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Il quotidiano israeliano Haaretz: “Fermare i massacri”

EDITORIALE
Haaretz
Gerusalemme, 24 dic 2023

Il numero dei palestinesi uccisi nella Striscia di Gaza dall’inizio della guerra, il 7 ottobre, ammonta ora a circa 20.000, secondo i dati diffusi giovedì dal Ministero della Sanità di Gaza (controllato da Hamas). Ciò equivale a circa l’1% della popolazione di Gaza. E quel numero non include le numerose persone scomparse e che si ritiene siano sepolte sotto le macerie degli edifici distrutti (Haaretz, 21 dicembre).

Haaretz English Edition – 24 December 2023

Secondo il Ministero della Sanità di Gaza, più di due terzi delle vittime sono donne e bambini. Anche se queste cifre sono imprecise, Israele non ha presentato cifre contrarie. L’establishment della difesa stima che circa un terzo delle vittime siano membri di Hamas. Ciò rappresenta un danno senza precedenti per i civili non coinvolti.

Striscia di Gaza: dall’inizio della guerra sono state uccise 20mila persone

Un rapporto investigativo del New York Times del mese scorso ha rilevato che le morti civili a Gaza durante l’attuale guerra stanno aumentando più rapidamente di quanto non abbiano fatto durante le guerre americane in Iraq, Afghanistan e Siria. E un nuovo rapporto di quel giornale afferma che durante le prime sei settimane di guerra, Israele ha sganciato bombe da una tonnellata sul sud di Gaza almeno 200 volte, anche se le forze di difesa israeliane e il governo israeliano avevano dichiarato che il sud di Gaza era un luogo sicuro. L’IDF si è impegnato a spingere gli abitanti di Gaza a spostarsi verso sud. “Andate a sud”, ha detto loro ripetutamente il portavoce dell’IDF Daniel Hagari. Ma il rapporto del New York Times mostra che il sud non era realmente sicuro.

L’IDF (Israel Defence Forces) – che ora sta conducendo manovre di terra anche nel sud di Gaza, dove non c’è stata un’evacuazione di massa della popolazione – ha l’obbligo di apportare le modifiche necessarie per ridurre i danni ai civili non coinvolti. Bisogna anche tenere conto della situazione umanitaria a Gaza: la fame; le malattie; la carenza di acqua, cibo e medicine; il fatto che le persone non hanno una casa in cui tornare; e le infrastrutture distrutte. È necessario fare una distinzione più netta tra colpire i terroristi di Hamas e danneggiare civili non coinvolti, soprattutto considerando il fatto che a Gaza sono detenuti 129 ostaggi israeliani.

Allo stesso tempo, Israele deve portare avanti un accordo per il rilascio degli ostaggi ed essere pronto a pagare nella valuta sia i giorni aggiuntivi di cessate il fuoco che il rilascio dei prigionieri palestinesi. Il primo ministro Benjamin Netanyahu e il ministro della Difesa Yoav Gallant hanno ripetutamente affermato che la pressione militare su Hamas avrebbe fatto sì che l’organizzazione ammorbidisse le sue richieste e avrebbe portato al ritorno degli ostaggi, ma la realtà non è stata in linea con le loro aspettative. Finora la massiccia offensiva in corso non ha prodotto alcun risultato per quanto riguarda gli ostaggi; ha solo portato a interrompere i colloqui sul loro rilascio. Riportare a casa gli ostaggi è uno degli obiettivi supremi della guerra. Il governo non ha il mandato di abbandonare gli ostaggi, né esplicitamente né implicitamente

Haaretz

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Il Sudafrica alla Corte Penale Internazionale: “Arrestate Netanyahu per crimini contro l’umanità”

Gaza, la guerra dei sondaggi e le immagini scioccanti dei massacri

La guerra a Gaza e le minacce degli houti nel Mar Rosso rendono complicato il traffico marittimo

La guerra a Gaza e le minacce degli houti nel Mar Rosso rendono complicato il traffico marittimo

Africa ExPress
Gibuti, 24 dicembre 2023

I ribelli houthi (gruppo armato yemenita sostenuto dall’Iran) hanno intensificato gli attacchi alle navi mercantili in transito nel Mar Rosso, uno dei corridoi marittimi più trafficati al mondo. Nell’ultimo mese il gruppo è praticamente riuscito a interrompere il commercio internazionale attraverso il Canale di Suez, la via di navigazione più breve tra Europa e Asia.

Crisi navi mercantili nel Mar Rosso

E, per motivi di sicurezza, molti armatori hanno deciso di non passare più attraverso questo corso d’acqua artificiale, ma, per collegare l’Europa e l’Oceano Indiano, di circumnavigare l’Africa, passando per il Capo di Buona Speranza in Sudafrica.

Una deviazione di 3.500 chilometri e giorni e giorni di navigazione prolungata rappresentano una sfida logistica non indifferente, soprattutto per quanto riguarda il rifornimento di carburante. Pochi porti africani sono attrezzati per accogliere questi giganti del mare, per non parlare dei problemi burocratici, la congestione e le carenze delle strutture.

Anche il porto di Durban (Sudafrica), uno dei più grandi dell’Africa in termini di volumi di container movimentati, da alcune settimane presenta problemi e ritardi nei rifornimenti dei natanti, perché le attrezzature a disposizione sono carenti e difettose. Le compagnie di navigazione evitano il rifornimento offshore, cioè direttamente da nave a nave, per disaccordi sulla tassazione del carburante con le autorità sudafricane.

Sembra che finora nessuno dei giganti del mare abbia fatto richiesta di fare scalo in uno dei porti sudafricani. Le compagnie marittime cercano di evitare di doversi fermare lungo il percorso. Per ora hanno scelto di rifornire le proprie navi con sufficiente carburante al punto di partenza. E, secondo Alessio Lencioni, esperto di logistica, anche altri grandi porti africani in acque profonde lungo la rotta del Capo, come quello di Mombasa in Kenya e Dar es Salaam in Tanzania, sono troppo poco attrezzati per gestire il traffico previsto nelle prossime due settimane.

Un portavoce di Mærsk, (gruppo danese di logistica integrata dei container e di supply chaine), ha però precisato: “In caso di necessità di rifornimento durante la rotta, si deciderà caso per caso: Walvis Bay (Namibia) o Port Louis (Mauritius) saranno opzioni migliori”.

Tempesta Capo di Buona Speranza

Le condizioni meteorologiche avverse con onde altissime, comuni nel “Capo delle Tempeste” e nel Canale di Mozambico, soggetto a cicloni, fanno sì che le navi possano consumare il carburante più rapidamente, rendendo cruciali i servizi di rifornimento, hanno affermato le agenzie di navigazione.

Comunque un obbiettivo politico l’azione degli Houthi (e del loro sponsor: l’Iran) l’ha ottenuto: il premier britannico Rishi Sunak legato strettamente agli ambienti finanziari londinesi ha modificato la posizione del suo governo sulla Israeliana-Hamas a Gaza. Il 19 ottobre durante una sua visita a Tel Aviv aveva dichiarato senza possibilità di essere frainteso, in conferenza stampa assieme a Bibi Netanyahu: “”Sono orgoglioso di essere qui con voi nell’ora più buia di Israele. Saremo con voi in solidarietà. Staremo con voi e con il vostro popolo. E vogliamo anche che vinciate”.



Attacchi delle milizie houthi Mar Rosso

9 novembre – Sequestro della Galaxy Leader costrette ad attraccare nel porto di Hodeida

23 novembre -tentativo di sequestro della M/V Central Park

3 dicembre – Lancio di tre missili balistici contro altrettante nevi commerciali

10 -15 dicembre – Missili anti nave lanciati contro 5 cargo in meno di una settimana 

fonte US State Department



Ma pochi giorni dopo, il 20 dicembre Sunak cambia poizione assieme ad altri importanti membri del suo partito, il Conservatore, che si aggiungono a quelli del partito laburista nella richiesta di una tregua nella Striscia. Scrive il quotidiano britannico Guardian: “Keir Starmer si è unito a Rishi Sunak nel chiedere un cessate il fuoco sostenibile a Gaza, mentre la retorica politica continua ad allontanarsi dal sostegno incondizionato all’assalto di Israele, in linea con le mosse degli Stati Uniti e di altri Paesi”.

“Alcuni conservatori di alto livello – annota il giornale – sono stati ancora più espliciti. Ben Wallace, ex segretario alla Difesa, ha detto che la “furia omicida” di Israele rischia di fargli perdere il sostegno internazionale e Alicia Kearns, che presiede la commissione Affari esteri dei Comuni, ha affermato di ritenere che Israele abbia violato il diritto umanitario internazionale”.

“Il primo ministro – scrive ancora il quotidiano – ha detto che Israele ha il diritto di difendersi dopo il massacro di civili israeliani da parte di Hamas, ma “deve farlo nel rispetto del diritto umanitario. È chiaro che troppe vite civili sono andate perdute e nessuno vuole che questo conflitto si protragga un giorno in più del necessario”.

Alla domanda del Guardian se il Primo Ministro fosse d’accordo con i commenti di Wallace, espressi in un articolo del Daily Telegraph, il portavoce non ha tuttavia respinto l’opinione dell’ex segretario alla Difesa, aggiungendo “Siamo preoccupati, come abbiamo già detto, che troppi civili vengano uccisi a Gaza e che le loro infrastrutture vitali vengano distrutte”.

E’ bene notare che le dichiarazioni di Sunak sono state rilasciate il giorno dopo che la British Petroleum ha deciso di escludere il Mar Rosso dalle rotte delle sue petroliere, con conseguente importante aggravio dei costi.

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Yemen: pericolo houthi, Washington ordina e l’Italia obbedisce

 

Gaza, la guerra dei sondaggi e le immagini scioccanti dei massacri

Speciale per Africa ExPress
Alessandra Fava
24dicembre 2023

E’ guerra anche nei sondaggi. Un rilevamento del Palestinian Center for Policy and Survey Research (PCPSR) dice che il 57 per cento dei palestinesi di Gaza e l’82 nella West Bank appoggia l’attacco di Hamas ai kibbutz che ha causato 1.200 morti e 240 rapiti (https://www.pcpsr.org/en/node/961  A Gaza però l’appoggio scende al 57 per cento.

Bisogna però precisare che l’85 per cento degli stessi intervistati a Gaza e nella West Bank dichiara anche di non aver visto in rete i video delle violenze perpetrate da Hamas e l’89 per cento pensa che Hamas non abbia fatto crimini di guerra, ma a Gaza dove sale la percentuale di quelli che hanno visto i video, il 16 per cento pensa che sì, i militanti di Hamas abbiano commesso dei crimini. Da settembre la percentuale di palestinesi che approvano il ricorso alla lotta armata è passato dal 53 al 63 per cento. L’80 per cento chiede le dimissioni di Abu Mazen. Il sondaggio ha avuto molta eco sulla stampa israeliana.

Così hanno larga risonanza altri rilevamenti condotti negli Stati uniti: uno di Harvard Cap/Harris rivela che il 51 per cento degli americani ritiene che lo stato di Israele dovrebbe sparire e venir dato ai palestinesi ed Hamas. Un altro dell’Università del Maryland Critical Issuee Pool con Ipsos dice che i 57 per cento degli americani criticano il modo con cui Biden ha gestito la guerra mediorientale.  Le percentuali salgono tra i giovani sotto i 30 anni.

Quanto a Israele, a ottobre, prima della guerra il 49 per cento degli israeliani chiedeva di non invadere Gaza e un quarto pensava opportuno attaccare subito (Reuters), poi ha prevalso la logica del sostegno alla guerra, con pubblicità delle banche ai prestiti alle reclute in cui si vedono soldatesse sui carri armati e molti articoli di solidarietà alla missione dei soldati e dei riservisti in guerra.

Oggi in un sondaggio di Midgam per il Canale News 12, dice che solo il 19 per cento sarebbe a favore di lasciare Gaza in gestione all’Autorità palestinese, il 54 si oppone e il 27 non sa.

Molti dei morti hanno meno di 30 anni. I commenti, a parte poche eccezioni, come Gideon Levy su Haaretz che dall’inizio scrive che non servirà ad eliminare Hamas anzi la rafforza, sono di appoggio alla guerra.

Sempre nei sondaggi pochi gli spiragli di pace: la soluzione dei due Stati è appoggiata dal 39 per cento degli israeliani (35 per cento ristretto ai soli ebrei israeliani), cioè dalla stessa percentuale di prima della guerra, mentre sono cresciuti al 34 per cento i palestinesi che pensano che siano possibili due Stati.

Intanto l’ambasciatore palestinese a Vienna, osservatore permanente alle Nazioni Unite, ha dichiarato che Hamas è pronto a riconoscere Israele se si parla della soluzione dei due stati. Al Monitor ha raccolto altre fonti vicine ad Hamas che ventilano un riconoscimento.

I media israeliani per ora non ci credono. Qualcuno fa anche osservare che l’insistenza di Hamas nelle trattative veicolate dal Qatar sul rilascio dei tre leader di Fatah, Marwan Barghouti, Abdullah Barghouti e Ahmad Saadat, farebbe pensare a un progetto di riconciliazione fra i due partiti per arrivare a nuove elezioni dopo la guerra.

Gli Stati uniti non hanno chiesto il cessate il fuoco ma una diminuzione dei bombardamenti a Gaza e maggior attenzione ai civili. Israele è il loro miglior alleato in Medio Oriente, il grande amico come ha detto il presidente Biden, ma il governo di Netanyahu non sembra accettare alcun suggerimento e anche ora che i giovani americani sono in subbuglio e non approvato un appoggio così incondizionato  e i sondaggi dicono che Trump potrebbe vincere col voto anti-Gaza alle prossime elezioni, di fatto nessuno ferma Bibi.

L’ultima critica arriva da Medici Senza Frontiere che in un comunicato su X scrive: “Il modo in cui Israele prosegue la guerra, con il supporto degli Usa, sta causando morte e sofferenza per i civili palestinesi ed è contro ogni norma e legge internazionale. Basta attaccare gli ospedali, i lavoratori della sanità e le ambulanze”.

Dopo la risoluzione Onu sugli aiuti a Gaza, anche oggi Israele non ha smesso di bombardare la Striscia (dall’inizio della guerra al 10 dicembre IDF registra 22 mila attacchi sopratutto nel nord di Gaza). Gli ultimi attacchi sono stati sui campi di rifugiati di Nuseriat e Khan Younis.

Al 76esimo giorno di guerra i morti sono arrivati a 20 mila ma i numeri, secondo alcune organizzazioni, sono sottostimati. Ma i politici israeliani dicono che “non ci sono innocenti a Gaza”, anche se fonti militari sostengono che solo un terzo dei morti aveva legami con Hamas (Haaretz del 22 dicembre) e il 70 per cento dei caduti sono donne e bambini (Governo di Gaza).

Per altro il direttore dell’Unrwa per Gaza, Thomas White, dice che dalla risoluzione non è cambiato niente: “la gente continua ad essere spostata da una zona a un’altra di Gaza, Rafah che di solito ha 280 mila abitanti ora ne ospita un milione”. White è tornato a chiedere un cessate il fuoco.

A rischio fame sono il 90 per cento dei 2,3 milioni di gazawi (secondo li sistema di calcolo delle provviste alimentari e accesso al cibo Integrated Security Phase Classification IPC). Secondo World Food Programme nove abitanti su dieci saltano pasti per lunghi periodi e in media hanno due litri di acqua potabile a testa al giorno. Le proiezioni dicono che Gaza a febbraio sarà alla fame se gli aiuti non entreranno per davvero.

Il campo profughi di Al Zataar a Jabalia dopo il bombardamento israeliano di fine ottobre

Prima della guerra entravano nell’enclave controllata da Israele e dall’Egitto 10 mila tir al mese. Negli ultimi due mesi ne sono passati 1.249 (dati WFP). Sul Jerusalem Post il governo venerdì 22 attaccava le Nazioni Unite dicendo che non sono in grado di gestire il flusso di aiuti ai palestinesi a Gaza: il presidente israeliano Herzog ha detto al presidente del senato francese a Gerusalemme che il suo Paese ha fatto il possibile “from the very first  moment”: “potremmo far passare 400 tir al giorno, ma a causa della pesante disorganizzazione delle Nazioni Unite ne passano 125 al giorno”, ha detto Herzog, nonostante a dicembre sia stato riaperto anche il varco di Kerem Shalom nel Negev israeliano.

Intanto l’esercito di Tel Aviv sta smobilitando le truppe da alcuni settori del nord di Gaza, come Tel Al Zaater. Un reporter palestinese di Al Jazeera è entrato nel quartiere e ha trovato diversi cadaveri, tra cui uno appare denudato, come un sospettato guerrigliero arrestato. Nell’ospedale di Al Awda  un operatore sanitario ha detto che sono stati portate via 86 persone.



REPORTAGE DA JABALIIA 

TRADUZIONE SOMMARIA DEL TESTO DEL VIDEO

Parla il corrispondente di Al Jazeera

Siamo a Tel Al Zaater, nella zona di Jabalya. Siamo riusciti a raggiungere quest’area dopo che le forze di occupazione israeliane e le macchine l’hanno assediata per oltre 20 giorni.

Qui vediamo i crimini commessi dalle forze di occupazione. Ci sono 10 corpi di martiri a terra nelle strade, come vediamo qui. Anche le dimensioni della distruzione dell’area sono molto grandi.

(Si trova ora vicino alla tenda verde).

Come vediamo qui, i corpi dei martiri sono ovunque. Le squadre mediche non sono potute arrivare qui a causa dell’assedio delle forze israeliane.

(Si vede un uomo che trascina via un corpo morto. Penso che le squadre della protezione civile o forse dei volontari stiano cercando i cadaveri e li segnino coprendosi il volto per poi rimuoverli).

Hanno distrutto l’intera area. I corpi dei martiri sono ovunque. È indescrivibile.

(Sembra che sia scoppiato a piangere).

Al minuto 1,22

Ecco la distruzione delle scuole nelle vicinanze dell’ospedale indonesiano.

Al minuto 2.22

Ci stiamo dirigendo verso l’ospedale di Al Awda, che è stato assediato per più di 10 giorni. Gli occupanti hanno arrestato il direttore dell’ospedale e alcuni membri del personale medico. Hanno anche commesso un genocidio all’ospedale di Al Awda.

Al minuto 2.50

Parla l’operatore medico

Per 18 giorni non abbiamo potuto muoverci. Hanno sparato a chiunque uscisse.

Hanno portato via il medico Ahmed. Ha passato la notte con loro. Il giorno dopo sono tornati e hanno detto: “Tutti gli uomini tra i 20 e i 40 anni, uscendo a gruppi di 20 persone, vadano dentro i vagoni-box (penso che intendesse i vagoni delle prigioni israeliane o qualcosa del genere). Hanno portato via le prime 20 persone e poi hanno detto basta. Il giorno dopo sono tornati con il dottor Ahmed e hanno voluto che tutti gli uomini sopra i 16 anni uscissero a gruppi di 20 e tutti nudi dalla vita in su. Hanno portato via circa 86 persone. Al minuto 3.48

Le forze israeliane sono passate di qui e hanno distrutto tutte le case.

Qui vicino all’ospedale Al Awda, che è solo per le donne che partoriscono. Qui ci sono 2 donne sepolte. Erano venute all’ospedale per partorire. Lì c’è il corpo del marito di una di loro. I bulldozer israeliani le hanno travolte e uccise. Qui c’è un corpo e qui c’è l’altro. (Si vedono i corpi vestiti di nero e semisepolti dalle macerie) Ecco altri 2 corpi di donne incinte. Portavano bandiere bianche. Le hanno uccise senza pietà. I bulldozer li hanno investiti e hanno sparato anche a loro. Li hanno uccisi tutti.

Le forze israeliane prendono deliberatamente di mira operatori e strutture mediche. Fanno affermazioni diverse, ma si ripetono in continuazione.

Sembra che gli israeliani prendano di mira anche le donne incinte, come nel video e anche il civile israeliano che ha pugnalato ripetutamente la donna incinta nella sua pancia.

Penso che odino molto il fatto che il tasso di natalità palestinese sia molto più alto di quello israeliano.

Vedono un futuro combattente della resistenza in ogni bambino palestinese partorito da ogni donna incinta.



La pratica di far spogliare gli arrestati palestinesi sospettati di attività per Hamas e lasciarli in mutande secondo IDF, l’esercito israeliano serve per evitare che qualcuno con cinture esplosive  provochi attentati. Anche i giornali israeliani si chiedono quanto risponda alle leggi internazionali sui fermi dei nemici. Il quotidiano Haaretz, come Guardian e Wall Street Journal, hanno raccolto testimonianze indirette di esecuzioni sommarie di detenuti, senza riuscire a raccogliere prove dirette.

I palestinesi sospettati di attività per Hamas vengono trasportati nudi in camion fuori dalla Striscia nel Negev in un centro di detenzione e poi portati in un carcere militare vicino a Gerusalemme. Secondo IDF i fermati a Gaza sono 1.200. Ma alcuni rilasciati, in quanto risultati estranei, raccontano di torture e di sparizioni di alcuni detenuti.  Gli ostaggi israeliani nelle mani di Hamas sarebbero ancora 129, 3 sono stati ammazzati da Hamas alcuni giorni fa. Cinque risultano dispersi dopo bombardamenti di Israele.

Il 12 agosto 1976, un campo profughi palestinese di Tel al-Zaatar a Beirut fu preso d’assalto dalle milizie cristiane e dalle truppe siriane dopo un assedio durato 52 giorni. L’attacco causò la morte di almeno 1.500 palestinesi, molti dei quali erano civili, e la fuga di altre migliaia. Il campo, noto come Tal al-Zaatar (La collina del timo), era una delle ultime roccaforti dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) nell’area di Beirut Est, dominata dai cristiani. Il massacro di Tal al-Zaatar è stato uno degli episodi più terribili della guerra civile libanese, scoppiata nel 1975 tra fazioni musulmane e cristiane.

A parte la CNN entrata rapidamente nel sud di Gaza dieci giorni fa, nessun giornalista internazionale è riuscito ad entrare e anche le ong e gli organismi legati alle Nazioni Unite dichiarano apertamente le difficoltà nel reperire dati.

Israele di fatto ha creato una cortina che blocca molte informazioni. La guerra viene documentata direttamente solo da giornalisti palestinesi in loco che rischiano continuamente la vita. I reporter uccisi dall’esercito israeliano a Gaza sono 99 (dati del dipartimento stampa del governo di Gaza).

La situazione continua ad essere tesa nei Territori occupati. A Betlemme un reportage di Al Jazeera racconta di una città deserta dove continuano gli arresti di sospettati durante le notti e vengono distrutti edifici. “Non abbiamo mai visto una cosa simile”, dicono i commercianti. Un sacerdote racconta anche che il check point in basso, lungo il muro, viene chiuso per diverse ore. Turisti zero. Anche gli arabi israeliani che vivono all’estero hanno deciso di non tornare per Natale.

Alessandra Fava
alessandrafava2023@proton.me
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Il Belgio rispedisce in Croazia giocatori di pallamano scappati dal Burundi

Dal Nostro Corrispondente Sportivo
Costantino Muscau
Nairobi, 23 Dicembre 2023

Come in un drammatico gioco dell’oca rischiano di tornare alla casella del via. Per ora sono stati costretti a rientrare al punto di fuga. Sei dei dieci giocatori di pallamano della squadra del Burundi, fuggiti il ​​9 agosto scorso da Rijeka (Fiume), mentre partecipavano alla Coppa del Mondo U-19, han dovuto riprendere la strada della Croazia.

I giocatori di pallamano burundesi disperati dopo la notifica dell’espulsione verso la Croazia

Il Belgio, dove i giovani avevano chiesto asilo, li ha espulsi la settimana scorsa.
Altri due atleti si sono resi irreperibili e sono ricercati per essere allontanati dal territorio belga. Degli ultimi due, ufficialmente, non è stato comunicato niente.

“In base al trattato di Dublino, e quindi delle regole europee, la Croazia è responsabile delle procedure d’asilo, in quanto primo Paese di accoglienza – ha spiegato la ministra dell’Asilo e della Migrazione belga, Nicole de Moor, 39 anni, esponente Cristiano-democratica fiamminga.

Il Belgio ha subito una pressioni migratoria in misura superiore a quelle di altri Paesi. Non è accettabile che dobbiamo accogliere persone che devono essere prese in carico da altri Stati”.

Giocatori di pallamano U19 spariti in Croazia, riapparsi in Belgio.

Secondo il governo belga, i sei giovani, quindi, potranno chiedere asilo in Croazia, dove sono entrati, come previsto dalla Convenzione di Dublino. Inutili le proteste e la richiesta di evitare queste espulsioni da parte dei due difensori degli atleti.

Gordien Niyungeko, esponente del Fondo per la Coscienza e lo Sviluppo, (Focode) e Gustave Niyonzima, del Collettivo degli avvocati in difesa delle vittime dei crimini di diritto internazionale del Burundi (Cavib), hanno dichiarato: “La decisione presa è terribile. il Belgio sa che la Croazia è un Paese non sicuro in termini di richiedenti asilo e rifugiati. Ed è noto che i giovani potrebbero essere rimandati in Burundi dove subiranno danni ancora maggiori: le detenzioni abusive, la povertà, lo scarso rispetto dei diritti umani sono situazioni ben note”.

Dura la presa di posizione anche di quattro organizzazioni che hanno preso di mira quelli che definiscono i “centri di detenzione per stranieri (in Belgio ce ne sono 6), e che hanno preso a cuore la sorte del gruppo dei giovani burundesi. Esse sono “Voice of out”, il “CRACPE” (Collectif de résistance aux centres pour étrangers), il DBB (Diaspora Burundaise de Belgique) e ACAD (Association pour la coopération et d’Auto Développement).

“All’arrivo in Belgio, – hanno scritto in un comunicato – molti di loro sono stati sottoposti ad un esame medico perché il Dipartimento per l’Immigrazione aveva dubbi sul loro status di minore età. Questa visita medica comprendeva 3 scansioni ossee (denti, clavicola e polso) per stimare il loro anno di nascita. Molti di loro erano considerati ultra maggiorenni e di conseguenza rientravano nel Regolamento Dublino”.

Martedì 7 novembre i giocatori sono stati tutti convocati al Dipartimento Immigrazione nell’ambito della procedura Dublino. Questa – secondo le quattro organizzazioni – si è rivelata una trappola: la polizia li stava aspettando. Hanno arrestato sette giocatori e “ li hanno portati in centri di detenzione prima della loro deportazione in Croazia, dove i cattivi trattamenti dei migranti sono numerosi e regolarmente criticati”.

Questa non sarebbe la prima volta che il Dipartimento belga per l’Immigrazione predispone “deportazioni” verso la Croazia. Il 16 marzo 2023 era già stato organizzato un volo collettivo con decine di persone, tra cui 20 burundesi, di cui non si è più saputo nulla.

Fino allo scorso settembre, la Commissione indipendente belga che esamina le richieste dei richiedenti asilo (CGRS) ha preso 924 decisioni riguardanti cittadini del Burundi. A ben 758 di loro (oltre l’80%) ha garantito lo stato di rifugiato.
In totale, nel 2023, fino a novembre, le domande provenienti da fuggiaschi del governo dell’ex generale Evaristo Ndayishimiye, sono state 1160, di cui 927 accolte.

Costantino Muscau
muskost@gmail.com
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Sportivi pallamano burundesi U19 fuggiaschi in Belgio: la lunga strada verso la libertà

Colpo di mano dei giocatori di pallamano: Burundi e Ruanda uniti nella fuga

Mozambico, società civile sospetta la longa manus dello Stato nell’assassinio di un giornalista scomodo

Speciale per Africa ExPress
Sandro Pintus
22 dicembre 2023

Si chiamava João Fernando Chamusse, 59 anni, era un giornalista e direttore del settimanale Ponto por Ponto. La settimana scorsa, il 14 dicembre, dopo aver passato la serata con amici è stato ammazzato a colpi di machete nella sua casa a Katembe (Maputo).

Poche ore dopo l’omicidio la polizia (PRM) ha arrestato un vicino. Secondo gli inquirenti l’omicidio è avvenuto dopo una lite a causa del rumore a casa di Chamusse. Due giorni dopo è stata arrestata un’altra persona, secondo la polizia anche questa sospettata di complicità nell’assassinio.

Giornalista poliedrico contro il potere

Pilota commerciale di formazione, si era dedicato al giornalismo negli anni ’90. João Chamusse era un giornalista poliedrico senza peli sulla lingua che ha lavorato per diversi organi di stampa. Tra questi anche Canal de Moçambique, testata nota per le inchieste sulla corruzione la cui sede è stata incendiata da sconosciuti. Ha scritto anche per Metical, MediaFax e Zambeze.

manifestazione per giornalista Joao Chamussa
Manifestazione per la libertà di stampa e per il giornalista giornalista ucciso Joao Chamussa (foto da X CDD)

Ultimamente il reporter si era fatto conoscere per le sue analisi approfondite di questioni nazionali nel programma “Quarto Poder” di TV SucessoPonto por Ponto, nell’edizione del 30 novembre, aveva accusato il Frelimo (partito al potere dal 1975) di colpo di stato alle elezioni di ottobre scorso. Elezioni vinte ufficialmente dal Frelimo ma contestate dal Renamo, maggior partito di opposizione. Il tribunale ha perfino confermato i brogli.

Le perplessità della società civile

Secondo il Centro per la Democrazia e i Diritti umani (CDD) molte cose non tornano nell’omicidio del giornalista. Non si capisce per quale motivo siano spariti solo due cellulari e il suo pc portatile. Il CDD, afferma che sia stato portato a forza nella redazione del giornale e ci sono indizi che Chamusse sia stato torturato, probabilmente per avere informazioni o qualche oggetto.

Il 18 dicembre, nel centro della capitale mozambicana, Maputo, c’è stata una manifestazione per la difesa della libertà di stampa. Organizzata da Comunicação Social da África Austral (MISA- Mocambique) ha aderito anche in CDD.

Il Centro per la Democrazia nutre il sospetto che Chamusse sia stato assassinato a causa del suo lavoro di giornalista. Soprattutto in un contesto in cui il Paese attraversa una crisi post-elettorale a causa di mega-brogli delle elezioni di ottobre scorso.

Scrive il CDD: “Per Chamusse, il modo in cui vengono organizzate le elezioni in Mozambico, con la certezza di chi vincerà, è uno spreco di risorse statali”.

Anche Amnesty International prende posizione: ”…condanniamo la deplorevole uccisione di João Fernando Chamusse. Si inserisce in un’inquietante ondata di minacce di morte, intimidazioni e molestie nei confronti dei giornalisti in Mozambico. Una violenza volta a mettere a tacere il dissenso in vista delle elezioni generali del prossimo anno.

giornalista Ponto colpo di stato
La prima pagina di Ponto por Ponto tirola “Fatto il colpo di stato”

Attacchi alla stampa indipendente

Negli ultimi anni sono stati segnalati numerosi attacchi o arresti arbitrari contro i giornalisti. Diverse volte il governo ha cercato di mettere il bavaglio alla stampa indipendente.

Secondo Reporters sans Frontieres (RSF) molti media mozambicani sono sotto il controllo del governo o di membri del Frelimo. La rielezione alla presidenza di Filipe Nyusi nel 2019 ha rafforzalo il controllo sui media che ne compromette notevolmente l’indipendenza.

Intanto il Mozambico, nella lista sulla libertà di stampa, oscilla tra l’arancione e il rosso. Su 180 Paesi, nel 2023, l’ex colonia portoghese si trova al 102° posto.

Sandro Pintus
sandro.p@catpress.com

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Elezioni in Congo-K: l’opposizione denuncia disorganizzazione e irregolarità, seggi aperti anche oggi, dopo la giornata caotica di ieri

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
21 dicembre 2023

Ieri sono stati chiamati alle urne 44 milioni di cittadini congolesi – su un totale di 100milioni di abitanti – per scegliere il nuovo presidente. La tornata elettorale comprende anche le legislative e quelle locali. Sono stati predisposti all’incirca 75.000 seggi in tutto il Paese, ma gran parte di questi hanno aperto le porte con forte ritardo. Lo ha ammesso persino CENI (Commissione Elettorale Nazionale Indipendente). Si voterà anche nella giornata di oggi, laddove gli uffici elettorali sono rimasti chiusi per problemi pratici.

La missione delle Chiese cattolica e protestante ha inviato circa 25.000 osservatori sul campo.

Persino nella capitale Kinshasa molti seggi non hanno aperto in orario e le procedure di voto si sono protratte fino a notte inoltrata.

Tornata elettorale in Congo-K: caos, ritardi, irregolarità

In alcune zone del Nord-Kivu le persone non hanno potuto esercitare il proprio diritto al voto perchè gran parte della regione è continuamente bersagliata dagli attacchi dei ribelli M23 (prende il nome da un accordo, firmato dal governo del Congo-K e da un’ex milizia filo-tutsi il 23 marzo 2009).

Molti residenti hanno dovuto lasciare le loro case, tanti sfollati vivono ora nella periferia di Goma in diversi campi, in condizioni estremamente precarie. La maggior parte di loro, a causa del conflitto tra i ribelli dell’M23 e l’esercito congolese, non ha potuto ritirare i documenti necessari a esercitare il diritto di voto . La Céni non è riuscita a organizzare il processo elettorale nelle località controllate dai ribelli.

Altri sfollati nella regione, pur avendo ottenuto la tessera elettorale, sono stati penalizzati ugualmente, perchè nella fuga il documento è rimasto a casa e ora non hanno più accesso ai villaggi dove risiedevano per ragioni di sicurezza. Secondo OIM (Organizzazione Internazionale per i Rifugiati) gli sfollati in Congo-K sono 6,9 milioni.

Insomma le tensioni hanno causato parecchi episodi di violenza. E i ritardi, dovuti a diverse ragioni, confermano comunque i timori già espressi dai vari partiti all’opposizione e da alcuni osservatori nel periodo pre-elettorale. Problemi che ora potrebbero inoltre alimentare i dubbi sulla legittimità delle elezioni.

In base a diverse fonti autorevoli, l’M23 è sostenuto dal governo di Kigali. E a giugno gli esperti dell’ONU hanno presentato al Consiglio di Sicurezza un rapporto finale che documenta il coinvolgimento dell’esercito ruandese nella guerra nel Nord Kivu. Kigali continua a respingere le accuse.

Anche a Bunia, nell’Ituri (nell’est della ex colonia belga) moltissimi sfollati non hanno potuto votare per problemi di instabilità e non hanno potuto raggiungere il seggio a loro assegnato. Un funzionario di CENI ha riportato che alcuni, delusi e arrabbiati per non aver potuto votare, hanno saccheggiato un seggio elettorale.

Sospetti di frode hanno scatenato incidenti a Mbandaka (nord-ovest) dove, secondo quanto riportato da un leader della società civile, gli spari della polizia sono stati accolti con  lanci di pietre da parte della popolazione, che ha molestato un funzionario elettorale e bruciato del materiale.

Son ben 26 i candidati in lizza per la poltrona più ambita. Tra loro anche il presidente uscente Félix Tshisekedi, che corre per un secondo mandato. E’ leder dell’UPS (Union pour la démocratie et le progrès social), partito del quale ha fatto parte anche il padre, l’oppositore storico del Paese, Etienne Tshisekedi, deceduto nel 2017.

Appena arrivato al potere nel 2019, il presidente uscente ha cercato di migliorare l’immagine del Congo-K all’estero, rompendo l’isolazionismo del suo predecessore Joseph Kabila. Tshisekedi ha poi fatto molte promesse ai congolesi, ma poco è stato realizzato e per sua stessa ammissione “resta ancora molto da fare”.

Nell’est del Paese i continui attacchi dei ribelli e dei gruppi armati continuano senza sosta. La popolazione è allo stremo. E anche la lotta contro la corruzione non ha ottenuto i risultati voluti. Il capo di Stato aveva promesso di voler migliorare la qualità della vita dei suoi connazionali, eppure, secondo la Banca mondiale, due terzi della popolazione vive sotto la soglia di povertà. Inoltre, molti giovani (il 60 per cento della popolazione ha meno di 20 anni) sono disoccupati. L’indice di gradimento di Tshisekedi è sceso drasticamente: a marzo 2019 era del 63 per cento, a marzo del 2023 è sceso al 35,66. Ma Tshisekedi parte ugualmente come favorito in queste elezioni a turno unico, visto che l’opposizione non è riuscita a accordarsi su un unico candidato.

E lunedì, alla chiusura della campagna elettorale, Tshisekedi ha annunciato di voler dichiarare guerra al Ruanda se dovesse essere rieletto e se “i nostri nemici continueranno ad agire in modo irresponsabile”.

Tra gli altri candidati di punta c’è Moïse Katumbi, 58 anni, un ricco uomo d’affari, proprietario della rinomata squadra di calcio di Lubumbashi (nel sud-est), Tout Puissant Mazembe, ed ex governatore (2007-2015) della provincia mineraria del Katanga, cuore economico del Paese, dove è nato. Di madre congolese, mentre il padre, Nissim Soriano, era un ebreo italo-greco di Cefalonia (lui usa il cognome della made, Virginia Katumbi) il che lo rende un bersaglio privilegiato per i sostenitori della “Congolité” (identità nazionale, entrambi i genitori devono essere congolesi), il cui leader ha tentato persino di far invalidare la sua candidatura.

Moise Katumbi, figlio di una congolese e di un ebreo italo-greco

Katumbi è leader del partito “Ensemble pour la République” e fa leva sui suoi successi imprenditoriali e sul suo operato in Katanga, dove ha costruito strade, scuole e sviluppato l’agricoltura, per dimostrare che è in grado di gestire anche il Paese.

Martin Fayulu, candidato alle presidenziali in Congo-K

Un altro candidato molto quotato tra gli oppositori è Martin Fayulu, 67 annileader del partito Ecidé (Engagement pour la citoyenneté et le développement), e ex dirigente di una importante società petrolifera.

E’ molto arrabbiato, perché sia lui che i suoi sostenitori sono convinti che sia stato derubato della vittoria nelle ultime presidenziali. Ora spera di conquistare la tanto ambita poltrona.

Il ginecologo e ostetrico Denis Mukwege nel suo ospedale in Congo
Il ginecologo e ostetrico Denis Mukwege nel suo ospedale in Congo

Il premio Nobel per La Pace 2018, il 68enne Denis Mukwege, è il candidato più conosciuto ed è apprezzato nel mondo intero per aver curato e essersi occupate delle donne vittime di stupri nel suo Paese. Ora vuole anche “prendersi cura” del Congo-K, che, secondo lui, è diventato la “vergogna del continente”. Mukwege è figlio di un pastore pentecostale, è originario del Sud Kivu (nell’est), dove gestisce un ospedale.

Cornelia I. Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
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Altri articoli sul Congo-K li trovate qui

 

 

 

 

 

 

 

Yemen: pericolo houthi, Washington ordina e l’Italia obbedisce

Dal Manifesto
Farian Sabahi*
20 dicembre 2023

Dopo un collegamento video con il segretario alla Difesa degli Stati Uniti, Lloyd Austin, il ministro della Difesa Guido Crosetto ha annunciato che il 24 dicembre la Fregata ‘Virgilio Fasan’ dovrebbe attraversare lo stretto di Suez in direzione di Bab el-Mandeb. Dallo “Stretto delle lacrime” da cui transitano ogni anno 23mila navi, il 15 percento del greggio e l’8 percento del gas del pianeta. La nave da guerra italiana va così ad unirsi alla nuova forza internazionale di protezione marittima per vigilare sulla navigazione nel Mar Rosso e nel Golfo di Aden.

L’obiettivo è garantire la protezione dei traffici mercantili, in pericolo per gli attacchi degli Huthi che inizialmente volevano “impedire i rifornimenti a Israele finché a Gaza non potranno entrare cibo e medicinali”, e ora minacciano qualsiasi Paese agisca contro di loro. In seguito agli attacchi, sono aumentati i costi assicurativi e di trasporto: circumnavigando l’Africa si alzano l prezzi del greggio, del gas e delle merci diretta in Europa.

Il video diffuso dagli houthi mostra il sequestro di un mercantile nel Mar Rosso 

Una precisazione: gli Huthi non sono “ribelli” bensì i padroni dello Yemen del nord. Per decenni l’ex presidente Ali Abdallah Saleh li aveva lasciati in una situazione di povertà imposta, ovvero senza le infrastrutture indispensabili alla crescita economica e quindi senza strade, scuole e ospedali. Saleh agì in questo modo pensando di poterli manovrare meglio e usarli come contropartita nel gioco con l’Arabia Saudita.

Negli Huthi, la strategia di povertà imposta suscitò però sentimenti di esclusione, ingiustizia e ribellione. E, infatti, all’indomani della Primavera yemenita e alla cacciata del presidente Saleh, presero il potere a Sanaa. Di lì a poco, nel marzo 2015, i sauditi bombardarono la capitale yemenita perché non potevano tollerare che una minoranza sciita filoiraniana prendesse il controllo di Bab el-Mandeb.

Gli Huthi fanno parte dell’Asse della resistenza filoiraniano. Se gli Hezbollah obbligano Israele a tenere impegnati diversi battaglioni sul confine settentrionale, gli Huthi si sono inseriti nella guerra tra Israele e palestinesi perché vogliono dimostrare agli altri proxy dell’Iran di contare qualcosa. Da Teheran hanno ricevuto sostegno finanziario e know-how militare.

Nelle due foto milizie Houthi

Ora, destabilizzando il Mar Rosso per conto dei pasdaran, ripagano il debito contratto ma per la popolazione yemenita le conseguenze potrebbero essere disastrose. Come gli Hezbollah libanesi, gli Huthi sono attori indipendenti, con una propria agenda: il loro obiettivo è ottenere una qualche legittimità, in primis da parte della Lega Araba a guida saudita. Ed è a Riad e ad Abu Dhabi – ovvero alle due potenze regionali che in questi otto anni hanno distrutto lo Yemen, riducendone gli abitanti allo stremo – che arriva un messaggio forte e chiaro: “Siamo in grado di colpire le navi nel Mar Rosso, potremmo colpire anche i vostri giacimenti e le vostre città”.

Ora, mandare la nostra Marina Militare nel Mar Rosso è rischioso. Non è infatti da escludere un attacco con i droni armati: gli Huthi ne hanno otto diverse tipologie, assemblati in Yemen con la supervisione di ingegneri iraniani. Tra gli scenari peggiori ci potrebbe essere un’operazione degli Huthi per prendere ostaggi. Oppure il coinvolgimento di civili come nel febbraio 2012, quanto due marò imbarcati sulla petroliera italiana Enrica Lexie come nuclei militari di protezione, furono arrestati dalla polizia indiana con l’accusa di aver ucciso due pescatori, innescando una lunga controversia tra Italia e India.

Inviare la Marina Militare davanti alle coste yemenite avrebbe avuto senso qualche anno fa, come operazione umanitaria, quando la popolazione era vittima di un blocco aeronavale dell’Arabia Saudita che impediva alle organizzazioni umanitarie di recapitare cibo e medicine, anche per contrastare l’epidemia di colera.

Oggi, anziché muovere le navi da guerra, sarebbe opportuno lasciare una possibilità alla diplomazia: in quanto storicamente partner privilegiato di Teheran, l’Italia potrebbe chiedere ai vertici della Repubblica islamica di mediare. È vero che gli Huthi non rispondono agli ordini di Teheran, ma fanno parte dell’Asse della resistenza e – di fronte a una richiesta di ayatollah e pasdaran – dovrebbero acconsentire e fermare gli attacchi, consapevoli che la partita si gioca su più fronti. E, infatti, in cambio di una richiesta esplicita di Roma a Teheran, si dovrebbe dare qualcosa in cambio: la ripresa dei negoziati sul nucleare, il riconoscimento degli Huthi e la fine della guerra in Yemen.

Farian Sabahi*
farian.sabahi@gmail.com

*l’italo-iraniana Farian Sabahi vanta un Ph.D. alla SOAS (School of Oriental and African Studies) di Londra, è Ricercatrice senior in Storia contemporanea, insegna all’Università dell’Insubri (Como e Varese) è delegata per gli affari istituzionali e diplomatici presso il Dipartimento di Scienza Umane e dell’Innovazione per il Territorio.

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Gaza: chiunque si muove è freddato, come i tre ostaggi ebrei uccisi dal loro esercito

Speciale per Africa ExPress
Alessandra Fava
19 dicembre 2023

Le tv israeliane dedicano pochi minuti al giorno alle sofferenze dei palestinesi di Gaza. I giornali si occupano molto sporadicamente dei palestinesi sotto assedio, bombardati da due mesi e alla fame: secondo World Food Programme (PAM) il 44 per cento dei gazawi sta morendo di stenti perché senza cibo. Solo il servizio della Cnn nel sud di Gaza ha creato un certo scalpore e costretto le tv nazionali a parlarne. Anche perché il filmato è circolato in mezzo mondo.

Tre israelian presi in ostaggio da Hamas il 7 ottobre, uccisi dalle forze armate di Tel Aviv

Un ultimo episodio però ha scosso le coscienze intorpidite e anestetizzate dalla guerra di Bibi contro Hamas: la morte di tre ostaggi israeliani riusciti a sfuggire e ammazzati dall’esercito del loro stesso Paese.

Sia Haaretz sia Jerusalem Post il 17 dicembre dedicano l’apertura all’episodio.

Riferiscono di tre ostaggi israeliani a Shujaiyeh nella striscia di Gaza che riescono a fuggire dai loro rapitori. I tre, 28, 24 e 26 anni erano stati rapiti nei kibutz di Kafar Azza e Hura. Forse a causa della fuga dei loro rapitori in mezzo ai bombardamenti e agli attacchi aerei e di terra, i tre riescono a uscire dall’edificio dove vengono tenuti prigionieri.

Sono a torso nudo (mostrano quindi che non hanno armi), reggono un lungo bastone con in cima una bandiera bianca costruita con qualche cencio trovato in giro. Un soldato sistemato in alto in un altro edificio a mo’ di cecchino si sente in pericolo e ne fredda due. Il terzo riesce a scappare in una palazzina della zona. Intanto il soldato appostato chiama i suoi commilitoni e avvisa che ci sono dei combattenti nemici. Arriva il commando  insieme a un altro gruppo di militari.

Il sopravvissuto grida in ebraico chiedendo aiuto. Ma i militari pensano che sia una trappola di Hamas per attirarli dentro all’edificio. Così entrano e ammazzano il terzo connazionale. Solo dopo, guardando i corpi, capiscono l’errore. Due giorni prima i soldati avevano trovato una costruzione della zona con scritto “SOS. Aiuto, tre ostaggi” ma avevano pensato che fosse opera del nemico.

“E’ un evento tragico che può succedere in una zona di combattimento densa di terroristi”, ha commentato il portavoce dell’esercito israeliano che promette di aprire un’indagine. Ma il rappresentante della comunità di Hura èandato giù duro: “l’esercito uccide chiunque si muova in Gaza, così non si sono fermati per identificare gli ostaggi prima di sparare. E’ una tragedia per Hura, siamo tutti in lutto”. Le famiglie sapevano infatti dagli ostaggi rilasciati due settimane fa che i tre ragazzi erano ancora vivi.

In Italia pochi media hanno riferito dell’episodio, sottolineato invece con forza dell’ex premier Conte in una conferenza stampa in cui chiede il cessate il fuoco a Gaza.

Intanto l’esercito israeliano ha trovato i corpi di altri quattro ostaggi morti negli scontri seguiti al crudele attacco al rave, mentre i parenti delle persone sequestrate da Hamas hanno manifestato con più rabbia a Tel Aviv. Alcuni dicono che lo stillicidio di speranza di averli in vita e poi certezza della morte dei loro cari e l’arrivo di nuove bare è una cosa insostenibile. Nethanyau nel dubbio è sparito dalla circolazione.

Per altro continuano sottotraccia  – addirittura l’ultimo in un non ben definito Paese della Ue – gli incontri tra Hamas, Qatar e il capo del Mossad per trovare un accordo. Una delle ipotesi che circolano è di far uscire i capi di Hamas incolumi da Gaza purché se ne vadano lontano. Proprio come successe con Arafat che riparò a Beirut e poi a Tripoli.

Le pressioni degli Usa, con la visita alla fine della scorsa settimana dell’advisor per la sicurezza nazionale, Jake Sullivan, e una telefonata tra il presidente, Joe Biden, e il premier israeliano Netanyahu, per ora si sono tradotte ufficialmente solo nel fatto che Israele promette di aprire un varco commerciale a est di quello di Rafah, Kerem Shalom, molto più grande e adatto al transito di tir e convogli.

Sulllivan però parla anche di una guerra che durerà ancora a lungo e della minaccia dell’Iran. Per altro un magazine israeliano ha dedicato un ampio reportage ai soldati alla frontiera nord, verso il Libano, intitolato “Il secondo fronte in preparazione”.

Intanto Israele ha tolto l’elettricità a Gaza da giorni. Il 44 per cento della gente non ha più da mangiare e sta letteralmente morendo di fame – come attesta WFP, World Food Programme, che il 15 dicembre è riuscito a distribuire appena 9.270 pasti e solo nel sud della Striscia.

I bombardamenti si susseguono mentre IDF (Israel defence forces) comunica presunti spostamenti che la gente dovrebbe fare verso zone sicure dalle bombe, informazioni cui nessuno ha accesso per il black out elettrico. 342 scuole sono state fatte a pezzi. Funzionano 8 dei 32 ospedali aperti prima della guerra, con poco personale, poche medicine e strutture al collasso. L’ospedale di Al-Shifa è stato nuovamente bombardato.

Dagli smartphone dei gazawi arrivano le immagini degli incendi in Al Shifaa 

e le immagini di una tv egiziana you-tube-be/-Dd-MTvv6PE?feature=shared

Una terribile notizia di persone rimaste sepolte sotto la sabbia dopo un attacco con un buldozer all’ospedale di Kamal Adwan sembra da una prima ricostruzione che abbia travolto una tendopoli fuori dell’ospedale. Le autorità gazawi si impegnano a verificare. Quindi insieme alle morti accertate, ci sono anche moltissimi dispersi, rimasti anche sotto le macerie degli edifici.

Gli houthi attaccano navi commerciali

Intanto gli Huthi (gruppo armato yemenita) nell’ultima settimana hanno attaccato decine di navi di diverse compagnie, navi anche non dirette o provenienti da porti israeliani. Le compagnie come l’israeliana Zim, la svizzera MSC e l’olandese Maersk e anche Hapag-Loyd al momento preferiscono circumnavigare l’Africa. Una nave è stata attaccata al sud dell’Oman a mille chilometri al largo della Somalia. Le compagnie negano di essere dirette in Israele, ma le tratte delle navi sono pubbliche e geolocalizzate. Il canale di Suez di fatto è come fosse chiuso.

Alessandra Fava
alessandrafava2023@proton.me
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Il futuro di Gaza legato a soluzioni impossibili

Per capire la Striscia di Gaza: come ha fatto Hamas a crescere e rafforzarsi così

Zambia: con le scarpe usate (o magari senza) in un campo per profughi si gioca a calcio

Dal Nostro Corrispondente Sportivo
Costantino Muscau
Nairobi, dicembre 2023

Con le scarpe, magari usate, o senza scarpe, anche in un campo profughi lo sport è uno strumento di salvezza. Il calcio e perfino il judo fra i rifugiati nello Zambia provenienti dalle guerre e dalla miseria dei Paesi vicini si rivelano un’occasione di rinascita. Certo, fra le due attività agonistiche le differenze non sono da poco. Partendo appunto dai piedi.

Squadre di calcio in un campo per rifugiati in Zambia

Ad esempio, Cristiano Ronaldo per scendere in campo indossa scarpette che costano quasi 300 euro.

Invece, il calzolaio Fidel per far scendere in campo Gift Mukanya, 24 anni, congolese rifugiato in un campo profughi in Zambia, si accontenta di 10 kwacha, meno di 40 centesimi di euro. Tanto è il costo di riparazione delle scarpette usate, di secondo…piede, verrebbe da dire.

Gift è un attaccante del Meheba Academy FC, uno dei tre team calcistici di rifugiati del campo profughi omonimo, nel nord ovest della vasta Repubblica africana (ex nord Rhodesia) senza sbocco sul mare.

Il Meheba Academy FC milita nella Division One del campionato nazionale e mira a salire nella serie superiore. Le altre due squadre sono quella dei Meheba Rangers FC, appartenente alla seconda divisione del campionato provinciale nord-occidentale e quella femminile del Meheba Queens FC, facente parte della quarta divisione della lega distrettuale di Kalumbila.

Tutte e tre le società calcistiche hanno alcuni elementi in comune: sono composte da sopravvissuti in fuga da Paesi vicini. In tutto 64 maschi e 22 donne.

Ma – ha raccontato ad Al Jazeera, un altro calciatore, Nathan Mulimbi, 25 anni – “ tutti siamo privi di palloni, maglie, bottigliette d’acqua, scarpe…”. Queste ultime ogni tanto si trovano, ma usate e consumate, bisognose di …assistenza da parte di Fidel, il ciabattino.

Nathan, come il compagno di squadra Gift, è scappato dal Congo ed è il primo di 12 figli. Per sbarcare il lunario, come gli altri atleti, ha trasformato la passione in una speranza di vita – ricorda ad Al Jazeera l’allenatore della Meheba Academy, Peter Kakesi. – i rifugiati hanno il talento per affermarsi. Se solo venissero ben sponsorizzati….”.

La comunità circostante di rifugiati, d’altra parte, fatica ad arrivare a fine mese. Deve affrontare difficoltà di ogni genere: permessi di lavoro costosi, salari più bassi di quelli dei zambiani, isolamento. Maheba infatti si trova a 10 km dal centro amministrativo di questo importante distretto minerario (rame e nickel) di 170 mila abitanti.

Ufficialmente è un campo profughi dal 1971 – informa il sito delle Nazioni Unite, che lo cura tramite UNHCR – ma è un villaggio che si estende per 720 kmq (poco meno di Singapore, il doppio di Gaza).

Ospita oltre 30 mila rifugiati provenienti dalla Repubblica democratica del Congo, l’Angola, il Ruanda, la Somalia, il Mozambico e lo Zimbabwe. In più accoglie anche circa 8.000 cittadini zambiani e 9.000 ex rifugiati che ora hanno permessi di residenza temporanei o permanenti.

L’UNHCR contribuisce (un kit, un autobus per le trasferte), ma servirebbero più soldi per cibo, l’acqua in bottiglia, carburante, spogliatoio, compenso per gli arbitri, e….una paio di scarpe nuove.

In attesa che queste piovano dal cielo, a Meheba c’è chi fa sport anche scalzo.
Infatti – informa l’agenzia delle Nazioni Unite – quasi 200 giovani tra ragazzini e ragazzine prendono parte alle competizioni della lega nazionale di judo.

Le attività del campo profughi di Meheba sono state avviate nel 2016 ed è stato il primo programma per rifugiati nella regione.

Attrezzature e installazioni sono state fornite dalla Federazione Internazionale di Judo, sotto la guida della Zambian Judo Association (ZJA), con l’assistenza di diversi partner, tra cui le autorità locali, l’UNHCR e il Comitato Olimpico Norvegese
Insomma : o con le scarpe o senza scarpe, per ricordare la vecchia canzone degli alpini, “si può costruire un percorso di vita”.

Costantino Muscau
muskost@gmail.com
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Per 6 anni prigioniero dei jihadisti in Mali: liberato ostaggio sudafricano

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
17 dicembre 2023

L’infermiere sudafricano, Gert Jacobus van Deventer, chiamato Gerco, è stato liberato il 16 dicembre dai jihadisti in Mali.

Gerco è stato rilasciato vicino al confine con l’Algeria, le cui autorità lo hanno subito preso in carico e trasferito per un check-up sanitario in un ospedale di Algeri, come ha specificato alla redazione di Africa ExPress Serge Daniel, apprezzato giornalista e profondo conoscitore delle questioni del Sahel. Durante la prigionia l’ostaggio era stato ferito al braccio sinistro da una pallottola.

Foto di repertorio dell’ex ostaggio sudafricano, Gert Jacobus van Deventer

Gerco era stato rapito il 3 novembre 2017 in Libia, in seguito, come lui stesso ha raccontato, è stato venduto ai jihadisti di JNIM (Gruppo di sostegno dell’Islam e dei musulmani) e trasferito nel nord del Mali.

Secondo quanto afferma la fondazione sudafricana Gift of the Givers, che ha svolto il ruolo di mediatore dal 2018, per la sua liberazione non sarebbe stato pagato alcun riscatto. Ma risulta difficile crederci.

La famiglia aveva lanciato un disperato appello quest’estate, chiedendo ai suoi aguzzini il rilascio immediato del congiunto. Inizialmente i terroristi avevano chiesto un riscatto di mezzo milione di dollari, soldi che la famiglia non è stata in grado di pagare.

La famiglia del sudafricano non aveva mai perso le speranze di poter riabbracciare il proprio congiunto. In questi lunghi anni di detenzione ha sempre lottato anche contro l’oblio. E finalmente il gran giorno sta per arrivare: se tutto andrà come previsto, Gerco potrà festeggiare questo Natale con i suoi cari, anche se la moglie Shereen e i tre figli, ancora increduli, attendono le prove concrete della sua liberazione. Finora le autorità sudafricane non hanno rilasciato commenti.

A questo punto va ricordato – e la redazione di Africa ExPress  non si stancherà mai di farlo – che in mano ai terroristi si trovano ancora anche tre italiani: Rocco Antonio Langone, la moglie Maria Donata Caivano, il 43enne Giovanni, figlio della coppia e il loro autista, un cittadino togolese. Sono stati rapiti nel maggio dello scorso anno da uomini armati dalla loro casa vicino a Koutiala (regione di Sikasso) nel sud del Paese.

Cornelia I. Toelgyes
corneliacit@hotmaail.it
X: @cotoelgyes
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Italiani rapiti nel Sahel: jihadisti e ostaggi in viaggio verso i santuari dei terroristi nel nord del Mali