribunali, nonostante la Renamo avesse prove della vincita, hanno rifiutato di esaminare casi a Chiure, in Cabo Delgado e Vilankulo, in Inhambane.
Il macigno del “debito occulto”
La situazione del Mozambico è tale che il Frelimo, a qualunque costo, deve vincere. E vorrà vincere anche le elezioni presidenziali dell’11 ottobre 2024.
La vecchia classe dirigente al potere ha sulla testa il macigno della frode da 1,9 mld di euro. Lo scandalo, conosciuto come “debito occulto”, coinvolge le più alte cariche dello Stato, e tocca direttamente anche il presidente Nyusi. Inoltre, nel nord il governo deve fare i conti con la guerra contro i jihadisti di ISIS-Mozambico che dal 2017 massacrano Cabo Delgado. A causa del conflitto sono bloccati i cantieri dei giacimenti di gas affidati a TotalEnergies, un investimento da 20 miliardi di dollari.
Attualmente, dopo un braccio di ferro tra Maputo e Washington durato quattro anni per l’estradizione, l’ex ministro delle Finanze, Manuel Chang, è detenuto negli Stati Uniti. È accusato di frode e riciclaggio di denaro per l’emissione dei “Tuna bonds” titoli di stato fasulli, frutto dello scandalo “debito occulto”.
I processo inizierà il 27 ottobre prossimo alla Corte federale di Brooklyn. I vertici di Maputo tremano per ciò che racconterà Chang. Il popolo mozambicano starà alla finestra a guardare. Vuole scoprire le verità nascoste che hanno impoverito oltre 2 milioni di persone della classe media.
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Speciale per Africa ExPress Cornelia I. Toelgyes
20 ottobre 2023
Una coppia di sposi in luna di miele, inglese lui, sudafricana lei e la loro guida ugandese, sono stati brutalmente ammazzati nel parco nazionale Queen Elizabeth (Uganda occidentale) martedì scorso.
La polizia ha subito puntato il dito contro miliziani di ADF (Allied Democratic Forces), un gruppo armato di origine ugandese, che dal 1995 opera per lo più nella parte orientale del Congo-K. Ha giurato fedeltà all’ISIS in Africa centrale (ISCAP). Nel 2021 gli Stati Uniti hanno inserito Alliance Democratic Forces nella lista dei gruppi terroristi.
Immadiatamente, il giorno seguente l’assalto, è giunta la rivendicazione dell’ADF. Da diversi anni i terroristi hanno ripreso le loro attività criminali anche in Uganda, dove a giugno hanno attaccato un liceo, uccidendo oltre 40 persone.
David Barlow e la moglie Cecilia vivevano a Hampstead Norreys, vicino a Newbury nel Berkshire (GB), un villaggio di circa 800 persone, ma si sono sposati in Sudafrica, Paese d’origine della donna. David era una persona molto conosciuta e apprezzata nella sua comunità e molti amici e parenti della coppia si sono recati in Sudafrica per partecipare alla loro cerimonia di nozze, che si è svolta sabato scorso.
Cecilia era vicepresidente di una catena di alberghi, mentre David direttore di un’azienda di legnami, appartenente alla famiglia da ben 11 generazioni.
Secondo quanto riferito dalla autorità locali, i neo-sposi hanno visitato il parco nazionale Queen Elizabeth appoggiandosi al tour operator locale, Gorillas and Wildlife Safaris. I loro corpi e quello della loro guida ugandese sono stati ritrovati riversi sulla strada vicino alla loro macchina, completamente bruciata a Nyamunuka, lungo la strada del lago Katwe.
Due giorni prima che i turisti venissero uccisi, il presidente ugandese, Yoweri Museveni, aveva avvertito che si sarebbero potuti verificare nuove aggressioni in risposta ad attacchi dinamitardi sventati dalle forze dell’ordine ugandesi. ADF aveva preso di mira due chiese a Kabibi, villaggio che dista solamente una cinquantina di chilometri da Kampala. In seguito le forze armate ugandesi avevano bombardato postazioni del gruppo armato nel vicino Congo-K.
E le previsioni di Museveni si sono tradotte in triste realtà. Anzi, uccidendo due stranieri e la loro guida, ADF sono ritornati alla ribalta su tutti media internazionali, procurando anche un danno economico non indifferente allo Stato. In seguito all’attacco terrorista sicuramente molti turisti cancelleranno i loro viaggi nel Paese e le visite e i safari nei parchi nazionali.
Il ministero degli Esteri britannico ha aggiornato i suoi consigli di viaggio per l’Uganda, avvertendo che “gli aggressori sono a tutt’oggi liberi” e sconsiglia “tutti i viaggi tranne quelli essenziali” nel Parco Nazionale Queen Elizabeth, aggiungendo che chiunque si trovi nel parco dovrebbe “seguire i consigli delle autorità di sicurezza locali”.
Uccisioni e sequestri nei parchi nazionali africani da parte di gruppi terroristi non sono nuovi. Risale al 1999 la strage avvenuta nel parco Bwindi in Uganda. Allora furono rapiti e massacrati 8 turisti (4 britannici, 2 americani e 2 neozelandesi) dagli estremisti hutu.
Nel 2018 sono stati rapiti due turisti britannici, mentre un ranger è stato barbaramente ucciso nel parco del Virunga, il più antico di tutta l’Africa, noto in precedenza con il nome di parco nazionale Albert, che si trova nella regione del nord Kivu. Mentre nel Benin sono stati sequestrati due turisti francesi e la loro guida nel 2019. Per non parlar dell’agguato nel Parco delle Giraffe in Niger nel 2020 e della brutale aggressione del 2022 nel parco transfrontaliero “W” nel nord del Benin, al confine con Niger e Burkina Faso.
Speciale per Africa ExPress Federica Iezzi
19 ottobre 2023
Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, con la risoluzione 2699 (2023) dello scorso 2 ottobre, ha autorizzato il dispiegamento di una missione multinazionale di sostegno alla sicurezza a Haiti, guidata dal Kenya, in stretta cooperazione e diretto coordinamento con il governo haitiano, per un periodo iniziale di 12 mesi. Solamente Cina e la Federazione Russa (due dei 5 membri permanenti) si sono astenuti, mentre 13 i voti favorevoli.
Questa decisione fa seguito ad un lungo appello del governo haitiano, rilanciato da Antonio Guterres, segretario generale delle Nazioni Unite, basato sulla forte necessità di sostegno internazionale alla polizia haitiana.
È importante sottolineare che, a differenza delle precedenti missioni internazionali schierate ad Haiti, l’MSS (Multinational Security Support) non è una missione delle Nazioni Unite.
Statement by the Special Representative of the Secretary-General in Haiti, @SALVADORMIsabel, following the vote today at the Security Council: a positive and decisive step.https://t.co/gpCV1GDybC
Il coinvolgimento del Kenya è stato fortemente criticato nel Paese, anche dal leader dell’opposizione Raila Odinga. La richiesta del Consiglio di Sicurezza dell’ONU per il dispiegamento di agenti kenioti ad Haiti sarà comunque soggetta all’approvazione del parlamento. L’articolo 240 della Costituzione dell’ex colonia britannica, infatti, impone al massimo organo legislativo di approvare il dispiegamento di forze di sicurezza, in missioni di mantenimento della pace fuori dai confini nazionali.
Il ministro degli Esteri del Kenya, Alfred Mutua, ha dichiarato che le truppe keniote potrebbero essere ad Haiti già entro la fine dell’anno. Anche i governi di Giamaica, Bahamas, Antigua e Barbuda si sono offerti di inviare le loro forze di polizia per completare il contingente MMS. Gli Stati Uniti hanno proposto supporto logistico e finanziamenti per 100 milioni di dollari.
Intanto, un tribunale di Nairobi con un’ingiunzione provvisoria, ha stabilito che non ci può essere nessun invio di agenti di polizia ad Haiti, o in qualsiasi altro Paese, fino al 24 ottobre.
A portare avanti il caso in tribunale, è stato il politico e avvocato dell’opposizione Ekuru Aukot, il quale sostiene che il dispiegamento di forze keniote a Haiti sarebbe incostituzionale, in quanto non supportato da alcuna legge o trattato. Aukot afferma che il Kenya non può dispiegare la sua polizia all’estero se non riesce a contenere l’insicurezza all’interno dei propri confini.
Thanks, Fr. Dolan. We must protect our constitution. We cannot allow to be used and abused by whatever foreign powers. https://t.co/co127IHPf7
Haiti è in subbuglio da anni, tra gang armate che hanno preso il controllo di intere aree del Paese. Hanno roccaforti in baraccopoli molto densamente popolate e conoscono nel dettaglio il territorio in cui operano. La missione sostenuta dalle Nazioni Unite è stata approvata perché la polizia keniota collabori con la controparte haitiana, nel supporto operativo e nel rafforzamento delle capacità, attraverso pianificazione e conduzione di operazioni congiunte di sostegno alla sicurezza.
La missione mira inoltre a creare le condizioni per lo svolgimento di regolari elezioni, che nel Paese caraibico non si tengono ormai dal 2016.
Sebbene, la missione multinazionale potrebbe rappresentare la libertà per gli abitanti di città come la capitale Port-au-Prince, tormentata da anni dalla più cruda violenza, gli haitiani sono diffidenti nei confronti della presenza di forze di polizia straniere.
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Un gruppo di cinque giovani nigeriani è stato arrestato all’inizio di settembre, perché trovati in possesso di un teschio umano.
Dopo essere stati presi con le mani nel sacco, nel senso letterale dei termini, visto che avevano nascosto il teschio in un borsone, durante l’interrogatorio hanno ammesso la loro colpa. I poveracci hanno però precisato di essere stati incaricati da un “dottore” tradizionale di procurare il reperto umano, indispensabile per un rito propiziatorio. Secondo quanto riportato dai ragazzi – tutti tra i 18 e 28 anni – il guaritore avrebbe promesso di condividere con loro tutte le ricchezze derivanti da tale attività criminale.
Ma altro che ricchi, l’esumazione del teschio è costata ben 12 anni di galera a ciascuno di loro, pena inflitta ai baldi giovani dai giudici del Tribunale di Minna, capoluogo del Niger State. Il guaritore in questione non è stato arrestato, tantomeno accusato di qualsiasi crimine.
Secondo l’accusa, i cinque avrebbero dissotterrato un corpo sepolto tre anni prima in un cimitero musulmano nello Stato del Niger centro-settentrionale.
I riti juju, vudù o magia nera sono ancora molto diffusi in Nigeria. Tali credenze, in particolare quella che parti del corpo umano insieme a particolari rituali possano produrre denaro da un vaso di argilla, hanno portato a una recente ondata di omicidi raccapriccianti. Spesso i malviventi prendono di mira persone vulnerabili come bambini, donne sole o diversamente abili.
Anche le autorità locali hanno confermato il giro criminale volto alla vendita di parti del corpo per rituali che si ritiene generino ricchezza. Un macabro mercato alimentato da disperazione e fame. Secondo gli ultimi dati della Banca Mondiale, nella “ricca Nigeria”, il colosso dell’Africa, quattro persone su dieci vivono al di sotto della soglia di povertà.
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Durante il fine settimana in tutto il Maghreb si sono svolte manifestazioni in favore del popolo palestinese. Nella capitale algerina quasi duemila persone sono scese nelle strade, sventolando un grande cartello con la scritta: Nous donnerons notre vie pour toi Palestine (Daremo la nostra vita per te, Palestina).
Anche un migliaio di tunisini ha manifestato per sostenere la causa dei palestinesi. Dopo la preghiera del venerdì, centinaia di libici sono scesi in Piazza dei Martiri a Tripoli, per mostrare sostegno alla Palestina e denunciare i crimini di guerra e le atrocità commesse contro i civili di Gaza.
La più grande marcia di solidarietà si è però svolta domenica a Rabat. Decine di migliaia di cittadini, oltre a esprimere la loro solidarietà ai palestinesi, hanno chiesto al governo di rivedere la propria posizione a riguardo della normalizzazione delle relazioni tra il regno e Israele, della cooperazione militare ed economica.
Sebbene le relazioni tra Marocco e Israele siano messe a dura prova, il governo di Rabat non è pronto a porre fine alla normalizzazione, visto che lo Stato ebraico ha recentemente riconosciuto la sovranità del Regno sui territori occupati del Sahara occidentale. Tuttavia, secondo diversi specialisti, la grande manifestazione di domenica, ha messo le autorità marocchine in una posizione al quanto scomoda.
I mauritani, invece, hanno denunciato il “silenzio” occidentale con una marcia, apparentemente spontanea, guidata dalla polizia, partita dalla Grande Moschea Saudita di Nouakchott. La popolazione ha voluto così manifestare sostegno alla causa palestinese e denunciare secondo i manifestanti, il silenzio e l’inazione dei governi occidentali. “Ogni giorno vengono uccise centinaia di persone, le case vengono distrutte. Da 70 anni Israele colonizza e massacra i nostri fratelli palestinesi”, hanno puntualizzato alcuni manifestanti ai reporter di RFI.
Il governo sudafricano e il partito al potere, l’ANC (African Nationl Congress) si sono schierati subito con il popolo palestinese, chiedendo anche l’immediata cessazione delle ostilità. Entrambi dichiarano che i palestinesi sono vittime dell’apartheid come lo furono i sudafricani fino l 1994. ANC, in un comunicato pubblicato sabato, sostiene che la recrudescenza del conflitto è dovuta a Israele. A causa dell’occupazione illegale, della colonizzazione ininterrotta e dell’oppressione permanente dei palestinesi. ANC non ha fatto menzione di Hamas o degli abusi commessi contro i civili.
Dalla fine dell’apartheid, proprio per il trauma subito dalla popolazione sudafricana all’epoca del sistema segregazionista, Pretoria è sempre in prima linea nella lotta internazionale per la libertà e i diritti dei palestinesi. E, il 4 dicembre 1997, in occasione della giornata internazionale per la solidarietà con il popolo palestinese, l’allora presidente, Nelson Mandela, dichiarava: “Sappiamo che la nostra libertà è incompleta senza la libertà dei palestinesi”.
Non va dimenticato che nel 2001, alla Conferenza di Durban contro il razzismo, i Paesi africani e arabi hanno condannato la politica di Israele nei territori occupati. Nel 2009, Pretoria ha sostenuto la commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite, presieduta dal giudice sudafricano Richard J. Goldstone, che ha accusato Israele di aver commesso crimini nella Striscia di Gaza durante la guerra del 2008-2009.
Infine, nel 2019, il ministro degli Esteri sudafricano, Lindiwe Sisulu, in seguito all’uccisione di 52 palestinesi durante manifestazioni per il trasferimento della rappresentanza diplomatica statunitense da Tel Aviv a Gerusalemme, ha ridotto all’osso l’ambasciata sudafricana in Israele. Da allora l’ambasciata è un semplice ufficio di collegamento, senza alcun mandato politico o commerciale e nel luglio 2022, il ministro degli Esteri sudafricano Naledi Pandor ha chiesto alle Nazioni Unite di dichiarare Israele uno “Stato di apartheid”.
E non va dimenticato che durante la cerimonia d’apertura della 36esima sessione dell’Unione Africana, tenutasi a Addis Abeba lo scorso febbraio, per un pasticcio amministrativo diplomatico è stato allontanato il rappresentante dello Stato ebraico. Malgrado le divergenze sulla questione palestinese, il Sudafrica è il più grande partner commerciale di Israele in Africa.
Ma non tutti i Paesi del continente sono allineati con i palestinesi. Kenya, Zambia, Ghana, Congo-K e altri sostengono la posizione di Israele.
La risposta è molto semplice. Secondo gli esperti, le divisioni in Africa evidenziano il tentativo di ogni governo di difendere i propri interessi e sottolineano contemporaneamente il rafforzamento delle relazioni di alcuni Paesi con Israele. Da un lato ci sono dunque i legami radicati con il movimento palestinese; dall’altro, ci sono le alettanti offerte di tecnologia all’avanguardia, assistenza militare e aiuti da parte dello Stato ebraico.
Dopo la guerra del 1973, solo poche nazioni africane avevano mantenuto rapporti diplomatici con Israele. Oggi, però, la situazione è radicalmente cambiata: 44 dei 54 Paesi africani riconoscono la Stato di Israele e quasi 30 hanno aperto ambasciate o consolati nel Paese.
Proprio a causa della crescente siccità e i cambiamenti climatici, molti governi africani sono interessati alle tecnologie agricole, cui lo Stato ebraico è leader mondiale. Ma non solo agricoltura, anche interessi commerciali e di sicurezza hanno fatto sì che molti Paesi africani si siano avvicinati a Israele.
Tuttavia, lo stato ebraico ha forti legami con diverse nazioni al di là del commercio. Per decenni l’Etiopia ha ricevuto milioni di dollari in aiuti umanitari e migliaia di falasha, gli ebrei etiopici, sono stati portati in Israele.
La sua agenzia per gli aiuti internazionali, Mahav, ha formato studenti kenioti in agricoltura e medicina e imprenditori senegalesi in management.
Secondo alcune fonti l’esercito israeliano starebbe attualmente addestrando in Camerun, i militari appartenenti al corpo scelto BIR (Brigata di Reazione Rapida) che prende ordini direttamente dal presidente Paul Biya. Ma secondo alcuni media israeliani, sembra che le forze di Tel Aviv siano presenti anche in altri Paesi del continente per la formazione di soldati.
Le diverse, a volte contrastanti posizioni dei Paesi del continente non dovrebbero meravigliarci più di tanto e, come ha ricordato Tighisti Amare, vice direttore del Programma Africa, presso il think tank londinese Chatham House: “Un terzo dei governi africani ha scelto di restare neutrale in occasione del voto della Nazioni Unite che condannava l’invasione russa in Ucraina”.
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Speciale per Africa ExPress Federica Iezzi
16 ottobre 2023
Sei mesi di duri combattimenti tra le l’esercito sudanese (SAF) e le Forze di Supporto Rapido (RSF), in Sudan, sono scivolati dalla porta posteriore, come ogni conflitto dimenticato.
I numeri non sono rassicuranti. Il Ministero della Sanità sudanese riferisce che almeno 7.000 persone sono state uccise e migliaia sono i feriti, mentre Martin Griffiths, sottosegretario generale per gli Affari umanitari dell’ONU, valuta il numero dei morti oltre 9.000.
Oltre 3 milioni di sfollati interni si sono riversati negli stati di River Nile, South Darfur, East Darfur, Al-Jazirah, North Darfur. Secondo i dati dell’UNHCR, circa 1,1 milioni di persone hanno attraversato il confine con Repubblica Centrafricana, Chad, Egitto, Etiopia e Sud Sudan, unendosi a comunità già vulnerabili.
Secondo quanto dichiarato da UNICEF e Save the Children, circa 19 milioni di bambini non vanno più a scuola a causa del conflitto, con almeno 10.400 scuole chiuse nelle aree maggiormente colpite.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha accertato 58 attacchi al sistema sanitario nazionale. L’interruzione totale o parziale dei servizi sanitari continua ad avere un impatto devastante sulla sopravvivenza sia alle patologie acute sia a quelle croniche. Oltre il 70 per cento delle strutture sanitarie negli Stati, pesantemente colpiti dal conflitto, non sono funzionanti, il che si traduce in un accesso estremamente limitato, e talvolta inesistente, all’assistenza sanitaria primaria per milioni di persone.
Accanto a epidemie di morbillo, malaria e febbre dengue, almeno 800 casi sospetti di colera, inclusi 35 decessi, sono stati segnalati negli stati di Gedaref, Sud Kordofan e Khartoum.
Secondo le valutazioni del World Food Programme (WFP) oltre 6 milioni di persone sono sull’orlo della carestia e più di 20 milioni, il 42 per cento della popolazione, si trovano ad affrontare una grave insicurezza alimentare. 4,6 milioni di bambini e donne incinte o in allattamento soffrono di malnutrizione acuta.
Oltre al conflitto, l’aumento dei prezzi di cibo e carburante, la crisi economica pre-esistente, gli sfollamenti prolungati, gli scarsi raccolti e i gravi cambiamenti climatici, come inondazioni e siccità, alimentano l’insicurezza alimentare. L’inflazione continua a ridurre il potere d’acquisto delle famiglie, rendendo le persone incapaci di soddisfare i propri bisogni di base. Circa l’85 per cento delle famiglie sudanesi spende più del 65 per cento del proprio reddito totale in cibo. Gli Stati che si prevede vedranno i più alti livelli di insicurezza alimentare nei prossimi tre-sei mesi sono Darfur, Kordofan e Khartoum.
In #Sudan, 20 million people face acute hunger. Over 6 million are just one step away from famine.
Here's 5️⃣ ways the conflict is driving up hunger.
L’intensificarsi delle ostilità, la crescente insicurezza e la mancanza di impegno da parte delle parti in conflitto continua ad ostacolare l’accesso umanitario e la consegna trasversale di aiuti in aree difficili da raggiungere come Khartoum, Darfur e Kordofan.
In particolare, nella regione occidentale del Darfur, teatro di una campagna genocida nei primi anni 2000, il conflitto si è trasformato in violenza etnica, alimentando un ciclo dalle medesime modalità del passato, con i feroci scontri delle RSF, che erano doti come janjaweed, e delle milizie arabe alleate, contro gruppi non arabi.
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Per la prima volta in oltre 75 anni dall’ esistenza dello Stato, la parola più orribile del dizionario, “shoah”, è diventata realtà.
Cittadini di questa bella e fiorente terra sono stati uccisi nel loro olocausto privato – nelle loro case, nei loro letti, nei loro giardini, nei loro rifugi antiatomici. Lo Stato, fondato nel 1948 sulla base di “non ci sarà mai più un altro olocausto” li ha abbandonati al loro destino.
Il governo di destra, istituito per garantire sicurezza affinché scoraggiasse il nemico, è stato impegnato, fin dal giorno della sua formazione, a disgregare potere deterrente di Israele, a minare la capacità di combattimento dell’esercito e a dividere la nazione in fazioni di odio e rancore.
Uno degli eserciti più potenti del mondo si è rivelato una tigre di carta. Le armi di intelligence che erano in grado di sventare un terrorista in procinto di compiere un attentato, di assassinare un ingegnere nucleare nel cuore di Teheran e di trasportare un intero archivio nucleare dall’Iran, non hanno funzionato. Tutto questo, naturalmente, non sminuisce l’eroismo dei nostri soldati, ufficiali e poliziotti che sono stati abbandonati a se stessi quella mattina di Sim-chat Torah, per respingere l’assalto dei terroristi.
Testimonianza
Telefonata da Gaza: “Sto assistendo a crimini terribili”
Proponiamo qui la testimonianza inviata oggi, 15 ottobre da Giuditta, una cooperante che lavora nella striscia di Gaza. Un messaggio vocale agghiacciante che ben sintetizza la situazione drammatica che si sta vivendo nella striscia. Per colpire i scellerati di Hamas che hanno commesso indicibili atrocità una settimana fa, si colpisce nel mucchio. Per annientare i terroristi si punisce una popolazione. provocando massacri e dolori? Un comportamento che ricorda tanto la “soluzione finale” di qualche decennio fa. E che avrà un terribile risultato: quello di incrementare un sentimento antisemita.
Allo stesso modo, gli abitanti delle comunità adiacenti a Gaza – gli agenti di sicurezza locali e le squadre di emergenza, altrettanto i comuni cittadini che si sono trovati in mezzo all’inferno nelle proprie case – hanno combattuto fino alla morte per difendere se stessi e le loro famiglie.
Il paragone più frequente è quello della disfatta della guerra dello Yom Kippur. Ma la debacle del 2023 è mille volte più grave. Questa volta le scritte erano sul muro, con gli avvertimenti dei capi dell’establishment della sicurezza. Le informazioni raccolte, indicavano che i Paesi e le organizzazioni nemiche avevano percepito Israele più che mai debole e vulnerabile, avvertendo così il conseguente rischio di un conflitto.
Il capo di Stato maggiore, quello dell’intelligence militare, il ministro della Difesa avevano acceso un milione di luci lampeggianti. Benjamin Netanyahu sceglieva di indossare occhiali rosa e di continuare per la sua strada. Il risultato è un Paese in preda a un trauma collettivo che lo accompagnerà per generazioni. “Cambieremo il Medio Oriente dell’anno passato, ma per le sue azioni e inazioni negli ultimi 13 anni di governo”.
“Mr. Security”, il Jean Claude Van Damme del Medio Oriente, il celebre stratega che ha “abbattuto” o “dissuaso” Hamas decine di volte con le sue parole, ha portato un disastro su Israele di portata storica.
“Con arroganza e occhi ad Est”, ha promesso a teste spalancate, ci ha condotto tutti nelle comunità adiacenti a Gaza in un discorso di pochi minuti che ha riservato loro, due giorni dopo lo scoppio della guerra.
Persone che hanno vissuto l’inferno, che hanno lottato fino all’abisso ignorando tutti gli avvertimenti, le suppliche e gli appelli, anche quelli del presidente degli Stati Uniti a braccetto con i terroristi, che stanno seppellendo in massa i loro cari, sono state messe in attesa per mezz’ora, in attesa di un primo ministro che non ha mai avviato un dialogo con loro – solo un breve e disconnesso monologo.
Poche settimane fa, Netanyahu si è rivolto all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, dove ha parlato di un Medio Oriente nuovo e prospero – senza accennare ai palestinesi, come se non esistessero affatto. Lo Shabbat Simchat Torah ci ha mostrato che sono ancora qui, vivi e vegeti e che ci stanno massacrando.
Il 29 dicembre 2022 è salito al potere un governo del male. Il 4 gennaio ha inscenato un assalto immotivato al popolo, lasciando la maggior parte di esso in uno stato di shock.
Il 2023 è iniziato con un colpo di Stato giudiziario che ha intaccato il tessuto sociale, l’economia e la sicurezza nazionale di Israele. Quest’anno potrebbe concludersi come il più sanguinoso dal 1973. La colpa è soprattutto di una persona: Netanyahu. Egli dovrà rispondere non solo delle sue azioni e delle sue inazioni dell’anno scorso, ma anche di ciò che fatto e non fatto negli ultimi 13 anni di governo.
“Mr. Security”, il Jean-Claude Van Damme del Medioriente, il celebre stratega che ha “abbattuto” o “dissuaso” Hamas decine di volte con le sue parole, ha portato a Israele un disastro di portata storica. Con arroganza e con gli occhi spalancati, ci ha condotto tutti nell’abisso, ignorando qualsiasi gli avvertimenti, le suppliche e gli appelli, anche quelli del presidente degli Stati Uniti e della sua amministrazione, senza i quali ora saremmo in grave difficoltà.
Il 6 ottobre 1973, Golda Meir informò il pubblico dello scoppio della guerra. Lei, allora, mostrava chiaramente uno spirito distrutto.
Cinquant’anni dopo sembra una figura simpatica rispetto al primo ministro di oggi. Lui ha aspettato tre giorni prima di rivolgersi al pubblico con un discorso povero che comprendeva, come di consueto, una serie di giri di parole, di autocelebrazioni e soprattutto (anche in questa dolorosa situazione) di ammiccamenti alla sua “base”.
Nessuno può negargli una qualità: anche quando la terra gli brucia sotto i piedi, non perde mai di vista ciò che è veramente importante per lui. Così, ha fatto riferimento a un video che aveva visto online e che mostrava il Magg. Gen. David Zini, capo del Comando di addestramento e del Corpo di Stato maggiore, in piedi con le truppe in un’area disseminata di cadaveri di terroristi che avevano contribuito a uccidere. “Straziante”, ha detto Netanyahu. Zini è certamente un ufficiale coraggioso e un comandante apprezzato.
È anche un “knit-ted”, un uomo della corrente religiosa sionista di destra. Merita un riconoscimento, come migliaia di altri ufficiali e soldati. Non è una coincidenza, tuttavia, che sia stato trasformato nel ragazzo immagine dell’eroismo. Se Netanyahu si fosse preso un minuto per essere all’altezza della situazione, per uscire dalla palude della politica di sempre, per essere il primo ministro di tutti e non solo della sua base, avrebbe aggiunto due o tre frasi su altri eroi. Sarebbe stato un gesto solo a suo vantaggio. Per esempio, ricordiamo il Gen. (ris.) Yair Golan, 61 anni, che ha indossato la sua uniforme e si è precipitato sulla scena per effettuare salvataggi eroici; il Magg. Gen. Noam Tibon, 62 anni, che ha viaggiato verso sud, ha condotto attacchi contro i terroristi e ha salvato la sua famiglia (il Segretario di Stato americano, Antony Blinken, lo ha menzionato nelle sue osservazioni mercoledì scorso); o il Magg. Gen. Yisrael Ziv, 66 anni, che ha preso le armi e ha combattuto ovunque fosse necessario.
Il problema sta nel fatto che negli ultimi nove mesi questi tre hanno criticato pubblicamente la politica di Netanyahu. Hanno parlato a nome della popolazione israeliana che non vota per la destra. Per il primo ministro, solo questo conta. Così è stato e così sarà. Una casa unita “Una casa divisa contro se stessa non può stare in piedi”, disse Abraham Lincoln in un discorso memorabile, citando il Nuovo Testamento, prima della sua elezione a presidente.
Per Netanyahu, la divisione non è un difetto, ma una caratteristica. Dovrebbe fermarsi per un momento per comprendere la nuova realtà che si è creata. Dovrebbe ora riconoscere che la sicurezza per lui e sua moglie, mentre erano in vacanza a Neve Ativ due settimane fa, era migliore di quella degli insediamenti adiacenti a Gaza lo scorso Shabbat.
La casa divisa si sta unendo, non grazie a Netanyahu, ma nonostante lui. Gli eroici generali sopra citati e migliaia di altri, di vario grado, sono volontari in una rete parallela allo Stato. Metà del Paese ha messo da parte in un attimo il trauma collettivo e ha agito per prendere le armi, donare denaro e aiutare in ogni modo possibile. Il governo non si è ancora svegliato dallo shock. Non che conti qualcuno di cui ci si possa fidare. Dai ministri fino ai loro tirapiedi, questo è un organismo incompetente e fallito che si occupa solo di politica spicciola.
Come, ad esempio, il ministro delle Comunicazioni Shlomo Karhi, un caso triste, che non riesce a distogliere lo sguardo dall’obiettivo di aiutare Canale 14. Nel momento in cui fratelli e sorelle aiutavano i riservisti con armi per raggiungere le loro unità perché l’esercito non si era messo in regola. In un secondo tempo allestivano centri logistici per sostenere le truppe e i residenti nel sud, mentre i ministeri e i loro ministri sono diventati silenti e sono scomparsi.
Lo Stato alternativo che i cittadini hanno costruito al posto del fallito Stato ufficiale è un’anomalia sorprendente. Una sorta di anarchia rovesciata, che infonde speranza in un’intera nazione. Si tratta soprattutto di coloro che hanno protestato contro il governo e sono stati etichettati come traditori.
Quando i ministri hanno cominciato ad apparire finalmente sui nostri schermi, la nazione ha capito che era meglio quando si erano nascosti. “Non ho problemi a farmi intervistare. Il mio inglese è fantastico”, ha detto il ministro della Diplomazia pubblica Galit Distal Atbaryan alla corrispondente televisiva Amalya Duek.
Non solo Netanyahu merita il disonore eterno, ma anche i sicofanti del suo partito, che hanno contribuito a distruggere la fiducia dei cittadini nel loro Paese. Per persone come Distal Atbaryan, David Amsalem, May Golan, Karhi e Yariv Levin, persino la pattumiera della storia è un posto troppo onorevole per ricordare i loro nomi. Lo stesso vale per i loro collaboratori, come ha ampiamente dimostrato questa settimana Yossi Shelley.
L’uomo ricopre la carica di direttore generale dell’Ufficio del Primo Ministro, l’organo governativo più importante del Paese. Un tempo ambasciatore di dubbia credibilità, ha conquistato l’affetto dei Netanyahu, riuscendo così a occupare una posizione che nessuna persona con reali qualifiche sarebbe stata disposta a assumere.
Solo due persone capaci hanno l’orecchio di Netanyahu: Tzachi Hanegbi, capo del Consiglio di sicurezza nazionale, e Ron Dermer, che è a tutti gli effetti il ministro degli Esteri. Gli altri sono burocrati di infimo livello. E questo prima di prendere in considerazione i partner della coalizione. Da Zvi Sukkot, l’MK del Sionismo Religioso che ha alimentato le fiamme della violenza dei coloni a Hawara la scorsa settimana, all’MK del Giudaismo United Torah, Yitzhak Pindrus, che ha proclamato “le persone LGBT sono più pericolose per Israele di Hamas e Hezbollah”.
Sarebbe interessante sapere se Pindrus la pensa ancora così. Israele subirà grandi cambiamenti all’indomani di questo trauma nazionale, di cui Pindrus, il ministro degli Alloggi, Yitzchak Gold-knopf e i loro amici possono essere certi: la legislazione che autorizza gli Haredim (letteralmente tradotto: “timorati”, ma in effetti sono ultraortodossi, ndr) a sottrarsi al servizio di leva e che equipara lo studio della Torah al servizio militare, è morta. Queste sfacciate sanguisughe minacceranno di lasciare il governo, mentre l’IDF conterà i suoi morti nei prossimi mesi?
Haaretz*
*Quotidiano israeliano indipendente (“La terra”) fondato a Gerusalemme nel 1919 da un gruppo di immigrati russi. Pubblicato in ebraico e in inglese, è un importante riferimento per politici e intellettuali. Dal 1922 ha sede a Tel Aviv. Nel 2006 ha avuto una diffusione di ca. 80.000 copie al giorno.
Israel: A Country in Trauma, Bereft of Government
For the first time in more than 75 years as a State, the most horrific word in the dictionary, “shoah,” has become a reality. The citizens of this beautiful and flourish-ing land were murdered in their own pri-vate holocaust — in their homes, their beds, their gardens, their bomb shelters.
The State that was established in 1948 on the basis of “there will never be another Holocaust” abandoned them to their fate. The fully-right-wing government, estab-lished to ensure a security posture that would deter the enemy, was busy from the day it was formed with eroding Israel’s de-terrence, undermining the army’s fighting ability and dividing the nation into factions of hatred and bitterness. One of the most powerful armies in the world was found to be a paper tiger.
The intelligence arms that were capable of thwarting a terrorist on his way to an attack, assassinating a nuclear engineer in the heart of Tehran, and transporting an entire nuclear archive from Iran, failed to function. None of this, of course, detracts from the heroism of our soldiers, officers and police who were left to their own devices that Sim-chat Torah morning to repel the terrorist onslaught. Likewise, the people of the com-munities adjacent to Gaza — the local security officers and emergency squads as well as the ordinary citizens who found themselves plunged into hell amid their private paradises, and fought to the death to defend themselves and their families.
The comparison being made most often now is to the debacle of the Yom Kippur War. But the debacle of 2023 is a thousand times more serious. This time the writing was on the wall with warnings from the heads of the security establishment.
The intelligence being gathered showed that enemy countries and organizations had perceived Israel as weaker and more vulnerable than ever and warned of the consequent risk of a conflagration.
The chief of staff, the head of Military Intelligence, the defense minister had all turned on a million flashing lights. Benjamin Netanyahu chose to put on rose colored glasses and continue on his way. The result is a country in the grip of collective trauma that will stay with us for generations.
“We’ll change the Middle of the past year, but for his actions and inactions in the last 13 years of his rule. “Mr. Security,” the JeanClaude Van Damme of the Middle East, the celebrated strategist who “brought down” or “deterred” Hamas dozens of times with his words, brought disaster on Israel of a historic scale. With arrogance and eyes East,” he promised the heads wide shut, he led us all into of the Gaza adjacent communities in a talk for a few minutes that he set aside from his schedule for them, two days after the war broke out.
People who went through hell, who fought hand to the abyss while ignoring all the warnings, entreaties and pleas, even those from the president of the United States hand with terrorists, who are burying their loved ones en masse, were put on hold for half an hour, waiting for a prime minister who never entered into a dialogue with them – just a short and disconnected monologue.
A few weeks ago, Netanyahu addressed the United Nations General Assembly where he also spoke of a new and prosperous Middle East — without Palestinians in the equation, as if they didn’t exist atall. On Shabbat Simchat Torah, they showed us that they’re still here, alive and kicking and slaughtering.
On December 29, 2022, a government of evil came to power. On January 4, it staged an unprovoked assault on the people and left the majority of them in a state of shock. The year 2023 began with a judicial coup that struck blows against Israel’s social fabric, the economy and national security. It may now end as our bloodiest year since 1973. The blame lies mainly on the shoulders of one person — Netanyahu. He will have to answer not only for his actions and inactions of the past year, but for his ac-tions and inactions in the last 13 years of his rule.
“Mr. Security,” the Jean-Claude Van Damme of the Middle East, the celebrated strategist who “brought down” or “deterred” Hamas dozens of times with his words, brought disaster on Israel of a historic scale. With arrogance and eyes wide shut, he led us all into the abyss while ignoring all the warnings, entreaties and pleas, even those from the president of the United States and his administration, without whom we would now be in dire straits.
On October 6, 1973, Golda Meir informed the public about the outbreak of war. She was clearly a broken spirit. Fifty years later, she seems like a likable figure compared to today’s prime minister. He waited for three days before he emerged to address the public in a poor speech that included, as usu-al, a collection of spin, self-aggrandizement and above all (even in this painful situation) winks to his “base.” No one can deny him this quality: Even when the ground is burning under him, he never loses sight of what is really important to him.
Thus, he referred to a video he had seen online showing Maj. Gen. David Zini, head of the Training Command and General Staff Corps, standing with troops in an area littered with the corpses of terrorists they had helped kill. “Heartwrenching,” Netanyahu said.
Zini is certainly a coura-geous officer and a valued commander. He is also “knit-ted,” a man of the right-wing religious Zionist stream. He deserves recognition, like thousands of other officers and soldiers. It’s no coinci-dence, however, that he was made into the poster boy for heroism.
If Netanyahu had taken a minute to rise to the occasion, to climb out of the swamp of politics as usual, to be the prime minister of everyone and not just of his base, he would have added two or three sentences about other heroes. It would have been only to his benefit.
For instance, recall Gen. (res.) Yair Golan, 61, who donned his uniform and rushed to the scene to perform heroic rescues; Maj. Gen. Noam Tibon, 62, who traveled south, led attacks on terrorists and rescued his family (U.S. Secretary of State Antony Blinken men-tioned him in his remarks on Wednesday); or Maj. Gen. Yisrael Ziv, 66, who took up arms and fought wherever needed.
The problem is that over the last nine months, the three of them have publicly criticized Netanyahu’s policies. They spoke for a huge part of the country that does not vote for the right. For the prime minister, only this matters. So it was and so it will be. A house united “A house divided against itself cannot stand,” Abraham Lincoln said in a memorable speech, quoting from the New Testament, before his election as president. For Netanyahu, divisiveness is not a bug, it’s a feature.
He should stop for a movement and breathe the new reality that has been created. He should now recognize that the security for him and his wife, while they were va-cationing in Neve Ativ two weeks ago, was better than that for the settlements adjacent to Gaza last Shabbat.
The divided house is uniting, no thanks to Netanyahu, but in spite of him. The heroic generals cited above and thousands of others of varying ranks, are volunteering in a parallel network to the state. Half the country put aside the collective trauma in a flash and acted to take up arms, donate money and help in any way possible.
The government has not yet woken up from the shock. Not that it numbers anyone we can put our trust in. From the ministers down to their flunkies, this is an incompetent, failed body that is all about petty politics. Like, for example, Communications Minister Shlomo Karhi, that sad case, who cannot even take his eyes off the goal of helping Channel 14.
At a time when Brothers and Sisters in Arms were helping reservists reach their units because the army had not gotten its act together, and later set up logistics centers to support the troops and the residents in the south, the ministries and their ministers went si-lent and disappeared.
The alternative state that the citizens have built in place of the failed official state is an astonishing anomaly. A kind of inverted anarchy, which inspires hope in an entire na-tion. Inthe main, they are the people who protested against the government and were la-beled traitors.
When the ministers finally began appearing on our screens, the nation understood it was better when they had been in hiding. “I have no problem being interviewed. My English is fantastic,” said Public Diplomacy Minister Galit Distal Atbaryan told television correspondent Amalya Duek.
Not only does Netanyahu deserve everlasting disgrace, so do his party sycophants who helped de-stroy the public’s trust in their country. For people like Distal Atbaryan, Da-vid Amsalem, May Golan, Karhi and Yariv Levin, even the dustbin of history is too honorable a place for the memory of their names. The same applies to the appointees under them, as Yossi Shelley amply demon-strated that this week.
The man holds the post of director general of the Prime Minister’s Office, the most important government body in the country. Once an am-bassador of dubious credibility, he won the affection of the Netanyahus and from there reached a position that no person with real qualifications was willing to take.
Only two capable people have Netanyahu’s ear — Tzachi Hanegbi, head of the National Security Council, and Ron Dermer, who is for all intents and purposes the foreign minister. The rest are bureaucrats of an inferior sort. And that is before tak-ing into consideration the coalition partners. From Zvi Sukkot, the Religious Zionism MK who fanned the flames of settler vio-lence in Hawara last week, to United Torah Judaism MK Yitzhak Pindrus, who informed us that “LGBT people are more dangerous to Israel than Hamas and Hezbollah.”
It would be interesting to know whether Pindrus still feels that way. Israel will undergo great changes in the aftermath of this national trauma, one of which Pindrus, Housing Minister Yitzchak Gold-knopf and their friends can be sure of: The legislation entitling Haredim to evade conscription and equating Torah study with army ser-vice is dead in the water. Will these brazen leeches issue threats to quit the gov-ernment, as the IDF counts its dead over the months ahead?
(Haaretz Octobre 13th 2023)
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Cosa è la “Striscia di Gaza”? Spesso nemmeno con una carta geografica, di quelli che si possono trovare facilmente su Google, con tanto di negozi e ristoranti, stazioni di rifornimento e altro, è possibile capire la dimensione del luogo che aerei e missili israeliani stanno radendo al suolo. Numerosi sono i lettori di giornali o chi segue la televisione che non si rendono conto dello spazio geografico in cui israeliani e palestinesi si confrontano, si combattono. E si massacrano.
La striscia è una regione costiera di 360 km², popolata da oltre due milioni e quattrocentomila arabi, dei quali un milione trecentomila sono rifugiati palestinesi, che vivono in mezzo ai pochi autoctoni arrivati durante la guerra del 1948 per la creazione dello stato d’Israele. Furono costretti, allora, a lasciare le loro case, le terre che coltivavano nel territorio su cui oggi, non molto distante, sempre sulle rive del Mediterraneo, a pochi chilometri da Gaza, poco più a sud di Tel Aviv, ci sono, tra l’altro, le moderne città di Aschelon e Ashdod.
“Hamas, con mio grande rammarico, è la creazione di Israele” disse nel 2009 al Wall Street Journal Avner Cohen, un ex funzionario israeliano per gli affari religiosi che aveva lavorato a Gaza per più di due decenni. A metà degli anni 80, Cohen scrisse un rapporto ai suoi superiori avvertendoli di non giocare al divide et impera nei territori occupati, sostenendo gli islamisti palestinesi contro i laici palestinesi: “…suggerisco di concentrare i nostri sforzi sulla ricerca di modi per spezzare questo mostro prima che questa realtà ci esploda in faccia”, le sue parole.
Si riferiva ad Hamas e alla politica di tutti i governi israeliani e dei servizi segreti che avevano finanziato alcuni elementi radicali vicini ai Fratelli musulmani egiziani, che già allora erano, se vogliamo, molto più legati alle teorie dell’Isis e di Bin Laden che ai laici, cristiani o musulmani moderati del mondo palestinese. Dall’Olp di Yasser Arafat a Nayef Hawatmeh, al Fronte democratico per la liberazione della Palestina.
Come spesso succede, la mancanza della possibilità di riunirsi – comizi in luoghi chiusi o all’aperto – dà un grande vantaggio alle formazioni religiose; nel caso specifico, alle moschee. Un alto ufficiale israeliano, che voleva far capire alla stampa come stava guadagnando spazio e potere Hamas, mi disse alle fine degli anni Ottanta che oltre alle moschee e alle scuole coraniche i fondamentalisti usavano anche il loro servizio sanitario per indottrinare la popolazione della Striscia, già allora molto giovane e staccata dal resto del mondo palestinese concentrato a Gerusalemme Est, in Cisgiordania e nella diaspora.
Oggi la metà della popolazione di Gaza ha meno di diciotto anni. Sono nati e cresciuti nel ghetto della Striscia. Pochi, prima di questa e di molte guerre, potevano andare in Israele per cercare lavoro. Pochi erano autorizzati a raggiungere Gerusalemme Est o i territori occupati della Cisgiordania. Muri e reticolati circondano la striscia isolandola da Israele.
Il Mediterraneo è un’altra frontiera invalicabile: i pescatori possono uscire al massimo per una distanza di pochi chilometri dalla riva. I bagnanti non devono allontanarsi dal bagnasciuga. A sud c’è l’Egitto, che apre e chiude la frontiera quando vuole, e cerca di distruggere i tunnel attraverso i quali molti palestinesi tentano di espatriare. O far arrivare armi come quelle usate in questo attacco a sorpresa contro Israele.
Fino all’agosto del 2005, la Striscia di Gaza era praticamente un territorio occupato. Quasi diecimila soldati vi stazionavano in modo permanente insieme a più o meno lo stesso numero di coloni israeliani che coltivavano i loro insediamenti, gestivano in parte la pesca e altre industrie.
Con gli accordi di pace di Oslo fu presa la decisione di avviare il processo di pace consegnando Gerico e la città di Gaza ad Arafat e all’Autorità nazionale palestinese. Nel 2004 era primo ministro israeliano Ariel Sharon, e propose un piano di disimpegno unilaterale da Gaza. Arafat era morto e il nuovo presidente palestinese Abu Mazen era pronto a prendere possesso del territorio in riva al mare, ma Sharon disse di no. E nel mese di agosto 2005 praticamente consegnò il territorio ad Hamas.
Da allora i leader israeliani, Netanyahu in primo piano, sostengono che con due governi palestinesi la pace è impossibile. Avrebbe potuto facilitare la caduta degli integralisti ma ha preferito, tra piccole e medie guerre, farsi aiutare da una parte del mondo, arabo e non solo, per mantenere Hamas al potere ed evitare la creazione di uno stato palestinese accanto a Israele.
Quando Gaza era ancora occupata, le giovani reclute israeliane venivano mandate nella striscia per il loro prima addestramento in mezzo al nemico. “Ci odieranno per sempre. L’ho visto nei loro occhi”, mi disse allora un ragazzo israeliano di diciotto anni. Era appena tornato da Gaza. La sua pattuglia era entrata in una modesta casa per un controllo, una esercitazione. “Ho visto gli occhi dei giovani palestinesi come me, anche più piccoli. Erano carichi di odio. Non dimenticheranno mai quello che stiamo facendo”.
Eric Salerno Eric2sal@yahoo.com X:africexp
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Speciale per Africa ExPress Cornelia I. Toelgyes
13 ottobre 2023
Nella classifica del 2022, il Gabon occupa il 136esimo posto su 180 Paesi per percezione della corruzione. Il fenomeno è presente a tutti livelli, preoccupa però maggiormente quando sono coinvolte persone che dovrebbero dare l’esempio e soprattutto combatterla.
Mercoledì è stata arrestata la ex first lady, la franco-gabonese Sylvia Bongo Ondimba Valentin, moglie del presidente Ali Bongo Odimba, spodestato dopo un colpo militare alla fine di agosto. Il giudice ha spedito la donna dietro le sbarre dopo un nuovo e lungo interrogatorio.
Già subito dopo il putsch, la donna era stata messa agli arresti domiciliari, perché accusata di presunta appropriazione indebita di denaro pubblico, riciclaggio e altri reati finanziari.
Sylvia è nata a Parigi nel 1963. Il padre, un uomo d’affari francese, ha clienti in diversi Paesi africani, continente, dove si trasferisce insieme alla figlia, all’epoca ancora bambina. Nel 1974 si stabiliscono in Gabon, dove Edouard Valentin fonda la OGAR, Omnium gabonais d’assurances et de réassurances, la principale compagnia assicurativa del Gabon, dove Sylvia frequenta le scuole. Dopo l’esame di maturità rientra in Francia per gli studi universitari.
Prima di tornare in Gabon, viene assunta in Francia da un’agenzia immobiliare, della quale diventa presto direttore commerciale per poi mettersi in proprio nel 1988. “In famiglia abbiamo il senso degli affari” dichiarava nel 2010 durante un’intervista. Ma nel 1988 la giovane incontra anche l’allora 28enne Alì Bongo Ondimba. I due si sposano l’anno seguente. All’inizio degli anni 2000 la coppia adotta tre bambini: Noureddin Edouard, Jalil et Bilal. Ma, come ricorda Le Parisien, Alì è anche padre di Malika, bimba avuta da una relazione precedente.
I militari che hanno spodestato Alì Bongo, hanno accusato tutto il suo entourage di aver truccato le scorse elezioni presidenziali. Inoltre sospettano che la ex first lady abbia manipolato il marito, tutt’ora sofferente dei postumi di un grave ictus avuto nel 2018.
Secondo loro, la consorte dell’ex presidente e il figlio, Noureddin Bongo Valentin, sarebbero stati “leader de facto” del Paese negli ultimi 5 anni. Periodo durante il quale avrebbero, secondo l’accusa, sottratto fondi pubblici a piene mani.
Già poche ore dopo il golpe del 30 agosto, i militari hanno proclamato di aver messo fine al regime dei Bongo, accusandolo di corruzione. Nel 1966 saliva al potere Omar, e dopo la sua morte, nel 2009, Alì diventava il leader del Paese, riuscendo a rimanere incollato alla poltrona più prestigiosa del Paese fino al putsch di poche settimane fa.
La notte stessa del putsch, Noureddin Bongo e diversi altri giovani, membri del gabinetto presidenziale, sono stati arrestati mentre erano in piedi davanti a innumerevoli bauli, valigie e borse traboccanti di banconote.
Tre settimane dopo, il figlio di Bongo e altri sette membri della giovane squadra, sono stati incarcerati con l’accusa di “corruzione, appropriazione indebita di fondi pubblici, riciclaggio di denaro, associazione a delinquere, falsificazione della firma del presidente della Repubblica e turbativa delle operazioni elettorali”. Sono stati imprigionati anche due ex ministri (petrolio e lavori pubblici), personaggi vicini a Noureddin Bongo.
“La First Lady e Noureddin si sono appropriati del potere di Ali Bongo” – ha dichiarato l’attuale capo della transizione, Brice Clothaire Oligui Nguema, il 18 settembre -. “Dopo il suo ictus, hanno falsificato la firma del Presidente e dato ordini al suo posto, oltre aver commesso altri gravi reati, come riciclaggio di denaro e corruzione. Bisogna chiedersi chi guidava il Paese in questi anni”, ha poi aggiunto Oligui.
Certo, nemmeno Brice Clothaire Oligui Nguema, è un santo. Cugino di Alì, è stato dapprima al servizio di Omar. Durante tale periodo si è arricchito a dismisura e ha investito il denaro comprando proprietà in Senegal, Francia, Marocco e Stati Uniti.
Dopo la morte di Omar, è stato spedito all’estero per 10 anni come addetto militare, nel 2018, in seguito alla malattia di Alì, è stato richiamato in patria. E’ poi stato a capo della Guardia Repubblicana fino al giorno del colpo di Stato.
Recentemente, oltre ai familiari del cugino e alcuni ex ministri, Oligui ha sbattuto in galera anche due persone vicine all’oppositore, Albert Ondo Ossa, candidato alle presidenziali, sostenuto dalla coalizione Alternanza 2023. Mike Jocktane e Thérence Gnembou, sono ora detenuti in custodia cautelare nel carcere di Oyem, nel nord del Gabon. I due sono stati bloccati mentre si stavano recando in Guinea Equatoriale per recapitare due lettere: una al vicepresidente equatoguineano, Teodorin Obiang Nguema, l’altra a Faustin-Archange Touadéra, capo di Stato centrafricano. I due volevano l’aiuto di Malabo e Bangui. La cosa ha ovviamente irritato le autorità di transizione di Libreville.
Intanto il presidente della giunta militare, che recentemente ha nominato un governo e un parlamento di transizione, ha fatto il giro dei Paesi limitrofi, membri della Comunità Economica degli Stati dell’Africa Centrale (CEEAC), per consultazioni con i suoi omologhi. Subito dopo il golpe, il Gabon è stato sospeso dall’organizzazione regionale. Ora Libreville sta cercando di normalizzare la propria situazione perché vorrebbe essere reintegrata quanto prima alla CEEAC.
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