Speciale per Africa ExPress Cornelia I. Toelgyes
1° novembre 2023
I jihadisti hanno voluto dare un addio in grande stile ai caschi blu della missione Pace delle Nazioni Unite in Mali (MINUSMA), posizionando due ordigni artigianali lungo il percorso dell’ultimo convoglio partito dalla base Kidal ieri mattina. Per fortuna non ci sono stati feriti, solamente danni materiali.
Con ben due settimane di anticipo sulla tabella di marcia prevista, MINUSMA ha messo un punto finale alla sua presenza nel nord-est della ex colonia francese. Ieri mattina gli ultimi caschi blu hanno lasciato con aerei e un lungo convoglio via terra la base di Kidal, alla volta di Gao, nel centro del Paese.
Da agosto a oggi MINUSMA ha abbandonato già otto delle sue tredici basi in Mali. Secondo un comunicato della missione di pace, le partenze dai loro campi sono state assai complesse e rese difficili dalla situazione di estrema insicurezza nelle varie zone. Per non parlare delle autorizzazioni di volo per il trasporto del personale da Kidal verso Gao, arrivate con molto ritardo da parte delle autorità competenti di Bamako.
Una richiesta del ritiro immediato della missione ONU è stata presentata al Consiglio di Sicurezza del Palazzo di Vetro dal ministro degli Esteri maliano, Abdoulaye Diop, lo scorso 16 giugno e ha sorpreso un pochino tutti. Sul tavolo dei lavori erano già pronte varie opzioni per la riorganizzazione di MINUSMA; Bamako ha scelto invece diversamente: ha voluto che i caschi blu facessero i bagagli per lasciare il Paese entro la fine di quest’anno.
Va poi sottolineato che non è semplice organizzare una partenza veloce di MINUSMA, presente nel Paese dal 2013 con 11.676 militari, 1.588 personale di polizia, 1.792 civili (859 nazionali – 754 internazionali, compresi 179 volontari delle Nazioni Unite), per un totale di 15.056 uomini. Non bisogna dimenticare che durante i quasi 10 anni di permanenza nella ex colonia francese hanno perso la vita oltre 200 caschi blu.
La chiusura del campo di Kidal da un lato è in linea con il desiderio della giunta maliana di vedere MINUSMA lasciare il Paese entro la fine dell’anno, dall’altro però Bamako non ha gradito la partenza accelerata dei caschi blu da questa base, prevista inizialmente per metà novembre. Proprio per la recrudescenza delle violenze nella regione, la missione di pace dell’ONU ha fatto i bagagli in fretta e furia, senza attendere l’arrivo delle forze di Bamako e i suoi alleati, i mercenari russi del gruppo Wagner.
I ribelli della coalizione – Cadre Stratégique Permanent pour la Paix, la Sécurité et le Développement (CSP-PSD), di maggioranza tuareg, firmatari del trattato di pace nel 2015 – sono nuovamente sul piede di guerra contro il regime di Bamako e controllano Kidal. E non hanno fatto mistero della loro intenzione di impedire alle truppe regolari e ai loro alleati, il gruppo paramilitare russo Wagner, di trasferirsi nella ex base della missione ONU. Sono sempre stati contrari alla partenza dei caschi blu e alla consegna dei campi di MINUSMA alle autorità maliane.
Quando tre settimane fa l’esercito maliano ha preso il controllo della città di Anéfis, a un centinaio di chilometri da Kidal, si poteva pensare che i militari e i mercenari russi intendessero avanzare non appena MINUSMA se ne fosse andata, per insediarsi nella base di Kidal. Ma così non è stato.
Prima della firma del tratto di pace nel 2015, ribelli tuareg avevano creato problemi al governo di Bamako. Ora, per evitare una nuova insurrezione, l’esercito ha inviato già all’inizio di ottobre un contingente di rinforzo nella zona. I soldati sono però ancora posizionati ad Anéfis, a circa 110 chilometri a sud di Kidal, mentre altre truppe sono già a Tessalit, a circa 200 chilometri da Kidal.
I ribelli dicono di essere pronti a difendersi. In attesa di ulteriori sviluppi, la regione di Kidal si sta svuotando. Molti civili si sono già rifugiati nella vicina Algeria per il timore di cruenti scontri.
Solo poco più di un mese fa il capo della giunta militare di transizione, Assimi Goïta, a margine di una parata militare, aveva assicurato che lo Stato riprenderà il totale controllo di tutti i territori, senza però precisare entro quanto tempo.
Aggiornamento 2 novembre 2023
Mentre i ribelli hanno preso il controllo della base di Kidal, un altro mezzo del convoglio della missione ONU ha urtato un’altra mina tra Kidal e Gao. E’ il terzo attacco dei jihadisti nel giro di 24 ore. Questa volta però sono stati feriti 8 caschi blu, come riferisce MINUSMA sul suo account X (ex Twitter).
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Speciale per Africa ExPress Alessandra Fava 31 ottobre 2023
Il falso video in cui si vede una prigioniera israeliana che insulta il premier israeliano è probabilmente un fake. Ma, falso o no, esprime in sentimento di molti israeliani: che il governo Netanyau non è più credibile, che l’esercito non li ha difesi perché era impegnato a difendere i coloni intenti a portare avanti la loro guerra nella West Bank da anni ai danni dei palestinesi, che questa guerra a Gaza non la vuole nessuno, che le famiglie dei rapiti vogliono riabbracciare i loro cari e non covano desideri di vendetta.
Questa guerra sta scuotendo le fondamenta di Israele, non tanto dal punto di vista politico, quanto da quello ideologico. E’ un fiume carsico che scava da anni, sono le opinioni che qualche migliaio di pacifisti porta avanti da decenni e ora stanno diventando opinione pubblica e questo nuovo sentire sta erodendo i credo dell’occupazione sionista, la guerra permanente contro nemici perenni che alla lunga diventa creare sempre un nuovo nemico.
In passato certo c’era la giustificazione degli attacchi dei paesi limitrofi, oggi la giustificazione dei crimini orrendi portati avanti da Hamas nei paesi vicino alla Striscia, ma la normalizzazione delle relazioni con Egitto ed Emirati ha eroso questo spirito di guerra permanente. Sta inserendo una nuova visione anche di Medio Oriente.
Molti israeliani oggi vogliono vivere in pace, vogliono la fine dell’occupazione di territori destinati ai palestinesi dal diritto internazionale. Prima erano una minoranza, oggi stanno diventando la maggioranza. Per questo in un articolo pubblicato dal francese da Africa ExPress leggete che alcuni israeliani temono la guerra civile. Prima o poi ci sarà una resa dei conti tra chi vuole la fine della guerra guerreggiata contro tutti e soprattutto contro i palestinesi e i coloni che portano avanti una versione estremista del sionismo con la conquista di territori sempre più allargati. Ricordo le proteste davanti alla Knesset quando Sharon voleva disoccupare Gaza: i coloni parlavano e parlano di un’Israele fino al Tigri e l’Eufrate.
Leggendo le parole dei familiari dei rapiti, dei parenti di soldati, dei rapiti liberati di fatto si legge in filigrana un desiderio di pace. Le generazioni sono cambiate. Viaggiano. Vedono che cosa vuol dire vita quotidiana con una progettazione e senza conflitti.
Lo shock della violenza dell’attacco di Hamas ritorna da settimane nei giornali, ma mentre da parte del governo si traduce in vendetta anche perché se cade il governo Netanyau andrà a processo (almeno quattro inchieste sono in corso per corruzione e reati vari), molta parte vuole la fine dei conflitti.
Ecco alcuni numeri; quando si parla di Palestina e Israele bisogna partire dai numeri:
Popolazione Gaza: 2,3 milioni di persone
Popolazione Israele 9 milioni di persone di cui un terzo arabi/palestinesi con passaporto israeliano
Israele e Territori Occupati/Cisgiordania e Gaza sono grandi in tutto quanto la Lombardia
Hamas annovera all’interno di Gaza fra gli 8 mila soldati (stima di molti studiosi) fino a 36 mila (fonte Reuters)
Coloni che occupano illegalmente Territori occupati/Cisgiordania: 700 mila in 300 colonie. Da maggio ad oggi hanno costretto alla fuga centinaia di famiglie palestinesi.
E’ importante tenere presente che di fatto la Palestina non ha confini specifici, a meno che di non rifarsi a quelli dell’accordo di Oslo che divise la Cisgiordania in zone A, B, C, violate da successive occupazioni illegali delle colonie.
Anche Israele non riconosce confini certi, anche nelle scuole le mappe variano e i confini non sono segnati.
A Gaza hanno paura di Hamas da quando si è insediata con le legittime elezioni. Difficilmente ne parlano volentieri. Eppure, come successo con Hezbollah in Libano, Hamas è riuscita a colmare un vuoto assistenziale. Di fatto fornisce aiuti, medicine, educazione a chi ne ha bisogno. Per cui per necessità o per adeguamento molti di Gaza alla fine si sono messi sotto il suo ombrello.
Hamas però ha proliferato grazie alla compiacenza di Israele: a Gaza non entra uno spillo senza che lo sappiano egiziani ed israealiani. Quindi i miliardi arrivati cash dal Quatar piuttosto che dall’Iran non sono volati dall’alto ma passati per terra attraverso frontiere, tunnel.
Hamas si è costruita negli anni un dedalo di tunnel sottoterra, ce lo raccontano anche i prigionieri liberati. “C’è umido” ha detto una pacifista rilasciata. Prima aiutava i gazawi a raggiungere gli ospedali israeliani fuori di Gaza. La chiamano Metro Gaza.
Detto questo l’attenzione mediatica è concentrata sulla Striscia, ma per capire questa guerra bisogna guardare alla Cisgiordania dove da anni la popolazione palestinese alla quale secondo gli accordi di Oslo avrebbe dovuto andare la West Bank, detta Cisgiordania e Gaza (dopo l’evacuazione delle colonie di parte di Sharon), viene depredata e allontanata da fonti, vigneti, oliveti, villaggi, paesi.
Dalla primavera scorsa le azioni, dei veri e propri pogrom, dei coloni armati fino ai denti, sono cresciute di dismisura. Ce lo dice Ocha https://www.unocha.org/ , un organismo delle Nazioni Unite che studia la situazione della Cisgiordania, misurando check point e violazioni dei diritti. La scorsa settimana i giornali israeliani, Haaretz in prima fila, denunciavano le persecuzioni verbali, telefoniche e la violenza fisica e le distruzioni operate da alcuni coloni ai danni di palestinesi che alla fine hanno abbandonato i loro villaggi.
Insomma per capire Gaza bisogna guardare anche alla West Bank.
Sempre Ocha nel suo report del 31 ottobre dà due flash della Cisgiordania che riportiamo direttamente in inglese co la traduzione in italiano più sotto :
– In the West Bank, Israeli forces killed six Palestinians and an Israeli settler killed another Palestinian between the afternoon of 29 October and 21:00 on 30 October. This brings the total number of Palestinian fatalities by Israeli forces or settlers since 7 October to 121, including 33 children, alongside one Israeli soldier killed by Palestinians.
– Nearly 1,000 Palestinians have been forcibly displaced from their homes in the West Bank since 7 October. This includes at least 98 Palestinian households, comprising over 800 people, driven out from 15 herding/Bedouin communities in Area C, amid intensified settler violence and access restrictions. Another 121 Palestinians were displaced following the demolition of their homes by the Israeli authorities on grounds of lack of Israeli-issued building permits or as a punitive measure.
Traduzione:
– In Cisgiordania, le forze israeliane hanno ucciso sei palestinesi e un colono israeliano ha ucciso un altro palestinese tra il pomeriggio del 29 ottobre e le 21:00 del 30 ottobre. Questo porta il numero totale di morti palestinesi uccisi dalle forze israeliane o dai coloni dal 7 ottobre a 121, tra cui 33 bambini, oltre a un soldato israeliano ucciso da palestinesi.
– Quasi 1.000 palestinesi sono stati sfollati con la forza dalle loro case in Cisgiordania dal 7 ottobre. Tra questi, almeno 98 famiglie palestinesi, per un totale di oltre 800 persone, sono state cacciate da 15 comunità di pastori/beduini nell’Area C, tra l’intensificarsi della violenza dei coloni e le restrizioni di accesso. Altri 121 palestinesi sono stati sfollati in seguito alla demolizione delle loro case da parte delle autorità israeliane per mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele o come misura punitiva.
I coloni – settlers in inglese – meritano una voce intera del report Ocha che riportiamo in inglese e poco dopo in italiani:
“Settler-related Violence”
The most severe incidents of settler violence during the past 24 hours were reported in southern Hebron. In one, Israeli settlers, reportedly from Havat Ma’on, broke into a home in Tuba, physically assaulted its residents, stole their mobile phones, and killed six sheep. Reportedly, the settlers threatened the family to leave the community, or they would be killed.
In another incident, a group of masked and armed settlers physically assaulted Palestinian farmers harvesting their olives near Qawawis (Hebron). The settlers threatened to kill the harvesters if they didn’t leave. Israeli forces who arrived injured three Palestinians farmers and detained them for several hours.
The already high level of Israeli settler violence recorded during the first nine months of 2023 has sharply increased since the escalation of hostilities. Since 7 October, OCHA has recorded 171 settler attacks against Palestinians, resulting in Palestinian casualties (26 incidents), damage to Palestinian property (115 incidents), or both casualties and damage to property (30 incidents). This reflects a daily average of seven incidents, compared with three since the beginning of the year.
Out of the 171 settler attacks, more than one-third involved threats with firearms, including shooting. Almost half of all incidents involved Israeli forces accompanying or actively supporting Israeli settlers while carrying out the attacks. Many of the latter incidents were followed by confrontations between Israeli forces and Palestinians, where three Palestinians were killed, and dozens injured. Affected properties included 24 residential structures, 42 agricultural/animal-related structures, 74 vehicles and more than 670 trees and saplings”.
Traduzione:
“Violenza dei coloni”
Gli episodi più gravi di violenza da parte dei coloni nelle ultime 24 ore sono stati riportati nel sud di Hebron. In uno di questi, i coloni israeliani, secondo quanto riferito da Havat Ma’on, hanno fatto irruzione in una casa a Tuba, hanno aggredito fisicamente i residenti, rubato i loro telefoni cellulari e ucciso sei pecore. Secondo quanto riferito, i coloni hanno minacciato la famiglia di lasciare la comunità, altrimenti sarebbero stati uccisi.
In un altro incidente, un gruppo di coloni mascherati e armati ha aggredito fisicamente i contadini palestinesi che raccoglievano le olive vicino a Qawawis (Hebron). I coloni hanno minacciato di uccidere i raccoglitori se non se ne fossero andati. Le forze israeliane arrivate hanno ferito tre agricoltori palestinesi e li hanno trattenuti per diverse ore.
Il già alto livello di violenza dei coloni israeliani registrato nei primi nove mesi del 2023 è nettamente aumentato dopo l’escalation delle ostilità. Dal 7 ottobre, l’OCHA ha registrato 171 attacchi di coloni contro palestinesi, che hanno causato vittime palestinesi (26 incidenti), danni alle proprietà palestinesi (115 incidenti), o sia vittime che danni alle proprietà (30 incidenti). Questo dato riflette una media giornaliera di sette incidenti, rispetto ai tre dell’inizio dell’anno.
Dei 171 attacchi dei coloni, più di un terzo ha riguardato minacce con armi da fuoco, compresi gli spari. Quasi la metà degli incidenti ha visto le forze israeliane accompagnare o sostenere attivamente i coloni israeliani durante gli attacchi. Molti di questi ultimi incidenti sono stati seguiti da scontri tra forze israeliane e palestinesi, in cui tre palestinesi sono stati uccisi e decine feriti. Le proprietà colpite comprendono 24 strutture residenziali, 42 strutture agricole/animali, 74 veicoli e più di 670 alberi e alberelli”.
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Dopo giorni e giorni di grande preoccupazione i due studenti tanzaniani, presi in ostaggio da Hamas sono stati identificati. Lo ha reso noto il ministero degli Esteri israeliano sul suo account X (ex Twitter).
I due giovani, Joshua Loitu Mollel e Clemence Felix Mtenga si trovavano in Israele insieme a altri 258 studenti della Tanzania nell’ambito di un programma di studio di metodi e tecniche dell’agricoltura moderna.
Nel comunicato del ministero degli Esteri israeliano è stato specificato che i due ragazzi “sono stati sequestrati dai terroristi di Hamas e sono ora ostaggi a Gaza”.
Il signor Mollel, il papà di Joshua, contattato dai reporter della BBC, ha risposto molto sollevato dopo l’ansia dei giorni scorsi: “Ho fiducia che mio figlio maggiore torni a casa sano e salvo”. Ha poi aggiunto che l’ambasciatore di Dodoma accreditato in Israele gli avrebbe assicurato che i due governi stanno collaborando per il rilascio del figlio. “Sono stato davvero male la scorsa settimana, ero disperato, perché non sapevo che fine avesse fatto il mio figlio. Ci siamo sentiti l’ultima volta telefonicamente il 5 ottobre scorso e più nulla. Lui studiava proprio nel Kibbutz di Nahal Oz”.
Secondo quanto riportato dalle autorità tanzaniane, 9 concittadini presenti in Israele hanno risposto all’offerta del governo per essere riportati a casa. Sono atterrati all’aeroporto di Dar es Salam lo scorso 18 ottobre.
Durante l’attacco di Hamas del 7 ottobre scorso, 230 persone sono state rapite, prese in ostaggio in Israele e portate nella Striscia di Gaza. I sequestratori hanno assicurato che stanno bene e si trovano “in posti sicuri, in tunnel”.
Il governo israeliano ha comunicato che tra gli ostaggi ci sono cittadini di 25 nazionalità, anche un sudafricano. Pretoria non ha voluto rilasciare commenti finora. Va ricordato che Il governo sudafricano e il partito al potere, l’ANC (African Nationl Congress) si sono schierati subito con il popolo palestinese, chiedendo anche l’immediata cessazione delle ostilità. Dalla fine dell’apartheid, proprio per il trauma subito dalla popolazione sudafricana all’epoca del sistema segregazionista, Pretoria è sempre in prima linea nella lotta internazionale per la libertà e i diritti dei palestinesi.
Finora sono stati rilasciati 4 ostaggi, tra gli altri l’85enne Yocheved Lifschitz è stata liberata. Al momento del suo rilascio, l‘anziana signora ha stretto la mano al suo rapitore salutandola con uno “Shalom”, cioè, “Pace” . Ha poi voluto sottolineare di essere stata picchiata durante la trasferta a Gaza, ma di essere stata trattata molto bene in seguito.
Israele ha risposto all’attacco di Hamas con incessanti raid aerei, uccidendo oltre 8.000 persone.
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Pubblichiamo questo interessante articolo per gentile concessione del Washington Post. Africa ExPress
dal Washington Post Ishaan Tharoor (con Sammy Westfall)
28 ottobre 2023
In basso l’articolo originale in inglese
A quasi tre settimane di attacchi aerei israeliani, a Gaza è emersa una pratica desolante. Alcuni genitori nel territorio assediato stanno scarabocchiando i nomi dei loro figli sulle Braccia dei più piccoli. Altri legano ai loro polsi braccialetti di identificazione di fortuna o piccoli pezzi di spago colorato.
C’è una logica semplice e brutale: Mentre il bilancio delle vittime palestinesi supera i 7.000 morti, tra cui quasi 3.000 bambini, secondo le agenzie umanitarie, gli obitori e gli ospedali sono sovraccarichi. I chierici musulmani hanno approvato sepolture di massa per i morti non identificati, ma le famiglie sperano che segni più chiari di identificazione possano evitare questo destino per i loro cari uccisi. “Se dovesse succedere qualcosa – ha detto un padre di 40 anni alla Reuters – in questo modo li riconoscerò”.
Non è chiaro quando Israele inizierà la tanto attesa operazione di terra nella Striscia di Gaza come parte della sua campagna per “eliminare” il gruppo islamista Hamas, il cui macabro attacco del 7 ottobre al sud di Israele ha segnato il giorno più sanguinoso nella storia di Israele e nella storia del popolo ebraico dopo l’Olocausto.
I funzionari israeliani hanno chiarito che la loro attuale campagna di punizione cambierà irrevocabilmente lo status quo a Gaza, dove Hamas è al potere dal 2007. Invocando le richieste di una “potente vendetta”, il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha giurato di distruggere qualsiasi parte del territorio in cui Hamas sia rimasto radicato.
La guerra ha messo in crisi la vita dei comuni palestinesi di Gaza. Hanno sopportato 16 anni di blocco israeliano, ma ora si trovano in gran parte senza carburante, acqua, elettricità e altri elementi fondamentali per la sopravvivenza. Israele ha ordinato unilateralmente l’evacuazione dei civili dalle aree settentrionali di Gaza per la loro sicurezza, ma molti sono morti in attacchi aerei più a sud.
“Quando le vie di evacuazione vengono bombardate, quando le persone, sia a nord che a sud, sono coinvolte nelle ostilità, quando manca l’essenziale per la sopravvivenza e quando non ci sono garanzie per il ritorno, alle persone non restano che scelte impossibili”, ha dichiarato Lynn Hastings, il più alto funzionario umanitario delle Nazioni Unite per i Territori palestinesi occupati, aggiungendo che “nessun luogo è sicuro a Gaza”.
Circa 1,4 milioni di persone dei 2,3 milioni di abitanti di Gaza sono attualmente sfollati all’interno del Paese. Più di 613.000 in fuga da Gaza sono ospitati in 150 strutture gestite dall’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, o UNRWA, alcune delle quali ospitano da 10 a 12 volte più persone rispetto alla loro capacità progettuale. Nell’ultima settimana, l’agenzia ha registrato circa 7.000 casi di infezioni respiratorie acute, circa 3.000 casi di diarrea e centinaia di casi di scabbia e pidocchi.
Queste condizioni sono destinate a peggiorare con l’esaurirsi delle scorte di carburante nel territorio. Con l’elettricità assente e i generatori di riserva incapaci di funzionare senza carburante, le strutture di pompaggio e desalinizzazione dell’acqua non funzionano. Molti nel territorio bevono acqua sporca o salata. Per molti palestinesi di Gaza, quando non si riparano dai bombardamenti aerei, la vita quotidiana ruota in fila per ore, alla disperata ricerca di cibo e acqua potabile.
Gli aiuti umanitari cui le autorità israeliane hanno permesso di entrare nel territorio dall’Egitto sono di gran lunga inferiori a quelli necessari. Secondo un’analisi dell’organizzazione benefica Oxfam, dal 7 ottobre è stato permesso l’ingresso di solo il 2 per cento delle forniture alimentari normalmente consegnate a Gaza. “Ci sono stati alcuni camion che hanno superato il confine. Questo non significa nulla”, ha dichiarato alla NPR (National Public Radio, l’emittente statale americana, ndr) Cindy McCain, responsabile del Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite. “Abbiamo bisogno di centinaia di camion che attraversino il confine per contribuire a mitigare ciò che questa catastrofe potrebbe significare”. Ha anche avvertito che “ci saranno malattie come non mai se non entriamo lì”.
Mercoledì, la Mezzaluna Rossa palestinese ha dichiarato che finirà il carburante per le sue ambulanze entro la fine della settimana. Già più di un terzo degli ospedali di Gaza e quasi due terzi delle cliniche di assistenza sanitaria primaria hanno chiuso i battenti, a causa dei bombardamenti o della mancanza di energia elettrica. Le strutture ancora in funzione lo fanno sotto una notevole pressione, con i pazienti sparsi per i corridoi e le forniture mediche critiche in diminuzione.
“I teatri sono pieni di pazienti. I medici devono prendere decisioni molto difficili su chi curare perché non riescono a far fronte al numero di feriti che arrivano”, ha dichiarato alla BBC Abdelkader Hammad, un chirurgo britannico ora rifugiato in una struttura delle Nazioni Unite. “Stanno esaurendo le attrezzature mediche”.
Le possibilità per gli abitanti di Gaza sono terribili. C’è la fatica quotidiana di sopravvivere in un paesaggio di guerra disseminato di macerie, che comprende anche la ricerca di segnali WiFi e di stazioni di ricarica per i telefoni. Le famiglie si separano e trasferiscono figli e parenti in diverse parti del territorio, nella speranza che le probabilità di evitare gli attacchi aerei siano migliori quando ci si disperde. Le strade che collegano il nord e il sud di Gaza sono diventate trappole mortali, vulnerabili ai bombardamenti. Molti residenti di Gaza non hanno le risorse per affrontare il viaggio verso sud o per trovare una sistemazione sicura una volta raggiunta.
L’idea di lasciare completamente Gaza è ancora più problematica: per ragioni diverse, né Israele né l’Egitto sono disposti ad accettare centinaia di migliaia di rifugiati. E i palestinesi, così come i governi arabi, temono che un esodo da Gaza segni un’altra perdita di terra a favore dello Stato israeliano – un’altra “nakba”, il termine arabo spesso invocato per descrivere il “cataclisma” che ha rappresentato la fondazione di Israele nel 1948 e l’espulsione di centinaia di migliaia di palestinesi dai loro villaggi nativi.
“La stragrande maggioranza di coloro che stanno sopportando l’infernale bombardamento di Gaza accetterebbe un rifugio temporaneo solo se venissero fornite garanzie per il loro ritorno alle loro case a Gaza dopo la fine della guerra”, ha scritto lo scrittore palestinese e attivista per i diritti umani Raja Shehadeh. “Questa determinazione dei palestinesi a non permettere a Israele di sfollarli ancora una volta funge anche da freno contro una seconda nakba”.
I funzionari delle Nazioni Unite hanno denunciato l’assalto terroristico di Hamas e hanno chiesto al gruppo di rilasciare immediatamente i numerosi ostaggi rapiti e che ora detiene a Gaza. Ma le atrocità compiute da Hamas “non giustificano i crimini in corso contro la popolazione civile di Gaza, compreso il suo milione di bambini”, ha scritto Philippe Lazzarini, capo dell’UNRWA, in un articolo sul Guardian.
“Negli ultimi 15 anni Gaza è stata descritta come una grande prigione a cielo aperto, con un blocco aereo, marittimo e terrestre che soffoca 2,2 milioni di persone in un raggio di 365 kmq”, ha scritto Lazzarini. “La maggior parte dei giovani non ha mai lasciato Gaza. Oggi questa prigione sta diventando il cimitero di una popolazione intrappolata tra guerra, assedio e privazioni”.
Ishaan Tharoor (con Sammy Westfall)
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Washington Post Ishaan Tharoor (with Sammy Westfall)
26 ottobre 2023
Amid close to three punishing weeks of Israeli airstrikes, a bleak practice has emerged in Gaza. Some parents in the embattled, besieged territory are scrawling the names of their children on the limbs of the little ones. Others are tying makeshift identification bracelets or little colorful pieces of string around their wrists.
There’s a simple, brutal logic: As the Palestinian death toll soars past 7,000 killed, including close to 3,000 children, according to aid agencies, morgues and hospitals are overwhelmed. Muslim clerics have approved mass burials for the unidentified dead, but families hope that clearer markers of identification may prevent that fate for their slain loved ones. “If something happens,” a 40-year-old father told Reuters, “this way I will recognise them.”
It’s unclear when Israel will commence a much-anticipated ground operation into the Gaza Strip as part of its campaign to “eliminate” the Islamist group Hamas, whose grisly Oct. 7 attack on southern Israel marked the single bloodiest day in Israeli history and in the history of the Jewish people since the Holocaust. Israeli officials have made it clear that their current campaign of retribution will irrevocably change the status quo in Gaza, where Hamas has held sway since a 2007 putsch. Invoking the demands of a “mighty vengeance,” Prime Minister Benjamin Netanyahu vowed to lay waste to any part of the territory where Hamas remained entrenched.
The war has plunged the lives of ordinary Palestinians in Gaza into crisis. They have endured 16 years under Israeli blockade, but now find themselves largely without fuel, water, electricity and other basics for survival. Israel unilaterally ordered the evacuation of civilians from northern areas of Gaza for their own safety, but many have died in airstrikes farther to the south.
“When the evacuation routes are bombed, when people north as well as south are caught up in hostilities, when the essentials for survival are lacking, and when there are no assurances for return, people are left with nothing but impossible choices,” Lynn Hastings, the top U.N. humanitarian official for the occupied Palestinian territories, said in a statement, adding that “nowhere is safe in Gaza.”
Some 1.4 million people out of Gaza’s 2.3 million population are now internally displaced. More than 613,000 displaced Gazans are sheltering in 150 facilities operated by the United Nations’ agency for Palestinian refugees, or UNRWA, some of which hold 10 to 12 times more people than their designed capacity. Over the past week, the agency has recorded about 7,000 cases of acute respiratory infections, about 3,000 cases of diarrhea, and hundreds of cases of scabies and lice.
Those conditions are set to grow more dire as fuel stores effectively run out in the territory. With electricity out and backup generators unable to operate without fuel, water pumping and desalination facilities are failing. Many in the territory are drinking dirty or salty water. For many Palestinians in Gaza, when they’re not sheltering from airstrikes, their daily life revolves around lining up for hours in a desperate search for food and safe drinking water.
The humanitarian aid that Israeli authorities have permitted to enter the territory from Egypt is far short of what’s needed. According to analysis by the charity Oxfam, only 2 percent of food supplies normally delivered to Gaza have been allowed in since Oct. 7. “There have been a few trucks that have gotten over the border. That doesn’t mean anything,” Cindy McCain, head of the U.N. World Food Program, told NPR. “We need hundreds of trucks to get across the border to help mitigate what this catastrophe could mean.” She also warned that “there’s going to be disease like nobody’s business unless we get in there.”
On Wednesday, the Palestinian Red Crescentsaid it will run out of fuel to operate its ambulances before the end of the week. Already, more than a third of Gaza’s hospitals and nearly two-thirds of its primary health-care clinics have shut down, either because of the bombardments or a lack of power. The facilities still operating are doing so under considerable duress, with patients strewn across hallways and critical medical supplies dwindling.
“Theatres are full of wounded people. They have to make very difficult decisions about who they treat because they cannot cope with the sheer number of [wounded] people coming,” Abdelkader Hammad, a British surgeon now sheltering in a U.N. facility, told the BBC. “They are running out of medical equipment.”
The options for Gaza’s residents are grim. There’s the daily toil of survival in a rubble-strewn landscape of war, which also includes searches for WiFi signals and phone-charging stations. Families are separating and moving children and relatives to different parts of the territory out of hope that the odds of avoiding airstrikes are better when dispersed. The roads linking Gaza’s north to its south have themselves become death traps, vulnerable to bombings. Many Gaza residents lack the resources to make the journey south or find safe accommodations once they reach it.
The idea of leaving Gaza entirely is all the more fraught: For different reasons, neither Israel nor Egypt is willing to accept hundreds of thousands of refugees. And Palestinians, as well as Arab governments, fear that an exodus from Gaza will mark another loss of land to the Israeli state — another “nakba,” the Arabic term often invoked to describe the “cataclysm” that represented Israel’s founding in 1948 and the expulsion of hundreds of thousands of Palestinians from their native villages.
“An overwhelming majority of those enduring the hellish bombardment in Gaza would accept temporary refuge only if guarantees were provided for their return to their homes in Gaza after the war ends,” wrote Palestinian author and human rights activist Raja Shehadeh. “This determination of Palestinians not to allow Israel to displace them once again also acts as a restraint against a second nakba.”
U.N. officials denounced Hamas’s act of terrorism and called on the group to immediately release the many hostages it abducted and now holds in Gaza. But the atrocities carried out by Hamas do “not justify the ongoing crimes against the civilian population of Gaza, including its 1 million children,” wrote Philippe Lazzarini, UNRWA chief, in a Guardian op-ed.
“Gaza has been described over the last 15 years as a large open-air prison, with an air, sea and land blockade choking 2.2 million people within 365 sq km,” Lazzarini wrote. “Most young people have never left Gaza. Today, this prison is becoming the graveyard of a population trapped between war, siege and deprivation.”
Speciale per Africa ExPress Cornelia I. Toelgyes
28 ottobre 2023
Le due fazioni sudanesi in conflitto dal 15 aprile scorso, si sono nuovamente sedute al tavolo delle trattative a Gedda in Arabia Saudita giovedì scorso, sotto la mediazione di Riyad e Washington. Gli scorsi dialoghi di pace sono stati interrotti all’inizio dell’estate.
Questa volta partecipa anche IGAD (Autorità intergovernativa per lo sviluppo, un’organizzazione internazionale politico-commerciale formata dai Paesi del Corno d’Africa), rappresentata a Gedda dal suo segretario esecutivo, Workneh Gebeyehu, ex ministro degli Esteri etiopico, che ha raggiunto i mediatori statunitensi e sauditi giovedì, sperando che finalmente si possa raggiungere un cessate il fuoco umanitario. Non si sa se al tavolo dei negoziati si siederanno anche altri membri di IGAD, come delegati del Kenya, Gibuti, Sud Sudan, Etiopia e altri.
Mentre i rappresentanti delle parti in causa, le Rapid Support Forces, capeggiate da Mohamed Hamdan Dagalo, meglio noto come Hemetti, da un lato e le forze armate sudanesi (SAF) di Abdel Fattah Abdelrahman al-Burhan, presidente del Consiglio Sovrano e di fatto capo dello Stato, dall’altro, parlano di pace, la guerra infuria nel Paese.
I violenti combattimenti degli ultimi giorni e l’annuncio delle RSF di aver preso Nyala, capoluogo della provincia del Darfur meridionale, mettono fortemente in dubbio le reali intenzioni delle due fazioni belligeranti. Vogliono veramente raggiungere la pace?
Dall’inizio di ottobre, le RSF hanno mobilitato migliaia di combattenti tribali dal Darfur centrale, occidentale e orientale per sostenerli nella conquista di Nyala. Secondo un comunicato rilasciato dai vertici degli ex janjaweed, SAF avrebbe subito imponenti perdite: oltre 2mila soldati ammazzati e parecchi mezzi militari distrutti. Inoltre avrebbero preso possesso di tutto l’equipaggiamento bellico della base delle forze armate nella città.
I morti civili non si contano più. Si parla di oltre 9mila, bilancio certamente sottostimata dalle Nazione Unite, mentre ben più di 5,6 milioni di persone hanno dovuto lasciare le proprie case per fuggire alla furia di bombardamenti e combattimenti. Oltre la metà della popolazione dipende dagli aiuti umanitari.
Tra i fuggiaschi oltre un milione ha cercato protezione nei Paesi limitrofi; purtroppo la loro situazione nei campi per rifugiati è tutt’altro che rosea. Dall’inizio delle ostilità, in aprile, oltre 423.000 sudanesi hanno attraversato il confine con il Ciad, ma le ONG e le agenzie ONU presenti sul posto sono a corto di fondi per far fronte alla terribile emergenza umanitaria. I rifugiati fanno fatica a nutrirsi e all’inizio del mese, secondo quanto ha riportato la BBC, 42 sudanesi sarebbero morti nel Ciad orientale a causa della grave carenza di cibo e acqua potabile e della diffusione di malattie, come la malaria e altre.
Pur di mettere fine alla guerra, anche la società civile e politica sudanese si sta muovendo. Una delegazione di rappresentanti di varie organizzazioni e partiti si sono riuniti questa settimana a Addis Abeba per far pressione sui militari con un progetto politico alternativo credibile. Il comitato preparatorio del Fronte civile per fermare la guerra, che comprende una sessantina di persone, ha scelto come suo leader l’ex primo ministro sudanese Abdallah Hamdok.
Secondo diverse fonti militari sul campo, le RSF controllano la maggior parte della capitale Khartoum e della città gemelle Omdurman e Bahri e continuano a fare breccia nel territorio controllato dall’esercito. Hemetti e i suoi uomini hanno in mano la vasta regione occidentale del Darfur, Nyala nel Sud Darfur e si sono impadroniti anche di gran parte del Kordofan settentrionale, che si trova lungo la principale rotta tra Khartoum e il Darfur, dove le RFS portano rifornimenti da Libia, Ciad e Repubblica Centrafricana.
Tuttavia nove dei 18 stati sudanesi, situati al centro, est e nord del Paese, sono completamente nelle mani del SAF, compreso Port Sudan, il principale porto marittimo, dove si trova anche l’unico aeroporto funzionante per i passeggeri che viaggiano all’estero. L’esercito ha dichiarato Port Sudan come capitale alternativa e molte missioni diplomatiche straniere hanno portato la loro sede nella città.
Le istituzioni governative del Sudan sono controllate dall’esercito, compresi i ministeri delle Finanze e degli Esteri, nonché la Banca Centrale, anche se molti dei principali edifici pubblici del Paese sono in mano ai paramilitari di Hemetti.
A Khartoum, Bahri e Omdurman, le RSF controllano la maggior parte degli edifici governativi e altri luoghi strategici, tra questi la raffineria di petrolio al-Jaili, che dista 70 chilometri dalla capitale, il palazzo presidenziale, l’aeroporto di Khartoum e l’edificio della radiotelevisione di Stato a Omdurman.
Insomma, è evidente che il Paese è diviso, spartito tra i due generali. Entrambe le parti hanno dichiarato l’intenzione di istituire un proprio governo in Sudan – una mossa che ricorda la Libia – con una parte governata dalle Forze Armate Sudanesi (SAF) e un’altra dalle RSF.
Al-Burhan ha minacciato di istituire un gabinetto a Port Sudan. Hemetti ha replicato che un governo a Port Sudan lo spingerebbe a crearne uno rivale nella capitale Khartoum o in un’altra città sotto il controllo dei suoi uomini.
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Speciale per Africa ExPress Sandro Pintus 27 ottobre 2023
“Nessun Paese dovrebbe trovarsi in una situazione in cui l’unica opzione per finanziare le infrastrutture essenziali è quella di vendere il proprio futuro”. Global Gateway significa dare ai Paesi una scelta migliore”.
È la sfida di Ursula von Der Leyen, presidente della Commissione europea alla politica della Cina nel Sud del mondo. È successo al Forum Global Gateway 23 che si è tenuto il 25 e 26 ottobre a Bruxelles.
Trecento miliardi UE e 90 progetti
Al Global Gateway la von der Leyen ha messo sul banco 300 miliardi dal 2023 al 2027 per aiuti ai Paesi più poveri. Si tratta di una novantina di progetti. Una parte del finanziamento andrà anche all’Africa.
I campi di intervento toccano la mobilità sostenibile; la transizione digitale con cavi sottomarini tra Europa e Nord Africa e l’energia pulita. Gli aiuti riguardano anche il miglioramento del sistema sanitario e il rafforzamento dell’istruzione e la formazione oltre che la creazione di posti di lavoro dignitosi.
I mille miliardi della Cina
I 300 miliardi dell’Unione Europea rappresentano meno di un terzo dei fondi cinesi. Il Dragone, per i Paesi che hanno bisogno dei suoi soldi, ha stanziato ben mille miliardi. Secondo l’Unione Europea ci sono promesse di investimento che hanno un “prezzo elevato” per l’ambiente, i diritti dei lavoratori e la sovranità. Anche qui i riferimenti sono diretti al Gigante asiatico.
Secondo gli osservatori la Cina utilizza quella che viene chiamata “diplomazia della trappola del debito”. L’esperienza cinese in Africa evidenzia che costringe i Paesi nei quali è presente a indebitarsi. Con l’aumento del debito che non riescono a pagare aumenta quindi la loro dipendenza da Pechino.
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Anche stavolta si va ai rigori, un déjà vu. Come nel 2017, l’attuale ex pallone d’oro e attuale presidente uscente della Liberia, George Weah e il suo “eterno” antagonista, Joseph Boakai, si “giocheranno” la poltrona presidenziale al ballottaggio, fissato per il 14 novembre.
Nessuno dei due candidati è riuscito ad arrivare alla soglia del 50,1 per cento per evitare un secondo turno. Weah ha superato Boaki con una manciata di preferenze, poco più di 7mila, fermandosi al 43,83 percento, mentre il suo rivale al 43,44.
Il capo della commissione elettorale liberiana (NEC), Davidetta Browne Lansanah, ha confermato i risultati martedì scorso. Le elezioni presidenziali e legislative si sono svolte lo scorso 10 ottobre e la partecipazione al voto è stata del 78,86 per cento dei 2,4 milioni di cittadini iscritti alle liste elettorali.
I candidati in lizza per le presidenziali sono stati 20, ma nessuno degli altri 18 ha superato la soglia del 3 per cento delle preferenze. Ora si ripresenta nuovamente il faccia a faccia della ex stella del calcio George Weah e Joseph Boaki, ex vicepresidente durante il governo di Ellen Johnson-Sirleaf, prima donna ad aver occupato la poltrona più prestigiosa di un Paese del continente africano. Fu eletta nel 2005 per un primo mandato e nel 2011 per un secondo. Perse poi le elezioni nel 2017. Nel 2011 le fu conferito anche il premio Nobel per la Pace.
Ma l’inclusione delle donne in politica è ancor un miraggio anche in Liberia. Tant’è vero che tra i 20 candidati in lizza alle presidenziali c’erano solamente due candidate.
Weah era convinto di vincere al primo turno. Non aveva dubbi, visto che nel 2018 aveva annullato le tasse universitarie degli atenei pubblici per tutti gli studenti. Attualmente il suo governo sta pagando anche le tasse per gli esami di maturità dell’Africa occidentale, per gli studenti del 9° e 12° anno delle scuole pubbliche della Liberia
Inoltre, il governo ha provveduto a diffondere l’accesso alla rete elettrica e ridotto i costi dei consumi. L’amministrazione Weah ha anche avviato diversi progetti di costruzione di strade in tutto il Paese. Ma a quanto pare tutto ciò non è bastato. L’opposizione gli rimprovera che la sua battaglia contro la corruzione endemica nel Paese ha portato pochi frutti. Conferme in tal senso sono arrivate anche da Transparency International, che classifica la Liberia al 126esimo posto su i 180 Paesi compresi nell’indice.
Gli si rimprovera inoltre che il tribunale istituito per giudicare i crimini di guerra commessi durante il conflitto interno (1989 and 2003), durante il quale morirono oltre 250mila persone, non sia ancora operativo. Weah è poi stato criticato per essere stato assente dal Paese per quasi cinquanta giorni alla fine del 2022.
Nonostante la sua grande popolarità tra i giovani, Weah ha deluso molti. Le condizioni di vita dei più svantaggiati non sono migliorate e la corruzione è aumentata sotto la sua presidenza. In questi sei anni di governo l’immagine dell’ex campione di calcio si è un po’ appannata, anche se i suoi sostenitori sostengono che abbia consolidato la pace, dopo la terribile guerra civile. Ma il grande guaio è che ora la sua amministrazione viene associata all’impunità nei casi di corruzione.
Joseph Boakai, ha promesso di migliorare la vita dei più poveri, ma ha stretto alleanze con i baroni locali – in particolare con l’ex signore della guerra, Prince Johnson – che potrebbero giocare a suo sfavore. Johnson, ex generale e oggi senatore, è tristemente famoso per la sua crudeltà dimostrata durante la guerra civile.
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Questo lungo articolo è il frutto di un interessante reportage effettuato
in Israele da uno dei migliori giornalisti investigativi d’Europa.
Purtroppo, la traduzione che pubblichiamo in italiano non rende al meglio
lo spirito dell’articolo e il sentimento che ha animato l’autore.
Alla fine, comunque, trovate il testo in francese.
Consigliamo, per chi può, di leggere la versione originale. Africa ExPress
Dal sito Mediapart** Joseph Confavreux*
Tel Aviv, 19 ottobre 2023
“Piango sempre. Piango ogni giorno. Ma non piango solo per i miei genitori, anche se pochi figli hanno amato i loro genitori quanto me. Piango perché questa guerra deve essere fermata immediatamente, la spirale di sangue e il ciclo di uccisioni devono finire”.
Con la voce rotta ma con le parole chiare, Maoz Inon ha visto la sua vita distrutta il 7 ottobre. Bilha e Yakovi Inon, i suoi genitori settantenni, sono stati bruciati vivi quando i combattenti di Hamas hanno dato fuoco alla piccola casa di legno in cui vivevano nel villaggio di Netiv HaAsara, a pochi passi dal valico di frontiera di Erez, nel nord di Gaza.
“L’unica cosa che mi consola è che sono morti come hanno vissuto: insieme. So per certa una cosa: non avrebbero mai voluto essere vendicati”.
Netiv HaAsara è il comune più vicino al confine di cemento e metallo che circonda Gaza: solo poche centinaia di metri. Ma l’insediamento dista anche solo 60 chilometri da Tel Aviv, tanto è piccola la porzione del territorio dove oggi si gioca parte del futuro del mondo. E quando i suoi genitori si sono stabiliti a Netiv HaAsara, più di trent’anni fa, c’era libertà di movimento tra Gaza e il resto di Israele…
“A quel tempo – continua – i miei genitori vedevano regolarmente amici palestinesi. E molte persone di Gaza venivano a lavorare nei frutteti di Netiv HaAsara. Mio padre aveva stretti legami con i beduini del Negev. Nell’ultima settimana ho ricevuto continuamente messaggi di cordoglio da parte loro”.
Maoz Inon è un imprenditore con una coscienza sociale, nato in una famiglia di operai e agricoltori, che ha co-fondato i tre hotel Abraham a Gerusalemme, Tel Aviv ed Eilat: luoghi che mirano a far conoscere ai viaggiatori non solo i siti turistici del Paese, ma anche le diverse componenti della società israeliana, senza dimenticare la condizione dei palestinesi. Attualmente, i suoi alberghi sono utilizzati dai 500.000 israeliani evacuati dal nord e dal sud del Paese.
Non condivide forse il desiderio di sradicare Hamas dopo quello che ha fatto? “L’unico modo per eliminare Hamas è dare speranza – risponde immediatamente -. La speranza è l’unica arma veramente efficace che abbiamo. E questa speranza può basarsi solo sul principio di una terra condivisa e di una società condivisa: un principio che difendo da 25 anni”.
“Sapete, – continua – non sono un intellettuale, non ho nemmeno il diploma di maturità, ma l’unica cosa che mi impedisce di crollare in questi tempi bui è guardare alla storia. L’attuale rapporto tra Francia e Germania poteva essere immaginato nel 1945? Chi avrebbe pensato che proprio in questo momento gli israeliani avrebbero cercato rifugio a Berlino?”.
Non è necessario porgli una domanda perché continui. “Sento che lei pensa che io sia un ingenuo. Ma non sono ingenuo, anche se credo nel potere dell’ottimismo. La vera ingenuità sta nel pensare che la guerra possa risolvere tutto”.
Come possiamo evitare di “andare verso il peggio”? “Non sono un politico – risponde Maoz -. Ma la cosa urgente è congelare la situazione. Costruiamo una coalizione. Costruiamo una strategia. Ma non aspettiamoci altre morti e sofferenze. Ne abbiamo avute abbastanza da entrambe le parti. Penso che sia possibile per tutti riconoscere il dolore dell’altro e provare pena per l’altro. Credo di essere fedele ai miei genitori nell’implorare il mondo di aiutarci a fare la pace”.
Il campo della pace decimato
Avner Gvaryahou è diventato recentemente direttore di Breaking the Silence, un’organizzazione composta da ex soldati che si oppongono all’occupazione della Cisgiordania e documentano i crimini commessi dai coloni e dall’esercito contro i palestinesi.
Fa una pausa prima di parlare. “Uno dei nostri, Shahar Zemach, membro del Kibbutz Be’eri, è stato ucciso in circostanze atroci il 7 ottobre. Da allora mi sono chiesto cosa lui avrebbe pensato. E non credo che avrebbe voluto vendicarsi. Come molta gente del Sud, era un uomo di pace”.
Molte delle persone massacrate o rapite da Hamas erano attivisti politicamente attivi, non solo contro il governo Netanyahu, ma anche a sostegno del popolo palestinese.
Come Hayim Katzman, che ha testimoniato per Breaking the Silence ed è stato uno dei pochi israeliani impegnati nella difesa di Masafar Yatta, un gruppo di villaggi sulle colline di Hebron i cui abitanti palestinesi sono stati ridotti a vivere in grotte dall’esercito israeliano.
O Vivian Silver, scomparsa e presunto ostaggio. Questa israeliana di origine canadese era una figura importante nel campo della pace israeliano. Volontaria di Road to Recovery, si recava a Gaza più volte alla settimana per raccogliere i palestinesi bisognosi di cure mediche, a partire dalla chemioterapia, e portarli negli ospedali di Tel Aviv e Gerusalemme. Nel 2014, dopo la prima guerra tra Israele e Hamas, ha co-fondato Women Wage Peace, un gruppo di donne della società civile israeliana e palestinese che chiede un accordo di pace.
Il 4 ottobre, tre giorni prima dell’attacco di Hamas, ha organizzato e partecipato a una manifestazione a Gerusalemme che ha riunito un migliaio di donne palestinesi e israeliane per chiedere la pace e spingere affinché le donne prendano posto al tavolo dei negoziati.
“La questione – continua Avner Gvaryahou – è come mantenere la nostra umanità quando sono stati commessi atti disumani. Ovviamente il 7 ottobre ha stravolto tutto. Ma è proprio perché i nostri valori sono stati infranti quel giorno che devono rimanere la nostra bussola. In quest’ottica, è chiaro che non si può ottenere nulla di buono da una risposta meramente militare o basata unicamente sulla forza. La via d’uscita può essere solo politica”.
Come ex soldato, rivendica “il diritto di Israele a difendersi”. “Per non parlare del fatto che oggi tutti noi abbiamo amici e familiari in prima linea – aggiunge -. Ma una volta riconosciuta la portata dei crimini di Hamas, possiamo dire che, in termini di sicurezza, questo governo ha dato priorità ai coloni in Cisgiordania rispetto alla protezione del confine con Gaza”.
Alcune persone in questo governo
vogliono capitalizzare questo momento in cui non abbiamo
ancora finito di piangere i nostri morti”. Avner Gvaryahou, direttore di Breaking the Silence
Molti ricordano che alcuni dei soldati normalmente presenti nei pressi di Gaza sono stati requisiti per proteggere i coloni che volevano organizzare una celebrazione di Sukkot venerdì 6 ottobre a Huwara, una cittadina palestinese vicino a Nablus che dall’inizio dell’anno è diventata l’epicentro delle tensioni in Cisgiordania.
“Su questo punto è essenziale essere perfettamente chiari – continua Avner Gvaryahou -. La responsabilità degli omicidi è degli assassini. E nessun essere umano può giustificare le atrocità commesse. Questo non vuol dire che non ci sia anche una colpa da parte di questo governo, che ha concentrato le sue energie e i nostri soldati nella Cisgiordania occupata”.
Tuttavia, il pericolo, secondo il direttore di Breaking the Silence, è che “alcuni in questo governo vogliono capitalizzare questo momento in cui gli israeliani non hanno ancora finito di identificare, seppellire e piangere i loro morti. Stanno cercando di approfittare dello shock per portare avanti la loro agenda, che è quella di colonizzare sempre di più, di stabilire uno Stato di apartheid dal Giordano al mare, e persino di riconquistare Gaza. Dal 7 ottobre, decine di palestinesi sono stati uccisi in Cisgiordania, persone sono state aggredite e altre espulse dalla loro terra”.
Guy Hirschfeld, uno dei fondatori dell’organizzazioneMistaclim LaKibush Ba’Aynayim (che letteralmente si traduce in “Guardare l’occupazione negli occhi”), ritiene inoltre che “l’estrema destra stia cercando di sfruttare le atrocità del 7 ottobre per promuovere la propria agenda. Dobbiamo capire che siamo di fronte a un governo basato su veri e propri fascisti che credono di avere una missione diretta da Dio. Sono l’immagine speculare di Hamas”.
Ma la sinistra anti-occupazione è stata in grado di guardare Hamas negli occhi o ha trascurato la natura profondamente fondamentalista, violenta e odiosa di questo movimento e la sua pretesa di presentarsi come l’incarnazione della resistenza palestinese anche alternativa all’Autorità Palestinese delegittimata e corrotta?
Per Guy Hirschfeld, “ciò che Hamas ha fatto è disumano. Penso – aggiunge – che i mezzi usati danneggino la causa che dicono di difendere. Ma questo non invalida il fatto che la resistenza armata sia uno degli strumenti a disposizione di chi lotta per la propria libertà e per il proprio Paese. È quello che hanno fatto Menachem Begin e Yithzak Shamir nel 1947 e nel 1948 per permettere la fondazione di Israele”, in riferimento ai due ex primi ministri di Israele che hanno combattuto la presenza britannica in Palestina con le armi in pugno.
Massacri crudeli
Michel Warschawski, figura storica della sinistra israeliana, è sulla stessa lunghezza d’onda: “Hamas non è mai stata la tazza di tè di un progressista, radicale o meno. Ma resta il fatto che si tratta di un’organizzazione di resistenza palestinese, anche se non condividiamo nessuno dei suoi valori. Non è sorprendente che Gaza sia finita per esplodere, date le condizioni in cui i suoi abitanti erano costretti a sopravvivere. È deplorevole che sia stato Hamas a innescare l’esplosione”.
“L’obiettivo di smantellare Hamas – continua – non deve portarci a sprofondare nelle nostre stesse barbarie. A mio avviso, c’è una simmetria tra le barbarie di Hamas e le nostre, poiché anche loro uccidono bambini, donne e civili a centinaia”.
È possibile un parallelo, nonostante la particolare crudeltà dei massacri di Hamas, con corpi smembrati, bambini decapitati e ragazze adolescenti bruciate vive? “Sì, afferma. Siamo un Paese ricco e abbiamo un esercito potente. Questo ci permette di affermare che rimaniamo civilizzati perché agiamo in modo presumibilmente ‘chirurgico’. Ma questo non corrisponde alla realtà di ciò che sta accadendo oggi a Gaza”.
Per gli attivisti anti-occupazione, la cecità nei confronti di Hamas, sia in termini di sottovalutazione delle sue capacità logistiche che di fiducia in una forma di “normalizzazione” politica, non è da imputare a loro, ma al governo.
“Benyamin Netanyahu e Bezalel Smotrich (avvocato e politico israeliano, membro della Knesset, leader del Partito Sionista Religioso di estrema destra. Ministro delle Finanze nel governo Netanyahu, ndr) hanno dichiarato esplicitamente che Hamas a Gaza era un modo per dividere la leadership palestinese e accantonare la prospettiva di uno Stato palestinese, sommando la divisione politica alla separazione geografica tra Gaza e Cisgiordania – aggiunge Avner Gvaryahou -. Hanno lasciato che il Qatar versasse denaro a Gaza e che Hamas gestisse il territorio, ignorando la realtà di questa organizzazione e pensando che la situazione servisse in ultima analisi i loro interessi. Questo è anche il motivo per cui sono incapaci di assumersi la responsabilità di ciò che è accaduto il 7 ottobre”.
“Ho perso mia figlia ma non il mio cervello”. Il padre di una giovane donna uccisa da Hamas
Lo pensa anche Heled Varda, pediatra in pensione che vive a Gerusalemme e membro dell’organizzazione Combattants pour la paix (Combattenti per la pace), che mette in guardia sulle condizioni di vita dei palestinesi nella Cisgiordania occupata, cerca di proteggerli dagli attacchi dei coloni e visita le famiglie di coloro che sono stati aggrediti, feriti o uccisi.
“Netanyahu – spiega – non si è limitato ad assecondare la conquista di Gaza da parte di Hamas, ma ha pensato di usarla per indebolire l’Autorità Palestinese e allontanare qualsiasi prospettiva di creazione di uno Stato palestinese”.
“Questo governo – continua l’autrice -, che faccio fatica a chiamare governo perché è principalmente un gruppo di delinquenti, vuole trasformare la vendetta in una strategia nazionale. È catastrofico. Eppure ho sentito di recente il padre di una giovane donna uccisa da Hamas dire: ‘Ho perso mia figlia ma non il mio cervello’. Dobbiamo trovare un accordo con il nostro nemico, anche se orribile, perché sappiamo che i bombardamenti non cambieranno nulla. Più terroristi uccidiamo in questo modo, più terroristi ci saranno per sostituirli. Abbiamo visto i risultati delle guerre di ‘cambio di regime’ condotte dagli Stati Uniti”.
Questo video è stato trasmesso da varie televisioni di tutto il mondo. Non siamo stati in grado di verificarne l’autenticità. Abbiamo deciso di pubblicarlo lo stesso, avvisando i nostrilettori. Purtroppo in ogni guerra la verità è una delle vittime. Occorre fare grande attenzione: la propaganda è sempre in agguato per uccidere la verità
Il suo rapporto con i palestinesi è stato trasformato dalla sequenza di sangue inaugurata da Hamas il 7 ottobre? “Parliamo ancora molto e le cose vanno bene – spiega la pediatra -. Non riesco nemmeno a contare il numero di messaggi di solidarietà che ho ricevuto dopo i massacri di Hamas. E io dico loro che sono contraria ai bombardamenti su Gaza”.
Tuttavia, sembra che, per citare Arielle Angel, direttrice della rivista Jewish Currents, in un testo forte tradotto nel Club de Mediapart, “Le già complesse e fragili relazioni tra attivisti di sinistra palestinesi ed ebrei, così come tra le correnti all’interno di queste due entità, siano minate dal fatto che fatichiamo a trovare un significato comune alle immagini che ci raggiungono attraverso i nostri schermi. Amici e colleghi di tutte le parti sono feriti dalle reazioni pubbliche con gli altri, o dal loro silenzio”.
“Ho diversi amici di sinistra
che hanno sempre creduto che una pace giusta
fosse l’unica soluzione e che ora pensano
che Gaza debba pagare il prezzo del sangue”. Tomer Avital, attivista per la pace
Anche se molti preferiscono tenere per sé i propri sentimenti, lo shock del 7 ottobre è stato tale da aver provocato profonde fratture. “Ho diversi amici di sinistra che hanno sempre creduto che una pace giusta fosse l’unica soluzione e che ora pensano che Gaza debba pagare il prezzo del sangue. Questo mi rattrista enormemente”, afferma Tomer Avital, giornalista freelance specializzato in corruzione, che ha partecipato a tutte le manifestazioni contro la riforma della Corte Suprema attuata dall’attuale governo.
Tomer ha 40 anni, due figli piccoli ed è preoccupato per il loro futuro. “Anche se l’esercito conquisterà Gaza, cosa faremo dopo? Aspettiamo altri spargimenti di sangue tra cinque anni o tra cinquant’anni? Abbiamo visto che tutta la nostra tecnologia non può proteggerci. L’unico modo per difenderci veramente è fare la pace. Questo conflitto è innanzitutto territoriale prima che religioso. Dobbiamo riuscire a raggiungere un accordo per garantire la sicurezza di entrambi i nostri popoli.
Tomer Avital aveva programmato di girare il mondo per due o tre anni l’anno prossimo con la moglie e i figli. “Ma abbiamo deciso di comune accordo di aspettare. Non possiamo lasciare il Paese in questo stato, perché potremmo non avere un posto dove tornare. Sono estremamente preoccupato che Netanyahu sia al comando in un momento cruciale come questo. Ma ricordo anche che solo cinque anni dopo la guerra dello Yom Kippur del 1973 furono firmati gli accordi di Camp David. Dobbiamo porre fine a questo conflitto una volta per tutte. Non avverrà senza sacrifici, in particolare lo smantellamento degli insediamenti, ma è l’unica soluzione a lungo termine se non voglio che i miei figli si trovino a combattere un’altra guerra con Gaza tra diciotto anni”.
Tutti coloro che rimangono pacifici in un Paese in guerra condividono l’idea che una soluzione politica sia possibile, perché è l’unico modo per pensare a un futuro che non sia così cupo come il presente.
“L’unico modo per indebolire Hamas – sostiene Avner Gvaryahou – è trovare uno sbocco politico diverso da quello che esiste oggi. Dobbiamo iniziare a pensare al giorno dopo. Oggi sono in gioco i destini del popolo palestinese e di quello israeliano”.
I nostri alleati, se fossero veri amici, potrebbero costringere
Israele a porre fine all’occupazione. Guy Hirschfeld, fondatore di “Guardare l’occupazione negli occhi”.
Per Michel Warchawski: “Quando c’è la volontà politica, tutto è possibile nella giusta direzione. Ma abbiamo la sensazione che la società sia ancora divisa tra coloro che sono pronti al compromesso e gli irriducibili. Anche se condivido la sensazione sempre più diffusa che la fine sia vicina per il regime di Netanyahu, già odiato da un’intera parte del Paese per i suoi attacchi alla democrazia e ora criticato da chi lo ritiene inadatto a gestire le questioni di sicurezza e militari”.
Tuttavia, Guy Hirschfeld vede due condizioni necessarie per ribaltare la situazione attuale e trovare una soluzione politica. “In primo luogo i nostri alleati, se fossero veri amici, potrebbero costringere Israele a porre fine all’occupazione. Non siamo un Paese realmente indipendente. Senza il sostegno occidentale, sia esso militare, finanziario o sostenuto dal veto alle Nazioni Unite, Israele non esisterebbe. Come cittadino israeliano, vi chiedo ora di costringerci a venire al tavolo dei negoziati e di impedirci di commettere ulteriori massacri a Gaza. Poi ci vorrà una guerra civile”.
Cosa ci vorrà? La guerra con Hamas non è sufficiente? È una metafora per mobilitare le forze di sinistra per le prossime elezioni? “No, sono serio – continua Guy Hirschfeld -. Siamo di fronte a suprematisti ebrei che hanno fatto del dominio razziale il loro obiettivo. Dovremo combattere se vogliamo che lascino i territori occupati. Per far deragliare il processo di Oslo, che era il momento in cui eravamo più vicini alla pace, non hanno esitato a uccidere il Primo Ministro (L’assassinio del Primo Ministro di Israele e Ministro della Difesa Yitzhak Rabin avvenne il 4 novembre 1995 al termine di una manifestazione in favore del processo di pace e degli Accordi di Oslo. Rabin era osteggiato dalla destra nazionalista e conservatrice e dai leader del Likud che consideravano gli accordi di Oslo come un tentativo di abbandonare i Territori occupati. L’assassinio segnò la fine degli accordi di Oslo, ndr). Oggi queste persone sono al potere. Dobbiamo riprendercelo, e non credo che si possa fare solo con mezzi pacifici”.
Joseph Confavreux*
*Giornalista di France Culture tra il 2000 e il 2011, è entrato a far parte di Mediapart nel maggio 2011. Joseph Confavreux è membro del comitato editoriale della rivista Vacarme, ha coeditato il libro La France invisible (La Découverte, 2006) e ha pubblicato altre due opere, Egypte :histoire, société, culture (La Découverte, 2009), e Passés à l’ennemi, des rangs de l’armée française aux maquis Viet-Minh (Tallandier, 2014). È anche condirettore della Revue du Crieur.
** Mediapart è una prestigiosa rivista online indipendente di investigazione e opinione francese, creata nel 2008 da Edwy Plenel, ex redattore capo di Le Monde. E’ pubblicata in francese, inglese e spagnolo, non ospita nessuna pubblicità per preservare la propria indipendenza dal potere economico e politico. Può essere consultata solo in abbonamento.
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En Israël, les militants anti-occupation
veulent garder le cap malgré la douleur
Ce sont des voix minoritaires mais précieuses. Dans un pays traumatisé par les attaques du Hamas, où l’esprit de revanche, voire de vengeance, anime le sommet de l’État et les profondeurs de la société, les pacifistes tentent encore de se faire entendre.
Du site Mediapart** Joseph Confavreux*
Tel-Aviv (Israël), 19 octobre 2023
« Je pleure tout le temps. Tous les jours. Mais je ne pleure pas seulement pour mes parents, même si peu d’enfants ont autant aimé leurs parents que moi. Je pleure parce qu’il faut arrêter immédiatement cette guerre, cesser la spirale sanguinaire et le cycle des tueries.»
Voix brisée mais propos cristallin, Maoz Inon a vu sa vie partir en miettes le 7 octobre dernier. Bilha et Yakovi Inon, ses parents septuagénaires, sont morts, brûlés vifs, lorsque des combattants du Hamas ont incendié la petite maison de bois où ils vivaient dans le village de Netiv HaAsara, à quelques encablures du poste-frontière d’Erez, au nord de Gaza.
«La seule chose qui m’apporte un peu de consolation, c’est qu’ils sont morts comme ils ont vécu : ensemble. Et la chose dont je suis certain, c’est qu’ils n’auraient en aucun cas voulu être vengés.»
Netiv HaAsara est la municipalité le plus proche de la bordure de béton et de métal entourant Gaza : à peine quelques centaines de mètres. Mais le moshav se situe aussi à seulement 60 kilomètres de Tel-Aviv, tant l’échelle du territoire où se joue aujourd’hui une part de l’avenir du monde est réduite. Et lorsque ses parents se sont installés dans Netiv HaAsara il y a plus d’une trentaine d’années, la circulation entre Gaza et le reste d’Israël était libre…
« À cette époque, poursuit-il, mes parents voyaient régulièrement des amis palestiniens. Et beaucoup de gens de Gaza venaient travailler dans les vergers de Netiv HaAsara. Mon père était très lié avec les Bédouins du Néguev. Depuis une semaine, je n’ai pas cessé de recevoir des messages de condoléances venant d’eux. »
Maoz Inon est un entrepreneur à la fibre sociale, issu d’une famille d’ouvriers et d’agriculteurs, qui a notamment cofondé les trois hôtels Abraham, situés à Jérusalem, Tel-Aviv et Eilat : des lieux qui cherchent à faire découvrir aux voyageurs et voyageuses non seulement les sites touristiques du pays, mais aussi les différentes composantes de la société israélienne, sans oblitérer le sort des Palestinien·nes. En ce moment, ses hôtels sont mis à disposition des 500 000 israélien·nes évacué·es du nord et du sud du pays.
Ne partage-t-il pas, néanmoins, la volonté d’éradiquer le Hamas après ce qu’il a fait ? « Mais la seule manière d’éliminer le Hamas, c’est de donner de l’espoir !, répond-il immédiatement. L’espoir est la seule arme véritablement efficace dont nous disposons. Et cet espoir ne peut se fonder que sur le principe d’une terre et d’une société partagées : un principe que je défends depuis 25 ans. »
« Vous savez, enchaîne-t-il, je ne suis pas un intellectuel, je n’ai même pas le bac, mais la seule chose qui me permet de ne pas m’effondrer dans cette période obscure, c’est de regarder l’histoire. La relation actuelle entre la France et l’Allemagne aurait-elle été seulement imaginable en 1945 ? Qui aurait pu croire qu’en ce moment même des Israéliens aillent trouver refuge à Berlin ? »
Il n’est pas nécessaire de lui poser la question pour qu’il poursuive. « Je sens que vous me trouvez naïf. Mais je ne suis pas naïf, même si je crois à la force de l’optimisme. La vraie naïveté est de penser qu’on va régler quoi que ce soit en faisant la guerre. »
Comment, alors, éviter le « cap au pire » ? « Je ne suis pas un politicien, répond Maoz. Mais l’urgence est de geler la situation. Construisons une coalition. Construisons une stratégie. Mais n’attendons pas davantage de morts et de douleurs. Nous avons suffisamment eu notre lot des deux côtés. Il me semble possible que chacun reconnaisse la peine de l’autre et ait pitié. Je pense être fidèle à mes parents en implorant le monde de nous aider à faire la paix. »
Le camp de la paix décimé
Avner Gvaryahou dirige depuis peu l’organisation Breaking the Silence, composée d’anciens soldats s’opposant à l’occupation de la Cisjordanie et documentant les crimes commis par des colons ou des militaires à l’égard de Palestinien·nes.
Il marque une pause avant de s’exprimer. « Un des nôtres, Shahar Zemach, membre du kibboutz Be’eri, a été assassiné dans des conditions atroces le 7 octobre dernier. Depuis, je réfléchis en tentant de penser à ce que Shahar aurait pensé. Et je ne crois pas qu’il aurait voulu prendre sa revanche. Comme beaucoup de gens du Sud, c’était un homme de paix. »
Parmi les personnes massacrées ou kidnappées par le Hamas, plusieurs étaient des militantes et militants actifs politiquement, non seulement contre le gouvernement Nétanyahou, mais aussi dans le soutien au peuple palestinien.
Tel Hayim Katzman, qui avait témoigné pour Breaking the Silence et faisait partie des rares Israélien·nes engagé·es dans la défense de Masafar Yatta, un ensemble de hameaux situés dans les collines de Hébron dont les habitantes et habitants en sont réduits, à cause de l’armée israélienne, à vivre dans des grottes.
Ou bien Vivian Silver, disparue et présumée otage. Cette Israélienne d’origine canadienne est une figure majeure du camp de la paix en Israël. Bénévole pour Road to Recovery, elle se rendait à Gaza plusieurs fois par semaine pour aller chercher des Palestiniens et Palestiniennes ayant besoin de soins médicaux, à commencer par les chimiothérapies, et les emmener dans des hôpitaux de Tel-Aviv ou de Jérusalem. En 2014, après une première guerre entre Israël et le Hamas, elle avait cofondé Women Wage Peace, un groupe de femmes issues de la société civile israélienne et palestinienne exigeant un accord de paix.
Le 4 octobre, trois jours avant l’attaque du Hamas, elle avait organisé et participé à une manifestation à Jérusalem rassemblant un millier de femmes palestiniennes et israéliennes pour revendiquer la paix et pousser à ce que des femmes prennent place à la table des négociations.
« La question qui se pose, poursuit Avner Gvaryahou, c’est de savoir comment s’accrocher à notre humanité alors que des actes inhumains ont été commis. Il est évident que le 7 octobre a tout bouleversé. Mais c’est précisément parce que nos valeurs ont été éventrées ce jour-là qu’il faut qu’elles restent notre boussole. À cette aune, il est évident que rien de bon ne peut venir d’une réponse simplement militaire ou seulement fondée sur la force. Le débouché ne peut être que politique. »
En tant qu’ancien soldat, il revendique « le droit d’Israël à se défendre ». « Sans même parler du fait que nous avons tous aujourd’hui des amis et des membres de notre famille sur le front, précise-t-il. Mais, une fois reconnue l’ampleur des crimes du Hamas, il est possible de dire que ce gouvernement a, en termes de sécurité, donné la priorité aux colons de Cisjordanie sur la protection de la bordure avec Gaza. »
Certains, dans ce gouvernement,
veulent capitaliser sur ce moment
où nous n’avons même pas fini […]
de pleurer nos morts. Avner Gvaryahou, directeur de Breaking the Silence
Beaucoup rappellent qu’une partie des soldats normalement présents près de Gaza avaient été réquisitionnés pour protéger des colons désireux d’organiser, vendredi 6 octobre, une fête de Souccot à Huwara, bourgade palestinienne proche de Naplouse, devenue l’épicentre des tensions en Cisjordanie depuis le début de l’année.
« Sur ce point, il est fondamental d’être parfaitement clair, poursuit Avner Gvaryahou. La responsabilité des meurtres reste sur les mains des meurtriers. Et tout être doté d’humanité ne peut excuser les atrocités commises. Cela ne veut pas dire qu’il n’y ait pas, aussi, une faute de ce gouvernement, qui a concentré son énergie et nos militaires en Cisjordanie occupée. »
Le danger, juge toutefois le directeur de Breaking the Silence, est que « certains, dans ce gouvernement veulent capitaliser sur ce moment où [les Israéliens n’ont] même pas fini d’identifier, d’enterrer et de pleurer [leurs] morts. Ils cherchent à profiter du choc pour faire avancer leur agenda qui consiste à coloniser toujours plus et établir un État d’apartheid du Jourdain à la mer, voire reconquérir Gaza. Depuis le 7 octobre, il y a eu en Cisjordanie des dizaines de Palestiniens tués, des gens agressés, d’autres expulsés de leur terre ».
Guy Hirschfeld, l’un des fondateurs de l’organisation Mistaclim LaKibush Ba’Aynayim (que l’on peut traduire littéralement par « Regarder l’occupation les yeux dans les yeux »), estime aussi que « l’extrême droite tente d’exploiter les atrocités du 7 octobre pour pousser son agenda ». « Il faut comprendre que nous sommes face à un gouvernement reposant sur d’authentiques fascistes qui se pensent missionnés directement par Dieu. Ils sont le miroir du Hamas. »
La gauche anti-occupation a-t-elle pour autant bien regardé le Hamas les yeux dans les yeux ou a-t-elle pu négliger la nature profondément intégriste, violente et haineuse de ce mouvement au nom du fait que ce dernier se présente comme l’incarnation de la résistance palestinienne face à une Autorité palestinienne délégitimée et corrompue ?
Pour Guy Hirschfeld, « ce qu’a fait le Hamas est inhumain ». « Je pense, précise-t-il, que les moyens employés abîment la cause qu’ils prétendent défendre. Mais cela n’invalide pas le fait que la résistance armée fait partie des outils à disposition des peuples qui se battent pour leur liberté et leur pays. C’est ce qu’ont fait Menahem Begin et Yithzak Shamir en 1947 et 1948 pour permettre la fondation d’Israël », en référence à deux anciens premiers ministres d’Israël ayant combattu les armes à la main la présence anglaise en Palestine.
Cruauté des massacres
Michel Warschawski, figure historique de la gauche israélienne, est sur une longueur d’onde similaire : « Le Hamas n’a jamais été la tasse de thé des progressistes, qu’ils soient radicaux ou non. Mais il n’empêche que c’est une organisation de la résistance palestinienne, même si nous ne partageons aucune de ses valeurs. Il n’est pas surprenant que Gaza ait fini par exploser, au vu des conditions dans lesquelles ses habitants étaient contraints de survivre. Il est regrettable que ce soit le Hamas qui ait déclenché l’explosion. »
« L’objectif de démanteler le Hamas ne doit pas conduire à sombrer dans notre propre barbarie. Or il existe, selon moi, une symétrie entre la barbarie du Hamas et la nôtre, puisqu’on assassine aussi des enfants, des femmes et des civils par centaines. »
Le parallèle est-il possible, en dépit de la cruauté particulière des massacres du Hamas, avec des corps démembrés, des bébés décapités, des adolescentes brûlées vives ? « Oui, assume-t-il. Nous sommes un pays riche et nous possédons une armée puissante. Cela nous permet de prétendre que nous restons civilisés parce que nous agirions de façon prétendument “chirurgicale”. Mais cela ne correspond pas à la réalité de ce qui se passe à Gaza aujourd’hui. »
Pour les militants et militantes anti-occupation, l’aveuglement sur le Hamas, à la fois en termes de sous-estimation de ses capacités logistiques et de croyance en une forme de « normalisation » politique, n’est donc pas à mettre sur leur dos, mais bien sur celui du gouvernement.
« Benyamin Nétanyahou ou Bezalel Smotrich ont explicitement formulé que le Hamas à Gaza permettait de diviser le leadership palestinien et de mettre aux oubliettes la perspective d’un État palestinien en ajoutant la division politique à la séparation géographique entre Gaza et la Cisjordanie, complète Avner Gvaryahou. Ils ont laissé le Qatar déverser de l’argent sur Gaza et le Hamas gérer le territoire en négligeant la réalité de cette organisation et en pensant que la situation servait, in fine, leurs intérêts. C’est aussi pour cela qu’ils sont incapables de prendre leurs responsabilités dans ce qui s’est passé le 7 octobre. »
J’ai perdu ma fille mais pas mon cerveau. Le père d’une jeune femme assassinée par le Hamas
C’est également ce que pense Heled Varda, une pédiatre retraitée vivant à Jérusalem et membre de l’organisation des Combattants pour la paix, qui alerte sur les conditions de vie des Palestinien·nes en Cisjordanie occupée, cherche à les protéger contre les agressions des colons ou visite les familles de celles et ceux qui ont été agressés, blessés ou tués.
« Nétanyahou a fait davantage que s’accommoder de la prise de contrôle du Hamas sur Gaza, il a pensé pouvoir en tirer avantage pour affaiblir l’Autorité palestinienne et faire reculer toute perspective de création d’un État palestinien. »
« Ce gouvernement, poursuit-elle,que j’ai du mal à nommer comme tel puisqu’il s’agit surtout d’une assemblée de voyous, veut ériger la vengeance en stratégie nationale. C’est catastrophique. J’entendais pourtant le père d’une jeune femme assassinée par le Hamas dire récemment : “J’ai perdu ma fille mais pas mon cerveau.” On a besoin de trouver un accord avec notre ennemi, même si celui-ci est horrible, parce qu’on sait que les bombardements ne changeront rien. Plus on tue de terroristes comme cela, plus il y aura de terroristes pour les remplacer. On a bien vu ce qu’ont donné les guerres de “changement de régime” menées par les États-Unis. »
Cette vidéo a été diffusée par différentes chaînes de télévision dans le monde. Nous n’avons pas été en mesure de vérifier son authenticité. Nous avons décidé de la publier quand même, en avertissant nos lecteurs. Malheureusement, dans chaque guerre, la vérité est l’une des victimes. Il faut être très prudent : la propagande est toujours à l’affût pour tuer la vérité.
Ses relations avec les Palestinien·nes ont-elles été transformées par la séquence sanglante inaugurée par le Hamas le 7 octobre ? « On continue d’échanger beaucoup et cela se passe bien, assure Heled Varda. Je ne peux même pas compter le nombre de messages compatissants que j’ai reçus depuis les massacres du Hamas. Et je leur réponds que je suis contre les bombardements sur Gaza. »
Cependant, il semble que, pour le dire comme Arielle Angel, rédactrice en chef de la revue Jewish Currents, dans un texte fort traduit dans le Club de Mediapart, « les relations déjà complexes et fragiles entre les militant·es palestinien·nes et juif·ves de gauche – ainsi qu’entre courants au sein de ces deux entités – sont ébranlées par le fait que nous peinons à trouver une signification commune aux images qui nous parviennent via nos écrans. Des ami·es et des collègues de tous bords sont blessés par les réactions publiques des un·es et des autres, ou par leur silence ».
J’ai plusieurs amis de gauche qui ont toujours cru
qu’une paix juste était la seule solution et qui pensent maintenant
qu’il faut que Gaza paie le prix du sang. Tomer Avital, militant pacifiste
Même si beaucoup préfèrent les mettre en sourdine, le choc du 7 octobre a été tel que l’on reconnaît que des fractures se sont ouvertes. « J’ai plusieurs amis de gauche qui ont toujours cru qu’une paix juste était la seule solution et qui pensent maintenant qu’il faut que Gaza paie le prix du sang. Cela m’attriste énormément », dit Tomer Avital, un journaliste indépendant spécialisé dans les affaires de corruption qui a été de toutes les manifestations contre la réforme de la Cour suprême mise en œuvre par le gouvernement actuel.
Tomer a 40 ans, deux jeunes enfants et s’inquiète pour leur avenir. « Même si l’armée conquiert Gaza, qu’est-ce qu’on fait après ? On attend qu’un nouveau carnage se reproduise dans cinq ans ou dans cinquante ans ? On a vu que toute notre technologie ne pouvait pas nous protéger. La seule manière de nous défendre vraiment, c’est en faisant la paix. Ce conflit est d’abord territorial avant d’être religieux. On doit pouvoir trouver un accord pour assurer la sécurité de nos deux peuples. »
Tomer Avital avait prévu de partir l’an prochain faire un tour du monde de deux ou trois ans avec sa femme et ses enfants.« Mais on s’est mis d’accord entre nous pour attendre. On ne peut pas laisser le pays dans cet état, on risquerait de ne plus avoir d’endroit où rentrer. Je suis extrêmement inquiet que ce soit Nétanyahou qui soit aux commandes dans un moment aussi charnière que celui que nous vivons. Mais je me rappelle aussi que, cinq ans seulement après la guerre du Kippour de 1973, il y a eu les accords de Camp David. Il faut en terminer une fois pour toutes avec ce conflit. Cela ne se fera pas sans sacrifices, notamment le démantèlement des colonies, mais c’est la seule solution de long terme si je ne veux pas que, dans dix-huit ans, mes enfants se retrouvent à faire une nouvelle guerre avec Gaza. »
Toutes celles et ceux qui restent pacifiques dans un pays en guerre se retrouvent sur l’idée qu’une solution politique est possible, parce qu’elle seule permet de penser un avenir qui ne soit pas aussi sombre que le présent.
« La seule façon d’affaiblir le Hamas, juge ainsi Avner Gvaryahou, c’est de trouver un débouché politique différent de tout ce qui existe aujourd’hui. Nous devons dès maintenant penser au jour d’après. Ce sont les destins du peuple palestinien comme du peuple israélien qui sont aujourd’hui en jeu. »
Nos alliés, s’ils étaient de vrais amis,
pourraient obliger Israël
à mettre fin à l’occupation. Guy Hirschfeld, fondateur de Looking Occupation in the Eye
Pour Michel Warchawski,« quand il y a de la volonté politique, tout est possible, même dans le bon sens ». « Mais on sent que la société reste clivée entre celles et ceux qui sont prêts à un compromis et les jusqu’au-boutistes. Même si je partage le sentiment de plus en plus répandu que c’est bientôt la fin du régime Nétanyahou, qui était déjà détesté par toute une partie du pays pour ses attaques contre la démocratie et qui est maintenant critiqué par ceux qui le jugent inapte sur les questions sécuritaires et militaires ».
Guy Hirschfeld voit toutefois deux conditions nécessaires au renversement de la situation actuelle et à l’avènement d’une solution politique. « [D’abord], nos alliés, s’ils étaient de vrais amis, pourraient obliger Israël à mettre fin à l’occupation. Nous ne sommes pas vraiment un pays indépendant. Sans le soutien de l’Occident, qu’il soit militaire, financier ou appuyé sur le veto de l’ONU, Israël n’existerait pas. En tant que citoyen israélien, j’exige désormais que vous nous obligiez à nous mettre autour de la table de négociation et que vous nous empêchiez de commettre de nouveaux massacres à Gaza. »
Ensuite, « il faudra une guerre civile ». Quoi ? La guerre avec le Hamas ne suffit pas ? Il s’agit d’une métaphore pour parler de la mobilisation des forces de gauche pour les prochaines élections ? « Non, je suis sérieux, poursuit Guy Hirschfeld. Nous sommes face à des suprémacistes juifs qui ont fait de la domination raciale leur objectif. Nous devrons nous battre si nous voulons qu’ils quittent les territoires occupés. Pour faire dérailler le processus d’Oslo, qui est le moment où nous étions le plus proche d’une paix, ils n’ont pas hésité à tuer le premier ministre. Aujourd’hui, ces gens sont au pouvoir. Nous devons leur reprendre le pouvoir, et je ne pense pas que cela puisse se faire uniquement par des moyens pacifiques. »
Joseph Confavreux*
*Journaliste à France Culture entre 2000 et 2011, il a rejoint Mediapart en mai 2011. Joseph Confavreux est membre du comité de rédaction de la revue Vacarme, a codirigé le livre La France invisible (La Découverte, 2006) et a publié deux autres ouvrages, Egypte :histoire, société, culture (La Découverte, 2009), et Passés à l’ennemi, des rangs de l’armée française aux maquis Viet-Minh (Tallandier, 2014). Il est aussi co-rédacteur en chef de la Revue du Crieur.
** Mediapart est un prestigieux magazine français indépendant d’investigation et d’opinion en ligne, créé en 2008 par Edwy Plenel, ancien rédacteur en chef du Monde. Il est publié en français, anglais et espagnol et n’accueille aucune publicité afin de préserver son indépendance vis-à-vis des pouvoirs économiques et politiques. Il n’est consultable que sur abonnement.
Speciale per Africa ExPress Federica Iezzi
24 ottobre 2023
Medici Senza Frontiere ha sospeso tutte le attività chirurgiche nel Bashair Teaching Hospital a Khartoum, in Sudan. La decisione è stata estremamente difficile e fa seguito al blocco completo nel trasporto e nella consegna di materiale sanitario, indispensabile per consentire la continuità delle attività chirurgiche.
Il cargo con le forniture chirurgiche è fermo da almeno un mese nella città di Wad Madani, sede di deposito dell’organizzazione. E le autorità militari sudanesi non ne permettono il movimento.
Da metà maggio, il pronto soccorso dell’ospedale ha trattato quasi 5.000 pazienti e l’equipe chirurgica ha eseguito più di 3.000 interventi. Il Bashair Teaching Hospital è una delle poche strutture sanitarie funzionanti a Khartoum: offre cure chirurgiche gratuite d’urgenza alla popolazione civile.
MSF sostiene anche il dipartimento chirurgico del Turkish Hospitala Khartoum, anch’esso interessato dal blocco. Si prevede un esaurimento delle scorte entro due settimane.
Entrambi gli ospedali sono situati nella zona suddella capitale sudanese, area sotto il controllo delle Forze di Supporto Rapido (RSF). Chiamato “The Black Belt”, il distretto sud di Hai Mayo, a Khartoum, rappresenta una zona di sobborghi e campi profughi che storicamente ospita sfollati del Darfur e rifugiati di Sud Sudan e Repubblica Democratica del Congo.[https://storymaps.arcgis.com/stories/e63a4a94c90a45109f11c05ed5b4b5b6]
Al momento MSF, una delle poche realtà rimaste operative in Sudan, continua a supportare cure materno-infantili, attività di emergenze e attività ambulatoriali presso il Bashair Teaching Hospital. L’organizzazione è pronta a riprendere le attività chirurgiche una volta ripristinate le linee di rifornimento.
Restrizioni agli spostamenti del personale sanitario, rifiuto di visti e permessi di viaggio, ritardi o interruzioni nel trasporto di forniture mediche e divieto nel trasporto di forniture chirurgiche sono solo alcuni esempi di quello che le autorità militari sudanesi impongono dall’inizio di settembre, per gli ospedali nel sud di Khartoum.
Già una settimana fa la ONG ha chiesto alle autorità sudanesi di accantonare ogni ostacolo amministrativo e burocratico, per permettere una valida risposta umanitaria e per evitare un impatto devastante sulle vite di migliaia di civili che necessitano di assistenza sanitaria d’urgenza.
La situazione a Khartoum rimane tesa. Di fatto, il disegno è quello di un assedio, poiché continuano pesanti combattimenti, con la quasi totalità della città controllata dalle Rapid Support Forces (RSF) e il governo blocca l’arrivo della maggior parte degli aiuti.
Nonostante i numerosi appelli, quello delle restrizioni nei movimenti a persone e materiale è un problema che l’organizzazione internazionale è stata costretta ad affrontare sin dalle prime settimane di attività, dall’inizio del conflitto armato in Sudan.
Medici Senza Frontiere è presente in Sudan dal 1979 e attualmente opera in 10 stati.
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Speciale per Africa ExPress Cornelia I. Toelgyes
23 ottobre 2023
Le draconiane leggi anti LGBTQIA+, mettono tutti d’accordo in Nigeria, sia cristiani che musulmani. Promulgata nel 2014 sotto il governo di Goodluck Jonathan, criminalizza unioni e relazioni dello stesso sesso e prevede oltre 14 anni di galera.
E sabato sono stati arrestati nuovamente ben 76 giovani (59 uomini e 17 ragazze) nel Gombe State, nel nord-est della Nigeria. Uno dei giovani aveva organizzato una festa di compleanno e durante l’evento avrebbe dovuto unirsi in matrimonio con il suo compagno. Ma la festa, tenutasi al Duwa Plaza (un grande edificio che comprende anche un shopping-center) che si trova lungo l’autostrada Bauchi-Gombe, è stata interrotta con l’arrivo del Corpo di sicurezza difesa civile nigeriano (NSCDC), un’organizzazione paramilitare che dipende direttamente dal ministero degli Interni.
Secondo quanto riferito Buhari Sa’ad, responsabile delle relazioni pubbliche del Gombe State, tra gli arrestati 21 uomini avrebbero confessato di essere gay.
In agosto, la polizia ha arrestato più di duecento uomini in circostanze simili nel Delta State, nel sud-est della Nigeria. Allora un portavoce delle forze dell’ordine aveva dichiarato: “Si tratta di un evento perverso, non possiamo copiare il mondo occidentale, siamo in Nigeria, dobbiamo seguire la cultura del nostro Paese”.
A tutta risposta Amnesty Nigeria ha definito l’operazione di polizia dello scorso agosto come una caccia alle streghe, chiedendo l’immediato rilascio degli arrestati, che sono stati mostrati pubblicamente ai media. Pare però che alcune delle persone presenti a tale evento non fossero gay. Parecchi hanno dichiarato ai giornalisti di essere modelli o fashion designer.
L’organizzazione per la Difesa dei diritti umani ha poi aggiunto: “E’ inaccettabile che in una società dove la corruzione è dilagante, la draconiana legge che vieta le relazioni tra lo stesso sesso, venga utilizzata sempre più spesso per molestie, estorsioni e ricatti da parte delle forze dell’ordine e di funzionari pubblici”.
Siamo tornati al periodo dell’Inquisizione in molti Paesi africani. Inquisizione in chiave moderna, i risultati saranno forse anche peggiori.
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