Speciale per Africa ExPress Alessandra Fava
20 novembre 2023
Alla Corte Penale Internazionale con sede all’Aia, stanno arrivando diversi ricorsi per le morti di civili a Gaza: il reato individuato è quello di genocidio. Ad oggi, secondo Hamas, le vittime sono 11.245 e l’intelligence Usa ha giudicato le cifre fornite credibili.
Un ricorso arriva da tre organizzazioni non governative palestinesi: il Centro palestinese per i diritti dell’uomo (PCHR), Al Haq e il Centro per diritti umani Al Mezan che negli anni scorsi avevano già presentato denunce alla Corte sugli attacchi subiti a Gaza dai civili. Le tre ong ora sono rappresentate dall’avvocato parigino Emanuel Daoud.
Doud, del foro di Parigi e abilitato ai ricorsi alla CPI (dove difende anche gli ucraini dalle violenze dei russi) nel ricorso su Gaza, depositato l’8 novembre scorso, scrive che l’assedio uccide le persone, che vengono lanciate bombe chimiche su Gaza e non solo, che i bombardamenti sono stati continui, che la popolazione civile è sotto assedio – senza acqua, cibo e elettricità – e viene spostata da una zona a un’altra.
Ma soprattutto sostiene che le dichiarazioni dei vertici militari e politici israeliani sono prive di qualsiasi umanità e le violenze si stanno svolgendo nella “perfetta consapevolezza dell’apparato politico, amministrativo e militare che ignora le pressioni internazionali”.
L’avvocato Daoud mette nero su bianco che ci sono elementi per sospettare un genocidio, l’istigazione al genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità.
Nell’appello la Corte è invitata a considerare anche “il contesto di occupazione prolungata dei territori palestinesi da parte di Israele, vedi la Cisgiordania, compresa Gerusalemme est e la Striscia di Gaza, e la prosecuzione di un regime discriminatorio di apartheid che mantiene la dominazione dello stato di Israele sul popolo palestinese da oltre 75 anni”.
Anche la sede di PCHR (Palestinian Centre for Human Rights ndr) e quella di Al Mezan sono sparite sotto le bombe. PHCR si trovava a Gaza City e infatti le notizie sul sito https://pchrgaza.org/en/ sono ferme all’11 ottobre. La terza ONG, Al Haq, invece si trova a Ramallah https://www.alhaq.org/about-alhaq/7136.html e continua le sue pubblicazioni.
Le tre Ong palestinesi nel ricorso chiedono un mandato di arresto immediato per i sospettati di crimini contro l’umanità: il presidente di Israele, Isaac Herzog, il primo ministro, Benyamin Netanyahu, il ministro della difesa Yoav Gallant, per i tre ministri senza portafoglio, membri del gabinetto di guerra Benny Gantz, Gadi Eisenkot e Rom Dermer e infine, per il coordinatore delle operazioni nei Territori, il generale Ghassan Alian.
Il procuratore della Corte dell’Aja, Karim Khan, messo sotto pressione dalla violenza della guerra è andato sul posto. Sul posto per modo di dire: dall’Egitto è riuscito ad arrivare al varco di Rafah, nel sud della Striscia il 29 ottobre scorso, senza poter entrare nella Striscia. Al confine ha visto centinaia di camion di aiuti fermi alla frontiera tra Egitto e Gaza. Era la fine di ottobre.
Dal Cairo Khan diceva che “non ci dovrebbero essere impedimenti per gli aiuti umanitari diretti a bambini, donne, uomini e civili. Sono innocenti, hanno dei diritti in base alle regole umanitarie internazionali. Sono diritti che fanno parte della Convenzione di Ginevra. La loro violazione può comportare responsabilità penali in quanto questi diritti sono violati in base allo Statuto di Roma”.
Un altro ricorso è stato appena presentato alla Corte dell’Aja da 300 avvocati rappresentati da Gilles Devers del foro di Lione e dagli avvocati Khaled Al Shouli della Giordania, e Abdelmadjid Mrari del Marocco. Non è la prima volta che Devers si occupa di Palestina, in passato ha difeso anche l’Autorità palestinese e presentato un ricorso per l’attacco a Gaza del 2008-2009 e poi un secondo per l’attacco del 2014.
Questa volta Devers e i suoi 300 colleghi raccolgono la richiesta di duecento ONG e sindacati europei, tra cui le Donne in nero, e di diverse realtà in giro per il mondo (Canada, Brasile, Australia). Nel ricorso i legali sottolineato come l’azione di Israele a Gaza non rientri nel principio di legittima difesa in quanto Hamas non rappresenta uno Stato ed elencano elementi dell’assedio, del genocidio nelle parole di diversi politici e religiosi israeliani riportando le frasi testuali sui media.
Sul “Crimine di genocidio” sottolineano come lo Statuto di Roma all’articolo 6 lo definisca “intento di distruggere in tutto o in parte un gruppo nazionale, etnico, religioso uccidendo membri del gruppo, mettendo a rischio l’integrità fisica e mentale di membri del gruppo o sottomettendo il gruppo a condizioni di esistenza che portano alla sua distruzione fisica totale o parziale”.
“I dirigenti israeliani, in ogni tempo, non hanno mai preso in considerazione il diritto all’auto-determinazione del popolo palestinese sulla sua terra – si legge nel testo – La ragione d’essere dello Stato, che si caratterizza come Stato ebraico, è l’eliminazione del popolo palestinese che deve essere estirpato dalle sue terre, perché tutto appartiene a Israele, secondi i suoi dirigenti”. (testo integrale https://ismfrance.org/wp-content/uploads/2023/11/231108-CPI-plainte-Genocide.pdf)
“Quella di Gaza non è semplicemente un’operazione militare – ha detto l’avvocato Devers in una conferenza stampa all’Aia, con accanto colleghi e attivisti – sembra sempre di più un genocidio. Il genocidio non è una teoria o una filosofia, si tratta di quello che dice la giurisprudenza internazionale”.
Gli avvocati francesi sostengono che la presentazione del ricorso alla Corte “è un atto politico”, perché sanno che mentre l’Autorità palestinese ha aderito alla Corte, Israele non la riconosce. Inoltre Israele ha firmato il trattato di Roma senza ratificarlo. Gli avvocati stanno procedendo alla raccolta delle testimonianze dei palestinesi sopravvissuti a Gaza. Per ora hanno le testimonianze di cinque familiari che attestano la distruzione di un immobile nel campo profughi di Nuseirat nel centro della Striscia il 3 novembre che ha causato 29 morti. Prima delle bombe, l’esercito israeliano non avrebbe lanciato nessun avviso.
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Dal Nostro Corrispondente Michael Backbone
Nairobi, 19 novembre 2023
William Ruto, è stato eletto presidente del Kenya nell’agosto dello scorso anno. La sua agenda politica, fortemente incentrata su un populismo economico chiamato “bottom-up”, intende favorire la base della piramide socioeconomica del Paese rialzando il loro benessere con misure sociali ad alto impatto, come l’edilizia popolare, la protezione universale della salute, l’accesso al mercato del lavoro.
Come ogni subentrante, anche Ruto si è dovuto confrontare con gli scheletri lasciati dai suoi predecessori, il più “voluminoso” tra tutti il rimborso del primo Eurobond contratto nel 2014 sotto la prima presidenza Kenyatta figlio, per un valore di 2 miliardi di dollari.
L’emissione di questa obbligazione del Paese, dunque sovrana, è stata sottoscritta da investitori istituzionali e privati di tutto il mondo.
Il Kenya in seguito ha emesso altri eurobond: nel 2019, 2021 e 2023. L’emissione più recente, del valore di 300 milioni di dollari, sarà collocata a dicembre 2023.
Il Kenya utilizza gli eurobond per finanziare progetti di sviluppo infrastrutturale, come strade, ferrovie e impianti di energia, ma ovviamente una quota di queste emissioni viene accantonata per rimborsare prestiti contratti precedentemente.
Ecco una tabella che riassume le emissioni di eurobond del Kenya:
Emissione
Data
Importo
Kenya 24
24 giugno 2014
2 miliardi di dollari
Kenya 27
22 maggio 2019
900 milioni di dollari
Kenya 28
28 febbraio 2018
1 miliardo di dollari
Kenya 32
22 maggio 2019
1,2 miliardi di dollari
Kenya 34
23 giugno 2021
1 miliardo di dollari
Kenya 48
28 febbraio 2018
1 miliardo di dollari
Kenya 50
10 novembre 2023
300 milioni di dollari
Come si può vedere, si tratta di emissioni ripetute che aiutano lo sviluppo del prodotto interno lordo, oggi assestato a prezzi correnti attorno ai 26 miliardi di dollari.
Rimane innegabile che la tentazione di ricorrere alle emissioni obbligazionarie per compensare il deficit del Paese è forte; tuttavia, anche ammettendo che una percentuale del debito sia stata finanziata e rimessa con queste emissioni, è altrettanto vero che il Fondo Monetario Internazionale vigila affinché l’equilibrio tra rimborso del debito e investimenti produttivi sia mantenuto al disopra della decenza economica.
Da circa sei mesi il dibattito nel Paese oscilla tra disfattisti e ottimisti, ossia coloro i quali vedono il Kenya dirigersi verso il default su un’obbligazione sovrana creando un effetto spirale, e gli altri, Presidente in testa, pervicacemente ostinati nell’affermare che il debito sarebbe stato onorato.
Per fare ciò, la strategia messa in atto dal ministro delle Finanze, Njuguna Ndung’u (economista, ex Governatore della Banca Centrale e professore all’università di Nairobi) è stata quella di intavolare un negoziato volto ad anticipare il rimborso tramite un piano di riacquisto del debito, scontando al passaggio qualche punto percentuale sull’interesse. Un approccio chiamato “buyback”, ossia il riacquisto di parte dei propri impegni finanziari, come spesso accade per le società per azioni.
Così ha fatto il Tesoro keniota, ricomprando una quota della prima emissione, la cui scadenza naturale è luglio del 2024.
L’altro giorno il presidente nel discorso alle Camere sul consuntivo del suo primo anno di mandato, ha annunciato che il Kenya terrà fede agli impegni assunti ripagando la prima di queste tranches per arrivare al saldo in anticipo sulla scadenza naturale.
Al tempo della prima emissione, il clima economico mondiale era molto più ottimista di adesso e i tassi di interesse ne riflettevano la situazione; tuttavia, il rimborso di questa tranche viene anche sostenuto tramite l’emissione di nuovo indebitamento, alimentando una spirale dalla quale sarà molto difficile districarsi.
A ciò si aggiunge che lo scellino keniota ha perso circa il 30 per cento del proprio valore contro dollaro e euro da quando Ruto è stato eletto nel 2022 confermando la dipendenza del Paese dall’estero e frustrando la crescita e lo sviluppo.
A titolo di esempio, per ogni tre container di merce importata dal Kenya, a malapena l’equivalente di uno viene esportato, spesso con prodotti di base dell’agricoltura non trasformati.
Lo Stato ha da par suo provveduto negli ultimi sei mesi a strutturare una politica fiscale più incisiva, spremendo il contribuente tramite leve di primo impatto sui consumi, quali il prezzo dei carburanti, non più sussidiato, che ha quasi raggiunto ormai gli standard europei.
Se l’attendibilità finanziaria internazionale del Paese è stata per adesso salvaguardata, bisogna attendere l’esito delle prossime stangate che cadranno sulla testa dei cittadini e degli imprenditori locali per misurare il grado di accettazione del sacrificio che attende il popolo prima della fine dell’anno.
Il test più duro non è quello di onorare anticipatamente la scadenza del debito, ma soprattutto vedere come l’elettorato vivrà gli aumenti incombenti, necessari per compensare, almeno in parte, il debito contratto internazionalmente, di cui il Paese ha ancora disperato bisogno. Il cerino acceso adesso è passato al prossimo nella coda cioè gli elettori,, con buona pace degli investitori istituzionali. Può darsi vi siano reazioni se martedì la benzina passerà a 300 scellini kenioti/litro. Ma proprio stamattina il governo ha smentito: la benzina adesso non sarà aumentata per i prossimi sei mesi. Ma qui a Nairobi nessuno ci crede.
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da New York Times Eric Schmitt, Ronen Bergman e Adam Goldman*
18 novembre 2023
L’attacco da parte dell’esercito israeliano all’ospedale Al-Shifa, il più grande complesso medico di Gaza, è centrale nella strategia militare alla base dell’invasione di terra: sradicare Hamas e liberare i circa 240 ostaggi presi durante l’attacco a sorpresa del 7 ottobre.
Questa strategia si è sviluppata nelle ultime tre settimane, quando più di 40.000 soldati israeliani hanno circondato Gaza City, dove secondo i funzionari israeliani si sono concentrati i comandanti di Hamas. I soldati hanno poi attaccato i combattenti e i bunker, prendendo di mira una vasta rete di tunnel che, secondo i funzionari israeliani, consente alle forze di Hamas di nascondersi e di condurre le operazioni militari.
Gli ufficiali israeliani hanno anche valutato che colpire così a fondo nel cuore di Gaza City avrebbe fatto pressione su Hamas per raggiungere un accordo sul rilascio degli ostaggi.
Israele accusa da tempo Hamas di usare i civili come scudi umani nella Striscia di Gaza, densamente popolata, e afferma che il gruppo terroristico ha posizionato strutture militari sotterranee vicino a case, scuole, moschee e ospedali in tutta Gaza. Al-Shifa è diventato il reperto A di questa narrazione, poiché l’esercito israeliano ha affermato che Hamas ha usato un vasto labirinto di tunnel sotto l’ospedale come base. Finora non è chiaro se la strategia israeliana stia funzionando.
I funzionari militari statunitensi hanno dichiarato che le loro controparti israeliane hanno detto loro di aspettarsi altre settimane di operazioni di sgombero nel nord prima che Israele prepari un’iniziativa separata nel sud di Gaza, ampliando l’offensiva.
Il portavoce capo dell’esercito israeliano, il contrammiraglio Daniel Hagari, ha dichiarato venerdì scorso che le truppe israeliane continueranno l’offensiva “in ogni luogo in cui si trova Hamas, ed è nel sud della Striscia”.
Anche se il ministro della Difesa israeliano, Yoav Gallant, ha dichiarato in un video di lunedì che Israele ha “accelerato le nostre attività contro i tunnel” e che i militanti di Hamas hanno perso il controllo nel nord e stanno fuggendo verso sud, gli analisti militari hanno detto che le dichiarazioni di Gallant sollevano molte domande.
Come sarà possibile eliminare Hamas se i suoi combattenti si mescolano al resto della popolazione mentre si dirigono verso sud? Per quanto tempo Israele, che ha perso circa 1.200 persone nelle atrocità del 7 ottobre, potrà sostenere le crescenti pressioni internazionali per un cessate il fuoco mentre le vittime civili a Gaza aumentano? E soprattutto, Al-Shifa era un obiettivo militare abbastanza importante da essere razziato?
Israele attribuisce la colpa delle morti civili – 11.000, secondo il ministero della Sanità di Gaza – in parte alla decisione di Hamas di nascondere le sue fortificazioni militari e i suoi centri di comando in quartieri residenziali e ospedali come Al-Shifa.
Ma i funzionari statunitensi hanno detto che la rapida decisione di Israele di lanciare operazioni di terra nell’enclave ha lasciato ai comandanti israeliani poco tempo per un’ampia pianificazione per ridurre i rischi per i civili e ha garantito un alto numero di vittime civili.
L’ospedale è diventato un particolare punto di infiammabilità. I militari devono ancora presentare pubblicamente le prove di un’estesa rete di tunnel e di un centro di comando sotto Al-Shifa, e Israele sta subendo crescenti pressioni internazionali per dimostrare che l’ospedale era un obiettivo militare critico.
Venerdì, i funzionari militari israeliani hanno dichiarato che la ricerca dell’ospedale richiederà tempo a causa del rischio di incontrare membri di Hamas e trappole esplosive, e che dovranno utilizzare cani e ingegneri da combattimento. Le forze israeliane stanno avanzando lentamente e attualmente controllano solo una parte del sito dell’ospedale, secondo tre ufficiali israeliani. Hanno anche evitato di entrare in un pozzo scoperto lì.
Ma l’esercito sostiene di avere già le prove dell’esistenza di almeno una parte di un complesso di tunnel sotterranei sotto l’ospedale. Un video, che un funzionario israeliano ha detto essere stato filmato da una telecamera calata nel pozzo dalle truppe venerdì, e che è stato esaminato dal New York Times, indica che si tratta di un tunnel artificiale, con almeno una corsia abbastanza larga per il passaggio di persone. Il tunnel sembra essere lungo almeno 15 metri e alla fine di esso c’è una porta che, secondo il funzionario, è fortificata per resistere agli esplosivi. Il video mostra che la porta ha un piccolo oblò che, secondo il funzionario israeliano, permette di sparare a senso unico dall’altro lato della porta verso il tunnel.
Prendere di mira l’ospedale Al-Shifa “non è stato il risultato di una strategia”, ha dichiarato Giora Eiland, generale maggiore in pensione delle Forze di Difesa israeliane ed ex capo del Consiglio di Sicurezza Nazionale israeliano. “Si tratta piuttosto di un’importante manovra tattica” nel tentativo di Israele di controllare la narrativa su Hamas.
Mentre i comandanti di Hamas potevano trovarsi sotto Al-Shifa all’inizio della guerra, ha detto Eiland, la maggior parte di loro è stata evacuata a sud. Di conseguenza, ha detto, Israele dovrà evacuare i civili e colpire le brigate di Hamas nelle prossime settimane e mesi. Eiland ha previsto che questo potrebbe essere complicato dalla comunità internazionale che sta perdendo la pazienza con Israele.
Yagil Levy, esperto dell’esercito israeliano, ha affermato che l’attacco ad Al-Shifa è stato “una dimostrazione di potenza e di forza piuttosto che parte di una chiara strategia”. Così facendo, secondo Levy, Israele potrebbe aver messo a repentaglio la vita degli ostaggi.
“L’esercito non ha preso in reale considerazione il futuro o la sicurezza degli ostaggi entrando ad Al-Shifa”, ha detto il dottor Levy. Il ritrovamento di due cadaveri vicino all’ospedale di Al-Shifa è stato un chiaro segno che “stiamo perdendo ostaggi ritardando lo scambio di prigionieri”.
Il generale Kenneth F. McKenzie Jr., capo in pensione del Comando centrale dell’esercito statunitense, ha affermato che l’esercito israeliano ha raggiunto alcuni dei suoi obiettivi, come la soppressione del lancio di razzi di Hamas verso Israele e la riduzione dei rischi per le proprie truppe. Più di 55 soldati israeliani sono morti nell’operazione di terra, un’indicazione del fatto che l’esercito israeliano si sta muovendo con cautela sul terreno mentre gli aerei da guerra e l’artiglieria colpiscono gli obiettivi.
Ma il generale McKenzie ha detto che non è ancora chiaro quanti alti dirigenti di Hamas siano stati uccisi dall’esercito israeliano. Finora, la decisione di Israele di ridurre in macerie parti di Gaza e di uccidere più di 1.000 combattenti di Hamas non ha garantito un accordo importante per il rilascio dei circa 240 ostaggi, molti dei quali nascosti nella vasta rete di tunnel.
Israele ha iniziato l’invasione di terra dopo che gli uomini armati di Hamas e della Jihad islamica palestinese si sono scatenati nel sud di Israele il 7 ottobre, uccidendo donne, bambini, neonati e anziani. Le autorità israeliane stanno indagando su denunce di stupro e altre brutalità.
I combattenti di Hamas hanno usato le videocamere per pubblicizzare allegramente le atrocità, prendendo spunto dal manuale dello Stato Islamico, che ha usato video di decapitazioni per scioccare il mondo e ha distribuito propaganda violenta come strumento di reclutamento.
Nelle ultime settimane il Pentagono ha inviato un flusso costante di armi e munizioni a Israele. Le forze per le operazioni speciali degli Stati Uniti stanno facendo volare droni di sorveglianza MQ-9 disarmati sulla Striscia di Gaza per aiutare le operazioni di recupero degli ostaggi, ma non stanno supportando le operazioni militari israeliane sul terreno, hanno dichiarato i funzionari del Dipartimento della Difesa.
Un funzionario militare statunitense, ha comunicato che il generale Michael E. Kurilla, capo del Comando centrale del Pentagono, è arrivato in Israele venerdì per un briefing sulle operazioni di terra a Gaza e sui piani militari futuri. Si tratta del secondo viaggio del generale Kurilla in Israele dopo gli attacchi del 7 ottobre. Il generale e il suo staff sono in contatto quotidiano con i membri del dipartimento di pianificazione dello Stato Maggiore israeliano e con altri alti funzionari militari israeliani.
Nel frattempo, più la guerra si trascina, più cresce la pressione sull’economia israeliana, con 360.000 riservisti militari allontanati dai loro lavori civili per combattere. “Il tempo non è dalla parte di Israele né a livello internazionale né a livello nazionale”, ha detto il generale McKenzie.
Questo sta mettendo sotto pressione le forze armate israeliane per infliggere il maggior numero di danni ad Hamas il più rapidamente possibile, hanno detto funzionari e analisti. “Potrebbero non aver bisogno di un endgame perché gli verrà imposto”, ha detto Jeremy Binnie, specialista di difesa del Medio Oriente per Janes, una società di difesa e di intelligence open-source di Londra. “Faranno credere di aver fatto la migliore operazione militare nel tempo a disposizione”.
Eric Schmitt*, Ronen Bergman** e Adam Goldman***
Adam Sella ha contribuito con un reportage da Tel Aviv.
*Eric Schmitt è corrispondente dal Times per la sicurezza nazionale e si occupa di questioni militari statunitensi e di antiterrorismo all’estero, argomenti di cui si occupa da oltre tre decenni. Per saperne di più su Eric Schmitt
**Ronen Bergman è uno scrittore del New York Times Magazine, con sede a Tel Aviv. Il suo ultimo libro è “Rise and Kill First: The Secret History of Israel’s Targeted Assassinations”, pubblicato da Random House. Per saperne di più su Ronen Bergman
***Adam Goldman scrive di FBI e sicurezza nazionale. È giornalista da oltre due decenni. Per saperne di più su Adam Goldman
Is Israel’s Military Strategy to Eradicate Hamas Working?
Israel is making progress in ground control of Gaza, but it has not vanquished Hamas or freed most of the hostages. And international condemnation of civilian casualties is growing.
Eric Schmitt and Adam Goldman reported from Washington, and Ronen Bergman from Tel Aviv.
The Israeli military’s seizure of Al-Shifa Hospital, Gaza’s largest medical complex, is central to the military strategy at the heart of the ground invasion: Eradicate Hamas and free roughly 240 hostages taken during the Oct. 7 surprise attack.
That strategy has unfolded over the past three weeks as more than 40,000 Israeli soldiers encircled Gaza City, where Israeli officials say Hamas commanders were concentrated. The soldiers then attacked fighters and bunkers, all while targeting a vast tunnel network that Israeli officials say enables Hamas forces to hide and carry out operations. Israeli officials also assessed that striking so deeply in the heart of Gaza City would pressure Hamas to reach a deal on hostage releases.
Israel has long accused Hamas of using civilians as human shields in the densely populated Gaza Strip, and says the terrorist group positioned underground military facilities near homes, schools, mosques and hospitals throughout Gaza. Al-Shifa became Exhibit A in this narrative, as the Israeli military claimed Hamas used a vast maze of tunnels underneath the hospital as a base.
So far it is not clear that the Israeli strategy is working.
U.S. military officials said their Israeli counterparts tell them to expect more weeks of clearing operations in the north before Israel prepares a separate initiative in southern Gaza, widening the offensive.
The Israeli military’s chief spokesman, Rear Adm. Daniel Hagari, said late Friday that its troops would continue their offensive “in every place that Hamas is, and it is in the south of the strip.”
And although the Israeli defense minister, Yoav Gallant, said in a video statement on Monday that Israel had “accelerated our activities against the tunnels” and that Hamas militants had lost control in the north and were fleeing south, military analysts said Mr. Gallant’s statements raised many questions.
How will Hamas be eliminated if its fighters blend into the rest of the population as they head south? How long can Israel, which lost about 1,200 people in the Oct. 7 atrocities, sustain growing international pressure for a cease-fire as civilian casualties in Gaza mount? Most immediately, was Al-Shifa an important enough military target to raid?
Israel blames the civilian deaths — 11,000, according to the Gaza health ministry — in part on Hamas’s decision to hide its military fortifications and command centers in residential neighborhoods and hospitals like Al-Shifa.
But U.S. officials said Israel’s rapid decision to launch ground operations in the enclave left Israeli commanders little time for extensive planning to mitigate risks to civilians and all but guaranteed a high civilian death toll.
The hospital has become a particular flashpoint. The military has yet to present public evidence of an extensive tunnel network and command center under Al-Shifa, and Israel is coming under growing international pressure to show that the hospital was a critical military objective.
On Friday, Israeli military officials said the search of the hospital would take time because of the risk of encountering Hamas members and booby traps, and that they would have to use dogs and combat engineers. The Israeli forces are advancing slowly and currently control only part of the hospital site, according to three Israeli officers. They also have avoided entering a shaft that was discovered there.
But the military claims it already has proof of at least part of an underground tunnel complex under the hospital. A video, which an Israeli official said was filmed by a camera that was lowered into the shaft by troops on Friday, and which was reviewed by The New York Times, indicates that it is a man-made tunnel, with at least one lane wide enough for the passage of people. The tunnel appears to be 50 feet or more in length, and at the end of it is a door that the official said is fortified to withstand explosives. The video shows that the door has a small porthole that, according to the Israeli official, allows one-way shooting from the other side of the door into the tunnel.
Targeting Al-Shifa Hospital was “not the result of a strategy,” said Giora Eiland, a retired major general in the Israel Defense Forces and former head of the Israeli National Security Council. “It is more an important tactical maneuver” in Israel’s attempt to control the narrative about Hamas, he said.
While Hamas commanders might have been under Al-Shifa at the start of the war, Mr. Eiland said, most of them have evacuated to the south. As a result, he said, Israel will have to evacuate civilians and target Hamas brigades there in the coming weeks and months. Mr. Eiland predicted that this might be complicated by an international community losing patience with Israel.
Yagil Levy, an expert on the Israeli military, said that attacking Al-Shifa was “a show of power and might rather than part of a clear strategy.” In doing so, Dr. Levy said, Israel might have jeopardized the hostages’ lives.
“The army didn’t take into real consideration the future or the safety of the hostages by going into Al-Shifa,” Dr. Levy said. The recovery of two corpses near Al-Shifa Hospital was a clear sign, he said, that “we are losing hostages by delaying the exchange of prisoners.”
Gen. Kenneth F. McKenzie Jr., a retired head of the U.S. military’s Central Command, said the Israeli military had achieved some of its objectives, such as suppressing Hamas rocket fire into Israel and reducing risks to its own troops. More than 55 Israeli soldiers have died in the ground operation, an indication that the Israeli army is moving cautiously on the ground while warplanes and artillery pound targets.
But General McKenzie said it was still unclear how many top Hamas leaders the Israeli military had killed. And so far, Israel’s decision to reduce parts of Gaza to rubble and kill more than 1,000 Hamas fighters has not secured a major deal to release the roughly 240 hostages, many in the vast tunnel network.
Israel began its ground invasion after Hamas and Palestinian Islamic Jihad gunmen rampaged through southern Israel on Oct. 7, killing women, children, babies and the elderly. Israeli authorities are investigating claims of rape and other brutality.
Hamas fighters used video cameras to gleefully publicize the atrocities, taking a page out of the playbook of the Islamic State, which used beheading videos to shock the world and distributed violent propaganda as a recruiting tool.
The Pentagon has rushed a steady stream of arms and ammunition to Israel in recent weeks. U.S. Special Operations forces are flying unarmed MQ-9 surveillance drones over the Gaza Strip to aid in hostage recovery efforts, but are not supporting Israeli military operations on the ground, Defense Department officials say.
Gen. Michael E. Kurilla, the head of the Pentagon’s Central Command, arrived in Israel on Friday for briefings on the ground operation in Gaza and the military plans going forward, a U.S. military official said. It is General Kurilla’s second trip to Israel since the Oct. 7 attacks. The general and his senior staff are in daily contact with members of the planning department at the Israel General Staff and other senior Israeli military officials.
In the meantime, the longer the war drags on, the more the strain on Israel’s economy grows, with 360,000 military reservists pulled away from their civilian jobs to fight.
“Time is not on Israel’s side internationally or domestically,” General McKenzie said.
That is putting pressure on the Israeli military to inflict as much damage on Hamas as quickly as possible, officials and analyst said.
“They may not need an endgame because it’ll be imposed on them,” said Jeremy Binnie, a Middle East defense specialist for Janes, a defense and open-source intelligence firm in London. “They’ll make it look like they’ve done the best military operation in the time available.”
Eric Schmitt*, Ronen Bergman** e Adam Goldman***
Adam Sella contributed reporting from Tel Aviv.
Eric Schmitt is a national security correspondent for The Times, focusing on U.S. military affairs and counterterrorism issues overseas, topics he has reported on for more than three decades.More about Eric Schmitt
Ronen Bergman is a staff writer for The New York Times Magazine, based in Tel Aviv. His latest book is “Rise and Kill First: The Secret History of Israel’s Targeted Assassinations,” published by Random House.More about Ronen Bergman
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Da sempre le dittature della storia hanno avuto i loro sostenitori. Il nostro tempo non fa eccezione.
Dalla Corea del nord fino al Myanmar, passando per una serie di Stati e staterelli, i poteri assoluti raccolgono proseliti.
Così capita spesso di leggere articoli o interviste anche sui social network che esaltano governi dittatoriali, come quello di Isayas Afeworky in Eritrea.
In realtà il tiranno Isaias ha trasformato il proprio Paese in una prigione a cielo aperto, dalla quale sono fuggiti, negli ultimi anni, migliaia e migliaia di eritrei. Molti hanno lasciato il Paese con mezzi di fortuna, attraversato i deserti e il mar Mediterraneo, pagando un prezzo altissimo in vite umane.
La svolta dittatoriale di Isaias risale ormai ad oltre 20 anni fa, quando venne cancellato definitivamente il nascente progetto costituzionale. Allora Afeworky imprigionò gran parte dei suoi collaboratori, ex compagni nella guerra di liberazione dall’Etiopia, perché stavano portando avanti istanze democratiche. Finiva così il grande sogno di una Eritrea libera, indipendente e democratica.
Da allora Isaias ha portato il Paese ad un costante declino socio-economico e ha messo a tacere qualsiasi forma di opposizione interna. Gli eritrei sono diventati così un popolo in costante fuga dalla dittatura, dal servizio militare/civile obbligatorio infinito. Sono scappati giovani, donne, uomini, vecchi, bambini. Tra questi anche atleti eritrei di tutte le discipline sportive, spesso approfittando delle trasferte.
Ed è di pochi giorni fa la notizia che l’Eritrea non parteciperà alla selezione per i campionati mondiali di calcio. E’ semplicemente la conseguenza del timore del dittatore che i giovani calciatori non facciano rientro in patria.
Il Paese sempre più isolato, dovrà ora anche accontentarsi nello sport di veder giocare le altre nazioni, fare il tifo per squadre straniere e sognare una “fuga per la Vittoria”.
Proprio recentemente, in occasione una tavola rotonda sull’Eritrea, ospitata dall’eurodeputata verde Katrin Langensiepen, moderata da Mirjam van Reisen di EEPA (European External Programme with Africa), il relatore speciale per i Diritti umani delle Nazioni Unite per l’Eritrea, Mohamed Abdelsalam Babiker, ha inviato le sue severe osservazioni sul Paese. All’evento hanno partecipato diversi ospiti, mentre la redazione di Africa-ExPress ha potuto assistere all’evento in diretta online.
La situazione per quanto concerne i Diritti umani è solo peggiorata da quando il relatore speciale è stato nominato nel 2020, anno in cui è iniziato anche il sanguinario conflitto nel Tigray (Etiopia), al quale hanno partecipato anche truppe di Asmara.
Durante tale periodo il regime di Isaias Aferwerki ha intensificato la campagna di arruolamento forzato di giovani uomini e donne, anziani riservisti, per costringerli ad andare a combattere nel Tigray. Chi non si è presentato alla chiamata, è stato punito severamente, compresi i familiari dei disertori. La dittatura non ha esitato a ricorrere a torture, detenzioni arbitrarie in condizioni disumane, esecuzioni extragiudiziali.
Babiker ha poi precisato che sono stati arruolati anche minori, fenomeno non nuovo, ma che si è intensificato dal 2020 in poi. Molti rifugiati eritrei nel Tigray sono stati rapiti o costretti a tornare in patria, per poi essere rispediti in Etiopia, ma stavolta per combattere.
Il Paese non conosce elezioni generali e Afworki continua a governare senza alcuno Stato di diritto, senza nessuna separazione dei poteri e limitazione alla sua autorità. L’Eritrea rimane uno Stato a partito unico, in cui nessun gruppo o movimento politico è autorizzato a organizzarsi e i media indipendenti e la società civile non possono operare. Come documentato già in altri rapporti dell’osservatore speciale, giornalisti, oppositori politici, artisti, persone di fede, disertori e richiedenti asilo rimpatriati, continuano a subire gravi violazioni dei diritti umani, tra questi sparizioni forzate, torture e detenzioni arbitrarie prolungate in condizioni disumane o degradanti.
In questo contesto, e con il grande flusso di rifugiati e richiedenti asilo eritrei dell’ultimo decennio, la diaspora è diventata sempre più attiva, scontrandosi non di rado con le pressioni dei servizi diplomatici e consolari eritrei e strutture legate al partito di governo.
Negli ultimi mesi si sta inoltre verificando una crescente polarizzazione tra gli eritrei della diaspora, con scontri tra esuli e rifugiati scappati dall’oppressione in diverse città europee, nordamericane e persino a Tel Aviv (prima dell’inizio della guerra tra Israele e Palestina).
“I tentacoli del regime sono ovunque”, ha spiegato Babiker, che ha raccolto centinaia di testimonianze, facendo riferimento alla coercizione a cui sono sottoposti gli eritrei all’estero e alle pressioni per sostenere il governo di Asmara in svariati modi. A partire da quelli sociali, con la partecipazione a eventi, festival e seminari, a quelli economici, attraverso il pagamento della tassa del 2 per cento e richieste di altri contributi. C’è chi ha ricevuto anche inviti espliciti per aderire a organizzazioni pro regime. In perfetto stile fascista, chi si rifiuta è considerato un oppositore del governo e subisce intimidazioni di vario genere.
La situazione è più complessa per i rifugiati politicamente attivi nei movimenti di opposizione della diaspora; sono regolarmente soggetti a minacce, molestie e diffamazioni sia online che offline.
E infine il relatore speciale fa un appello all’Unione Europea, chiedendo di mettere in atto corridoi umanitari efficaci e sicuri per chi fugge dal Paese.
Invita inoltre gli Stati membri dell’UE a esercitare la massima pressione sull’Eritrea affinché attui le raccomandazioni formulate dai relatori speciali e dalla Commissione d’inchiesta sulla situazione dei diritti umani nel Paese.
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“Basta sperperi. Dobbiamo risparmiare su tutti fronti”, ha annunciato mercoledì sera alla TV di Stato il presidente del Malawi, Lazarus Chakwera, sospendendo tutti i viaggi all’estero degli alti funzionari governativi, dei membri del consiglio dei ministri, compreso lui stesso.
Il presidente ha ordinato a tutti i ministri, che attualmente si trovano fuori dal Paese, di rientrare subito in patria. Il divieto sarà in vigore fino a marzo del prossimo anno. Durante il suo intervento all’emittente di Stato, il leader del Paese ha presentato una serie di misure di austerità, tra queste anche il taglio del 50 per cento dei buoni carburante per ministri e alti funzionari del governo.
Si mormora che Chakwera avrebbe preso tali misure, estendendole anche a sé stesso, perchè molto criticato per i suoi frequenti viaggi all’estero. Tant’è vero che ha persino disdetto la sua partecipazione alla conferenza sui cambiamenti climatici COP28, che si terrà a Dubai alla fine del mese.
Se da un lato il capo di Stato sta applicando restrizioni all’élite del governo, dall’altro canto ha incaricato il ministro delle Finanze di includere nella revisione del bilancio di metà anno un ragionevole aumento dei salari per tutti i dipendenti pubblici.
Ha inoltre ordinato una riduzione dell’imposta sul reddito delle persone fisiche, in modo che i lavoratori, i cui redditi hanno perso valore a causa della galoppante inflazione, abbiano un minor carico fiscale.
Il Paese è nel bel mezzo di una profonda crisi economica. Il carburante scarseggia, i prezzi dei generi alimentari sono alle stelle, per non parlare della carenza di valuta estera. La scorsa settimana la banca centrale del Paese ha annunciato la svalutazione della moneta locale rispetto al dollaro statunitense di poco meno del 30 per cento.
Il Malawi è il Paese più densamente popolato di quell’area geografica. Conta venti milioni di abitanti e oltre il settanta percento vive nelle zone rurali. Ex colonia britannica, ha ottenuto la piena indipendenza nel 1964, ma resta uno dei Paesi più poveri dell’Africa. Oltre la metà della sua popolazione vive con meno di 1,50 dollari al giorno. L’aspettativa di vita è ancor bassa: sessantadue anni per gli uomini, sessantasei per le donne e la principale causa di morte è l’infezione da HIV/AIDS.
Le ricchezze del Paese sono in mano a un’élite ristretta e la corruzione della classe politica è proverbiale. Il presidente Lazarus Chakwera, eletto dalle fila dell’opposizione, cerca di combattere con ogni mezzo disonestà e immoralità della classe politica.
Solo l’11 per cento della popolazione del Paese è collegata a una linea di corrente elettrica, la popolazione rurale rappresenta il 4 per cento. In molti luoghi con il calar del sole cessano tutte le attività.
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Speciale per Africa ExPress Sandro Pintus 16 novembre 2023
“In #Tanzania, i #Masai di Loliondo e dell’area di conservazione di Ngorongoro vengono sfrattati con violenza per far spazio a turismo, conservazione e caccia da trofeo”. È uno dei tweet di Survival International che denuncia gli sfratti forzati della popolazione Masai della Tanzania.
Allegato al tweet c’è un video. Kalani Olenkaiseri, rappresentante del popolo Masai, accusa una ong tedesca e un’azienda di caccia emiratina come responsabili degli sfratti.
Quali sono le compagnie accusate dai Masai
I Masai fanno i nomi dei responsabili dei loro problemi: la Frankfurt Zoological Society (FZS) e la Otterlo Business Corporation (OBC).
FZS è una ong tedesca che si occupa di conservazione in 18 Paesi di Europa, Africa, Asia e America Latina. La Frankfurt lavora anche con fondi dell’Unione europea. OBC, invece, è una compagnia di caccia da trofeo con sede negli Emirati Arabi Uniti cha ha una succursale in Tanzania.
“FZS riconosce il diritto delle persone a garantire i propri mezzi di sussistenza, a godere di ambienti sani e produttivi e a vivere con dignità – si legge in una nota dell’ong -. Pertanto applica e promuove attivamente approcci basati sui diritti alla conservazione della biodiversità”.
Ma evidentemente qualcosa non torna se non vengono rispettati i diritti umani della popolazione masai
Vietato entrare alla delegazione UE
Una delegazione di europarlamentari ha voluto indagare sulle gravi violazioni dei diritti umani commessi nei riguardi dei Masai nell’ex colonia britannica.
L’ambasciatore della Tanzania, nel maggio scorso, aveva promesso che non avrebbero fermato la visita degli europarlamentari. A settembre la Tanzania ha impedito alla delegazione di visitare il paese.
Una lotta lunga decenni
La lotta del popolo Masai dura da 67 anni, esattamente dal 1956. Le prime minacce di sfratto forzato dal Serengeti sono arrivate dai funzionari del governo coloniale.
Dicevano che avrebbero creato un’area per i leopardi e hanno fatto firmare un documento agli anziani. Avevano detto ai Masai che se si fossero trasferiti volontariamente non avrebbero pagato tasse. “Purtroppo era un inganno – racconta Kalani -.
In questo video, Karani Olenkaiseri racconta come l’org per la conservazione @FZS_Frankfurt e la Otterlo Business Corporation – compagnia di caccia con sede negli #EmiratiArabiUniti –attacchino da decenni terre&vite dei Masai. Ascolta il racconto integrale👇 https://t.co/xBQ0UOJLJh
Hanno lasciato il Serengeti e con molte difficoltà si sono reinseriti ma il terreni erano insufficienti per il bestiame. Poi sono arrivati gli emiratini con un contratto ma i masai, ingannati la prima volta, hanno rifiutato di firmare.
Ecco allora il pugno di ferro del governo tanzaniano. Il 10 giugno 2022, con l’esercito entra a Loliondo ed obbliga con la forza la popolazione ad abbandonare l’area.
“Hanno incendiato il villaggio, bruciato i nostri beni e persino le persone – racconta Kalani -. Hanno sparato addosso alla gente hanno arrestato persone e anche spinto nelle fiamme coloro che cercavano di difendere le loro cose”.
Spine velenose conficcate nella nostra carne
Kalani, attraverso Tribal Voice, progetto di Survival, chiede aiuto alla comunità internazionale: “Salvateci da questi due nemici. Sono spine velenose conficcate nella nostra carne”.
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le news del nostro quotidiano online.
Dopo una campagna elettorale molto tesa, con manifestazioni in piazza, soppresse dalle autorità con lacrimogeni e violenza, domani i malgasci si recheranno alle urne per scegliere il nuovo presidente.
Per questa notte (dalle 21.00 alle 04.00) il prefetto della polizia, Angelo Ravelonarivo, ha imposto un coprifuoco a Antananarivo. “Tale misura si è resa necessaria – ha spiegato il prefetto – dopo che è stato incendiato un seggio a Antehiroka, quartiere nella periferia della capitale, e distrutto del materiale elettorale. Atti vandalici simili si sono verificati anche in altri sobborghi della città.
Undici milioni di cittadini, iscritti alle liste elettorali, potranno recarsi alle urne, giovedì 16 novembre, dalle 06.00 alle 17.00, come previsto, per scegliere uno dei 13 candidati in lizza. Lo stato Insulare conta oltre 30 milioni di abitanti, il 53 per cento ha meno di 20 anni.
Il presidente uscente, Andry Rajoelina, 49 anni, corre per un secondo mandato. Ma la tensione con l’opposizione è alle stelle da settimane: dieci tra i candidati in lizza si sono riuniti in un collettivo, tra loro anche due ex presidenti, Hery Rajaonarimampianina e Marc Ravalomanana (rovesciato con un golpe nel 2009 proprio da Rajoelina), invitando agli elettori di non recarsi alle urne. Il collettivo contesta l’eleggibilità di Rajoelina, in possesso di doppia nazionalità (malgascia e francese). Parigi, grazie a un decreto firmato alla fine del 2014 da due ministri, dall’allora premier e quello degli Interni, ha ottenuto anche il passaporto francese.
Secondo diverse testimonianze, la Francia gli avrebbe concesso la nazionalità in cambio del suo ritiro dalla scena politica. Tale rinuncia è avvenuta un anno prima, nel 2013, con l’obiettivo di consentire al Paese di voltare pagina rispetto al regime di transizione. Cioè 4 anni dopo il colpo di Stato che lo aveva portato alla guida del Madagascar.
Ma l’assenza sulla scena politica di Rajoelina è stata di breve durata. Nel 2018 si è presentato alle presidenziali che ha vinto. Secondo migliaia di cittadini dello Stato insulare, già allora non ne avrebbe avuto facoltà, in quanto il codice sulla nazionalità è molto chiaro su questo punto: “Il malgascio maggiorenne che acquisisce volontariamente una cittadinanza straniera perde la cittadinanza malgascia”.
L’ufficio della presidenza ha poi chiarito, che la nazionalità francese gli sarebbe stata concessa per “discendenza”. “Rajoelina non ha perso la cittadinanza malgascia, in quanto non ha chiesto al governo l’autorizzazione a farlo, come previsto dal Codice della nazionalità per determinate condizioni” ha poi aggiunto Lalatiana Rakotondrazafy, portavoce del governo e ministro delle Comunicazioni.
L’opposizione continua a far leva sul fatto della doppia nazionalità e il collettivo ha chiesto l’annullamento del processo elettorale, richiesta sostenuta la scorsa settimana anche dal presidente dell’Assemblea nazionale, Christine Razanamahasoa. La signora ha tentato una mediazione tra le parti, ma purtroppo senza risultati concreti.
Rajoelina e i suoi supporter hanno fermamente respinto la richiesta. E, domenica, durante l’ultimo meeting di propaganda elettorale che si è svolto nella capitale, si sono presentate migliaia di persone indossando magliette con l’immagine del presidente uscente.
Un altro candidato in lizza per la tornata elettorale, che però non fa parte del collettivo, è il 47enne Siteny Randrianasoloniaiko (meglio conosciuto con il solo nome), campione di judo, nonché presidente sia della Federazione di judo malgascia, sia di quella dell’Unione Africana. E’ originario del sud del Paese, la regione più povera e disagiata.
Ha finanziato la sua campagna elettorale grazie a fondi arrivati da Dubai. Pur avendo pagato un comizio al Colisée d’Antsonjombe, Antananarivo, il 20 ottobre scorso a nome di tutto il “collettivo”, Sitney ha preso presto le distanze dagli “alleati di un giorno”. E ora corre praticamente da solo contro Rajoelina.
Pare che anche Mosca appoggi Sitney, come riporta Africa Intelligence. Dopo le interferenze della Russia nelle elezioni del 2018, i russi sono sempre rimasti in Madagascar alla ricerca di un candidato ideale, che possa offrire concessioni minerarie in cambio di sostegno internazionale, come è avvenuto e avviene in altri Paesi del continente.
Il gruppo Wagner è presente in diversi Paesi africani, tra questi anche in Madagascar. Un rapporto pubblicato il 16 febbraio 2023 dalla Global Initiative Against Transnational Organized Crime, fa riferimento a un incontro tra Siteny e un reclutatore russo legato a Wagner. Ma Sitney può contare sul supporto economico della famiglia di Marius Vizer, presidente della Federazione russa di Judo e molto vicino a Vladimir Putin.
Lo Stato insulare è uno tra i più poveri al mondo. L’80 per cento della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà e il 40 per cento necessita di aiuti umanitari. Eppure il sottosuolo è ricco di giacimenti minerari.
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Le autorità di Ouagadougou hanno confermato la morte di almeno 70 persone a Zaongo, villaggio situato nel centro-nord del Burkina Faso. Il massacro si è consumato il 5 novembre scorso e finora nessuno ha rivendicato il terribile attacco, durante il quale sono state incendiate anche molte case. Le vittime sono per lo più bambini e anziani.
Simon Gnanou, procuratore della ex colonia francese, ha precisato ieri che solamente dopo aver ascoltato i familiari delle persone brutalmente ammazzate, si potrà determinare il numero esatto delle vittime. Una inchiesta sulla carneficina è finalmente in corso, dopo le sollecitazioni dell’Unione Europea e degli Stati Uniti di far luce su questo massacro.
Il procuratore, che si è recato personalmente a Zaongo per un sopralluogo, ha riferito che l’accesso al villaggio non è stato semplice. La strada ha dovuto essere dapprima liberata dalle mine e gli inquirenti, accompagnati da una speciale brigata investigativa antiterrorismo, hanno dovuto pure rispondere ad un attacco al convoglio.
Un residente della zona, ha confessato a AFP, che prima del sanguinario attacco del 5 novembre, Zaongo è stato l’unico villaggio della zona a non aver mai subito aggressioni da parte dei terroristi. “Non si esclude – ha precisato l’uomo – che gli abitanti siano stati collaboratori dei jihadisti.
Sta di fatto che la carneficina si è consumata due giorni dopo intensi combattimenti tra le forze di sicurezza burkinabé e miliziani di gruppi armati di matrice terrorista nella zona.
Dal 2015 il Burkina Faso, in particolare la parte settentrionale del Paese, è in preda a una spirale di violenza, attribuita a gruppi jihadisti legati ad Al-Qaeda e all’organizzazione dello Stato Islamico (EI), che ha causato oltre 17.000 morti tra civili e militari e più di 2 milioni di sfollati.
Già lo scorso aprile è stata aperta un’altra indagine sulla morte di 136 persone (tra loro 50 donne e 21 bambini), perpetrato da uomini in uniforme militare a Karma, nel nord del Paese. All’epoca dei fatti, il presidente della transizione, Ibrahim Traoré, aveva chiesto di evitare “conclusioni affrettate” e accuse nei confronti dell’esercito, prima della chiusura dell’inchiesta. Peccato solo che fino ad oggi Ouagadougou non abbia rilasciato nessun comunicato ufficiale sulle responsabilità del massacro di aprile.
Traoré, salito al potere con un colpo di Stato nel settembre 2022, aveva dichiarato di aver preso in mano la situazione per ristabilire la sicurezza nelle zone fuggite al controllo del governo centrale. Ma anche sotto il governo della giunta militare la situazione non è migliorata.
La scorsa settimana il ministro della Difesa burkinabé, Kassoum Coulibaly ha incontrato il suo omologo russo, Sergueï Choïgou, a Mosca. Alla fine dei colloqui entrambe le parti hanno affermato che i due governi intendono rafforzare la cooperazione in ambito militare.
Una collaborazione in tal senso è emersa subito dopo il golpe del settembre 2022. Allora l’ex consigliere del Cremlino, Sergei Markov, aveva detto: “Un altro Paese africano passerà dalla cooperazione con la Francia all’alleanza con la Russia”.
Infatti, il Burkina Faso ha rescisso gli accordi di difesa e assistenza militare con la Francia nel gennaio 2023, costringendo al ritiro di tutti militari francesi presenti nel Paese nell’ambito dell’operazione antiterrorismo “Sabre”.
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Speciale per Africa ExPress Alessandra Fava
13 novembre 2023
Mercenari sudafricani partecipano alla guerra a Gaza pagati da Israele: lo ha affermato il ministro alla presidenza del Sud Africa, Khumbudzo Ntshavheni, davanti al Parlamento. L’Agenzia di sicurezza sudafricana avrebbe la lista dei nomi. I diretti interessati – l’IDF (Israeli Defence Forces) – negano.
La presenza di mercenari e combattenti di agenzie private sudafricane al fianco di Israele contro i palestinesi e Hamas sta creando un enorme problema diplomatico. Il governo sudafricano infatti il 5 novembre ha richiamato i suoi diplomatici a Tel Aviv in seguito alla sanguinosa rioccupazione della Striscia di Gaza da parte dell’esercito israeliano che sta colpendo indiscriminatamente scuole e ospedali per colpire – dice Israele – le roccaforti di Hamas e i suoi tunnel.
Morale sono morte oltre 11 mila persone, ci sono oltre 2,700 dispersi e i feriti superano i 27 mila. La reazione israeliana è la risposta all’attacco di Hamas del 7 ottobre scorso ai kibbutz e a un rave party vicini alla Striscia che ha causato 1.400 morti.
Il Sud Africa è costretto ad ammettere che alcuni suoi concittadini sono andati a combattere come mercenari forse anche nella Striscia di Gaza. La questione ha suscitato un discreto dibattito nell’Assemblea nazionale sudafricana in quanto una legge specifica vieta ai cittadini sudafricani di combattere sotto le bandiere di altri Paesi e tanto più vieta impiegare mercenari.
“Il problema della partecipazione di sudafricani che si sono uniti alle truppe militari del ministero della Difesa israeliano è sotto la nostra attenzione, anche se riguarda anche altri conflitti dove soggetti statali e non, stanno addestrando e utilizzando truppe per guerre in corso”, ha detto la politica in Parlamento, ammettendo “il problema diplomatico”.
Una parte di questi mercenari o impiegati sotto agenzie militari private avrebbe anche in passato prestato servizio nei ranghi dell’esercito sudafricano: “finiranno a processo anche loro”, ha tuonato Ntsahvheni.
Il parlamentare Jerome Maake, politico molto noto dell’African National Congress (il partito al potere in Sudafrica, ndr), ha detto che ogni esitazione nel proseguire i mercenari sarà una collaborazione al genocidio dei palestinesi e che di fatto il Paese “sta esportando cani da guerra”.
Ritirando i suoi diplomatici da Israele, il Sud Africa ha parlato apertamente di “genocidio” e ha anche chiesto che la Corte Penale Internazionale processi il primo ministro israeliano Benjamin Nethanyau.
Il Sud Africa ha ribadito che l’unica soluzione per la questione israelo-palestinese è quella dei due Stati. La notizia del Sud Africa si è intrecciata con un’altra vicenda emersa su un media spagnolo, El Mundo, che venerdì scorso ha pubblicato l’intervista a un certo Pedro Diaz Flores Corrales, 27 anni, che afferma di far parte di un gruppo di mercenari spagnoli al soldo di Israele, prima impegnato a fianco degli ucraini.
Secondo le sue parole “siamo pagati bene (3.900 euro a settimana), ben equipaggiati e il lavoro non è difficile”. Corrales pubblica le sue gesta militari anche sui social e dice di essere impegnato nelle Alture del Golan, ma appare in una foto insieme ad altri mercenari al confine tra Gaza e Israele.
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Speciale per Africa ExPress Federica Iezzi
13 novembre 2023
“Un modello di cooperazione tra l’Unione Europea (UE) e i Paesi extra-UE nella gestione dei flussi migratori”. E’ così che Giorgia Meloni definisce la prossima costruzione di due centri di detenzione per migranti in Albania.
Il nuovo accordo tra Italia e Albania, potrebbe determinare il trasferimento forzato di almeno 36.000 migranti all’anno, per l’accoglienza, la valutazione e il trattamento della richiesta di asilo. Le strutture individuate nel Paese dell’Adriatico si trovano presso il porto commerciale di Shengjin e nell’ex base militare di Gjader (in auge durante la Guerra Fredda), nel nord-ovest dell’Albania.
L’ultradestra italiana è passata come un carrarmato sopra la mancanza di consenso politico. Il protocollo d’intesa, infatti, salta il passaggio in Parlamento e con esso il rischio di non essere approvato, vista l’esplicita violazione del diritto costituzionale di asilo. L’UE, in attesa di un’analisi critica dei dettagli dell’accordo, ribadisce l’obbligo di rispettare il diritto comunitario e internazionale.
La prima enorme irregolarità dell’accordo riguarda i protagonisti stessi. Le persone soccorse in mare dalle autorità italiane (Marina Militare, Guardia di Finanza) sono sotto la giurisdizione italiana e il quadro normativo non permette la deportazione verso un altro Paese, prima che le richieste di asilo e le circostanze individuali non siano state esaminate.
La protezione dal respingimento è un diritto fondamentale dei richiedenti asilo e dei rifugiati. E l’Italia è già stata condannata per la violazione di questo principio dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
Non è ancora chiaro cosa accadrà a coloro che non hanno i requisiti per ottenere lo status di rifugiato, anche se il governo Meloni si è concentrato sull’uso della minaccia di deportazione immediata, come mezzo per scoraggiare gli sbarchi sulle coste italiane. Quale sarebbe dunque la sorte di queste persone?
L’espulsione immediata non è consentita all’interno dell’UE grazie alla protezione assicurata dagli statuti sui diritti umani che consentono a tutti gli arrivi di richiedere asilo. Poiché l’Albania non è un membro dell’UE, tali regole non si applicano.
L’Italia ha affermato che le persone detenute rimarranno sotto la giurisdizione italiana, ma la realtà è che l’accordo verrà utilizzato per eludere il diritto nazionale, quello internazionale e quello comunitario. La Commissione europea ha già chiarito, nel lontano 2018, che l’applicazione extraterritoriale del diritto dell’UE non è realizzabile.
Dunque, il piano così prospettato consentirebbe all’Italia di aggirare l’accordo di Dublino, secondo il quale la responsabilità di asilo è del Paese di primo sbarco.
Cosa ci guadagna l’Albania? Intanto 16,5 milioni di euro, come anticipo, che Roma dovrà accreditare entro 90 giorni dall’entrata in vigore del protocollo, più 100 milioni a titolo di garanzia.
E poi l’accelerazione della sua corsa verso l’ingresso nell’Unione Europea. L’Albania ha ottenuto lo status di candidato all’Unione Europea quasi dieci anni fa, ma non ha ancora aderito al blocco.
L’accordo disumanizzante segna l’inizio di un tortuoso e sgradevole cammino in cui un Paese dell’UE esternalizza le proprie procedure di asilo a un Paese che tenta di unirsi alle sue fila. Ed è diretta testimonianza dell’attenzione sproporzionata e fuorviante nel prevenire l’ingresso in Europa, piuttosto che nel creare vie sicure e legali per coloro che cercano rifugio.
Nessun diritto di difesa e nessuna garanzia della libertà personale, previsti dalla Costituzione italiana, nessuna tutela in materia di riconoscimento della protezione internazionale, prevista dalle norme sovranazionali delle Nazioni Unite e dell’Unione Europea: è questa la cifra morale e politica condivisa da Giorgia Meloni e il Primo Ministro albanese, Edi Rama. Tendenza preoccupante che mina il diritto fondamentale di chiedere asilo.
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