Purtroppo, la guerra in corso a Gaza oltre a cagionare morte, distruzione e disperazione in Palestina ha provocato una guerra mediatica che sta scuotendo l’informazione di tutto il mondo. La propaganda è sempre stata una componente dei conflitti, ma oggi con i mezzi di comunicazione moderni sta diventando più subdola e penetrante.
In particolare, è esplosa qualche giorno fa una polemica sull’uso della parola “terroristi” per descrivere l’odiosa, feroce ed efferata azione portata dagli uomini di Hamas contro Israele e gli israeliani il 7 ottobre scorso.
La BBC, il New York Times, il Washington Post chiamano gli uomini di Hamas “militanti”, perché la parola “terroristi” implica una connotazione politica negativa, come se Hamas compia gli orrori e i massacri senza uno scopo preciso. Quasi siano fini a se stessi. L’uso della parola “terroristi” riferita ad Hamas comunica al lettore che gli autori sono dei criminali. Solo criminali, escludendo che possano essere combattenti per la libertà.
Anche noi di Africa ExPress li chiamiamo militanti, proprio perché la lotta armata di Hamas ha uno scopo ben preciso: liberare una regione da un regime autoritario che esercita il potere in modo violento e aggressivo. La lotta di Hamas è paragonabile a quelle combattute in Africa e in Oriente da chi lottava per la libertà. Allora i combattenti erano chiamati guerriglieri, un termine che conteneva, in fondo, una sorta di giustificazione alla lotta armata.
Se non vogliamo chiamarli militanti, chiamiamoli guerriglieri, ma non terroristi, per non cadere nel clamoroso errore in cui governi e media sono caduti quando hanno definito terrorista un combattente poi riconosciuto “eroe” in tutto il mondo: Nelson Mandela.
Un esempio istruttivo che dovrebbe insegnare ai sostenitori della definizione “terroristi” a essere più prudenti nell’uso di questa parola. Mandela venne definito terrorista perché aveva cofondato l’organizzazione Umkhonto we Sizwe (“Lancia della nazione”, abbreviato in MK, l’ala militare dell’African National Congress) e ne era diventato presidente. Gran Bretagna, Stati Uniti e gran parte dei Paesi europei, nonché diversi media, l’avevano bollato come terrorista, seguendo le indicazioni del regime razzista sudafricano che l’aveva cacciato in galera per 27 anni.
La Commissione per la Verità e la Riconciliazione, istituita in Sudafrica nel 1995 dopo la caduta del regime razzista, riconobbe che nel corso della guerra di liberazione l’ANC, si era reso responsabile di gravissime violazioni dei diritti umani.
Cancellata con tante scuse la definizione di terrorista, Mandela, che non ha mai rinunciato alla lotta armata (come lui stesso spiega in questo video), è diventato presidente del Sudafrica, insignito del premio Nobel per la pace e riconosciuto eroe combattente per la libertà in quasi tutto il mondo.
P.S. Piccolo argomento di riflessione: anche i fratelli Bandiera, gli eroi italiani del Risorgimento, vennero definiti nelle cronache dell’epoca “briganti”, parola che all’epoca era sinonimo di criminali e che oggi si potrebbe paragonare a “terroristi”.
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Speciale per Africa ExPress Alessandra Fava
6 dicembre 2023
L’attacco prolungato a Gaza con bombardamenti indistinti anche sugli ospedali e in aree abitate continua a colpire la popolazione civile. Secondo le autorità palestinesi, i morti superano le 16 mila unità. Dei vivi, su 2 milioni e 300 mila abitanti prima della guerra, oggi un milione e novecento mila sono sfollati, senza più una casa (dati UNRWA, l’Agenzia delle Nazioni unite per i rifugiati palestinesi).
L’intento dichiarato di eliminare Hamas dalla Striscia di Gaza, reiterato in tutte le dichiarazioni e le conferenze stampa del premier Benjamin Netanyhau, comporta che Gaza venga rasa al suolo. Per uccidere un membro di Hamas fanno morire mille civili.
Gli Stati uniti da un lato stanno mandando ad Israele bombe ad alta penetrazione ( scoop del Wall Street Journal di pochi giorni fa https://www.wsj.com/world/middle-east/u-s-sends-israel-2-000-pound-bunker-buster-bombs-for-gaza-war-82898638), dall’altro Kamala Harris ha detto che Gaza deve restare palestinese e gli Usa appoggiano la soluzione dei due Stati, che sembra sempre più una chimera con più di 700 mila coloni installati in Cisgiordania.
L’attacco sanguinoso di Hamas del 7 ottobre che ha comportato la morte di 1.200 persone e il rapimento o la morte di 240 ostaggi ha dato la stura alla vendetta. La maggior parte della gente in Israele ritiene sia giusto eliminare Hamas. I giornali non parlano molto delle vittime palestinesi, piuttosto dibattono sulla necessità di una buffer zone, una zona cuscinetto tra Israele e la Striscia di Gaza per “allontanare” il pericolo di incursioni. Di fatto il governo è determinato ad estendere il controllo dell’IDF, l’esercito israeliano, su tutta la Striscia.
Del popolo palestinese non si sa che cosa succederà. In rete circola un progetto di dislocarne una parte in Giordania, una parte in Egitto, una parte in Libano. La fonte sarebbe americana, difficile verificarne la credibilità. Sta di fatto che l’esercito israeliano cerca di spostare la popolazione gazawi da un’area della Striscia a un’altra inviando messaggi sui social. L’obiettivo dichiarato a parole dal governo israeliano di salvare la popolazione civile e non coinvolgerla in bombardamenti si è risolto in mappe degli attacchi via internet. E infatti in una giornata sola (3 dicembre) sono morte 800 persone.
In questa carneficina, è utile valutare con attenzione i progetti recenti del governo israeliano, esplicitati urbi et orbi, dopo aver firmato nel 2020 l’Accordo di Abramo con l’Arabia saudita,il Barhein e gli Stati uniti.
Il premier Bibi Netanyhau intervenendo il 22 settembre del 2023 all’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha disegnato il nuovo Corridoio che va dall’India all’Arabia saudita e dal Golfo di Aqaba (Mar Rosso) finisce in Israele e sul Mediterraneo. Bibi davanti al mondo ha tratteggiato una riga rossa che attraversa l’Arabia e arriva sulla Striscia. Ecco il disegno e le parole https://www.youtube.com/watch?v=fRHNgppUeIs oppure youtube.com/watch?v=Atag74u01AM
Nel discorso alla Nazioni Unite di settembre scorso, il premier israeliano ha anche spiegato che oltre al legame con l’Arabia saudita e gli Emirati, “due settimane fa, abbiamo visto un’altra benedizione. Alla conferenza G20, il presidente Biden, il primo ministro (indiano ndr.) Modi, e i leader europei e arabi hanno annunciato piani per un corridoio visionario che attraversi la penisola araba e Israele. Connetterà l’India all’Europa, con linee marittime, ferroviarie, oleodotti e cavi di fibra ottica. Questo corridoio bypasserà i controlli marittimi e renderà meno costosi i trasporti di merci ed energia per oltre 2 miliardi di persone. Vedete come Israele è situato tra Africa, Asia ed Europa”.
E’ evidente che nei “controlli marittimi” si legga anche che viene messo in cantina il canale di Suez, destinato secondo questo progetto a diventare secondario. E’ chiaro così l’intento di indebolire l’Egitto, togliergli le entrate provenienti dal passaggio delle navi nel canale di Suez e ridurre i rischi di attacchi da parte degli yemeniti. E’ legittimo chiedersi che cosa resta della Striscia di Gaza palestinese in questo “tremendous change” economico previsto dal “Corridoio”. E infatti la stanno radendo al suolo.
A fronte di queste sorti magnifiche e progressive, i media arabi e indiani sono tornati su vecchio progetto: quello del Canale Ben Gurion, alternativa al Canale di Suez, che di recente sarebbe stato rilanciato da un blogger siriano (fonte Wikipedia https://en.wikipedia.org/wiki/Ben_Gurion_Canal_Project). Andrebbe da Elat (Israele) alla Striscia di Gaza, quindi sul Mediterraneo, a sud di Haifa.
E’ un progetto di cui si parla dagli anni Sessanta. Prevede scavi importanti nelle rocce desertiche, ma il canale avrebbe il vantaggio di avere il fondo di roccia e quindi eviterebbe gli insabbiamenti del Canale di Suez (ci sono state diverse navi insabbiate tra cui quella del 2021). Un esperto di commercio marittimo genovese alla domanda strabuzza gli occhi, dice che non ne ha mai sentito parlare e lo giudica impossibile da realizzare.
Comunque, da parte di Israele, è chiara la volontà di creare nuove infrastrutture per avere il controllo commerciale, strategico ed economico dell’area. Poi che siano ferrovie o vie di mare sarà da vedere. Certo bisognerà considerare che il Pireo è in mano ai cinesi come Dubai, ma si può sempre saltare il Pireo e navigare verso il Mediterraneo occidentale.
Israele infatti sta rafforzando il porto di Haifa, privatizzato nel 2022 da una partnership indo-israeliana, formata dal gigante indiano Adani (che opera in energie alternative, porti, areoporti, infrastrutture e cemento con partnership militari con Israele) e da quello israeliano Gadot.
Il porto di Haifa che fungerebbe da punto di connessione con le nuove tratte indo-europee ha avuto un boom nell’automatizzazione solo nell’ultimo anno, attirando la metà dell’automotive nazionale nel 2023 contro il 12 per cento dell’anno prima 2022. Il porto di Haifa gestisce il 32 per cento del traffico di container in Israele e contando anche i container vuoti raggiunge il 39 per cento.
Inoltre poco a nord di Haifa è stato scoperto un nuovo giacimento di gas naturale off-shore in acque israeliane e proprio a guerra di Gaza scoppiata, l’azienda petrolifera statunitense Chevron ha ripreso l’estrazione di gas sulla piattaforma di Tamar su ordine del governo israeliano. Tamar si trova a 12 miglia fuori della Striscia di Gaza e il governo reputa che ora non sia più a rischio. Col gas russo sotto embargo troveranno sicuramente dei mercati.
Sarà interessante vedere nel tempo come terranno gli Accordi di Abramo. L’Arabia saudita, per rispondere in qualche modo alle proteste e alle manifestazioni di piazza contro lo sterminio della popolazione di Gaza, ha appena deciso di chiedere il blocco delle esportazioni di armi a Israele, una sorta di embargo limitato al militare.
L’11 novembre, nel vertice dei Paesi arabi a Ryad, è stato chiesto il cessate il fuoco immediato e anche il principe saudita, Mohammd bin Salman, aveva rimarcato la soluzione dei due Stati. Anche l’India di Modi alla Cop28 di Dubai si è limitato a dire che appoggia la soluzione dei due Stati. Tuttavia l’8 novembre il ministro dell’economia saudita Khalid al-Falih ha detto che la normalizzazione dei rapporti tra Israele e l’Arabia saudita è ancora in corso. Tenendo fede a quanto stabilito anche con gli Usa, l’Arabia ne ricaverebbe la possibilità di commercio di armi con gli Stati uniti e lo sviluppo del nucleare per uso civile.
Così gli altri Paesi dell’area stanno organizzando un nuovo fronte. L’Iran alla fine di novembre ha stabilito nuovi contatti con la Giordania in funzione anti-Arabia saudita, dopo che la Giordania la settimana prima aveva deciso di non firmare degli accordi di scambi acqua contro elettricità con Israele a causa della guerra a Gaza.
La ratifica dell’accordo, che prevedeva che la Giordania desse acqua ad Israele ricevendo in cambio energia elettrica, era prevista per il mese di ottobre, ma è diventata carta traccia. I due Paesi avevano ritrovato una certa collaborazione e pace con un accordo del 1994 che stabiliva anche la restituzione di 380 km quadrati da Israele alla Giordania e la risoluzione delle dispute sulle acque.
Pochi giorni fa però il ministro degli Esteri giordano, Ayman Safadi, parlando con Al Jazeera, il canale tv quatariota, ha spiegato che la guerra a Gaza ha fermato ogni accordo commerciale con Israele e ha aggiunto che “nel 1994 abbiamo firmato un accordo come parte di un impegno da parte dei Paesi arabi affinché si arrivasse alla soluzione dei due Stati. Questo non è successo. Israele non ha tenuto fede alla sua parte di impegno. Quindi l’accordo di pace rimane nel dimenticatoio a prendere polvere per ora”.
Insomma la Giordania ha assunto un atteggiamento bellicoso con Israele, confermato anche dal fatto che il governo starebbe prendendo in considerazione la possibilità di presentare ricorso alla Corte Penale Internazionale per crimini di guerra, come è stato appena fatto anche dalla Turchia.
Tornando al discorso di Bibi alle Nazioni Unite, Netanyhau rimarcando come sia importante l’appoggio dei Paesi arabi per una soluzione di pace, ha ricordato che “the Palestinians are only 2% of the Arab world”. Se l’altro 98 sta con Israele è fatta. Con o senza Gaza palestinese.
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Speciale per Africa ExPress Cornelia I. Toelgyes
5 dicembre 2023
Una delegazione russa, capeggiata dal viceministro della Difesa, Iounous-bek Bamatguireïevitch Evkourov, è stata ricevuta ieri a Niamey dal presidente della giunta militare di transizione, Abdourahamane Tchani. Durante l’incontro, le parti hanno siglato alcuni documenti per rafforzare la cooperazione militare tra il Niger e la Federazione Russa.
La delegazione di Mosca, prima di raggiungere Niamey, domenica scorsa si è recata a Bamako, il principale alleato in Sahel della Russia, dopo la presa del potere dei militari nell’agosto 2020. Alla fine della visita, il ministro dell’Economia maliano, Alousséni Sanou, ha specificato che i colloqui tra le due parti si sono concentrati su “progetti di sviluppo per il Paese, in termini di energia rinnovabile e nucleare”, nonché su “questioni relative alla fornitura di fertilizzanti, grano e prodotti petroliferi per il Mali. Si è inoltre parlato di altri futuri piani, come la costruzione di una rete ferroviaria e tranviaria, la creazione di una compagnia aerea regionale, nonché progetti di ricerca e di estrazione mineraria.
In Mali i mercenari del gruppo russo Wagner sono arrivati alla fine del 2021, anche se le autorità di Bamako fino a poco tempo fa hanno sempre negato la loro presenza.
Intanto, secondo quanto riferito da All Eyes on Wagner, (gruppo di ricerca che documenta l’influenza russa in Africa), si starebbe accelerando il dispiegamento di mercenari russi in Burkina Faso. Dall’inizio di novembre sono arrivati una ventina di militari in divisa delle forze armate di Mosca con il compito, secondo Jeune Afrique, di proteggere il presidente della giunta militare, Ibrahim Traoré.
Solo pochi giorni prima dell’arrivo dei soldati a Ouagadougou, il ministro della Difesa burkinabé, Kassoum Coulibaly, si era recato a Mosca per incontrare il suo omologo russo, Sergueï Choïgou. I due avevano poi dichiarato che i colloqui erano improntati sulla cooperazione in ambito militare.
Il 22 novembre è poi apparso poi su Telegram il canale Africa Corps; si è presentato come portavoce di una nuova organizzazione paramilitare responsabile per l’Africa.
“Africa Corps ha iniziato a creare una sorta di vetrina. Non pensiamo che sia necessariamente un nuovo gruppo Wagner. Crediamo che sia una specie di bacheca che permette al ministero della Difesa russo di ospitare un certo numero di membri dell’ esercito o del servizio di sicurezza, per svolgere la loro missione in Burkina Faso. Quindi Africa Corps risulta molto meno indipendente e autonomo dei mercenari di Wagner”, ha concluso Lou Osborne.
Altre fonti ritengono che l’unità sia sotto il diretto patrocinio dell’intelligence militare russa, sotto la guida di un uomo d’affari vicino a Vladimir Putin, di cui non è stato rivelato il nome. Uno scenario molto simile da quello attuato per Wagner. Ma allo stato attuale tutto punta nella direzione opposta, cioè il controllo diretto da parte del potere politico. L’Africa Corps sembra di fatto un’organizzazione centralizzata, un esempio di come Mosca assuma il controllo delle attività africane.
E, solo pochi giorni prima dell’arrivo della delegazione moscovita a Niamey, le autorità nigerine hanno abrogato una legge sulla migrazione. Anche altri Paesi sono preoccupati in seguito al provvedimento adottato dalla giunta militare, giacché il Niger si trova in una situazione geografica strategica. Devono attraversarlo quei disperati che dall’Africa occidentale intendono raggiungere la Libia, e poi passando per il Mediterraneo, l’Europa.
La legge che criminalizza il traffico di migranti è stata istituita nel 2015 in collaborazione con l’Unione Europea per il controllo delle frontiere. L’UE aveva adottato provvedimenti per assistere e sostenere le autorità nigerine, sia quelle del governo centrale che quelle locali, per sviluppare politiche, tecniche e procedure per gestire e combattere il traffico dell’immigrazione irregolare.
Il 13 Maggio 2015 il Consiglio Europeo aveva approvato il rafforzamento della missione civile EUCAP Sahel Niger (European Union Capacity Building Mission Sahel) per prevenire il fenomeno delle migrazioni. Allora era stato promesso sostegno alle autorità nigerine per prevenire i flussi irregolari e per combattere la criminalità ad essi connesse.
Anche la costruzione di campi per profughi nei Paesi di transito facevano parte integrante del tanto discusso Processo di Khartoum, ideato da Lapo Pistelli, ex sottosegretario agli Esteri, durante il semestre di presidenza UE dell’Italia (2014) per contrastare i flussi migratori dall’Africa sub sahariana.
Durante la visita della delegazione russa, la giunta militare di transizione nigerina, dopo aver dato il benservito ai militari francesi, ha messo un punto finale a altre due missioni europee presenti nel Paese, allineandosi così ai suoi vicini e amici golpisti del Burkina Faso e Mali. I tre governi hanno sottoscritto recentemente l’Alleanza degli Stati del Sahel, che ha come scopo la creazione di un sistema di difesa collettivo e di assistenza reciproca.
Niamey ha messo alla porta la missione EUCAP Sahel Niger. Missione civile di 120 persone, in corso da circa dieci anni. Secondo il capo della diplomazia europea, Josep Borrell, “ha addestrato più di 20.000 membri delle forze di sicurezza interne”. Ora EUCAP deve lasciare il Niger entro i prossimi sei mesi, altrettanto un’altra missione di cooperazione militare dell’Unione Europea, EUMPM, lanciata meno di un anno fa a sostegno della lotta al terrorismo.
Josep Borrell, capo della diplomazia dell’Unione Europea, in un breve comunicato ha espresso rammarico per la decisione presa da Niamey. Di fatto però, subito dopo il colpo di Stato, Bruxelles aveva già sospeso la cooperazione con il Niger in materia di sicurezza e difesa.
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Speciale per Africa ExPress Sandro Pintus 4 dicembre 2023
La parola d’ordine è: “produrre idrogenopulito a prezzi competitivi”. Su questa base l’Unione Europea e la Namibia diventano partner nella produzione di idrogeno verde (combustibile prodotto da fonti rinnovabili).
Si concretizza il partenariato
Il partenariato è diventato più concreto nell’incontro UE-Namibia Business Forum 2023 che si è svolto a Bruxelles il 24 e 25 ottobre scorsi. È stata lanciata la tabella di marcia operativa che rende l’ex colonia tedesca l’unico paese africano ad aver stipulato un accordo di questo tipo.
Il partenariato Bruxelles-Windhoek fa parte del programma europeo Global Gateway. Vale 300 miliardi di euro ed è nato per incoraggiare il passaggio energetico ecologico dei Paesi più poveri.
Un miliardo per le infrastrutture
La promessa UE è lo stanziamento 1 miliardo di euro. La cifra sarebbe per gli investimenti pubblici e privati della Namibia e per le infrastrutture per la produzione di idrogeno verde.
La Commissione Europea prevede l’importazione 10 milioni di tonnellate di idrogeno all’anno entro il 2030. Principalmente ad uso dell’industria manifatturiera e per i trasporti su un consumo stimato di 20 milioni di tonnellate.
Le risorse energetiche della Namibia
Il vento e il sole sono le risorse sulle quali il vasto Paese africano fa affidamento per la produzione di idrogeno verde. Sul Namib Desert, dall’Oceano Atlantico, soffiano venti a intensità regolare che possono alimentare le installazioni eoliche. Il grande deserto, invece può contare su 3.500 ore di sole all’anno, una media di 9 ore al giorno.
Queste caratteristiche permettono la produzione di energia eolica e fotovoltaica per avere l’idrogeno “pulito”. Verrebbe quindi prodotto al prezzo più competitivo a livello globale: tra 1,50 e 2,00 euro/kg anziché 3,50 di altri Paesi.
L’UE stima che l’idrogeno verde entro il 2050 potrebbe costituire il 20 per cento del suo mix energetico. E la Namibia è il partner privilegiato perché ricco di risorse energetiche rinnovabili.
Windhoek crede nell’idrogeno pulito ma non vuole rinunciare agli idrocarburi. Nel 2022 Shell e TotalEnergies hanno scoperto grandi giacimenti di idrocarburo in acque ultraprofonde, al largo della Namibia.
Ian Thom, direttore della ricerca upstream di Wood Mackenzie è positivo sul giacimento petrolifero. Ritiene che la produzione di petrolio, entro un decennio, potrebbe superare i 500.000 barili al giorno.
Come dire: Se l’idrogeno è una scommessa, sugli idrocarburi si può sempre contare.
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Speciale per Senza Bavaglio Alessandra Fava
Dicembre 2023
Continua il lento rilascio degli ostaggi catturati da Hamas nel sanguinoso blitz nei kibutz del Negev del 7 ottobre: l’ultimo escamotage di Hamas per continuare a restituire detenuti arrestati a Gerusalemme e Cisgiordania è di separare mamme e bambini per allungare i tempi, adducendo il fatto che gli ostaggi non sono tutti a Gaza, mentre i bambini dicono che sono stati separati dalle mamme solo pochi giorni prima del rilascio.
Il governo israeliano comunque ha vietato agli ostaggi di rilasciare dichiarazioni alla stampa. Finora non è uscita una parola, mentre su media e social appaiono nomi e cognomi e foto e qualche dichiarazione dei parenti sullo stato di salute dei loro cari.
Rilascio dei prigionieri
Intanto continua il rilascio dei prigionieri palestinesi molti minorenni e donne arrestati e spesso detenuti per anni senza alcun processo. Emergono anche atrocità e violenze dalle parole dei rilasciati: un detenuto è stato ucciso dalle botte per esserci rifiutato di bendarsi durante l’ispezione di vertici nella prigione.
In questa tregua guerreggiata c’è una guerra anche sui media sul perché non c’è stata alcuna prevenzione contro il sanguinoso attacco da parte di Hamas.
Inchiesta al fulmicotone
Ieri 28 novembre il quotidiano israeliano Haaretz ha pubblicato un’ennesima inchiesta al fulmicotone andando a scovare una soldatessa membro del servizio di intelligence militare, detto NCO. Titolo: “Ufficiale lanciò allarmi sulle esercitazioni di Hamas di attacchi ai kibutz prima del 7 ottobre”.
La fonte tenuta anonima dal giornale sostiene di aver redatto un rapporto molto dettagliato a luglio e poi ad agosto scorso, in cui spiegava che Hamas aveva ultimato delle esercitazioni mirate ad attacchi ai kibutz del Negev e alle sedi militari israeliane a ridosso del confine con Gaza. Insomma la foto di quello che poi è successo.
Già a luglio la militare scriveva che l’intento di Hamas era uccidere gli abitanti dei kibutz. Come avevano messo in guardia anche le sentinelle di confine, anche l’ufficiale donna riferiva che anche i capi di Hamas erano presenti alle esercitazioni. Uno dei suoi capi supremi rispose: “Mi sembrano fantasie”.
Nessuno ha fatto qualcosa
In un secondo tempo la militare è stata appoggiata da un superiore, diretto suo collaboratore. Ad agosto la donna ha ribadito la validità della documentazione e scritto che l’attacco avrebbe potuto avvenire in qualsiasi momento. Le informazioni sono finite anche allo Shin Bet, l’agenzia di intelligence per gli affari interni dello stato di Israele. Nessuno ha fatto niente. I terroristi il 7 ottobre hanno tirato giù la barriera difensiva tra Gaza e Israele, sono passati anche con gli alianti e via mare e hanno attaccato i kibutz e le postazioni militari: sono morti 1.200 israeliani e 240 persone sono state rapite.
Sul massacro del 7 torna anche Greyzone, la testata online del giornalista americano Max Blumenthal, che in un articolo firmato con Wyatt Reed, riporta di una soldatessa su un carro armato di nuova generazione. Ha dichiarato a una tv israeliana che mentre si trovava nel Kibutz di Holit il comando le ha ordinato di sparare comunque, che si colpissero civili o terroristi di Hamas. Secondo Blumenthal in quell’occasione furono uccisi da fuoco amico 10 israeliani. Qui la traduzione dell’inchiesta di Greyzone:
Dopo la minaccia di chiudereHaaretz con una proposta di legge presentata al governo dal Ministro della comunicazione, il giornale è corso ai ripari attaccando Blumenthal e prendendone le distanze anche perché il giornalista cita anche articoli del quotidiano israeliano in uno dei suoi precedenti https://thegrayzone.com/2023/10/27/israels-military-shelled-burning-tanks-helicopters/.
Titolo di Haaretz: “L’arte dell’inganno: Max Blumenthal mente a proposito del 7 ottobre”. In sostanza Blumenthal non avrebbe sottolineato abbastanza la carneficina fatta da Hamas nei Kibbutz, non li ha definiti terroristi ma “militanti” (per altro fa lo stesso la BBC) o “uomini armati”, ha negato gli stupri, ha preso frasi del giornale frammentarie e ha esagerato il ruolo del fuoco amico attribuendo troppe vittime all’elicottero da combattimento che avrebbe sparato sul rave.
Le conferme di Haaretz
Tuttavia anche il giornale israeliano, nello stesso articolo, scrive che “fino ad adesso ci sono due eventi in cui i civili israeliani sarebbero stati uccisi da fuoco israeliano. Il primo è stato nel kibutz di Be’eri, dove 12 ostaggi erano stati rapiti dai terroristi di Hamas. Nello scontro a fuoco tra le forze militare israeliane e i rapitori, 10 ostaggi sono morti. Secondo le testimonianze dei due israeliani sopravvissuti, almeno alcuni di loro morirono per fuoco amico. Il secondo incidente è quello in cui un elicottero potrebbe aver sparato su chi fuggiva dal rave Nova a Re’im”.
ECCO LA TRADUZIONE DELL’ARTICOLO PUBBLICATO DA GREYZONE
e più in basso il testo originale in inglese
Noi lo pubblichiamo per dovere di cronaca. Questo non vuol dire che ne condividiamo i contenuti. Il giudizio sull’articolo spetta solo ai lettori.
Dal sito The GreyZone Wyatt Reed e Max Blumenthal 29 novembre 2023
Le nuove rivelazioni si aggiungono al crescente numero di prove che indicano che molti israeliani morti il 7 ottobre sono stati uccisi dall’esercito israeliano. Nel frattempo, il governo israeliano ha messo il muso ai prigionieri liberati da Gaza per evitare di danneggiare ulteriormente la narrazione ufficiale.
Testimonianze di prima mano di operatori di carri armati israeliani, per quanto inesperti, rivelano l’ordine di aprire il fuoco contro le comunità israeliane quando i militanti palestinesi hanno violato le recinzioni che circondano Gaza il 7 ottobre.
Un profilo entusiasmante di una compagnia di carri armati tutta al femminile, pubblicato dalla rete israeliana N12 News, contiene ammissioni da parte del capitano ventenne – identificato solo come “Karni” – che le è stato ordinato da un soldato “in preda al panico” di aprire il fuoco sulle case del kibbutz di Holit, indipendentemente dal fatto che contenessero o meno dei civili.
Dieci israeliani sono stati uccisi a Holit il 7 ottobre;
tra i morti non c’erano bambini
“Il soldato mi ha indicato e mi ha detto: “Spara lì – i terroristi sono lì””, ha raccontato il capitano nel filmato appena pubblicato, sottolineando che quando ha chiesto “ci sono civili lì?”, il suo connazionale ha risposto semplicemente “non lo so” e le ha ordinato di “sparare” comunque un colpo di carro armato contro gli edifici.
Alla fine, ha ricordato, “ho deciso di non sparare” perché “questa è una comunità israeliana”. Invece, ha detto, “ho sparato con la mia mitragliatrice contro una casa”.
Mentre il governo israeliano e il suo esercito di propagandisti internazionali hanno incolpato solo Hamas per una serie di macabre uccisioni il 7 ottobre, insieme a denunce infondate di stupri, torture e decapitazione di bambini, i commenti del rapporto di N12 si aggiungono a un crescente numero di prove che dimostrano che i bombardamenti dei carri armati israeliani sono stati responsabili di molte delle vittime subite nei kibbutzim israeliani.
Secondo i soldati intervistati, tra le altre vittime della compagnia di carri armati in questione ci sono presunti militanti palestinesi che, a loro dire, hanno schiacciato a morte con il loro veicolo.
“Il mio autista vede due terroristi sulla strada e lo segnala”, dice il capitano al suo intervistatore N12. Quando “le dico di investirli, lei si limita a investire i terroristi e passa oltre”, spiega allegramente.
La compagnia femminile di carri armati sembra essere stata addestrata sui veicoli meno avanzati dell’arsenale israeliano e le sono stati affidati solo compiti di difesa dei confini. Nel caos dell’assalto di Hamas del 7 ottobre, sono state costrette a salire su veicoli più avanzati, dotati di un sistema di armi a controllo remoto (RCWS).
Nel rapporto dell’N12, il generale di brigata Raviv Mahmia ha ammesso che affrontare una banda di militanti nel Kibbutz Holit è stato un compito “molto complesso” per il quale i giovani carristi “per molti versi… non erano addestrati a combattere”. “Hanno sparato contro le comunità israeliane, guidando su strade normali”, ha osservato.
I rapporti di The Grayzone hanno rivelato che molti dei corpi trovati bruciati in modo irriconoscibile all’interno del cosiddetto involucro di Gaza, nel sud di Israele, erano probabilmente vittime dell’esercito israeliano – cosa che le recenti ammissioni sembrano confermare.
Il 26 novembre, The Grayzone ha citato testimonianze oculari per documentare come un carro armato israeliano abbia aperto il fuoco su un’abitazione nel Kibbutz Be’eri il 7 ottobre, uccidendo 12 non combattenti israeliani, tra cui Liel Hetzroni – un manifesto della campagna internazionale di propaganda anti-Hamas di Tel Aviv.
La prova della morte per fuoco amico il 7 ottobre è arrivata anche attraverso la rivelazione da parte di Haaretz che gli elicotteri d’attacco israeliani hanno probabilmente ucciso molti partecipanti al festival di musica elettronica Nova, e che Hamas non era a conoscenza del fatto che il festival si stesse svolgendo in quel momento.
Imbavagliare i prigionieri
israeliani liberati
per salvare la narrazione
Le rivelazioni secondo cui le truppe israeliane avrebbero ricevuto l’ordine di aprire il fuoco indiscriminatamente sulle comunità israeliane arrivano mentre i servizi di sicurezza del Paese compiono sforzi disperati per controllare la narrazione della guerra di Gaza.
A seguito di un accordo di cessate il fuoco temporaneo che ha visto decine di prigionieri ebrei rilasciati da Gaza a partire dal 24 novembre, il Canale 12 di Israele ha rivelato che le autorità di Tel Aviv hanno istituito nuove regole che richiedono che gli israeliani liberati siano strettamente monitorati quando rilasciano interviste.
I prigionieri liberati dalla custodia di Hamas “dovranno ricevere una stretta supervisione e saranno istruiti su cosa dire ai media e cosa no”, ha spiegato il rapporto.
Al momento della pubblicazione, nessuno degli israeliani liberati di recente aveva parlato pubblicamente con i media. Le apparizioni dei prigionieri sui media israeliani sono diventate sempre più rare dopo il rilascio di Yochaved Lifshitz, 85 anni, che è stata aspramente criticata per aver stretto la mano a uno dei suoi custodi di Hamas e aver riconosciuto che “ci hanno trattato con gentilezza”.
I recenti commenti di una parente di un’altra anziana donna israeliana rilasciata il 24 novembre, Ruth Munder, sembrano convalidare questa tesi.
Descrivendo il periodo trascorso dagli israeliani a Gaza, il familiare ha detto: “Fortunatamente, non hanno vissuto esperienze spiacevoli durante la loro prigionia; sono stati trattati in modo umano”.
“Contrariamente ai nostri timori“, Munder “non ha incontrato le storie orribili che avevamo immaginato” e, alla fine, i custodi dei prigionieri “non hanno fatto loro del male”, ha dichiarato il familiare all’israeliano Jerusalem Post.
Allo stesso modo, la sorella di un lavoratore tailandese preso in ostaggio a Gaza ha dichiarato ai media internazionali che suo fratello è stato “trattato molto bene” e “sembrava felice” quando è stato rilasciato.
Un ospite del canale israeliano Channel 13 News ha riconosciuto: “E’ importante ricordare che molti hanno accusato [l’ex prigioniera israeliana] Yochaved Lifschitz [di slealtà]. Ma lei ha dichiarato proprio queste cose. [Dopo la sua liberazione ha subito un cattivo trattamento, è stata descritta come causa di un significativo danno mediatico e accusata di mentire a causa della prigionia del marito e che Hamas l’ha influenzata, facendole il lavaggio del cervello prima del suo rilascio. Ma ogni parola che ha detto era vera, e altre persone fanno le stesse affermazioni”.
Al momento di lasciare Gaza verso Israele, la prigioniera israeliana Danielle Aloni ha lasciato una lettera ai suoi carcerieri di Hamas ringraziandoli per “l’innaturale umanità che avete mostrato verso di me e verso mia figlia Emilia. Siete stati come genitori per lei, invitandola nella vostra stanza ogni volta che lo desiderava”.
Ha concluso esprimendo gratitudine per “l’atto gentile che avete mostrato qui nonostante la difficile situazione che stavate affrontando voi stessi. E per le difficili perdite che vi hanno colpito qui a Gaza. Vorrei che in questo mondo potessimo essere amici”.
Durante la sua prigionia, Aloni è apparsa in un video in cui accusava Netanyahu per la sua incapacità di negoziare il suo rilascio e quello degli altri ostaggi.
Sebbene il governo israeliano possa sostenere che Aloni sia stata costretta a scrivere la lettera sotto estrema costrizione, non le ha ancora permesso di parlare pubblicamente della sua esperienza a Gaza.
Wyatt Reed* Max Blumenthal**
*Wyatt Reed è corrispondente e managing editor di The Grayzone. Seguitelo su Twitter all’indirizzo @wyattreed1
**Max Blumenthal, direttore di The Grayzone, è un giornalista pluripremiato e autore di diversi libri, tra cui i best-seller Gomorra Repubblicana, Golia, La guerra dei cinquantuno giorni e La gestione della barbarie. Ha prodotto articoli per una serie di pubblicazioni, molti reportage video e diversi documentari, tra cui Killing Gaza. Blumenthal ha fondato The Grayzone nel 2015 per gettare una luce giornalistica sullo stato di guerra perpetua dell’America e sulle sue pericolose ripercussioni interne.
ORIGINAL ENGLISH VERSION
Israeli tank gunner reveals orders to fire indiscriminately into kibbutz
New disclosures add to the growing body of evidence indicating many Israelis who died on October 7 were killed by the Israeli military. Meanwhile, the Israeli government has muzzled captives freed from Gaza to prevent further damage to the official narrative.
Firsthand testimony by admittedly inexperienced Israeli tank operators reveals orders to open fire upon Israeli communities when Palestinian militants breached the fences encircling Gaza on October 7.
A glowing profile of an all-female tank company by Israel’s N12 News network contains admissions by the 20-year-old captain — identified only as ‘Karni’ — that she was ordered by a “panicked” soldier to open fire on homes in the Holit kibbutz whether they contained civilians or not.
Ten Israelis were killed in Holit on October 7
No children were among the dead.
“The soldier points and tells me, “shoot there — the terrorists are there,”” the captain recounts in the newly-released footage, noting that when she asked “are there civilians there?,” her compatriot simply replied, “I don’t know,” and ordered her to “just shoot” a tank round into the buildings anyway.
Ultimately, she recalled, “I decided not to shoot” as “this is an Israeli community.” Instead, she said, “I fired with my machine gun at a house.”
While the Israeli government and its army of international propagandists have blamed Hamas alone for a range of grisly killings on October 7, along with unsubstantiated claims of rape, torture and beheading babies, the comments in N12’s report add to a growing body of evidence demonstrating that shelling by Israeli tanks was responsible for many of the casualties incurred in Israeli kibbutzim. According to the soldiers interviewed, others killed by the tank company in question include supposed Palestinian militants whom they say they crushed to death with their vehicle.
“My driver spots two terrorists on the road and reports it,” the captain tells her N12 interviewer. When “I tell her to run them over, she simply runs over the terrorists and moves on,” she explains blithely.
The female tank company appears to have been trained on the least advanced vehicles in Israel’s arsenal, and given only border defense duties. In the chaos of the Hamas assault on October 7, they were forced into more advanced vehicles equipped with a remote controlled weapons system (RCWS).
In the N12 report, Brigadier General Raviv Mahmia admitted that taking on a band of militants in Kibbutz Holit was a “very complex” task for which the young tankers were “in many ways…not trained to fight.”
“They fired in Israeli communities,
driving on plain roads,” he noted.
Reporting by The Grayzone has revealed that many of the bodies found burned beyond recognition inside southern Israel’s so-called Gaza envelope were likely victims of the Israeli military – which recent admissions seem to confirm.
On November 26, The Grayzone cited eyewitness testimony to document how an Israeli tank opened fire on a home in Kibbutz Be’eri on October 7, killing 12 Israeli noncombatants including Liel Hetzroni – a posterchild of Tel Aviv’s international anti-Hamas propaganda campaign.
Evidence of friendly fire deaths on October 7 also arrived through the disclosure by Haaretz that Israeli attack helicopters likely killed many attendees of the Nova electronic music festival, and that Hamas was unaware that the festival was taking place at the time.
Muzzling freed Israeli captives
to salvage the narrative
Revelations that Israeli troops were ordered to open fire indiscriminately on Israeli communities come as the country’s security services make desperate efforts to control the narrative of the Gaza war.
Following a temporary ceasefire arrangement which saw dozens of Jewish captives released from Gaza beginning November 24, Israel’s Channel 12 revealed that authorities in Tel Aviv have instituted new rules demanding that the freed Israelis be closely monitored when giving interviews.
Those released from Hamas custody “are expected to receive close supervision, and they will be instructed on what to tell the media and what not,” the report explained.
At the time of publication, none of the recently-freed Israelis had spoken publicly with any media outlet. Appearances by the captives on Israeli media have become increasingly rare since the release of 85-year-old Yochaved Lifshitz, who was fiercely criticized for shaking the hand of one of her Hamas keepers and acknowledging that they “treated us gently.”
Recent comments from a relative of another elderly Israeli woman released November 24, Ruth Munder, seem to validate that account.
Describing the Israelis’ time in Gaza, the family member said: “Fortunately, they did not endure any unpleasant experiences during their captivity; they were treated in a humane manner.”
“Contrary to our fears,” Munder “did not encounter the horrifying stories we had imagined,” and ultimately, the captives’ custodians “did not harm them,” the family member told Israel’s Jerusalem Post.
Similarly, the sister of a Thai worker taken hostage in Gaza told international media her brother had been “taken care of very well,” and “seemed happy” when he was released.
A guest on Israel’s Channel 13 News acknowledged, “it’s important to mention that many accused [Israeli former captive] Yochaved Lifschitz [of disloyalty], but she stated these very things. She faced bad treatment and was described as causing significant media harm, accused of lying due to her husband being in captivity, that Hamas has influenced her, brainwashing her before her release. But every word she said was true, and these people are making the same statements.”
As she left Gaza for Israel, the Israeli captive Danielle Aloni left a letter for her captors in Hamas thanking them for “the unnatural humanity that you showed towards me and to my daughter Emilia. You were like parents to her, inviting her into your room at every opportunity she wanted.”
She concluded by expressing gratitude for, “the kind act you showed here despite the difficult situation you were dealing with yourselves. And the difficult losses that befell you here in Gaza. I wish that in this world we could be friends.”
During her time in captivity, Aloni appeared in a video lacerating Netanyahu for his failure to negotiate for her release and those of fellow hostages.
While the Israeli government would likely claim Aloni had been coerced into authoring the letter under extreme duress, it has yet to allow her to speak publicly about her experience in Gaza.
Wyatt Reed*
Max Blumenthal**
*Wyatt Reed is a correspondent and managing editor of The Grayzone. Follow him on Twitter at @wyattreed13.
**The editor-in-chief of The Grayzone, Max Blumenthal is an award-winning journalist and the author of several books, including best-selling Republican Gomorrah, Goliath, The Fifty One Day War, and The Management of Savagery. He has produced print articles for an array of publications, many video reports, and several documentaries, including Killing Gaza. Blumenthal founded The Grayzone in 2015 to shine a journalistic light on America’s state of perpetual war and its dangerous domestic repercussions.
Dal Nostro Inviato Speciale Massimo A. Alberizzi
Nairobi, novembre/dicembre 2023
Tra i diplomatici e i giornalisti a Nairobi circola un documento diffuso dalle intelligence americana e keniota secondo cui all’interno della leadership degli shebab c’è una disputa sulla linea politica e, soprattutto, sulle finanze del gruppo. Secondo il rapporto da un lato ci sarebbe l’emiro e capo spirituale degli shebab, Ahmed Omar Dirye, soprannominano Abu Ubeida, e dall’altro uno dei suoi vice e capo della sei servizi segreti del gruppo (l’Amniyat) , Mahad Warsame Abdi, più conosciuto con il soprannome di Mahad Karatè. Karatè è colui che ha organizzato (per conto degli eritrei) il mio rapimento a Mogadiscio esattamente 17 anni fa: il 2 dicembre 2006.
E’ stato soprannominato Karatè perché prima della guerra civile cominciata il 30 dicembre 1990, era istruttore di arti marziali. Sulle loro teste pesa una taglia di 10 milioni di dollari messa dal governo americano nel programma Reward for Justice.
L’aspra contesa tra due leader chiave di al Shebeb in Somalia minaccia ora di dividere la milizia a vantaggio delle operazioni di contrasto al terrorismo in corso nel Paese e nella regione.
I servizi segreti del Kenya ritengono che Amniyat abbia svolto un ruolo chiave nell’esecuzione di attacchi suicidi e assassinii in Somalia, Kenya e altri Paesi della regione. L’agenza fornisce supporto logistico alle attività terroristiche di al Shebab ed è responsabile degli attacchi al centro commerciale Westgate a Nairobi nel settembre 2013 (63 morti e 175 feriti) e al Garissa University College in Kenya dell’aprile 2015, in cui sono state uccise 148 persone e 79 ferite, per lo più studenti.
Secondo l’intelligence keniota la lite tra i due leader è cominciata quando alcuni membri dell’Amniyat sono stati arrestati da fedeli a Dirye. I rapporti visionati da Africa ExPress, sostengono che la disputa riguarda la linea politica del movimento: gli shebab sono affiliati ad Al Qaeda ma recentemente (forse da più di un anno) sono stati avvicinati da emissari dell’ISIS per convincerli a cambiare alleanza.
Altri rapporti citati dalla giornalista investigativa keniota Mary Wambui che scrive per il più diffuso quotidiano locale, il Daily Nation, parlano soprattutto di una lite tra clan per la leadership del gruppo.
Quando fui rapito, nel 2006, nella capitale somala governavano le corti islamiche. Un commando dei suoi uomini, guidato appunto da Mahad Karatè, piombò nel mio albergo, nella nuova location del Sahafi Hotel, e mi arrestò portandomi per un interrogatorio davanti a un plotone di esecuzione sulla pista dell’aeroporto, deserto giacché nessun velivolo osava avventurarsi nella captale dell’ex colonia italiana.
Appena prelevato dall’hotel, nell’auto con cui mi stavano portando nello scalo, Hassan, l’interprete che sedeva accanto a me sul sedile posteriore, cercava di tranquillizzarmi in italiano (“Stai tranquillo, noi siamo buoni, non è vero che siamo cattivi come dicono”) mentre Mahad Karatè mi mostrava il suo badge di riconoscimento presentandosi: “Sono del servizio di sicurezza delle Corti Islamiche”.
Mahad appartiene alla cabila habergidir, sotto clan aer, e quella notte durante la riunione del tribunale islamico, tutti gli aer compreso il gran capo delle Corti in quel momento, Shek Hassan Daher Aweis (rimosso tempo fa dalla lista dei terroristi più pericolosi perché ha lasciato gli shebab e si è schierato con il governo sostenuto dall’Occidente) si schierarono a mia difesa. Mentre altri sostenevano che avrei dovuto essere fatto fuori. Devo dire che Mahad con me si è comportato in modo molto gentile, non mi ha mai minacciano a parole né ha usato violenza fisica.
Secondo i rapporti di intelligence emersi ora, Karatè non ha mai nascosto le sue ambizioni. Ma ha mostrato una forte propensione per le apparizioni pubbliche anche nei media e ha accresciuto la sua notorietà e il suo carisma all’interno del movimento, le cui dinamiche si sono inceppate.
Il rapporto visionato, ma non ottenuto, da Africa ExPress, racconta che Karatè in passato è stato accusato di collaborazione con agenzie di spionaggio somale, keniote e internazionali e, secondo i suoi avversari all’interno degli shebab, si sarebbe addirittura spinto a denunciare gli uomini di Dirye, alcuni dei quali sarebbero stati uccisi.
Ma le accuse diventano ancora più pesanti quando il rapporto sostiene che le famiglie di Karatè e dei suoi più stretti collaboratori hanno accumulato ricchezze enormi e vivono all’estero nell’opulenza. Insomma secondo le informazioni contenute nel documento di intelligence il capo delle spie degli shebab si sarebbe impadronito di parte delle risorse economiche dell’organizzazione.
In effetti nel quartiere Somalo di Eastleigh, una volta piuttosto degradato e in povere condizioni, i businessmen somali abbondano, e nelle strade, accanto ai miseri carrettini trainati a mano, circolano automobili di lusso. Sono in molti a sostenere che lì, nei palazzi nuovi e signorili che hanno preso il posto delle catapecchie, ci vivano anche le famiglie dei leader somali shebab che da Eastleigh gestiscano gli affari del coniuge.
Nei due video: com’è cambiata Eastleigh a Nairobi. Da bassifondo a sobborgo di lusso
Il Dipartimento di Stato americano ritiene che al Shebab incassi più o meno 100 milioni di dollari all’anno attraverso diverse fonti di finanziamento, tra cui l’estorsione di imprese e individui locali, la riscossione di tasse sulle merci, i pedaggi sulle strade e l’agevolazione di traffici illeciti. Naturalmente tra gli incassi anche i proventi dei business avviati con i soldi degli ingenti riscatti riscossi negli anni scorsi dai sequestri dei mercantili nelle acque somale.
Ulteriori rapporti indicano che Karatè è riuscito ad assicurarsi la fedeltà di alcuni leader shebab di alto rango: Abdullahi Osman Mohammed, soprannominato Ingegnere Ismail, Mustafa Srwan, Sheck Fuad Shangole e Abdirahmen Fillow che si sono allontanati dalla fazione di Dirye.
Infine, ciliegina sulla torta, Karaté è accusato di aver preso segretamente contatti con emissari dell’ISIS nel nord della Somalia e finanziato le loro attività con i soldi della cassa degli shebab. Gli osservatori diplomatici a Nairobi prevedono che, se diventasse lui il capo dell’organizzazione, potrebbe spostare l’alleanza da Al Qaeda allo Stato Islamico.
Dirye, fedele alla vecchia organizzazione di Bin Laden, appartiene invece al clan dir, e sta tentando di frenare questo slittamento e bloccare la scalata di Karatè verso la leadership. Quindi aer contro dir. La Somalia non si smentisce mai: la fedeltà di clan è più forte di ogni ideologia o fede religiosa.
Africa ExPress ha cercato una conferma delle informazioni contenute nei rapporti di intelligence, che non devono mai essere accettati acriticamente e senza verifiche. Le fonti somale cotattatate e Nairobi hanno ridimensionato la lite circoscrivendola a un normale dibattito politico: “Gli shebab stanno discutendo se aderire all’ISIS o restare una branca di Al Qaeda – ha spiegato Ali (nome di fantasia per morivi di sicurezza – . Finora non ci sono stati scontri armati e speriamo non ci siano, perché in questi casi è sempre la popolazione civile che ne fa le spese”.
Dalla Nostra Inviata Speciale Federica Iezzi
Kupyansk – Ucraina, 2 dicembre 2023
Durante la notte, ai checkpoint, le forze armate ucraine hanno addosso piccoli segnali luminosi rossi. È più sicuro muoversi la mattina presto o la sera quando arriva il buio.
Siamo entrati nella città di Kupyansk, uno dei quattro fronti più attivi in Ucraina, insieme a Avdiivka, Orikhiv e Kherson.
Il rumore dei bombardamenti riempie il silenzio della città, lasciandoti senza fiato. La pioggia lava via l’odore della polvere da sparo. Siamo a meno di 10 chilometri dalla linea del fronte. I combattimenti sono arrivati fino alle cittadine di Synkivka e Petropavlivka.
Le finestre di ogni casa sono schermate da sacchi di sabbia. Le persiane hanno colori spaiati. “Per quasi tutta la giornata non ci sono elettricità e acqua”, ci racconta Yulia.
Una parte della popolazione civile aspetta solo che i russi prendano il controllo nell’area di Kupyansk. È quella parte storicamente filorussa, con cultura e tradizioni russe. Parlano russo. Hanno parenti in Russia.
Prima della guerra potevano muoversi lungo il confine tra Ucraina e Russia. Ora no.
‘Veniamo rimbalzati da un lato all’altro. Qui le persone muoiono come mosche’, ci dice Yulia.
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Speciale per Africa ExPress Cornelia I. Toelgyes
2 dicembre 2023
Per la prima volta il governo del Togo ha fatto il bilancio degli attacchi perpetrati nel Paese dai terroristi del Sahel nel 2023.
Un fatto davvero insolito: lunedì scorso, Yawa Kouigan, ministro delle Comunicazioni e portavoce del governo di Lomé, ha elencato filo per segno durante un suo intervento all’emittente TVT (l’ente televisivo pubblico del Togo) tutti gli attacchi perpetrati dai terroristi in Togo: “Nel 2023 sono morte 31 persone, altre 29 sono state ferite, 3 sono state date per disperse. Il nostro Paese ha subito un’imboscata, 11 scontri con i terroristi, 9 esplosioni causati da ordigni artigianali, mentre altri 20 esplosivi sono stati neutralizzati”.
Prima di allora le notizie sulle aggressioni dei gruppi armati trapelavano con il contagocce. Ma le elezioni si stanno avvicinando: legislative e regionali sono previste per la fine del primo trimestre del 2024. Lo ha annunciato pochi giorni fa il Consiglio dei ministri di Lomé. E a questo proposito la signora Kouigan ha sottolineato durante il suo intervento in TV che la sicurezza sarà al centro dell’organizzazione della prossima tornata elettorale.
Il presidente, Faure Gnassingbé, sulla poltrona più ambita del Paese dal 2005 (è al suo quarto mandato), è succeduto al padre, Eyadéma Gnassingbé, che ha governato il Paese con pugno di ferro per ben 38 anni.
Nel recente passato – aprile 2023 – il capo di Stato è intervenuto una sola volta sui problemi legati al terrosissimo. In tale occasione aveva ammesso che dal primo attacco nella prefettura di Kpendjal, nella regione delle Savane del novembre 2021 a tutt’oggi sono morte 140 persone, tra questi 100 civili.
Viste le ricorrenti incursioni e minacce dei gruppi armati, provenienti dal vicino Burkina Faso, nell’aprile scorso l’Assemblea nazionale ha prorogato lo stato d’emergenza nella regione delle Savane per un altro anno.
L’estremo nord del Togo, confinante con il Burkina Faso, dal 2021 è spesso teatro di incursioni jihadiste, ma come per il Benin, la stampa locale è avara nel riportare tali notizie.
L’opposizione togolese e la società civile hanno spesso criticato il silenzio delle autorità. Ed anche ora, nonostante le cifre rilasciate dal governo, gli avversari politici continuano a denunciare la poca chiarezza sulla situazione della sicurezza e gli ostacoli alla libera circolazione nel nord del Togo e chiedono maggiori dettagli sulle circostanze di questi incidenti. “Vorremmo saperne di più – ha chiesto Éric Dupuy, portavoce del partito ANC dell’oppositore Jean-Pierre Fabre -. Ci hanno annunciaTo 30 morti. Fino ad oggi, né i partiti politici, né l’Assemblea nazionale, né i giornalisti sono mai stati informati sulle circostanze di questi omicidi”.
Ora la amministrazione di Lomé, in vista delle elezioni, ha promesso di voler garantire a tutti – candidati, elettori e cittadini – la sicurezza necessaria su tutto il territorio nazionale, ha specificato la portavoce del governo.
Il deterioramento della situazione della sicurezza nel Sahel minaccia di coinvolgere l’intera regione dell’Africa occidentale.
Secondo alcuni ricercatori, i gruppi jihadisti stanno creando basi in Burkina Faso e Mali per diffondersi in Benin, Costa d’Avorio e, in misura minore, in Togo, Ghana, Senegal e Guinea. Basta ricordare che nella primavera scorsa anche il Benin è stato teatro d nuovi attacchi dei jihadisti, che da tempo tentano di espandere il loro raggio d’azione verso il Golfo di Guinea.
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Dalla Nostra Inviata Speciale Federica Iezzi
Vovchansk – Ucraina, 30 novembre 2023
All’altezza del piccolo centro di Symynivka, nell’oblast ucraino di Kharkiv, sulla T-21-04 road, Andrii ci dice di mettere in modalità aerea il telefono. “Le attività di intelligence russe controllano il traffico telefonico in quest’area”.
Continuiamo fino a Vovchansk, ultimo avamposto ucraino della regione nel profondo nord, con il giubbotto antiproiettile addosso. (Nel video le conseguenze dei bombardamenti nella città di Vovchansk, oblast di Kharkiv, Ucraina orientale. Al posto del ponte distrutto su cui transitavano veicoli, sono state sistemate delle tavole di legno per consentire il passaggio a piedi o al massimo con una bicicletta al fianco. Più in basso un palazzo distrutto a Vovchansk).
Da febbraio a settembre dello scorso anno, durante la dura occupazione russa della città, la popolazione civile si è spezzata. Una piccola parte ha varcato il confine russo, che dista solo pochi chilometri da Vovchansk, un’altra ha trovato riparo in aree ucraine protette. La parte più resiliente è rimasta in case martoriate dai bombardamenti.
È ancora in piedi l’unico ospedale all’ingresso della città, ormai completamente gestito dall’autorità militare ucraina. Evgenij, un soccorritore militare, racconta la linea del fronte. “Solo i mezzi blindati dell’esercito possono arrivare alla linea-zero per il recupero dei feriti”.
Intanto siamo a meno di due chilometri dal confine russo e si sentono le vibrazioni sul terreno dei continui attacchi. “La seconda e la terza linea aiuta nel primo soccorso e nel recupero dei feriti”, continua Evgenij. Tutti i soldati devono conoscere il protocollo MARCH (Massive hemorrage, Airway, Respiration, Circulation, Hypotermia/Head injury), le linee guida per il supporto vitale in contesti militari. “È solo così che la mortalità può diminuire. Il trattamento salvavita inizia subito, in attesa che arrivi il mezzo blindato”, ci dice.
A 5-6 chilometri dalla linea del fronte, il blindato trasferisce il ferito in un’ambulanza militare attrezzata, che inizia la sua corsa verso l’ospedale. Evgenij, come tutti i soccorritori, indossa insieme alla divisa, una GoPro, una telecamera portatile che si monta anche sull’elmetto che interfaccia in tempo reale con la base medica.
Siamo a -3°C, ma l’aria ghiacciata oggi è scaldata dal sole. Una manciata di persone percorre le strade distrutte sulle biciclette. Sembrano abbandonate, senza dolore e senza forza.
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Speciale per Africa ExPress Antonio Mazzeo
Novembre 2023
Condonato l’efferato omicidio del giovane ricercatore Giulio Regeni e ignorati i report sull’escalation della repressione di ogni forma di dissenso contro il regime di Abdel Fattah al-Sisi, governo e industrie belliche italiane stringono nuovi affari con l’establishment militare egiziano.
Il 22 novembre il gruppo a capitale statale Fincantieri Spa ha firmato con la Armament Authority del Ministero della Difesa della Repubblica araba d’Egitto un contratto della durata decennale per la fornitura di servizi di manutenzione e studi logistici a favore delle due fregate multi-missione Fremm “ENS Al-Galala” ed “ENS Bernees” della Marina Militare egiziana.
Il contratto del valore di 260 milioni di euro comprende la quota che sarà destinata a Orizzonte Sistemi Navali (la joint venture partecipata da Fincantieri e dalla holding del complesso militare-industriale italiano Leonardo Spa con quote, rispettivamente, del 51% e del 49%) in qualità di sub-fornitore.
“Il contratto con le forze armate egiziane conferma la strategia di Fincantieri di creare partnership strategiche di lungo termine che prevedono la fornitura pluriennale di servizi tecnologici con clienti chiave”, ha dichiarato l’amministratore delegato del gruppo della cantieristica, Pierroberto Folgiero, pure membro dell’advisory board dell’Università LUISS di Roma.
Le unità da guerra “ENS Al-Galala” ed “ENS Bernees” erano state consegnate da Fincantieri alla Marina della Repubblica d’Egitto tra il dicembre 2020 e l’aprile 2021 dopo le attività di restyling nel cantiere di Muggiano-La Spezia. Con un dislocamento a pieno carico di circa 6.500 tonnellate e una lunghezza di 144 metri, le due fregate multi-missione possono raggiungere una velocità di 27 nodi con un’autonomia di crociera massima di 6.800 miglia. Le Fremm sono armate con un cannone Leonardo da 127/64 mm, un cannone Super Rapido da 76/62 mm e due cannoni da 25 mm oltre al sistema missilistico superficie-aria MBDA SAAM-ESD in grado di lanciare missili terra-aria della famiglia Aster. Per il loro acquisto Il Cairo ha versato a Fincantieri 990 milioni di euro.
“Queste due unità assicurano nuove capacità d’intervento alla Marina militare egiziana, consentendo di difendere le frontiere marittime e le linee di navigazione e di proteggere le forze di terra durante la difesa e/o le operazioni d’attacco nelle coste, difendendo altresì le fonti naturali dello stato nel Mediterraneo e nel Mar Rosso”, ha enfatizzato la Presidenza dello stato nordafricano. “Le fregate rappresentano la forza di deterrenza nazionale per mantenere la pace, assicurare la libertà di navigazione e supportare la sicurezza del Canale di Suez alla luce delle ostilità e delle sfide che affliggono la regione”.
Fincantieri spera adesso di poter vendere all’Egitto altre quattro Fremm e una ventina tra corvette e pattugliatori della classe “Falaj”. All’edizione dell’Egypt Defence Expo – EDEX, l’esposizione internazionale delle industrie di guerra tenutasi al Cairo dal 29 novembre al 2 dicembre 2021, il gruppo italiano ha fatto da main sponsor dell’evento patrocinato dal presidente della Repubblica al-Sisi e dal Comando Supremo delle forze armate egiziane. Per la prossima expo militare (prevista dal 4 al 7 dicembre 2023), come silver sponsor compare Leonardo DRS, la controllata dell’omonimo gruppo con sede negli Stati Uniti d’America, mentre tra i platinum sponsor ci sarà pure il colosso missilistico europeo MBDA, controllato per il 25% da Leonardo Spa, principale fornitore di missili per le unità di terra, di cielo e del mare del regime egiziano.
Mentre le grandi e medie aziende di morte del mondo intero si preparano alla kermesse egiziana, si moltiplicano le denunce da parte delle maggiori organizzazioni non governative sulla crescita esponenziale nel paese delle violazioni dei diritti umani. Il 23 novembre (giorno successivo alla firma del contratto tra Fincantieri e il Ministero della Difesa egiziano), Amnesty International ha rilevato come le autorità egiziane abbiano intensificato la repressione contro dissidenti e manifestanti pacifici alla vigilia delle elezioni presidenziali in programma dal 10 al 12 dicembre.
“Dal 1° ottobre, almeno 196 persone sono state arrestate per aver preso parte a manifestazioni non autorizzate e presunti atti di terrorismo (…) ed è stata impedita anche la candidatura di un esponente dell’opposizione”, aggiunge Amnesty. “La repressione sta colpendo anche le manifestazioni di solidarietà con la Palestina, inizialmente sostenute da partiti politici e altri soggetti filo-governativi. Tuttavia, le forze di sicurezza sono intervenute non appena le proteste sono uscite dalle aree autorizzate e si sono mescolate a richieste di libertà e di giustizia sociale”.
Nel mirino dell’apparato repressivo egiziano, in particolare, gli insegnanti. “Il 15 ottobre le forze di sicurezza hanno violentemente disperso una loro protesta di fronte al ministero dell’Istruzione per contestare il nuovo obbligo, per chi si candida a impieghi nel settore pubblico, di seguire sei mesi di accademia militare”, ricorda l’organizzazione non governativa. “Quattordici insegnanti sono tuttora in carcere con accuse di terrorismo, diffusione di notizie false e uso improprio dei social media”.
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