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Morto a 100 anni Henry Kissinger: il ricordo delle sue imprese inquietanti in Medio Oriente e in tutta l’Africa

Riproponiamo questo articolo Angus Shaw, uno dei più competenti
ed esperti giornalisti dell’Africa meridionale, scritto lo scorso giugno
in occasione del centesimo compleanno di Henry Kissinger.
E’ un racconto un po’ diverso da quello che compare oggi su diversi giornali. 

Angus Shaw*
Harare, 28 giugno 2023

Povero vecchio Henry Kissinger. Ha appena compiuto 100 anni e si lamenta che non è troppo tardi per punirlo, magari con l’Aja e la galera, per le sue malefatte politiche e belliche, insieme a Tony Blair, George W. Bush e i loro simili per l’Afghanistan, l’Iraq, la Libia e la Siria e il resto di tutte le cose brutte degli ultimi tempi.

Ultimamente, il diplomatico e negoziatore più importante della fine del secolo scorso si è espresso sullo stato del mondo, sull’Ucraina e sulle manovre bellicose della Cina per riprendersi Taiwan.

Una delle più recenti fotografie di Henry Kissinger

L’uomo ci piaceva molto quando è sceso qui per mediare la pace dopo la disordinata partenza degli americani dal Vietnam. Affascinante e simpatico, ma con il cuore duro nel proteggere gli interessi statunitensi che avevano causato tante stragi in tutto il pianeta, pensavamo.

Ian Smith dice a Kissinger: “Ok, sono pronto e disposto a portare a termine questa operazione”. Si trattava di trasferire il potere dalla minoranza bianca alla maggioranza nera

Il suo problema era l’Africa, punto e basta. Non lo capiva affatto. Eravamo un nido di coccodrilli diverso da quello cui era abituato. Mettere le carte sul tavolo, mescolarle e attendere i risultati.

Per dirla con le loro stesse parole, in questo documento redatto, “si mettono nel piatto tante fiches” per ottenere un risultato. Troppo intelligente, abbiamo pensato.

Nella vignetta Henry Kissinger fa l’equilibrista su uno stagno pieno di coccodrilli. Da un lato (a sinistra) compare il primo ministro del Sudafrica, John Vorster, e dall’altro un giovane Ian Smith.

Nada, nada. Non ha funzionato. Ian Smith, ex primo ministro dell’allora Rhodesia e John Vorster, ex presidente sudafricano, erano troppo recalcitranti, così come la controparte. Dopo essersi scottato così tanto in Vietnam, Kissinger aveva lasciato il suo libretto degli assegni al sicuro in un armadio di scheletri da qualche parte a Washington.

Era il 1976 e portò le foto satellitari del terreno su cui stavamo combattendo. Ogni burrone, ogni gola, ogni insediamento, ogni montagna, ogni foresta, ogni cespuglio per l’occultamento di un combattente che ora stava fiorendo dopo le piogge stagionali. Si potevano persino vedere dallo spazio le medaglie sul petto di un generale. Che meraviglia, esclamarono gli americani.

A noi fotografi e scribacchini, membri del cosiddetto Quarto Potere, che seguivamo ogni mossa africana di Henry, sembrava una bolla di sapone.

I suoi uomini dei servizi segreti si portavano acqua e cibo da casa con gli aerei da carico C 130, perché non volevano farsi venire la cacca dal pascolo africano.

Due limousine Lincoln Continental immatricolate a Washington furono trasportate dai suddetti C 130 tra l’ultima e la successiva destinazione del Segretario di Stato.

Pretoria, Lusaka e, sulla via del ritorno a mani vuote, Kinshasa per vedere Mobutu Sese Seko, ex dittatore, e recuperare qualcosa dal viaggio. Mobutu era un tirapiedi della CIA che aveva più soldi in banche straniere dell’intero debito nazionale del suo Paese.

Il poster che pubblicizzava il mach di boxe tra George Foreman e Muhammad Ali (Cassius Clay) organizzato a Kinshasa nel 1974. Ali fu costretto a ritirarsi dal pugilato dopo essersi rifiutato di combattere nella guerra del Vietnam

In Congo, noto come Zaire, l’entourage di Henry ci raccontò la storia forse apocrifa di The Rumble in the Jungle, l’incontro dei pesi massimi tra Muhammad Ali e George Foreman, andato in scena a Kinshasa due anni prima. Si dice che Ali abbia guardato dalla sua lussuosa suite d’albergo le fogne a cielo aperto e le baracche di Kinshasa e abbia scrollato le spalle: “Sono contento che mio nonno abbia preso quella maledetta barca di schiavi”.

Visitando gli “Stati in prima linea” schierati contro i loro vicini governati dai bianchi, Kissinger incontrò i presidenti e i leader della guerriglia che ospitavano.

Il presidente del Botswana Sir Seretse Khama era stato operato in Sudafrica con un pacemaker. Probabilmente il pacemaker era stato messo sotto controllo e gli uomini di Vorster avrebbero potuto ascoltare “l’intera riunione”, commentarono gli americani.

L’apartheid durò altri 20 anni. La mediazione in Medio Oriente ha avuto i suoi alti e bassi che durano ancora oggi.

La politica estera americana promossa da Kissinger ha portato a molti spargimenti di sangue e lacrime, oltre che in Vietnam e in Cambogia: dall’invasione di Timor Est da parte dell’Indonesia, sostenuta dagli Stati Uniti, alle guerre civili alimentate dagli Stati Uniti in El Salvador, Guatemala e Honduras.

Lo sboccato Richard Nixon, il suo capo, ha notoriamente respinto l’idea di essere gentile con le persone in America Latina per conquistare i loro cuori e le loro menti. “Prendeteli per le palle e i loro cuori e le loro menti li seguiranno”, disse Nixon.

Dopo che il Watergate costrinse Nixon a dimettersi, Kissinger dovette dare una lezione al novello presidente di turno Gerald Ford e gli ricordò l’importanza dell’influenza globale dell’America, citando FDR sul dittatore nicaraguense Spinoza che gli piaceva ma non gli piaceva. “Sarà anche un figlio di puttana, ma almeno è il nostro figlio di puttana”.

Il mio album fotografico di Kissinger:

Kissinger nell’ufficio del presidente Nixon
Kissinger sul ponte sulle cascate Vittoria

 

Kissinger con Kenneth Kaunda, allora presidente dello Zambia
Kissinger con Julius Nyerere, allora presidente della Tanzania
Henry Kissinger e Joshua Nkomo, il grande rivale di Mugabe nel movimento nazionalista, che alla fine è stato fregato da Mugabe
Ian Smith che arriva a casa del primo ministro sudafricano John Vorster per incontrare Henry Kissinger
Henry Kisinger in suadente ammirazione di Dolly Parton

A quell’epoca, ricordate, girava una canzone country e western di Maclean che faceva più o meno così…

Vorrei vedere il coyote che mangia un road runner, vorrei vedere Evil Kneival fatto a pezzi, ma soprattutto vorrei vedere le tette di Dolly Parton. Morbide e rotonde, non fanno rumore. Con le mani in tasca, penso solo ai razzi di Dolly.

Angus Shaw*
angusshaw@icloud.com

*Angus Shaw nato 1949 da coloni scozzesi nella Rhodesia, ad Harare, quando si chiamava Salisbury, ha ottenuto risultati accademici modesti e, rimasto orfano in tenera età, è andato a scuola in Inghilterra ma non ha proseguito gli studi avendo bisogno di lavoro e di reddito.
Viaggiando in autostop in Europa come studente dell’Africa meridionale, ha sentito per la prima volta l’odore dei gas lacrimogeni durante la rivolta studentesca del 1968 a Parigi, la prima di molte altre esperienze come reporter in Africa nei 50 anni successivi.
E’ entrato a far parte del Rhodesia Herald nel 1972. Nel 1975 è stato arruolato nelle forze di sicurezza rhodesiane, ma ha disertato per fare un reportage sugli esuli nazionalisti a Lusaka e Dar es Salaam.
In questo periodo ha coperto una dozzina di Paesi africani, principalmente per l’agenzia di stampa statunitense Associated Press dal 1987 fino alla pensione. Nel febbraio 2005 è stato incarcerato per aver fatto un reportage su Robert Mugabe durante il declino dello Zimbabwe. È autore di tre libri: The Rise and Fall of Idi Amin, 1979, Kandaya, 1993, una cronaca del servizio di leva nella guerra per l’indipendenza dello Zimbabwe e Mutoko Madness, 2013, un memoire africano.
È stato insignito del prestigioso premio Gramlin per la stampa statunitense. Angus Shaw vive ad Harare.

Al governo del Malawi servono dollari e manda i suoi contadini a lavorare in Israele

Africa ExPress
29 novembre 2023

Il governo del Malawi ha annunciato di voler inviare centinaia giovani in Israele per lavorare nelle aziende agricole, ormai sguarnite di mano d’opera dall’inizio della guerra con Hamas.

Il presidente del Malawi, Lazarus Chakwera, a sinistra, con il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu

I primi 221 malawiani sono già partiti sabato scorso alla volta di Tel Aviv, ha fatto sapere il ministro del Lavoro di Lilongue, la capitale del Paese, e ha aggiunto che ben presto molti altri ne seguiranno.

Migliaia di lavoratori agricoli hanno lasciato il loro impiego in Israele dal 7 ottobre scorso, data dell’inizio del conflitto con Hamas. Molti sono tornati nei loro Paesi di origine, mentre altri, anche stranieri – alcuni africani – sono stati presi in ostaggio. Mentre a tutti palestinesi è stato revocato il permesso di lavoro.

Anche due tanzaniani risultano essere stati rapiti da Hamas. Uno di loro è morto durante la prigionia. Lo ha fatto sapere il governo di Dodoma il 17 novembre scorso. Il 22enne si chiamava Clemence Felix Mtenga, ed era in Israele da settembre. Mentre resta tutt’ora sconosciuta l’identità di un sudafricano, scomparso pure lui il 7 ottobre scorso.

L’agricoltura è uno dei settori chiave dell’economia di Israele. E il primo segretario del ministero del Lavoro del Malawi, Wezi Kayira, ha specificato che Israele è uno dei Paesi destinatari di un programma governativo volto a trovare lavoro per i suoi giovani all’estero. Una opportunità importante, in quanto consente a Lilongue di ricevere la tanto ambita e necessaria valuta estera.

Kayira ha poi sottolineato l’impegno del suo governo a garantire la sicurezza dei giovani malawiani inviati in Israele: lavoreranno in luoghi certificati come “sicuri”. Ha poi accertato che i lavoratori saranno coperti anche da una assicurazione sanitaria durante la loro permanenza in Israele, la polizza include anche le spese di un eventuale rimpatrio. “Una parte dello stipendio sarà devoluto in loco, mentre la somma restante sarà versata sul conto personale del lavoratore qui in Malawi, per incrementare la valuta estera”, ha specificato Kayira al quotidiano del Malawi, Nyasa Times.

Oltre 200 lavoratori agricoli del Malawi in Israele. Altri seguiranno

Tuttavia i partiti all’opposizione e le organizzazioni per i diritti umani del Malawi hanno espresso forti critiche nei confronti del presidente Lazarus Chakwera e della sua amministrazione per aver mandato già 221 giovani malawiani a svolgere lavori agricoli in Israele. Inoltre non è stato visto di buon grado anche la segretezza con il quale è stato elaborato e messo in atto il piano del governo, per non parlare dei potenziali rischi che corrono i lavoratori in questo particolare momento di conflitto tra Israele e l’organizzazione palestinese.

“Inviare persone in un Paese in guerra come Israele, quando alcuni governo stanno addirittura rimpatriando i propri cittadini, è qualcosa di inaudito”, ha dichiarato alla BBC il leader dell’opposizione malawiana Kondwani Nankhumwa, che ha poi aggiunto: “Non capisco perché il governo abbia tenuto segreto l’accordo e abbia informato il parlamento solamente il 22 novembre”.

Il governo ha difeso l’accordo con le unghie e i denti, affermando che invierà malawiani in Israele e in altri Paesi per “rispettare l’impegno della creazione di posti di lavoro e l’emancipazione dei giovani”.

Il piano del governo, attuato sabato, arriva sulla scia del recente contributo di Israele di 60 milioni di dollari per sostenere la ripresa economica del Malawi. Il Paese è nel bel mezzo di una profonda crisi economica. Il carburante scarseggia, i prezzi dei generi alimentari sono alle stelle, per non parlare della carenza di valuta estera. Due settimane fa la banca centrale ha annunciato la svalutazione della moneta locale rispetto al dollaro statunitense di poco meno del 30 per cento.

Africa ExPress
X: @africexp
©RIPRODUZIONE RISERVATA

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Mali: Wagner issa la propria bandiera a Kidal, subito rimossa dai militari maliani

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
28 novembre 2023

La presenza dei paramilitari del gruppo Wagner in Mali è nota a tutti e ora nemmeno le autorità di Bamako possono continuare a negarla. Gli stessi mercenari non operano più nell’ombra. Anzi. Dopo pochi giorni dalla riconquista di Kidal, rimasta per settimane sotto il controllo dei ribelli di prevalenza tuareg, CSP (Cadre Stratégique Permanent), i soldati di ventura di Mosca hanno issato la loro bandiera il 21 novembre sul forte di Kidal. Simbolo che ovviamente non è piaciuto per nulla al governo militare di transizione e meno ancora alle forze armate.

Bandiera di Wagner sul forte di Kidal, Mali

La bandiera dei contractor russi è sparita dopo un paio d’ore e Bamako ha affermato, a torto, che si era trattato di una fake news. Peccato solo che foto e filmati con il simbolo dei mercenari mentre sventolava sul forte di Kidal, hanno fatto il giro dei social network mercoledì scorso. Il video è apparso per la prima volta sul canale Telegram del gruppo Wagner il 21 novembre alle ore 17.00 con il commento: “La bandiera del PMC Wagner sventola con orgoglio al centro di Kidal”.

Mali, Kidal: bandiera maliana a sinistra, a destra quella di Wagner, poi tolta da FAMa

Bandiera issata come segno di vittoria dopo la riconquista della città il 14 novembre 2023 da parte delle forze armate maliane (FAMa), supportate dai mercenari. E, va aggiunto, che anche Ouagadougou e Niamey hanno dato una mano a Bamako in questa operazione. Il Niger ha dato in prestito al governo di transizione militare guidato da Assimi Goïta, un aereo cargo e, forse anche un caccia. Per quest’ultimo il condizionale è d’obbligo perché non tutte le fonti concordano sull’utilizzo di questo velivolo da guerra nigerino.

Mentre Ougadougou ha messo a disposizione del Paese amico almeno un drone armato, le autorità di Burkina Faso e Niger hanno inviato ufficiali in supporto delle forze armate maliane a Gao. Queste informazioni sono trapelate dalle forze di sicurezza di Bamako e dai ribelli del CSP, nonché da diversi osservatori che seguono da vicino le attività militari nei Paesi del Sahel.

Anche se i tre governi non hanno dato conferme in tal senso, l’operazione è in assoluta linea con la Charte du Liptako-Gurma (prende il nome delle aree nella cosiddetta regione delle tre frontiere: Mali, Burkina Faso, Niger), siglata dalle autorità dei tre Paesi pochi mesi fa. Si tratta di un’alleanza degli Stati del Sahel con lo scopo di creare un sistema di difesa collettivo e di assistenza reciproca.

Sta di fatto che solamente tre governi si sono complimentati con il Mali per la riconquista di Kidal: il Burkina Faso, il Niger e, ovviamente la Russia.

I ribelli dell’Azawad, firmatari dell’accordo di Pace e di riconciliazione del 2015, non intendono mollare, anche se per il momento si sono ritirati nelle zone montagnose della regione.

Da quando hanno preso il potere i golpisti nel 2020, il monitoraggio dell’accordo di pace è praticamente stato bloccato. Il ritiro dell’operazione francese Barkhane e la partenza dei caschi blu di MINUSMA (missione di pace delle Nazioni Unite in Mali), hanno risvegliato le ostilità.

Una volta ripreso il controllo della città, le forze armate maliane e Wagner stanno occupando gli accessi strategici di Kidal e hanno decretato un coprifuoco notturno. E’ vietato circolare a alta velocità nei pressi di check point e tutti i residenti devono aver a portata di mano i loro documenti di identificazione, anzi devono togliersi anche il turbante in caso di controllo. Nessun civile è autorizzato a indossare abbigliamento del tipo militare, e vige l’obbligo di consegnare armi e divise alle autorità.

Non sono poche le persone incarcerate negli ultimi giorni. Si tratta di insegnanti in pensione, commercianti e altri civili fermati dai soldati e dai mercenari perché sospetti di avere legami con il ribelli o di essere in possesso di informazioni utili. Altri arresti sono stati effettuati anche nell’area di Timbuctù, a Tehardje, vicino a Ber.

Continuano anche senza sosta i saccheggi nelle case dei ribelli, delle loro famiglie e anche in quelle di comuni cittadini, iniziati non appena FAMa e Wagner sono arrivati in città.

E venerdì scorso sono riapparsi anche i terroristi. Miliziani di JNIM (Gruppo di sostegno dell’Islam e dei musulmani), leagati a al Qaeda, hanno attaccato due basi militari di FAMa, a Niafunké et Goundam, nella regione di Timbuctù.

Durante l’aggressione a Niafunké sono morti parecchi soldati e l’assalto è stato rivendicato sabato da JNIM. In un comunicato il gruppo sostiene di esseri impossessato anche di armi pesanti, equipaggiamento militare e 5 autovetture e di aver lanciato granate sulla base di Goundam.

In un brevissimo messaggio le forze armate maliane hanno confermato che nelle due basi sono state lanciate bombe a mano ma di aver respinto l’assalto e messo in fuga i terroristi, senza dare ulteriori dettagli.

E infine una notizia che ha rallegrato il mondo intero. Domenica mattina, 26 novembre, è stato liberato il religioso tedesco Hans-Joachim Lohre, della congregazione dei Missionari d’Africa (o padri bianchi, come vengono chiamati più familiarmente), rapito il 20 novembre 2022 a Bamako. Per poco più di un anno è stato ostaggio dei miliziani di JNIM. Finora non sono stati resi noti dettagli sulla sua liberazione. Bocche cucite a Bamako e Berlino. Ma secondo Serge Daniel, noto giornalista, collaboratore di molte testate e sempre ben informato sui fatti del Sahel, sarebbe stato pagato un riscatto per la liberazione del padre.

Mentre tutto tace per quanto riguarda i tre italiani sequestrati in Mali il 19 maggio dello scorso anno. Rocco Antonio Langone, la moglie Maria Donata Caivano, il 43enne Giovanni, figlio della coppia e un cittadino togolese, autista della famiglia, sono stati prelevati da uomini armati dalla loro casa vicino a Koutiala (regione di Sikasso) nel sud del Mali. Serge Daniel, contattato ieri telefonicamente dalla redazione di Africa ExPress, ha confermato che fino ad oggi sono emersi ulteriori dettagli sul rapimento dei nostri connazionali.

Cornelia I. Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
@cotoelgyes

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Photocredi: RFI

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La stampa che dà fastidio: il governo israeliano vuole chiudere Haaretz

Speciale per Africa ExPress e per Senza Bavaglio
Alessandra Fava
27 novembre 2023

“Se il governo vuole chiudere Haaretz, è venuto il momento di leggere Haaretz”: così l’editore di uno dei quotidiani più famosi e popolari di Israele, chiamato Haaretz, Amos Schocken, ha risposto alla proposta di legge del ministro della Comunicazione israeliano, Schlomo Karhi, di eliminare ogni finanziamento alla testata.

Ministro per le Comunicazioni israeliano, Schlomo Karhi

Haaretz in ebraico significa “terra”, la terra di Israele. Fondato nel 1918 è diventato un punto di riferimento, uno strumento per i giornalisti esteri, dà voce a tutti (dai palestinesi ai movimenti pacifisti), ha fatto da megafono alle recenti proteste contro la riforma della Corte suprema e lo sconvolgimento dei meccanismi di potere. Pubblica che cosa succede nella West Bank e nella Striscia di Gaza (non solo ora che c’è la guerra), fa inchieste, intervista coloni e palestinesi e nomadi del Negev. Dà voce a minoranze e maggioranze.

Con la guerra di Gaza ha lasciato un discreto spazio alle critiche al governo e all’esercito per la mancata difesa dei Kibbutz attaccati violentemente da Hamas per ore nel drammatico 7 ottobre scorso, ha intervistato quotidianamente i parenti dei duecento e passa rapiti da Hamas che hanno esercitato una pressione politica per ottenere il rilascio degli ostaggi.

La scorsa settimana ha pubblicato un approfondimento sull’elicottero da combattimento che avrebbe sparato sui partecipanti al rave party israeliani facendo un certo numero di vittime. E’ molto critico su Netanyahu e la sua fuga dalle inchieste che lo accusano di corruzione.

Tutto questo certo ha dato fastidio (e dà fastidio) a quello che in Israele ora chiamano il triumvirato/gabinetto di guerra, formato dal premier Bibi Netanyahu, il ministro della difesa Yov Gallant e il ministro senza portafoglio Benny Ganz, che fanno comunicazioni urbi et orbi e videoconferenze spesso insieme. La libertà di ospitare opinioni diverse nella testata ha condotto il ministro della Comunicazione a presentare al Segretario di gabinetto Yossi Fuchs, una proposta di legge per vietare la pubblicazione di “note del governo” su Haaretz, in quanto il giornale “sabota Israele in tempo di guerra”, “induce la sfiducia nei soldati e civili israeliani che stanno affrontando il nemico” e “dissemina bugie e pubblica propaganda disfattista”.

La proposta di legge in sostanza vieterebbe l’acquisto del giornale da parte di
qualsiasi istituzione statale e ogni forma di finanziamento al giornale da parte di apparati pubblici. Fino a dove arriva il divieto nella proposta di legge non è chiaro: il giornale non potrebbe più pubblicare alcun annuncio statale, quindi niente neppure su concorsi pubblici o aste e cancellerebbe tutti gli abbonamenti compresi quelli nelle carceri e negli uffici amministrativi, nelle sedi dell’esercito, nei palazzi pubblici in generale.

Il sindacato dei giornalisti israeliani è intervenuto immediatamente con un messaggio di supporto alla testata e ai colleghi: “il ministro deve aver perso la sua strada. Dopo aver fallito nei tentativi di chiudere una società di comunicazione, si attacca a un nuovo obiettivo” e “lancia una proposta populista senza alcuna logica”, cioè tenta di eliminare ogni relazione tra lo Stato e la testata.

Il ministro infatti ha già provato a chiudere una tv libanese, Al Maydeen legata ad Hezbollah. Siccome la tv è connessa anche a quella quatariota Al Jazeeera il gabinetto ha respinto la sua richiesta sulla tv.

Dietro l’affaire Haaretz c’è anche un retroscena. Il 18 novembre alla sera il figlio maggiore di Netanyahu, Yair, sul suo canale Telegram ha criticato l’esercito, la Corte suprema e i media in concomitanza con una conferenza stampa del padre. Netanyahu figlio nel suo post ha attaccato il cambio delle regole di ingaggio al confine con Gaza deciso dalla Corte di giustizia, fattore che avrebbe permesso l’attacco da parte di Hamas.

Yair – che non è nuovo alle esternazioni sui social tanto che in passato alcuni politici hanno proposto di impedirgli ogni commento politico online – ha scritto anche che le soldatesse che passano il tempo ad osservare sugli schermi i movimenti nella Striscia di Gaza dalla postazione militare al confine nord di Eretz e avevano segnalato già mesi fa strani movimenti, hanno ricevuto l’ordine perentorio di un loro superiore “di non rompere le scatole”.

Le soldatesse per mesi hanno dunque visto persone che si muovevano in gruppo nella Striscia a ridosso del confine nord, scavavano, ispezionavano il terreno, arrivavano a ridosso del muro difensivo, una muraglia cinese con una rete che sprofonda nella terra
giudicata imbattibile e di recente costruzione.

Vedevano palestinesi che si appropinquavano, confabulavano con dei gruppi e non sembravano dei contadini. Vedevano anche droni lanciati da Gaza che sorvolavano ispezionando l’area. Nessuno è stato a sentirle. Lunedì 20 il Jerusalem Post raccontava di
Netanyahu figlio e le reazioni dei militari.

Il giorno dopo, il 21 novembre, Haaretz prontamente ha pubblicato una pagina intera con richiamo in prima sulla vicenda. Titolo “Soldatesse avevano avvertito sull’attacco imminente di Hamas – e sono state ignorate”. Haaretz, senza fare riferimento al figliol prodigo, ha intervistato due soldatesse-sentinelle, che hanno denunciato il clima maschilista e la sottostima da parte di colleghi maschi, più anziani e di grado superiore (già tema di un’altra inchiesta passata di Haaretz).

Le spotter o tatspitanit come sono chiamate in ebraico, sopravvissute all’attacco del 7 alla postazione militare, sono riuscite a lanciare l’allarme tra i cadaveri dei loro colleghi. Da allora non riescono a tornare a lavorare a causa dello shock subìto.

La rivelazione di Haaretz a tutta pagina deve essere stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso e così poche ore dopo il ministro della Comunicazione ha consegnato la sua proposta di legge, pubblicando anche su X (ex twitter) un messaggio chiaro sulla sua volontà di eliminare il quotidiano scomodo. Molti giornalisti e opinionisti si sono abbonati ad Haaretz.

INTANTO:
La guerra a Gaza ha toccato i 14.800 morti secondo gli uffici governativi della Striscia. Nella West Bank sono stati uccise dall’esercito israeliano e dai coloni 230 persone dal 7 ottobre. 7 persone sono state uccise da IDF durante i quattro giorni di coprifuoco nella parte nord di Gaza.

Il ministero delle Finanze israeliano ha fatto i conti dei costi della guerra contro Hamas: ogni settimana di guerra a Gaza costa 10 miliardi di shekel (circa 2,5 miliardi di euro alla settimana). A questa cifra sono da aggiungere i costi dei 300 mila riservisti mobilitati: altri 10 miliardi di shekel solo per le prime tre settimane di guerra (2,5 miliardi di euro).

Poi bisogna aggiungere i costi di spostamento della popolazione israeliana dal Negev e dalla Galilea, pari a 1,7 miliardi al mese di shekel (400 milioni di euro circa al mese, essendo tutti ospitati altrove a spese del governo).

Morale, secondo il ministro dell’economia israeliano il Pil da una crescita prevista del 3,2 si aggirerà alla fine dell’anno al massimo su una crescita annuale del 2 per cento, col debito annuale che quadruplica, passando dall’1 al 4 per cento del Pil.

Alessandra Fava
alessandrafava.privacy@gmail.com
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Sierra Leone: scontri a fuoco tra forze sicurezza e uomini armati, liberati centinaia di carcerati

Africa ExPress
Freetown, 26 novembre 2023

Stamattina all’alba i residenti di Freetown, capitale della Sierra Leone, si sono svegliati a suon di colpi di arma da fuoco provenienti dalle caserme vicine alla residenza del presidente Julius Maada Bio. Immediata la reazione del governo, che ha decretato il coprifuoco su tutto il territorio nazionale.

Sierre Leone: spari nella capitale Freetown

Testimoni hanno raccontato ai reporter di AFP di aver sentito forti spari ed esplosioni. Altri hanno raccontato che ci sono stati anche scambi di arma da fuoco nei pressi di una caserma nel quartiere di Murray Town, sede della Marina, e all’esterno di un altro sito militare a Freetown.

Gli uomini armati hanno poi aperto le porte della prigione di Pademba road a Freetown. Molti detenuti sono così scappati mentre altri sarebbero stati sequestrati dagli aggressori. Il ministro dell’Informazione, Chernor Bah, ha spiegato che le forze di sicurezza sono riuscite a “respingere” gli assalitori a Jui, nella periferia di Freetown. Ha poi assicurato che la situazione è comunque sotto controllo.

La prigione centrale Patemba Road, Freetown, Sierra Leone

E, secondo il Gleaner Newspaper Sierra Leone, alcuni soldati che hanno cercato di entrare nel deposito di armi della caserma Wilberforce sono stati arrestati. La città sarebbe ora moderatamente tranquilla sebbene non sia stato chiarito cosa è successo.

Il coprifuoco nazionale è ancora in vigore ed è stato ordinato alla popolazione di rimanere chiusi in casa.

Pare che che tra gli uomini armati catturati, ci sia anche una guardia del corpo dell’ex presidente Ernes Bait Koroma (al potere dal 2007 al 2018).

La Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale (ECOWAS) (la Sierra Leone è uno degli Stati membri) in un comunicato ha descritto l’incidente come un complotto “per acquisire armi e disturbare la pace e l’ordine costituzionale” nel Paese. Anche Washington, Bruxelles e Regno Unito hanno fermamente condannato le violenze.

I dirigenti dell’aviazione civile del Paese (SLCAA) hanno chiesto a tutte le compagnie aeree dell’aeroporto internazionale di Freetown di “riprogrammare i passeggeri in partenza sui prossimi voli disponibili dopo la revoca del coprifuoco”.

Il Presidente Julius Maada Bio è stato rieletto con il 56,17 per cento dei votnati per un secondo mandato lo scorso giugno, dopo un processo elettorale fortemente contestato dall’opposizione. Il suo principale sfidante, Samura Kamara, aveva dichiarato “di non accettare questi risultati falsi e inventati”.

Due mesi dopo la tornata elettorale, alcuni soldati sono stati arrestati e accusati di aver tramato un colpo di Stato contro il presidente.

Malgrado le sue ricchezze del sottosuolo, la Sierra Leone è ancora oggi uno tra i Paesi più poveri al mondo e la piaga della corruzione, presente su tutti livelli, impedisce investimenti e sviluppo, inoltre, la già debole economia soffre ancora oggi dei postumi della terribile guerra civile (1991-2002), costata la vita a oltre 120 mila persone.

Aggiornamento 27 novembre 2023

Il presidente Bio lunedì ha tranquillizzato la popolazione e ha annunciato che gran parte dei responsabili dell’attacco alla caserma sono stati arrestati.
Il coprifuoco è stato ridotto alle ore notturne (dalle 21.00 alle 06.00) e nel pomeriggio hanno riaperto i negozi e le altre attività commerciali.

Issa Bangura, portavoce dell’esercito ha comunicato che durante i disordini di domenica sono morte almeno 20 persone, tra questi 13 soldati e tre di coloro che hanno attaccato la caserma. Sono oltre 1.800 i detenuti che sono riusciti a evadere dalle prigioni

Africa ExPress
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Lotta ai migranti: l’ungherese Orban invia truppe in Ciad

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
24 novembre 2023

E’ risaputo che il governo di Budapest è ostile alla politica europea sui rifugiati, e il presidente magiaro, Viktor Orban, insiste nel ribadire che è necessario “sostenere la gestione dei problemi dove si presentano, piuttosto che far arrivare i migranti in Europa”.

Detto e fatto. Il parlamento ungherese ha approvato il 6 novembre scorso (143 voti a favore, 30 contrari e 2 astenuti) l’invio di 200 militari in Ciad.

6 Novembre 2023: Parlamento ungherese approva invio di truppe in Ciad

I rifugiati provenienti dal Sudan (in fiamme da un conflitto interno da oltre 7 mesi),  e che si stanno cercando protezione in Ciad, fanno tremare l’Ungheria. Dunque bisogna correre ai ripari. Per questo motivo già a luglio, Orban ha spedito una delegazione, capeggiata da Tristan Azbej, segretario di Stato agli Esteri e del Commercio, a N’Djamena, dove è stato ricevuto dal presidente della giunta di transizione, Mahamat Idriss Deby Itno.

E martedì scorso, il nuovo ministro della Difesa ciadiano, Dago Yacouba, si è recato a Budapest, dove ha incontrato il suo omologo magiaro, Kristóf Szalay-Bobrovniczky, per discutere i dettagli sulla missione militare ungherese nella ex colonia francese.

Durante i colloqui, i due ministri hanno discusso in dettaglio il ruolo autonomo (non legato all’Unione Europea) dell’Ungheria nel Paese saheliano e hanno firmato un accordo di cooperazione militare tra i due governi.

L’Assemblea nazionale ungherese ha votato in favore alla missione, dopo aver preso atto anche della lettera di invito del capo di Stato ciadiano.  L’interesse per il Ciad del governo di Orban è legato principalmente al problema migranti: diminuire la pressione dell’immigrazione “clandestina” sull’Europa; contemporaneamente il Paese africano vuole contribuire anche alla stabilità del Sahel e aumentare la sicurezza nella regione.

In primavera pertanto, 200 soldati ungheresi (sono stati autorizzati fino a 400 uomini nel periodo di rotazione) partiranno alla volta del Ciad. Il contingente resterà nel Paese fino al 31 dicembre 2025. Secondo i media ungheresi, le truppe saranno equipaggiate con armamenti e mezzi militari. Svolgeranno anche compiti di consulenza, supporto e tutoraggio sul campo di battaglia, protezione dei cittadini ungheresi e dei loro interessi in loco, sosteranno, inoltre, la lotta contro il terrorismo.

Secondo fonti governative ungheresi, il ministro della Difesa ha precisato: “Quanto sta accadendo nella regione del Sahel si riflette anche sui confini ungheresi, motivo per il quale abbiamo deciso di svolgere un ruolo attivo nel preservare la stabilità del Ciad, fornendo un complesso pacchetto di assistenza, compresa una missione militare. Questa azione è in linea con l’impegno di Budapest ad affrontare i problemi di sicurezza e migrazione alla fonte, concentrandoci sulla prevenzione”.

Il ministro della Difesa del Ciad, Dago Yacouba, e il suo omologo ungherese, Kristóf Szalay-Bobrovniczky, durante l’incontro a Budapest del 21 novembre scorso

Dal canto suo, Yacouba, ha sottolineato che N’Djamena deve affrontare molte sfide e ha bisogno dell’aiuto dell’Unione Europea, dell’Ungheria e dell’Africa. A suo avviso, la nuova cooperazione tra i due Paesi è fondamentale per costruire la pace.

L’impegno dell’Ungheria nel Sahel risale alla fine del 2021. Allora Budapest si era impegnato ad inviare  80 soldati per partecipare alle operazioni della task force europea Takuba, dispiegata in Mali.

Il contingente europeo Takuba, poco dopo il suo dispiegamento  ha però dovuto fare  le valige per pressioni esercitate della giunta militare di transizione maliana.

Mentre il segretario di Stato di Budapest, Azbej, responsabile del programma in Ciad, ha precisato che sarà istituito inoltre un centro permanente di aiuti umanitari (comprenderà anche un centro medico nella capitale) ed economici . “Il Ciad è l’unico Paese stabile nella regione del Sahel e non deve essere lasciato solo”, ha poi aggiunto.

L’Università ungherese di scienze agrarie sta progettando di creare un’azienda agricola modello per sostenere la produzione locale di cibo. Il personale universitario sta già testando tecnologie di irrigazione e produzioni agricole resistenti alla siccità nella regione, poiché la desertificazione, la carestia e la scarsità d’acqua rappresentano le sfide più serie.

All’inizio di dicembre una delegazione ungherese, capeggiata dal ministro degli Affari Esteri, Péter Szijjártó si recherà a N’Djamena. Scopo principale della vista è inaugurazione della nuovissima ambasciata nel Paese.

La futura cooperazione militare tra l’Ungheria e il Ciad potrebbe contribuire a sfidare l’influenza della Francia, che, dopo aver lasciato il Mali, il Burkina Faso e il Niger dispone di un migliaio di uomini nella sua ex colonia, finora (ancora) l’ultima sua roccaforte nel Sahel.

Cornelia I. Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
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Photocredit: Governo ungherese

Pace lontana in Sudan, in Darfur i paramilitari janjaweed si dedicano al genocidio

Niger sempre più isolato: via i militari francesi e finanziamenti internazionali sospesi

I drammatici cambiamenti climatici riducono il lago Ciad provocando conflitti per la sopravvivenza e migrazioni

Orrore nel Sahel: continuano i massacri in Burkina Faso e il Ciad espelle ambasciatore tedesco, criticava il regime

 

Marocco: per i migranti è Tétouan l’ultimo miraggio per raggiungere l’Europa

Speciale per Africa ExPress
Federica Iezzi
23 novembre 2023

Vecchia connessione tra continente africano e Europa, in Marocco si moltiplicano le partenza dei migranti da Tétouan, ex capitale del protettorato spagnolo e oggi capoluogo amministrativo del Rif occidentale.

Photo credit UNHCR

Dall’inizio degli anni ’90, le enclave spagnole in Marocco di Ceuta (provincia di Tétouan) e Melilla (provincia di Nador), insieme alla regione meridionale spagnola dell’Andalusia, e per breve tempo le Isole Canarie, sono emerse come le principali aree di prima accoglienza in Spagna, per i migranti provenienti principalmente da Senegal, Mali, Niger e Mauritania.

Punto critico rimane Ceuta, enclave spagnola all’estremità settentrionale del Marocco: trampolino di lancio per migliaia di migranti africani che cercano di attraversare il Mediterraneo verso l’Europa.

La sua importanza è cresciuta a causa delle forti limitazioni europee, imposte per le attività di ricerca e soccorso nel Mediterraneo. La costa settentrionale del Marocco è a meno di 10 miglia dai litorali spagnoli, attraverso lo stretto di Gibilterra.

L’anomalia geografica di Ceuta, rappresenta per i migranti, una volta entrati, un punto d’appoggio nell’Unione Europea. Ceuta è strettamente integrata nella rete urbana del nord del Marocco: è vicina a Tétouan e Tangeri, e il suo porto forma un triangolo logistico insieme al porto di Tangeri-Med e Tangeri Ville.

Il panorama migratorio di Ceuta è stato completamente trasformato dalla chiusura della frontiera terrestre con il Marocco nel marzo 2020. L’arresto della circolazione transfrontaliera ha paralizzato non solo attività commerciali, ma ha anche ridotto drasticamente le vie per l’immigrazione. La frontiera terrestre di Ceuta con il Marocco è stata riaperta nel 2022, ma solo per i titolari di passaporto europeo e per i cittadini marocchini con documenti di viaggio e permessi di soggiorno validi nell’area Schengen.

Parimenti alla Libia, anche in Marocco si assiste a respingimenti, maltrattamenti, violenze e incursioni nei campi informali di migranti, provenienti dall’Africa sub-sahariana, da parte delle forze di sicurezza marocchine. Storie di fame, sofferenza e morte.

Spesso sono persone che attraversano l’Africa da più anni, che prima di raggiungere l’Europa mediante la rotta libica, vengono arrestate e trattenute ingiustamente. Sono persone che nonostante la repressione della polizia e i pericoli in mare, non tornano indietro. All’inizio del viaggio, tutte sono ignare del fatto che gran parte dell’Europa reprime ogni tentativo di immigrazione.

Il governo marocchino, spinto da quello spagnolo, insiste sul fatto che le operazioni di trasferimento dei migranti prima in altre città, poi al confine algerino, sono tentativi legittimi di combattere l’immigrazione clandestina.

E così da Tarajal, principale punto di ingresso sul lato sud dell’enclave di Ceuta, i migranti vengono spediti direttamente nella città di confine di Fnideq. Quelli che riescono a sfuggire ai rastrellamenti delle forze di sicurezza restano giorni nella vicina foresta di Belyounech o nell’area di Fahs-Anjra.

I servizi della regione Tangeri-Tétouan-Al Hoceima stanno aumentando le attività di pianificazione e realizzazione di azioni punitive al fine di prevenire movimenti organizzati di immigrazione clandestina.

Intanto i residenti della città multietnica spagnola di Ceuta sono abituati a subire le crepe nella fragile alleanza tra Spagna e Marocco.

Quest’ultimo è stato oggetto di forti pressioni da parte di Madrid affinché impedisse ai migranti di ammassarsi nelle enclavi spagnole di Ceuta e Melilla. Ciò significa che il compito di tenere gli immigrati africani fuori dall’Europa viene, in effetti, “subappaltato” al Marocco, pronto a uccidere per conto dell’Europa stessa.

Federica Iezzi
federicaiezzi@hotmail.it
Twitter @federicaiezzi
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Rappresaglia del Marocco contro la Spagna: migliaia di migranti all’assalto di Ceuta

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I media israeliani rivelano: un elicottero dell’esercito ha mitragliato i partecipanti al rave party di inizio guerra

Speciale per Africa ExPress
Alessandra Fava
22 novembre 2023

All’indomani del sanguinoso attacco ai kibutz israeliani a ridosso della Striscia di Gaza (da vedere la carta elaborata da Limes https://www.limesonline.com/carta-operazione-al-aq%e1%b9%a3a-hamas-gaza-palestina-israele/134391), era già emerso da dichiarazioni e interviste ai sopravvissuti, che non poche vittime erano state falciate dall’esercito israeliano intervenuto nel panico totale sul luogo e diverse ore dopo il blitz di Hamas.

Elicottero israeliano spara sul rave

 Israele il 7 ottobre ha contato 1.400 vittime tra militari e civili. Bee’ri, kibutz simbolo fondato nel 1946, dove ancora vige il principio della condivisione comunitaria, ha avuto il numero massimo di morti: 100. La società israeliana ha subito un lutto incredibile con centinaia di funerali nelle settimane successive e fino ad oggi.

Nelle dichiarazioni sui quotidiani e TV molti sostengono che si è trattato di un lutto collettivo e che molti hanno partecipato a diversi funerali di familiari e amici e conoscenti. Alcune vittime sono state riconosciute solo pochi giorni fa e qualche funerale è stato celebrato senza ritrovare i corpi, ma solo tracce di DNA che gli haredim, gli ebrei ortodossi, sono andati a recuperare al Rave party a ridosso di Gaza o nei kibutz adiacenti. 

Il 18 novembre Haaretz ha pubblicato un articolo, ripreso con grande enfasi dai media occidentali e tradotto parola per parola da Al Jazeera, https://www.aljazeera.com/news/2023/11/18/hamas-had-not-planned-to-attack-israel-music-festival-israeli-report-says, in cui in sostanza si dice che il rave non era un obiettivo di Hamas, che molti dei 4.400 partecipanti se n’erano già andati e che le vittime (364) sono state fatte anche dal contrattacco delle forze israeliane intervenute con carri armati ed elicotteri, facendo una strage.

In particolare ci sarebbero stati spari da un elicottero da combattimento. Il quotidiano israeliano Haaretz il 18 novembre scrive che “secondo apparati della sicurezza israeliana gli attentatori di Hamas del 7 ottobre non sapevano di Nova (il nome del rave party, ndr.) e solo al momento hanno deciso di farne un target, mentre erano diretti nei kibutz di Re’im e quelli vicini”.

La conclusione arriva anche dagli interrogatori fatti ai terroristi arrestati. Quindi dalle “risultanze l’elicottero da combattimento intervenuto sul luogo e che sparando agli attentatori ha colpito anche i partecipanti al rave”.

Il Rave Nova per altro era stato pianificato per giovedì e venerdì e solo il martedì gli organizzatori avevano deciso di prolungarlo fino alla mattina dopo, quella in cui alle ore 6 è partito l’attacco degli attentatori. 

Già dopo il 7 ottobre, dalle dichiarazioni di alcuni sopravvissuti nei kibutz e al rave era emerso che c’era stata una pioggia di fuoco e alle critiche sui media il governo aveva annunciato un’inchiesta che in effetti è in corso ma le cui risultanze saranno rese note a guerra finita o forse dopo l’eventuale caduta del governo Netanyahu. 

Chi ha fatto un’inchiesta approfondita, basata su immagini, video e documenti raccolti sul web, è Max Blumenthal, giornalista e blogger statunitense che a Gaza ha già dedicato ampie inchieste nelle guerre precedenti. La sua inchiesta è leggibile su thegreyzone.com  (https://thegrayzone.com/2023/11/18/video-what-happened-october-7/).

Una parte è stata pubblicata il 27 ottobre, con il  titolo “7 ottobre: i testimoni rivelano che i militari israeliani hanno bombardato cittadini israeliani con carri armati e missili”. Sottotitolo “I militari israeliani hanno ricevuto l’ordine di bombardare le case israeliane e anche le loro postazioni mentre venivano attaccati dai militanti di Hamas il 7 ottobre. Quanti cittadini israeliani dicono di essere stati bruciati vivi mentre venivano in realtà attaccati da fuoco amico?”.  https://thegrayzone.com/2023/10/27/israels-military-shelled-burning-tanks-helicopters/.

L’interrogativo resta. Blumenthal basa i suoi dubbi sulle dichiarazioni di Tuval Escapa, coordinatore della sicurezza del kibutz di Bee’ri e diversi altri sopravvissuti. In un commento del 20 ottobre, firmato Amos Harel su Haaretz, già si parlava delle debolezze militari che hanno permesso l’attacco di Hamas e dell’illusione del governo che l’organizzazione palestinese ormai fosse tenuta a bada per sempre.

Isrele: strage al rave party

Ancora il 20 ottobre Haaretz riferiva di dodici morti a Bee’ri deceduti a causa della controffensiva dell’IDF (Israel Defense Forces), che, per eliminare i terroristi, hanno ucciso anche gli abitanti. A Bee’ri risultano anche distrutte 350 case (fonte IDF citata da Haaretz domenica 19 novembre 2023) dei 1.200 abitanti (di cui 100 morti e 25 rapiti). 

La stessa cosa è successa al Rave, dove testimoni sopravvissuti, come Danielle Rachiel, dicono di essersi trovati in una pioggia di fuoco amico. Due intervistati dai giornali se la sono cavata stando ore sugli alberi, senza scendere neppure all’arrivo dei soldati israeliani. 

Dopo l’attacco i kibutz sono mezzi distrutti come si vede anche dalle foto recuperate da Blumenthal e sono stati subito svuotati. Chi è ancora vivo è stato portato in strutture sul Mar Rosso ad Eilat dove viene assistito da psicologi. Anche Sderot e altri centri a ridosso della Striscia sono stati evacuati. Tra gli abitanti del Negev e quelli di altre aree a rischio (vicino alla frontiera col Libano ad esempio) si calcolano 250 mila israeliani evacuati dal governo.

Alessandra Fava
alessandrafava2023@proton.me
©️ RIPRODUZIONE RISERVATA

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Fotocredit: The Grayzone

Ucraini fanno la guerra alla Russia in Sudan

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
21 novembre 2023

Gli oltre 10mila morti in Sudan non fanno notizia. Questa terribile guerra, segnata da atrocità indescrivibili continua la sua corsa senza sosta. I combattimenti tra le Rapid Support Forces (RFS), capeggiate da Mohamed Hamdan Dagalo, meglio noto come Hemetti, e le forze armate sudanesi di Abdel Fattah Abdelrahman al-Burhan, presidente del Consiglio Sovrano e di fatto capo di Stato, stanno facendo a pezzi il Paese e costringono i civili a sopravvivere in condizioni invivibili.

Sudan: civili disperati in fuga dalla guerra

Se da un lato le RFS sono sostenute dai mercenari russi dalla società Wagner che li ha anche addestrati e con armi dagli Emirati Arabi Uniti, come è stato ampiamente documentato anche dal New York Times lo scorso settembre, gli ucraini ora stanno fornendo assistenza diretta alle truppe governative.

Già a settembre la CNN aveva dato notizia di trasferimento bellico da Kiev verso l’ex protettorato anglo-egiziano e operazioni effettuate con droni che avrebbero colpito postazioni delle RSF. Ora spuntano anche uomini delle forze speciali ucraine nei pressi di Khartoum.

Forze speciali ucraine a Omdurman, Sudan

Il 6 novembre scorso il Kyiv Post, principale quotidiano ucraino in lingua inglese, ha pubblicato un video che riporta scene di attacco in una città indicata dal media come sudanese, senza però specificarne il nome. Il filmato, girato di notte da un drone, dotato di telecamera termica, mostra soldati che indossano occhiali per la visione notturna mentre sparano granate a razzo contro un edificio.

Il giornale ucraino ha poi spiegato che, secondo una fonte del settore sicurezza e difesa del suo Paese, è in corso un’operazione per “ripulire Wagner, i suoi terroristi locali (RSF, ndr) e i servizi speciali della Federazione Russa” nel Paese africano. L’interlocutore dei reporter del Kyiv Post ha poi aggiunto: “Il filmato mostra probabilmente il lavoro delle unità speciali della Direzione principale dell’intelligence del ministero della Difesa ucraino (HUR)”. Rifiutando però di fornire ulteriori dettagli per motivi di sicurezza.

Anche il quotidiano francese, Le Monde, in un suo articolo di pochi giorni fa, ha affermato di aver consultato una fonte ucraina, la quale ha confermato che uomini delle forze speciali di Kiev e membri dell’intelligence militare, si trovano attualmente in modo permanente in Sudan.

Alcuni video, pubblicati su diversi social network già il 6 ottobre scorso, sono stati analizzati dai specialisti di Bellingcat (collettivo investigativo indipendente di ricercatori, investigatori e giornalisti), che sono riusciti a geolocalizzare la posizione di un cecchino sulle montagne di Al-Markhiyat, a ovest di Omdurman. Nella città gemella di Khartoum, sulla altra sponda del Nilo, ha poi avuto luogo l’attacco del 6 novembre scorso ripreso nel filmato, combattimenti feroci riportati anche in un articolo di Africa ExPress del 10 novembre.

Cecchino ucraino sulle montagne Al-Markhiyat, a ovest di Omdurman Photo Credit Bellingcat

L’Ucraina sta tentando di espandere la sua presenza in Africa con l’obiettivo di combattere i paramilitari di Wagner e non solo. Kiev ha digerito male il fatto che solamente 28 governi africani su 54 avevano votato contro l’invasione russa in occasione della risoluzione proposta dalle Nazioni Unite il 2 marzo scorso.

Ma anche le strategie di RSF sono molteplici e visto che le sanzioni internazionali imposte ai vertici dei paramilitari ex janjaweed impediscono ai loro leader di recarsi all’estero, stanno lanciando il fratello minore di Hemetti, al-Gony Hamdan Dagalo, come nuovo “ambasciatore” del gruppo. Tant’è vero che African Intelligence ha riportato in un suo articolo di pochi giorni fa che il fratellino del leader dei tagliagole sudanesi sia stato visto a Roma lo scorso ottobre per una serie di incontri. Top secret sui suoi interlocutori. Finora non è spuntato alcun nome.

Al-Gony, poco conosciuto dai più, è residente a Dubai, è però molto attivo nell’ambito delle RSF: coordina le campagne online dei paramilitari e dirige le proprietà di famiglia in Sudan. Tra queste anche la GSK Advance Co, una holding che almeno fino alla fine del 2020, “ha lavorato con Aviatrade LLC, una società di forniture militari con sede in Russia”, afferma African Itelligence.

Secondo indagini giornalistiche di Africa Express, la società Aviatrend, di proprietà del russo Valery Cherny, è stata accusata di diversi trasferimenti di armi dagli arsenali dell’ex Unione Sovietica, specie quelli ucraini, ai più sanguinari dittatori africani, compreso a suo tempo il liberiano Charles Taylor. L’ Aviatrend è stata coinvolta nel riciclaggio di denaro di Slobodan Milošević.

Qualche anno fa l’Aviatrend ha trasferito  113 tonnellate di proiettili dall’Ucraina alla Costa d’Avorio. I documenti bancari mostrano la traccia del denaro: 1 milione di dollari è stato pagato alla società russa Aviatrend, che ha intermediato l’acquisto di armi e noleggiato l’aereo per la consegna. Un pagamento di 850.000 dollari è stato versato su un conto Aviatrend nella Cipro turca; il resto è stato versato su un altro conto Aviatrend presso la Chase Manhattan Bank di New York. Entrambe le transazioni riportavano il riferimento “Acquisto di materiale tecnico/strumenti di lavorazione del legno”.

Il ruolo svolto da al-Gony Dagalo in GSK è stato rivelato dall’ONG americana C4ADS, che lo descrive come la chiave di volta di una nebulosa rete di aziende specializzate in settori diversi come l’informatica, la logistica e l’agricoltura. GSK Advance LLC è stata sanzionata dal tesoro di Washington lo scorso settembre.

Regione di Abeyi, contestata da Sudan e Sud Sudan

E come non bastassero i morti causati dalla guerra dei due generali, nell’Abeyi sono state ammazzate 32 persone. La regione gode di uno speciale statuto amministrativo e si trova tra il Sudan e il Sudan del Sud. Nella zona, ricca di petrolio e contesa tra i due Stati sin dall’indipendenza del Sud Sudan nel 2011, durante due aggressioni sono stati bruciati vivi nelle loro povere capanne molti bambini e donne. I feriti sono oltre 20, tra questi anche un casco blu della missione FISNUA (Forza di sicurezza provvisoria delle Nazioni Unite per l’Abeyi, ndr), mentre un altro ha riportato lesioni. Secondo alcune fonti, i due attacchi sarebbero stati perpetrati da uomini armati che indossavano divise dei militari sud sudanesi.

Mentre la scorsa settimana il governo di Khartoum ha chiesto ufficialmente di mettere fine alla Missione integrata delle Nazioni Unite per l’assistenza alla transizione in Sudan (UNITAMS), operativa dal 2020. Già a giugno il capo della missione, Volker Perthes, è stato dichiarato persona non grata nel Paese. Oltre al Sudan, anche la Repubblica Democratica del Congo ha preteso che i caschi blu di MONUSCO facciano i bagagli, mentre quelli di MINUSMA (Mali) stanno terminando la chiusura definitiva delle loro basi e dovrebbero lasciare la ex colonia francese entro la fine di dicembre.

Cornelia I. Toelgyes
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Videocredit: Kyiv Post
Fotocredit: Bellingcat 

Pace lontana in Sudan, in Darfur i paramilitari janjaweed si dedicano al genocidio

Ucraina ed Emirati intervengono in Sudan e la pace si allontana

Khartoum, evacuato l’orfanotrofio dove i neonati sono morti di fame