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Accordo Etiopia-Somaliland per usare il porto di Berbera: la Somalia protesta

Africa ExPress
2 gennaio 2024

La Somalia non ha per nulla apprezzato il documento siglato ieri, 1° gennaio 2024, ad Addis Abeba, tra il primo ministro etiopico, Abiy Ahmed e il presidente del Somaliland, Musa Bihi Abdi. Il Memorandum d’Intesa consentirebbe all’Etiopia di utilizzare per 50 anni affittando ben 20 chilometri intorno al porto di Berbera, che si trova sul Golfo di Aden e quindi con accesso al Mar Rosso.

Il primo ministro dell’Etiopia, Abiy Ahmed, a sinistra e il presidente del Somaliland, Musa Bihi Abdi

Da quando l’Eritrea ha ottenuto l’indipendenza di fatto nel 1991 (ufficialmente ratificata con un referendum nel 1993) l’Etiopia non ha più sbocchi sul mare. Questo ha fatto sì che il secondo Paese più popoloso dell’Africa dipendesse, per la maggior parte del suo commercio marittimo, dal vicino Gibuti.

Va ricordato che il Somaliland, ex colonia britannica ha guadagnato l’indipendenza dal Regno Unito nel giugno 1960 (si chiamava Stato del Somaliland, indipendente dal 26 giugno al 1º luglio 1960) e dopo 5 giorni si è unita alla Somalia Italiana, indipendente dal 1° luglio. Dopo lo scoppio della guerra civile somala il 30 dicembre 1990, e il conseguente collasso della Somalia, il 18 maggio 1991 il Paese si è ritirato dall’unione proclamando la propria indipendenza. Ma il suo governo non è stato riconosciuto dalla comunità internazionale, tantomeno dalla Somalia.

Il MoU è stato siglato inaspettatamente, visto che proprio la scorsa settimana la Somalia e il Somaliland avevano concordato di riprendere i negoziati, grazie alla mediazione di Gibuti, per risolvere le questioni in sospeso dopo anni di tensioni politiche e di stallo.

Mogadiscio ha dichiarato che difenderà il proprio territorio con tutti mezzi legali e all’indomani dell’annuncio di questo accordo, le autorità somale hanno richiamato il proprio ambasciatore accreditato a Addis Abeba.

In un comunicato del gabinetto di Abiy viene precisato: “Grazie a questo accordo si aprirà una nuova strada per realizzare l’aspirazione dell’Etiopia, che potrà così garantire un proprio accesso al mare e a diversificare l’accesso ai porti marittimi”. Qualche mese fa Abiy Ahmed aveva parlato della necessità del suo Paese di rafforzare il diritto di accesso al Mar Rosso. Dichiarazioni che già allora avevano suscitato preoccupazione nella regione.

Mogadiscio ha convocato una riunione di gabinetto urgente, durante la quale è stato evidenziato che l’accordo tra Etiopia e Somaliland “è un’aperta interferenza alla sovranità, libertà e unità della Somalia e il MoU è dunque nullo”. In seguito al meeting, il presidente somalo, Hassan Sheikh Mohamud, ha dichiarato in parlamento che “nessuno ha il potere di cedere un pezzo di Somalia”.

Nel settembre 2018, Addis Abeba ha firmato una dichiarazione congiunta con Eritrea e Somalia. Tale accordo prevede rispetto dell’indipendenza, della sovranità e dell’integrità territoriale di ciascuno.

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Congo-K: il presidente uscente ha vinto le elezioni, mentre continua la guerra nell’est

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
1° gennaio 2024

Con il 73 per cento dei voti il presidente uscente della Repubblica Democratica del Congo, Félix Tshisekedi, ha vinto le elezioni. Lo ha annunciato nel pomeriggio di ieri, la Commissione Elettorale Nazionale Indipendente (CENI). Non sono stati resi noti altri dettagli per il momento, ora bisogna attendere la conferma ufficiale da parte della Corte costituzionale.

Il presidente uscente, Felix Tshisekedi, vince le presidenziali in Congo-K

Le votazioni si sono svolte il 20 dicembre. Finora il risultato non è stato contestato dall’opposizione: nessuna manifestazione, nemmeno nella capitale Kinshasa. Ieri la gente era impegnata con i preparativi dei festeggiamenti del capodanno.

Durante la campagna elettorale, le elezioni generali e il conteggio dei voti, nell’est del Paese attacchi, violenze, orrori non si sono mai fermati, nemmeno in questo periodo di feste. I gruppi armati hanno continuato a aggredire i civili che, durante i combattimenti tra le forze armate (FARDC) e i miliziani, sono costretti a fuggire dai loro villaggi.

Anche l’ultimo rapporto delle Nazioni Unite e tutt’altro che rassicurante. Nel loro fascicolo, visto in esclusiva da RFI, gli esperti dell’ONU accusano nuovamente il Ruanda di sostenere il gruppo M23 (prende il nome da un accordo, firmato dal governo del Congo-K e da un’ex milizia filo-tutsi il 23 marzo 2009), allegando alla loro relazione documentazioni evidenti e schiaccianti, come foto, video e testimonianze, che provano il coinvolgimento di Kigali.

Congo-K: miliziani M23

Intanto all’inizio di dicembre le truppe del Kenya, dell’Uganda, del Burundi e del Sud Sudan di EACRF (East African Community Regional Force), presenti in Congo-K, hanno cominciato a fare i bagagli. Le autorità di Kinshasa non hanno rinnovato il loro mandato: ritengono che il contingente non fosse sufficientemente efficace. Ma intanto è già stato annunciato il dispiegamento delle truppe di SADC (Comunità di Sviluppo dell’Africa Australe) nell’est del Paese.

Nel loro rapporto, gli esperti dell’ONU hanno evidenziato che le forze armate congolesi si avvalgono anche di contractor privati, come AGEMIRA RDC e Congo Protection (https://www.africa-express.info/2023/07/17/non-solo-russi-anche-mercenari-rumeni-bulgari-e-georgiani-allassalto-del-congo-k/), che hanno intensificato il loro supporto tattico e strategico. A volte i soldati di ventura supervisionano gli attacchi, trasportano le truppe o proteggono le infrastrutture.

Ma non solo. Nel fascicolo vengono riportate anche le fonti di finanziamento dei mercenari. Gli esperti del Palazzo di Vetro hanno dimostrato che il divieto di estrazione mineraria imposto dalla RDC non è stato rispettato e che il contrabbando di oro è andato a beneficio di alcuni di questi gruppi.

Civili in fuga dagli orrori nell’est del Congo-K

I civili sono sempre i primi a subire le conseguenze delle violazioni, degli attacchi, delle violenze. Basti pensare che gli sfollati sono ormai quasi 7 milioni. Un primato mondiale in questo anno appena trascorso, costellato da guerre e conflitti.

Cornelia I. Toelgyes 
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Elezioni in Congo-K: l’opposizione denuncia disorganizzazione e irregolarità, seggi aperti anche oggi, dopo la giornata caotica di ieri

Congo-K: operazione congiunta dell’esercito e dei caschi blu per bloccare i ribelli M23

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Altri articoli sul Congo-K li trovate qui

 

 

 

Editoriale-denuncia di Haaretz: “Quando Israele abusa degli ostaggi che tiene in custodia”

Da Haaretz
Gideon Levy
Tel Aviv, 24 Dicembre 2023

Ogni domenica e martedì, le guardie entrano nelle celle dei prigionieri palestinesi, li ammanettano e li picchiano con i manganelli. Questa è il loro compito settimanale, secondo i prigionieri rilasciati (Hagar Shezaf, Haaretz, 9 dicembre). Dall’inizio della guerra, il 7 ottobre, sono morti quattro prigionieri, quasi certamente a causa delle percosse. Diciannove guardie che hanno partecipato a queste feste malate sono sotto inchiesta, sospettate di aver causato la morte di un prigioniero.

Prigionieri palestinesi picchiati nelle prigioni israeliane

Centinaia di palestinesi detenuti nella Striscia di Gaza sono stati tenuti legati e bendati 24 ore al giorno e sono stati brutalmente picchiati. Alcuni, forse la maggior parte, non hanno alcun legame con Hamas. Alcuni di loro – nessuno si è preoccupato di riferire quanti – sono morti in prigionia nella base di Sde Teiman.

Anche i circa 4.000 lavoratori gazani arrestati in Israele il 7 ottobre, nonostante non avessero fatto nulla di male, sono detenuti in condizioni disumane. Almeno due di loro sono morti. E si è già scritto abbastanza sui detenuti denudati e sulle loro fotografie umilianti.

In questa terribile competizione sulla grandezza del male, non ci sono vincitori, ma solo perdenti. Ma è impossibile parlare giorno e notte delle atrocità di Hamas – gli scrittori fanno a gara a chi riesce a coniare i termini più sprezzanti per l’organizzazione – ignorando completamente il male di Israele.

Non ci sono vincitori, ma solo perdenti, nella competizione su quanto sangue viene versato e come viene versato. Ma è impossibile ignorare l’orribile quantità di sangue sparso nella Striscia di Gaza. Questo fine settimana sono state uccise circa 400 persone in due giorni, la maggior parte delle quali bambini. Sabato ho visto le immagini del weekenda Al-Bureij e Nuseirat, compresi i bambini che stavano morendo sul pavimento dell’ospedale Al-Aqsa di Deir al-Balah, e sono orribili.

Il rifiuto di Israele di aumentare la quantità di aiuti umanitari in entrata a Gaza, in barba a una decisione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, testimonia analogamente una politica del male.

Yair Golan

E come se tutto questo non bastasse, le voci del male all’interno di Israele hanno alzato il livello delle proposte sataniche. Il giornalista Zvi Yehezkeli è favorevole all’uccisione di 100.000 gazawi con un solo attacco. Il generale maggiore della riserva Giora Eiland ci ha ripensato ed è passato dalla proposta fatta in un primo tempo di diffondere malattie a Gaza a quella di affamare i suoi abitanti.

Persino il nuovo principe azzurro della sinistra, Yair Golan, che attualmente sta conquistando 12 seggi alla Knesset nei sondaggi tra coloro che si considerano i bellissimi israeliani, ha detto ai gazawi in un’intervista al quotidiano Yedioth Ahronoth che “per quanto ci riguarda, potete morire di fame. È del tutto legittimo”.

Eppure, dopo tutto questo, consideriamo Hamas l’unico mostro della zona, il suo leader l’unico psicotico e, solo il modo in cui tiene in ostaggio gli israeliani, disumano.

È impossibile non essere inorriditi al pensiero della sorte dei nostri ostaggi, in particolare dei malati e degli anziani. Ma è anche impossibile non essere inorriditi dalla sorte dei palestinesi che abbiamo tenuto legati e bendati per settimane e mesi.

Israele non ha il diritto di stabilire standard di malvagità quando anche le sue mani sono macchiate di malvagità. Dimenticate le uccisioni, la fame e gli sfollamenti di massa. Il nostro trattamento dei prigionieri palestinesi avrebbe dovuto turbare particolarmente gli israeliani, se non altro per il pericolo che corrono gli israeliani detenuti da Hamas. Cosa penserà un membro di Hamas che tiene in ostaggio un israeliano quando saprà che i suoi compagni vengono trattenuti e picchiati incessantemente?

Possiamo concludere con cautela che almeno alcuni degli israeliani detenuti da Hamas sono trattati meglio dei palestinesi detenuti da Israele. Quando venerdì sera gli ostaggi liberati Chen e Agam Goldstein hanno raccontato a Channel 12 News del trattamento riservato loro da Hamas e di come i loro carcerieri li abbiano protetti con i loro stessi corpi durante gli attacchi aerei israeliani, sono stati attaccati a gran voce sui social media. Come osano dire la verità?

Hamas ha perpetrato un attacco barbaro il 7 ottobre. Ha ucciso e rapito indiscriminatamente. Non ci sono parole per descrivere la sua brutalità, anche nel tenere in ostaggio per mesi decine di anziani, malati e bambini in condizioni insopportabilmente dure.

Ma questo rende legittimo per noi agire in modo simile? Dimenticate la moralità. La brutalità di Israele in guerra e nelle carceri servirà a far progredire i suoi obiettivi? Hamas libererà più velocemente i suoi ostaggi se Israele maltratta i palestinesi che tiene in ostaggio?

Gideon Lavy

ORIGINAL ENGLISH VERSION

Every Sunday and Tuesday, guards enter Palestinian prisoners’ cells, handcuff them and beat them with batons. That’s their weekly party, according to released prisoners (Hagar Shezaf, Haaretz, December 9). Four prisoners have died since the war began on October 7, almost certainly from beatings. Nineteen guards who participated in these sick parties are under investigation, suspected of causing one prisoner’s death.

Prigioni israeliane

Hundreds of Palestinians who were detained in the Gaza Strip have been kept bound and blindfolded 24 hours a day, and they have also been brutally beaten. Some, perhaps even most, have no connection to Hamas. Some of them – no one has even bothered reporting how many – have died in captivity at the Sde Teiman base.

Some 4,000 Gazan workers who were arrested in Israel on October 7 despite having done nothing wrong are also being held in inhumane conditions. At least two of them have died. And more than enough has already been written about the detainees being stripped and the humiliating photographs.

In this terrible competition over the magnitude of evil, there are no winners, only losers. But it’s impossible to talk day and night about Hamas’ atrocities – writers vie with each other over who can coin the most derogatory terms for the organization – while completely ignoring Israel’s evil.

There are also no winners, only losers, in the competition over how much blood is shed and the way it is shed. But it’s impossible to ignore the horrific quantity of blood that has been spilled in the Gaza Strip. This weekend, some 400 people were killed in two days, the majority of them children. On Saturday, I saw the weekend’s pictures from Al-Bureij and Nuseirat, including children dying on the floor of Al-Aqsa Hospital in Deir al-Balah, and they are horrifying.

Israel’s refusal to increase the amount of humanitarian aid allowed into Gaza, in defiance of a UN Security Council decision, similarly attests to a policy of evil.

Yair Golan

And as if all this weren’t enough, the voices of evil within Israel have raised the bar on satanic proposals. Journalist Zvi Yehezkeli favors killing 100,000 Gazans in a first strike. Maj. Gen. (res.) Giora Eiland had second thoughts and switched from proposing that we spread disease in Gaza to proposing that we starve its residents.

Even the left’s new Prince Charming, Yair Golan, who is currently winning 12 Knesset seats in the polls from people who see themselves as the beautiful Israelis, told Gazans in an interview with the daily Yedioth Ahronoth that “as far as we’re concerned, you can starve to death. That’s completely legitimate.”

Yet after all this, we consider Hamas the only monster in the area, its leader the only psychotic and only the way it holds Israelis hostage as inhumane. It’s impossible not to be horrified by the thought of our hostages’ fate, particularly the sick and the elderly among them. But it’s also impossible not to be horrified by the fate of the Palestinians whom we have kept bound and blindfolded for weeks and months.

Israel has no right to set standards for evil when its hands are also stained with wickedness. Forget about the killing, the starvation and the mass displacement. Our treatment of Palestinian prisoners should have particularly upset Israelis, if only because of the danger to the Israelis held by Hamas. What will a Hamas member who holds an Israeli hostage think when he hears that his comrades are being restrained and beaten incessantly?

We can cautiously conclude that at least some of the Israelis held by Hamas are being treated better than the Palestinians held by Israel. When freed hostages Chen and Agam Goldstein told Channel 12 News on Friday night about their treatment by Hamas and how their captors protected them with their own bodies during Israeli airstrikes, they were attacked vociferously on social media. How dare they tell the truth?

Hamas perpetrated a barbaric attack on October 7. It killed and kidnapped indiscriminately. There are no words to describe its brutality, including in holding dozens of senior citizens, sick people and children hostage for months in unbearably harsh conditions.
But does this make it le- gitimate for us to act similarly? Forget about morality. Will Israel’s brutality in the war and in its jails do anything to advance its goals? Will Hamas free its hostages faster if Israel abuses the Palestinians it is holding hostage?

Gideon Levy

Sahel in fiamme: litigano Algeri e Bamako mentre il Marocco apre a Mali, Burkina Faso, Ciad e Niger

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
30 dicembre 2023

“Rien ne va plus” tra Algeri e Bamako. Entrambi i governi hanno richiamato i propri ambasciatori per consultazioni poco prima di Natale. La tensione diplomatica è alle stelle. La giunta militare di transizione, guidata da Assimi Goïta non ha digerito il fatto che Algeri abbia ricevuto esponenti dei ribelli tuareg, firmatari del trattato “Per la pace e la riconciliazione nel Mali” nel 2015. Il governo algerino è stata una figura chiave nella mediazione del trattato, ormai andato in fumo, dopo che entrambe le parti in causa si sono accusate a vicenda di non averlo rispettato.

Tensioni alle stelle tra Mali e Algeria. A sinistra Assimi Goïta, presidente della giunta di transizione maliana e Abdelmadjid Tebboune, capo di Stato algerino

L’ambasciatore algerino è stato convocato dal ministro degli Esteri maliano, Abdoulaye Diop, dieci giorni fa. L’Algeria è stata accusata di ingerenza negli affari interni del Paese. Mentre il diplomatico di Bamako, accreditato a Algeri, è stato convocato a sua volta dal capo della diplomazia algerina. In un comunicato diffuso subito dopo l’incontro, il ministero degli Esteri ha sottolineato l impegno intransigente del suo Paese per l’integrità territoriale, la sovranità e l’unità nazionale del Mali. Ha poi giustificato i fatto di aver invitato i ribelli per il ruolo svolto durante i negoziati di pace nel 2015.

Da mesi i rapporti diplomatici tra Algeria e Mali sono tesi. Bamako non ha assolutamente gradito che esponenti del CSP (Quadro Strategico Permanente) si fossero recati nel Paese nordafricano dopo la ripresa del conflitto nel nord. Qualche giorno prima, Algeri aveva invitato anche il Mouvement pour le salut de l’Azawad (MSA), anch’esso un gruppo firmatario del trattato del 2015, ma alleato delle autorità maliane di transizione. Il fatto però non è bastato a rassicurare Bamako sulle buone intenzioni di Algeri.

A metà novembre le forze armate maliane, supportate dai mercenari del gruppo Wagner, hanno ripreso la città di Kidal, roccaforte dei ribelli touareg.

Anche l’imam Mahmoud Dicko, nota figura politico-religiosa del Mali, è partito alla volta del Paese nordafricano, dove è stato ricevuto dal presidente algerino, Abdelmadjid Tebboune, in persona. E questo fatto è la goccia che ha fatto traboccare il vaso.

L’imam maliano Dicko a Algeri

Dicko, ex presidente dell’altro consiglio islamico maliano, ha molti seguaci anche nel nord del Paese. E, in un comunicato, le autorità di Bamako, senza citarlo esplicitamente, lo hanno definito come “personaggio noto per la sua ostilità al governo”.

Mentre volano stracci tra Algeria e Mali, il Marocco si sta avvicinando sempre di più a Bamako, Ougadougou, N’Dajema e Niamey. Una settimana fa i ministri degli Esteri dei quattro Paesi del Sahel sono stati ricevuti dal loro omologo marocchino a Marrakech per discutere di alleanze economiche e geopolitiche.

I ministri (Mali, Burkina Faso, Ciad e Niger) hanno molto apprezzato il gesto del regno, disponibile ad “Aprire ai Paesi del Sahel, dando accesso all’Oceano Atlantico, alle infrastrutture del Marocco, facilitando così il commercio internazionale”. Certo, le proposte dovranno ancora essere analizzate in dettaglio e, non per ultimo, bisognerà investire in diversi progetti, come infrastrutture stradali e aeroportuali per poter concretizzare la cooperazione.

Iniziativa del Marocco: aprire l’accesso all’Oceano Atlantico ai Paesi del Sahel

Se da un lato il Mali, sotto il dittatore Moussa Traoré, 1969-1991, ha riconosciuto la Repubblica Democratica Araba Saharawi del Fonte Polisario il presidente Keita aveva sempre espresso dubbi nel voler cambiare il corso delle cose e attribuire la sovranità al Marocco, per paura di “ferire” l’Algeria, un partner importante nella lotta contro il terrorismo nel Sahel. Eppure, molti maliani accoglierebbero favorevolmente una apertura verso il Regno e Ahmedou Ould Abdallah, ex ministro degli Esteri mauritano, non esclude che Bamako possa riconoscere in futuro la sovranità di Rabat sul Sahara Occidentale.

Va ricordato che i rapporti diplomatici tra Marocco e Algeria sono interrotti dall’agosto 2021, mentre le frontiere terrestri tra i due Paesi sono chiuse dal 1994 proprio a causa della questione del Sahara Occidentale, Repubblica supportata da Algeri.

Cornelia I. Toelgyes
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Mali: Wagner issa la propria bandiera a Kidal, subito rimossa dai militari maliani

Firmato l’accordo di pace in Mali anche dai ribelli a maggioranza tuareg

Il Marocco vuole dialogo con l’Algeria (dal 1994 interrotto) e rafforza il blocco di Ceuta

“Non ci conviene”, così l’Angola decide di uscire dall’OPEC

Speciale per Africa ExPress
Sandro Pintus
29 dicembre 2023

I tagli OPEC alla produzione di petrolio per alzare i prezzi sul mercato non convengono all’Angola. È questo il motivo per il quale l’ex colonia portoghese abbandona l’organizzazione dei Paesi produttori di petrolio.

“Riteniamo che l’Angola attualmente non guadagni nulla rimanendo nell’organizzazione. A difesa dei nostri interessi, abbiamo deciso di andarcene”. Sono le dichiarazioni di Diamantino Azevedo, ministro angolano delle Risorse Minerarie (MIREMPET).

OPEC Angola stoccaggio petrolio offshore
Angola, stoccaggio petrolio offshore

Quei 70 mila barili in meno al giorno

Tutto e successo a causa della differenza di 70.000 barili al giorno. Alla 36a riunione OPEC in videoconferenza, lo scorso 30 novembre, all’Angola è stata assegnata una quota di produzione giornaliera di 1,11 milioni di barili.

Il Paese africano aveva ribadito la sua proposta di produrre 1,18 milioni di barili di greggio entro il 2024. Azevedo ha spiegato che la decisione OPEC non è stata presa all’unanimità ed è andata contro la posizione dell’Angola.

Una decisione maturata

Probabilmente la decisione di abbandonare l’OPEC era maturata lo scorso giugno. In quell’incontro l’Organizzazione ha ridotto la produzione dell’Angola ma ha aumentato quella degli Emirati Arabi Uniti. Forse è stata la goccia (di petrolio) che ha fatto traboccare quel barile di greggio e ha fatto perdere la pazienza agli angolani.

Dopo la scelta di uscire, l’Angola ha mandato una nota di protesta al Segretario dell’Organizzazione. Invece il presidente angolano, João Lourenço, il 21 dicembre ha firmato il decreto legge che conferma l’uscita di Luanda dall’OPEC. L’Angola ha intenzione di arrivare a una produzione di 1,8 milioni di barili al giorno.

Secondo dati dell’ambasciata di Angola in Italia, l’Angola è divenuta il primo maggior produttore di petrolio del continente africano. Negli ultimi venti anni la produzione é quadruplicata e rappresenta la principale voce di esportazione del Paese.

Cosa è l’OPEC

La Organization of the Petroleum Exporting Countries (OPEC), è nata nel 1960 come risposta alla supremazia delle aziende petrolifere straniere, soprattutto le anglo-americane.

produzione petrolio OPEC +
Produzione petrolio OPEC e non OPEC (Courtesy EIA)

È un cartello e oggi ne fanno parte 12 Paesi: Algeria, Arabia Saudita, Guinea Equatoriale, Emirati Arabi Uniti, Gabon, Iran, Iraq, Kuwait, Libia, Nigeria, Repubblica del Congo e Venezuela. Dopo l’Angola anche la Nigeria è tentata di uscire dall’Organizzazione.

Con sede a Vienna, l’OPEC controlla circa il 79 per cento delle riserve accertate di petrolio e il 35 per cento delle riserve di gas naturale.

Secondo l’Energy Information Administration (EIA) nel 2022 l’OPEC ha prodotto 28,2 milioni di barili di greggio al giorno. La cifra corrisponde al 38 per cento della produzione mondiale di petrolio.

Il maggior produttore OPEC rimane l’Arabia Saudita: 10,4 milioni di barili al giorno. È il secondo produttore dopo gli Stati Uniti che nel 2022, quotidianamente, hanno prodotto 11.9 milioni barili di greggio.

Sandro Pintus
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In Angola, secondo produttore di petrolio dell’Africa subsahariana, si vota per eleggere il presidente

Angola: il partito al potere vince le elezioni e l’opposizione accusa di brogli e non accetta il risultato

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“Ancora un giorno”, un film sulla rivoluzione in Angola vissuta da Kapuscinsky

Cambio di mercenari in Centrafrica: addio ai russi, arrivano gli americani

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
28 dicembre 2023

Le autorità della Repubblica Centrafricana hanno ammesso proprio sotto Natale di voler siglare un accordo con gli Stati Uniti riguardante la formazione delle forze di sicurezza della ex colonia francese.

Uomini di Bancroft Global Security presto in Centrafrica?

Già a ottobre erano trapelate indiscrezioni sul fatto che il governo di Bangui sarebbe in trattative con la società statunitense, Bancroft Global Development, presente anche in Somalia.

Il portavoce della presidenza centrafricana, Albert Yaloke Mokpeme non ha citato direttamente Bancroft, ma ha confermato alla stampa che il Paese sta attualmente diversificando le sue partnership. Mokempe ha poi precisato: “Nell’ambito della ricostruzione dell’esercito nazionale, abbiamo fatto appello a partner come la Federazione Russa, l’Angola, il Marocco, la Guinea che ci stanno aiutando a formare i soldati”, e ha poi aggiunto: “Anche gli Stati Uniti si sono offerti di addestrare i nostri militari, sia su suolo centrafricano che su quello americano”.

Secondo AFP, Bancroft ha ammesso contatti con il regime del presidente Faustin Archange Touadéra, ma ha negato di avere già inviato i propri uomini sul campo. Anche Mokembe non ha confermato la presenza dei paramilitari americani nel Paese. Ai reporter di AFP ha risposto: “L’addestramento del nostro esercito rimane una priorità, ma per ora non entro nei particolari”.

La collaborazione tra la società di mercenari statunitensi e il governo centrafricano, sarebbe stata “suggerita” dal governo di Washington a margine del summit USA-Africa del dicembre 2022. Allora gli USA avevano proposto a Bangui di voler addestrare le truppe centrafricane e di aumentare le sovvenzioni economiche agli aiuti umanitari.

Bancroft Global Development è stata fondata da Michael Stock come società di bonifica di mine nel 1999. Fino al 2008, il nome dell’organizzazione è stato Landmine Clearance International dopo ha assunto l’attuale denominazione. La sua sede è a Washington D.C. La sua missione è quella di fornire formazione e capacità di sviluppo in regioni dilaniate da conflitti armati.

Eppure c’è chi mormora che alcuni impiegati di Bancroft siano già a Bangui alla ricerca di un terreno adatto per il deposito del loro materiale tecnico, come droni da osservazione e monitoraggio.

Washington, come Mosca, ha dunque scelto di appoggiarsi a una società privata per la formazione dei militari centrafricani. I mercenari di Wagner sono presenti nella ex colonia francese dal 2018, subito dopo il primo carico di armi russe, giunte nel Paese grazie a una parziale abolizione dell’embargo ottenuta da Mosca.

Ufficialmente i paramilitari russi sono approdati a Bangui per proteggere il presidente, Faustin Touadéra e il suo regime. Ma ora sono presenti ovunque nel Paese: come supporto alle forze armate e per assicurare la sicurezza dei convogli. Soprattutto gestiscono diverse miniere e controllano le dogane del Paese. Inoltre sono impegnati nel commercio di legno pregiato, venduto dalla società Bois Rouge persino a fabbriche europee in Francia e Danimarca.

La popolazione è terrorizzata dalle atrocità che continuano a commettere i contractor russi. E proprio il giorno di Natale, come riporta Corbeaunews, in sella alle loro moto rombanti, i mercenari sono entrati nei villaggi di Mboula et Yoro, nella prefettura di Nana-Mambéré (nel nord-ovest del Paese), dove hanno saccheggiato diverse case e portato via motociclette e altri oggetti “di valore” dei poveri abitanti, fuggiti nella boscaglia per sottrarsi alla brutalità degli uomini di Wagner.

Uomini di Wagner controllano casa per casa in un villaggio in Centrafrica

Altro che festa, specie per i bambini, già privati dei regali natalizi a causa dell’inflazione galoppante. I piccoli hanno passato questa giornata in preda al terrore. In Centrafrica i soldati di ventura di Mosca possono agire ovunque nella più totale impunità.

Il giorno seguente gli uomini della Wagner hanno arrestato il comandante della gendarmeria della sub-prefettura di Bouar, sempre nel nord-ovest, sostituendosi così alla giustizia del Paese. Le accuse mosse al gendarme sono di presunta cospirazione con criminali per l’assassinio di un collega a capo della polizia di Berberati, capoluogo dell’omonima prefettura nel sud-ovest del Centrafrica. Detenzioni arbitrarie, torture, perpetrate dai mercenari sono all’ordine del giorno.

La violenza contro i civili e l’insicurezza nelle aree al di fuori dei centri urbani continuano ad avere un impatto negativo su diversi milioni di centrafricani. Secondo l’ultimo rapporto di OCHA (Ufficio delle Nazioni Unite per gli Affari Umanitari) del 28 dicembre scorso, il 56 per cento della popolazione necessita di aiuti umanitari. Le condizioni di vita stanno peggiorando drasticamente per il limitato accesso al cibo, all’acqua potabile e a molti altri servizi di base, in particolare all’assistenza sanitaria.

Cornelia I. Toelgyes
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Un video reportage eccezionale: la storia dei mercenari russi della compagnia Wagner dall’Ucraina all’Africa

Altri articoli sul Centrafrica li potete leggere qui

‘Screams Without Words’: How Hamas Weaponized Sexual Violence on Oct. 7

New York Times (https://www.nytimes.com/2023/12/28/world/middleeast/oct-7-attacks-hamas-israel-sexual-violence.html?searchResultPosition=1)
Jeffrey Gettleman, Anat Schwartz, Adam Sell
28 dicembre 2023

A Times investigation uncovered new details showing a pattern of rape, mutilation and extreme brutality against women in the attacks on Israel.

At first, she was known simply as “the woman in the black dress.”

L’area dove erano parcheggiate alcune auto dei partecipati al rave party (foto Sergey Ponomarev per  il New York Times scattata l’11 ottobre 2023)

In a grainy video, you can see her, lying on her back, dress torn, legs spread, vagina exposed. Her face is burned beyond recognition and her right hand covers her eyes.

The video was shot in the early hours of Oct. 8 by a woman searching for a missing friend at the site of the rave in southern Israel where, the day before, Hamas terrorists massacred hundreds of young Israelis.

The video went viral, with thousands of people responding, desperate to know if the woman in the black dress was their missing friend, sister or daughter.

One family knew exactly who she was — Gal Abdush, mother of two from a working-class town in central Israel, who disappeared from the rave that night with her husband.

As the terrorists closed in on her, trapped on a highway in a line of cars of people trying to flee the party, she sent one final WhatsApp message to her family: “You don’t understand.”

Based largely on the video evidence — which was verified by The New York Times — Israeli police officials said they believed that Ms. Abdush was raped, and she has become a symbol of the horrors visited upon Israeli women and girls during the Oct. 7 attacks.

Israeli officials say that everywhere Hamas terrorists struck — the rave, the military bases along the Gaza border and the kibbutzim — they brutalized women.

A two-month investigation by The Times uncovered painful new details, establishing that the attacks against women were not isolated events but part of a broader pattern of gender-based violence on Oct. 7.

Relying on video footage, photographs, GPS data from mobile phones and interviews with more than 150 people, including witnesses, medical personnel, soldiers and rape counselors, The Times identified at least seven locations where Israeli women and girls appear to have been sexually assaulted or mutilated.

Four witnesses described in graphic detail seeing women raped and killed at two different places along Route 232, the same highway where Ms. Abdush’s half-naked body was found sprawled on the road at a third location.

And The Times interviewed several soldiers and volunteer medics who together described finding more than 30 bodies of women and girls in and around the rave site and in two kibbutzim in a similar state as Ms. Abdush’s — legs spread, clothes torn off, signs of abuse in their genital areas.

A camp area on Oct. 11 at the rave site in southern Israel.Credit…Sergey Ponomarev for The New York Times

Many of the accounts are difficult to bear, and the visual evidence is disturbing to see.

The Times viewed photographs of one woman’s corpse that emergency responders discovered in the rubble of a besieged kibbutz with dozens of nails driven into her thighs and groin.

The Times also viewed a video, provided by the Israeli military, showing two dead Israeli soldiers at a base near Gaza who appeared to have been shot directly in their vaginas.

Hamas has denied Israel’s accusations of sexual violence. Israeli activists have been outraged that the United Nations Secretary General, António Guterres, and the agency U.N. Women did not acknowledge the many accusations until weeks after the attacks.

Investigators with Israel’s top national police unit, Lahav 433, have been steadily gathering evidence but they have not put a number on how many women were raped, saying that most are dead — and buried — and that they will never know. No survivors have spoken publicly.

The Israeli police have acknowledged that, during the shock and confusion of Oct. 7, the deadliest day in Israeli history, they were not focused on collecting semen samples from women’s bodies, requesting autopsies or closely examining crime scenes. At that moment, the authorities said, they were intent on repelling Hamas and identifying the dead.

A combination of chaos, enormous grief and Jewish religious duties meant that many bodies were buried as quickly as possible. Most were never examined, and in some cases, like at the rave scene, where more than 360 people were slaughtered in a few hours, the bodies were hauled away by the truckload.

That has left the Israeli authorities at a loss to fully explain to families what happened to their loved ones in their final moments. Ms. Abdush’s relatives, for instance, never received a death certificate. They are still searching for answers.

In cases of widespread sexual violence during a war, it is not unusual to have limited forensic evidence, experts said.

“Armed conflict is so chaotic,” said Adil Haque, a Rutgers law professor and war crimes expert. “People are more focused on their safety than on building a criminal case down the road.”

Very often, he said, sex crime cases will be prosecuted years later on the basis of testimony from victims and witnesses.

“The eyewitness might not even know the name of the victim,” he added. “But if they can testify as, ‘I saw a woman being raped by this armed group,’ that can be enough.”

‘Screams without words’

Sapir, a 24-year-old accountant, has become one of the Israeli police’s key witnesses. She does not want to be fully identified, saying she would be hounded for the rest of her life if her last name were revealed.

She attended the rave with several friends and provided investigators with graphic testimony. She also spoke to The Times. In a two-hour interview outside a cafe in southern Israel, she recounted seeing groups of heavily armed gunmen rape and kill at least five women.

She said that at 8 a.m. on Oct. 7, she was hiding under the low branches of a bushy tamarisk tree, just off Route 232, about four miles southwest of the party. She had been shot in the back. She felt faint. She covered herself in dry grass and lay as still as she could.

About 15 meters from her hiding place, she said, she saw motorcycles, cars and trucks pulling up. She said that she saw “about 100 men,” most of them dressed in military fatigues and combat boots, a few in dark sweatsuits, getting in and out of the vehicles. She said the men congregated along the road and passed between them assault rifles, grenades, small missiles — and badly wounded women.

“It was like an assembly point,” she said.

The first victim she said she saw was a young woman with copper-color hair, blood running down her back, pants pushed down to her knees. One man pulled her by the hair and made her bend over. Another penetrated her, Sapir said, and every time she flinched, he plunged a knife into her back.

She said she then watched another woman “shredded into pieces.” While one terrorist raped her, she said, another pulled out a box cutter and sliced off her breast.

“One continues to rape her, and the other throws her breast to someone else, and they play with it, throw it, and it falls on the road,” Sapir said.

She said the men sliced her face and then the woman fell out of view. Around the same time, she said, she saw three other women raped and terrorists carrying the severed heads of three more women.

Sapir provided photographs of her hiding place and her wounds, and police officials have stood by her testimony and released a video of her, with her face blurred, recounting some of what she saw.

Yura Karol, a 22-year-old security consultant, said he was hiding in the same spot, and he can be seen in one of Sapir’s photos. He and Sapir were part of a group of friends who had met up at the party. In an interview, Mr. Karol said he barely lifted his head to look at the road but he also described seeing a woman raped and killed.

Since that day, Sapir said, she has struggled with a painful rash that spread across her torso, and she can barely sleep, waking up at night, heart pounding, covered in sweat.

“That day, I became an animal,” she said. “I was emotionally detached, sharp, just the adrenaline of survival. I looked at all this as if I was photographing them with my eyes, not forgetting any detail. I told myself: I should remember everything.”

That same morning, along Route 232 but in a different location about a mile southwest of the party area, Raz Cohen — a young Israeli who had also attended the rave and had worked recently in the Democratic Republic of Congo training Congolese soldiers — said that he was hiding in a dried-up streambed. It provided some cover from the assailants combing the area and shooting anyone they found, he said in an hour-and-a-half interview in a Tel Aviv restaurant.

Maybe 40 yards in front of him, he recalled, a white van pulled up and its doors flew open.

He said he then saw five men, wearing civilian clothes, all carrying knives and one carrying a hammer, dragging a woman across the ground. She was young, naked and screaming.

“They all gather around her,” Mr. Cohen said. “She’s standing up. They start raping her. I saw the men standing in a half circle around her. One penetrates her. She screams. I still remember her voice, screams without words.”

“Then one of them raises a knife,” he said, “and they just slaughtered her.”

Shoam Gueta, one of Mr. Cohen’s friends and a fashion designer, said the two were hiding together in the streambed. He said he saw at least four men step out of the van and attack the woman, who ended up “between their legs.” He said that they were “talking, giggling and shouting,” and that one of them stabbed her with a knife repeatedly, “literally butchering her.”

Hours later, the first wave of volunteer emergency medical technicians arrived at the rave site. In interviews, four of them said that they discovered bodies of dead women with their legs spread and underwear missing — some with their hands tied by rope and zipties — in the party area, along the road, in the parking area and in the open fields around the rave site.

Jamal Waraki, a volunteer medic with the nonprofit ZAKA emergency response team, said he could not get out of his head a young woman in a rawhide vest found between the main stage and the bar.

“Her hands were tied behind her back,” he said. “She was bent over, half naked, her underwear rolled down below her knees.”

Yinon Rivlin, a member of the rave’s production team who lost two brothers in the attacks, said that after hiding from the killers, he emerged from a ditch and made his way to the parking area, east of the party, along Route 232, looking for survivors.

Near the highway, he said, he found the body of a young woman, on her stomach, no pants or underwear, legs spread apart. He said her vagina area appeared to have been sliced open, “as if someone tore her apart.”

Similar discoveries were made in two kibbutzim, Be’eri and Kfar Aza. Eight volunteer medics and two Israeli soldiers told The Times that in at least six different houses, they had come across a total of at least 24 bodies of women and girls naked or half naked, some mutilated, others tied up, and often alone.

A paramedic in an Israeli commando unit said that he had found the bodies of two teenage girls in a room in Be’eri.

One was lying on her side, he said, boxer shorts ripped, bruises by her groin. The other was sprawled on the floor face down, he said, pajama pants pulled to her knees, bottom exposed, semen smeared on her back.

Because his job was to look for survivors, he said, he kept moving and did not document the scene. Neighbors of the two girls killed — who were sisters, 13 and 16 — said their bodies had been found alone, separated from the rest of their family.

The Israeli military allowed the paramedic to speak with reporters on the condition that he not be identified because he serves in an elite unit.

Many of the dead were brought to the Shura military base, in central Israel, for identification. Here, too, witnesses said they saw signs of sexual violence.

Shari Mendes, an architect called up as a reserve soldier to help prepare the bodies of female soldiers for burial, said she had seen four with signs of sexual violence, including some with “a lot of blood in their pelvic areas.”

Shari Mendes, an architect who was called up as a reserve soldier to help handle the bodies of female troops, in a container used to hold bodies before their removal to a morgue at the Shura military base in central Israel.

A dentist, Captain Maayan, who worked at the same identification center, said that she had seen at least 10 bodies of female soldiers from Gaza observation posts with signs of sexual violence.

Captain Maayan asked to be identified only by her rank and surname because of the sensitivity of the subject. She said she had seen several bodies with cuts in their vaginas and underwear soaked in blood and one whose fingernails had been pulled out.

The investigation

The Israeli authorities have no shortage of video evidence from the Oct. 7 attacks. They have gathered hours of footage from Hamas body cameras, dashcams, security cameras and mobile phones showing Hamas terrorists killing civilians and many images of mutilated bodies.

But Moshe Fintzy, a deputy superintendent and senior spokesman of Israel’s national police, said, “We have zero autopsies, zero,” making an O with his right hand.

In the aftermath of the attack, police officials said, forensic examiners were dispatched to the Shura military base to help identify the hundreds of bodies — Israeli officials say around 1,200 people were killed that day.

The examiners worked quickly to give the agonized families of the missing a sense of closure and to determine, by a process of elimination, who was dead and who was being held hostage in Gaza.

According to Jewish tradition, funerals are held promptly. The result was that many bodies with signs of sexual abuse were put to rest without medical examinations, meaning that potential evidence now lies buried in the ground. International forensic experts said that it would be possible to recover some evidence from the corpses, but that it would be difficult.

Mr. Fintzy said Israeli security forces were still finding imagery that shows women were brutalized. Sitting at his desk at an imposing police building in Jerusalem, he swiped open his phone, tapped and produced the video of the two soldiers shot in the vagina, which he said was recorded by Hamas gunmen and recently recovered by Israeli soldiers.

A colleague sitting next to him, Mirit Ben Mayor, a police chief superintendent, said she believed that the brutality against women was a combination of two ferocious forces, “the hatred for Jews and the hatred for women.”

Some emergency medical workers now wish they had documented more of what they saw. In interviews, they said they had moved bodies, cut off zip ties and cleaned up scenes of carnage. Trying to be respectful to the dead, they inadvertently destroyed evidence.

Many volunteers working for ZAKA, the emergency response team, are religious Jews and operate under strict rules that command deep respect for the dead.

“I did not take pictures because we are not allowed to take pictures,” said Yossi Landau, a ZAKA volunteer. “In retrospect, I regret it.”

There are at least three women and one man who were sexually assaulted and survived, according to Gil Horev, a spokesman for Israel’s Ministry of Welfare and Social Affairs. “None of them has been willing to come physically for treatment,” he said. Two therapists said they were working with a woman who was gang raped at the rave and was in no condition to talk to investigators or reporters.

The trauma from sexual assault can be so heavy that sometimes survivors do not speak about it for years, several rape counselors said.

“Many people are looking for the golden evidence, of a woman who will testify about what happened to her. But don’t look for that, don’t put this pressure on this woman,” said Orit Sulitzeanu, executive director of the Association of Rape Crisis Centers in Israel. “The corpses tell the story.”

The woman in the black dress

One of the last images of Ms. Abdush alive — captured by a security camera mounted on her front door — shows her leaving home with her husband, Nagi, at 2:30 a.m. on Oct. 7 for the rave.

He was wearing jeans and a black T-shirt. She was dressed in a short black dress, a black shawl tied around her waist and combat boots. As she struts out, she takes a swig from a glass (her brother-in-law remembers it was Red Bull and vodka) and laughs.

You’ve got to live life like it’s your last moments. That was her motto, her sisters said.

At daybreak, hundreds of terrorists closed in on the party from several directions, blocking the highways leading out. The couple jumped into their Audi, dashing off a string of messages as they moved.

“We’re on the border,” Ms. Abdush wrote to her family. “We’re leaving.”

“Explosions.”

Her husband made his own calls to his family, leaving a final audio message for his brother, Nissim, at 7:44 a.m. “Take care of the kids,” he said. “I love you.”

Gunshots rang out, and the message stopped.

That night, Eden Wessely, a car mechanic, drove to the rave site with three friends and found Ms. Abdush sprawled half naked on the road next to her burned car, about nine miles north of the site. She did not see the body of Mr. Abdush.

Eden Wessely, a car mechanic, drove to the rave site looking for a missing friend but instead found Ms. Abdush sprawled half naked on the road next to her burned car.

She saw other burned cars and other bodies, and shot videos of several — hoping that they would help people to identify missing relatives. When she posted the video of the woman in the black dress on her Instagram story, she was deluged with messages.

“Hi, based on your description of the woman in the black dress, did she have blonde hair?” one message read.

“Eden, the woman you described with the black dress, do you remember the color of her eyes?” another said.

Some members of the Abdush family saw that video and another version of it filmed by one of Ms. Wessely’s friends. They immediately suspected that the body was Ms. Abdush, and based on the way her body was found, they feared that she might have been raped.

But they kept alive a flicker of hope that somehow, it wasn’t true.

The videos caught the eye of Israeli officials as well — very quickly after Oct. 7 they began gathering evidence of atrocities. They included footage of Ms. Abdush’s body in a presentation made to foreign governments and media organizations, using Ms. Abdush as a representation of violence committed against women that day.

A week after her body was found, three government social workers appeared at the gate of the family’s home in Kiryat Ekron, a small town in central Israel. They broke the news that Ms. Abdush, 34, had been found dead.

But the only document the family received was a one-page form letter from Israel’s president, Isaac Herzog, expressing his condolences and sending a hug. The body of Mr. Abdush, 35, was identified two days after his wife’s. It was badly burned and investigators determined who he was based on a DNA sample and his wedding ring.

The couple had been together since they were teenagers. To the family, it seems only yesterday that Mr. Abdush was heading off to work to fix water heaters, a bag of tools slung over his shoulder, and Ms. Abdush was cooking up mashed potatoes and schnitzel for their two sons, Eliav, 10, and Refael, 7.

The boys are now orphans. They were sleeping over at an aunt’s the night their parents were killed. Ms. Abdush’s mother and father have applied for permanent custody, and everyone is chipping in to help.

Night after night, Ms. Abdush’s mother, Eti Bracha, lies in bed with the boys until they drift off. A few weeks ago, she said she tried to quietly leave their bedroom when the younger boy stopped her.

“Grandma,” he said, “I want to ask you a question.”

“Honey,” she said, “you can ask anything.”

“Grandma, how did mom die?”

Jeffrey Gettleman, Anat Schwartz, Adam Sell
https://www.nytimes.com/2023/12/28/world/middleeast/oct-7-attacks-hamas-israel-sexual-violence.html?searchResultPosition=1

 

Dubbi del quotidiano israeliano Haaretz: “Vincere la guerra? Israele è in stallo”

da Haaretz
Ravit Hecht
Tel Aviv, 24 dicembre 2023

Non che il punto di partenza, il 7 ottobre, non sia motivo di dolore e disperazione, ma la situazione attuale, a più di due mesi dalla terribile strage, sta diventando un problema. Ovunque ti giri, di solito scopri che siamo bloccati, con il potenziale di un ulteriore deterioramento.

Soldati israeliani ispezionano uno dei tunnel scoperti nel sottosuolo di Gaza

Nella Striscia di Gaza l’esercito, i cui soldati rischiano la vita, accumula vittorie tattiche come la scoperta di tunnel, la raccolta di armi e l’uccisione di terroristi. Ma l’aspettativa che ciò produca una massa critica e assicuri la sconfitta di Hamas potrebbe non reggere la prova della realtà: quella in corso è una guerra contro un’organizzazione di guerriglia.

Il conteggio quotidiano delle vittime di Israele, oltre a incidenti come quello avvenuto questo mese quando tre ostaggi sono stati uccisi dal fuoco amico, crea una pressione intollerabile che Israele farà fatica a sopportare nel lungo periodo.

Il processo di rilascio degli ostaggi è bloccato perché Hamas non ha alcun interesse in un accordo. L’affermazione del governo secondo cui la pressione militare effettivamente aumenta le possibilità degli ostaggi non regge alla prova della realtà. Israele può estromettere Hamas dal governo di Gaza, ma il problema sarà il caos nell’amministrazione del territorio.

Chi intraprenderà la ricostruzione della Striscia, chi la gestirà e chi avrà il monopolio dell’uso della forza? In altre parole, chi lo governerà?

Chi pagherà la ricostruzione di Gaza?

Queste sono domande cruciali per garantire la sicurezza di Israele e prevenire un altro 7 ottobre. Se, per esempio, il Qatar, che promuove e finanzia l’Islam radicale e politico, metterà ancora una volta mano al suo portafoglio, non avremo imparato niente e non avremo ottenuto nulla.

Non ha senso ribadire il danno causato dall’occupazione israeliana di Gaza: un segmento significativo della popolazione israeliana, principalmente quella rilevante per la sopravvivenza politica del primo ministro Benjamin Netanyahu, la difende. Alcuni hanno addirittura la fantasia redentrice di rinnovare gli insediamenti nella Striscia di Gaza.

Nel nord, Hezbollah continua con le sue provocazioni e le probabilità che i negoziati lo convincano a spostare le sue forze dal confine sono basse. I funzionari governativi si sono convinti che Hezbollah non vuole una guerra totale e che pochi giorni di guerra riporteranno a casa 60.000 sfollati del nord.

Questa valutazione dovrebbe essere presa con più di un pizzico di sale, soprattutto considerando la nostra brutta esperienza con la dottrina di un “Hamas scoraggiato”.
Nonostante le crescenti minacce, in questi mesi non è stata adottata alcuna misura per preparare il fronte interno ad una guerra con Hezbollah, che sarà incomparabilmente peggiore di quella con Hamas. Questo è un altro fallimento che si espanderà fino all’esplosione garantita.

Di fronte a questi due fronti, non viene prestata sufficiente attenzione alla Cisgiordania, dove la frequenza degli attacchi terroristici e degli incidenti violenti è aumentata drammaticamente dal 7 ottobre. Anche questa è un’altra polveriera che quasi sicuramente esploderà.

Anche la politica israeliana è in stallo, così come il processo di sostituzione del primo ministro, al quale più della metà degli israeliani non crede, né si fida. Per rimuoverlo sarà necessaria una protesta massiccia e molto dolorosa, e si può contare sul fatto che inciterà, avvelenerà e dividerà al meglio delle sue capacità nel tentativo di sopravvivere.

Ma la sostituzione di Netanyahu non risolverà i problemi più profondi di Israele. Molti dei suoi critici a destra sono delusi dal fatto che non fornisca loro soluzioni come il trasferimento o l’uccisione su larga scala dei residenti di Gaza o la rioccupazione della Striscia e il rinnovo degli insediamenti lì.

Anche se si uniscono alle forze che si muovono per sostituirlo, la loro ideologia di fondo impone l’estremismo fondamentalista o kahanista, che ha rapporti reciproci con il sentimento palestinese di escalation.

Non si può trovare un grande messaggio nel riassumere i punti di disperazione, sia vecchi che nuovi, che lampeggiano dal 7 ottobre. Tuttavia, bisogna riconoscere la verità: nulla di buono ci minaccia in questo momento. Siamo in completo stallo.

Ravit Hecht

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Il quotidiano israeliano Haaretz: “Fermare i massacri”

In Ucraina tra le bombe nel teatro per bambini di Kharkiv

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Dalla Nostra Inviata Speciale
Federica Iezzi
Kharkiv (Ucraina),  27 dicembre 2023

“D’inverno il pomeriggio è già buio. E fa un po’ paura”, sono le prime parole che dice Demian.

Il sole è appena sorto, ma la giornata resta grigia e uggiosa. Campi ricoperti di erbacce, ponti stretti e strade sterrate, sono il panorama dell’Ucraina dei bambini.
Aggiunge: “Prima camminavo per tre chilometri per andare a scuola, adesso non ci vado più e mi dispiace”.

Spettacolo presso il Teatro per Bambini e Giovani di Kharkiv, Ucraina

Era notte fonda quando ha sentito per la prima volta gli spari. E il mondo si è trasformato in un brutto sogno. Durante il giorno l’incubo continua.

Demian partecipava alle attività del Teatro per Bambini e Giovani di Kharkiv (in ucraino – Харківський театр для дітей та юнацтва), prima dell’inizio della guerra. Nel luglio dello scorso anno un’onda esplosiva ha distrutto parte dell’edificio. Oggi sono rimaste crepe sui muri e finestre chiuse con quegli anonimi pannelli di legno, che si vedono nelle case di tutta la città.

Gran parte della troupe del teatro è stata evacuata per mesi. Ma nessuno si è veramente arreso. Alcuni attori hanno adattato giochi e spettacoli nei rifugi antiaerei, dove tutto sembrava più sicuro e confortevole.

Quest’anno la stagione teatrale a Kharkiv è stata ufficialmente riaperta, seppur con il coprifuoco da rispettare. “Qualche mese fa sono tornato anche io nel mio teatro. Per un po’ ho dimenticato la miseria. Le attività e i giochi mi ricordavano la vita prima della guerra”, racconta Demian, molto più saggio della sua età.

Spettacolo presso il Teatro per Bambini e Giovani di Kharkiv, Ucraina

Katerina aggiunge “Gli operai del teatro si nascondevano nel seminterrato. E poi hanno allestito lì un rifugio in caso di bombardamenti”. Mentre fuori la violenza non ha fatto altro che peggiorare, il rifugio ha permesso di continuare l’attività del teatro. Poteva contenere fino a 50 persone. “Sotto, il rumore della guerra sembrava più lontano”, spiega Katerina.

Tanti piccoli attori si sono adattati al nuovo ambiente e al cambiamento nel modo di recitare. Per altri questa facciata pacifica è stata soltanto un’illusione.

Roman seduto sul tavolo, attacca il nemico con il suo esercito di carta. Trascorre le sue giornate costruendo carri armati, razzi e aeroplani in miniatura. “Voglio essere forte”, dice. I bambini che hanno vissuto la guerra spesso giocano alla guerra. È anche questo un modo per capire. Roman prende un foglio bianco e ci disegna sopra una grande croce rossa. Ci spiega, con una sorprendente serietà, che quello è un ospedale, perché oltre a aerei che lanciano bombe “le persone devono essere guarite”. Dai bambini si impara qualcosa di nuovo ogni volta.

Katerina racconta che a febbraio dell’anno scorso è scappata da Kharkiv con la sua famiglia “Il mio palazzo tremava, quindi sono andata in un’altra città ma non mi ricordo il nome. Non potevamo tornare a casa perché lì sparavano i razzi. Ma il letto era strano e la lingua era strana”. D’altronde ha solo 5 anni. Quando sono tornati a Kharkiv, hanno dormito per giorni nella cantina interrata del giardino dove conservavano le patate.

“Anche con cappotti e cappelli”, continua Katerina. Ma ha sferrato un sorriso che brillava di futuro. Più di tutto era contenta di tornare in teatro. Il personale ha organizzato alcuni spettacoli nella metro di Kharkiv. E Katerina era lì.

Federica Iezzi
federicaiezzi@hotmail.it
Twitter @federicaiezzi
©️ RIPRODUZIONE RISERVATA

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La guerra insanguina il Natale in Sudan: morti e 7,1 milioni in fuga

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
26 dicembre 2023

Dopo gli ultimi attacchi perpetrati dalle Rapid Support Forces (RSF), capitanate da  Mohamed Hamdan Dagalo, meglio noto come Hemetti, nello stato di Gezira, a sud della capitale Khartoum, gli sfollati in Sudan sono ora ben oltre 7,1 milione. Tra questi, oltre 1,4 milioni hanno cercato rifugio nei Paesi confinanti (Centrafrica, Sud Sudan, Egitto, Etiopia, Ciad).

Attualmente l’ex protettorato anglo-egiziano vanta il triste primato mondiale come Paese con il maggior numero di persone che hanno dovuto lasciare le proprie case dall’inizio del conflitto, iniziato il 15 aprile scorso tra le RFS e le forze armate sudanesi (SAF), guidate dal generale Abdel Fattah Abdelrahman al-Burhan, presidente del Consiglio Sovrano e di fatto capo dello Stato.

Bambini sfollati in Sudan

Tra gli sfollati, almeno 3 milioni sono minori. Gran parte delle scuole in tutto il Paese sono chiuse perché distrutte o per motivi di sicurezza. E, secondo le Nazioni Unite, 19 milioni di bambini sono privi di istruzione. Oltre 18,1 milioni di persone si trovano in grave insicurezza alimentare.

A metà dicembre le RSF hanno preso il controllo di Wad Madani, capoluogo di Gezira e solo due giorni dopo hanno conquistato anche la città di Al Hasaheisa. Wad Madani è lo snodo principale per l’accoglienza degli sfollati in fuga dai combattimenti a Khartum ed ora le persone già duramente provate dal conflitto, sono costrette a scappare nuovamente dalla furia di nuove violenze. E proprio a causa delle aggressioni, il PAM (Programma Alimentare Mondiale o, in inglese World Food Programme) ha interrotto momentaneamente la sua attività nel capoluogo di Gezira. “Tutti vogliono fuggire. Gli agricoltori non hanno più accesso alle loro fattorie”, ha spiegato Karim Abdelmoneim, responsabile delle operazioni di emergenza di PAM nel Paese.

Secondo gli analisti, il controllo dello stato di Gezira, che si trova a sud della capitale Khartum, consentirà alle RSF di avanzare verso gli stati controllati dall’esercito nell’est, nel centro e nel sud-est del Paese.

Finora tutte le trattative per arrivare a un cessate il fuoco sono fallite. Ma forse ora si sta aprendo uno spiraglio. Secondo quanto riportato in un articolo del giornale panarabo asharq.com, al-Burhan avrebbe ricevuto una lettera ufficiale da IGAD (Autorità intergovernativa per lo sviluppo, un’organizzazione internazionale politico-commerciale formata dai Paesi del Corno d’Africa), che lo invita a incontrare Hemetti a Gibuti il prossimo 28 dicembre.

Abdel Fattah Abdelrahman al-Burhan, presidente del Sudan e capo comandante delle forze armate (a sinistra), Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemetti, capo delle RSF e vicepresidente

Anche Sudan Tribune ha parlato di un possibile storico incontro tra i due antagonisti sudanesi. Al-Burhan avrebbe annunciato possibili negoziati agli ufficiali dell’esercito nella regione militare del Mar Rosso. Tuttavia, il presidente ha sottolineato la sua indisponibilità a firmare un accordo di pace che comporti umiliazioni o oltraggio nei confronti del popolo e delle forze armate. Ha inoltre evidenziato che i negoziati dovranno concentrarsi su punti specifici, ponendo l’accento sul raggiungimento di un cessate il fuoco e sul ritiro delle RSF dalle aree residenziali, in linea con l’accordo di Gedda.

Da fonti non ufficiali sia eritree che sudanesi, ma affidabili, secondo quanto scrive sul suo account X Mohamed Kheir Omer, ricercatore con base in Norvegia, il regime di Asmara starebbe addestrando alcune centinaia di giovani sudanesi reclutati nella parte orientale dell’ex protettorato anglo-egiziano, per combattere le RSF.

A settembre al Burhan aveva incontrato il suo omologo eritreo, Isaias Aferworki, ad Asmara. Allora i due presidenti avevano discusso delle relazioni bilateri e del conflitto in atto, nessun altro dettaglio era stato reso noto.

Già lo scorso giugno SAF aveva fatto un appello ai giovani di arruolarsi. Coloro che avevano risposto alla chiamata, sono poi stati addestrati a Wad Madani. A settembre più o meno cinquecento ragazzi sono poi stati mandati al fronte per combattere contro i paramilitari delle RSF. Molti sono stati uccisi o feriti nel giro di poche settimane. SAF utilizza i giovani con scarso addestramento come soldati semplici per contrastare il nemico. Recentemente ne sono stati reclutati altri, in particolare nel River Nile state, specie da quando gli uomini di Hemetti hanno conquistato anche Wad Madani.

Le nuove reclute hanno poi confessato a al Jazeera di aver risposto all’appello perché sono stanchi della prepotenza dei paramilitari, che invadono le loro città, bruciano e saccheggiano le case e violentano le donne. “Ho imbracciato le armi per difendere me stesso, il mio gruppo etnico e la mia patria”, ha detto Yaser, 21 anni, di Shendi, una città del River Nile, dove, secondo quanto riferito, migliaia di persone avrebbero deciso di arruolarsi.

Poco prima di Natale alcuni membri del Congresso degli Stati Uniti hanno inviato una lettera al ministro degli Esteri degli Emirati Arabi Uniti, Sheikh Abdullah bin Zayed Al Nahyan, chiedendo al governo di Abu Dhabi di non interferire ulteriormente nel guerra in Sudan. Abu Dhabi fornisce aiuti, anche armi e altro materiale bellico alle RSF. Va ricordato che i paramilitari di Hemetti hanno combattuto per anni assieme agli Emirati contro gli houthi in Yemen, accanto alla colazione guidata dall’Arabia Saudita.

E mentre gli EAU forniscono armi, che costringono la gente alla fuga, la scorsa settimana Abu Dhabi ha inviato in Sud Sudan un aereo cargo con 100 tonnellate di cibo destinato ai profughi sudanesi.

Cornelia I. Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
X: @cotoelgyes
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Foto Credit: RFI

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