Speciale per Africa ExPress Sandro Pintus 28 marzo 2024
Kinshasa si oppone agli aiuti dell’Unione Europea alle Forze armate ruandesi (RDF) che combattono contro i jihadisti nel nord del Mozambico.
Area di TotalEnergies in sicurezza
Circa 2.000 militari ruandesi, in Mozambico, hanno bonificato l’area di Palma, a Cabo Delgado, estremo nord del Paese. Hanno messo in sicurezza i cantieri di TotalEnergies. La multinazionale francese è in attesa di riprendere ufficialmente le sue attività su un mega-progetto di gas naturale liquefatto. Un progetto sospeso nel 2021 a causa di attacchi jihadisti nel quale ha investito 20 miliardi di euro.
Congo-K mappa area di azione M23 in Nord Kivu (Courtesy GoogleMaps)
Accuse al Ruanda e a M23
Secondo il governo congolese, Kigali è responsabile della rinascita del movimento M23, ribelli di etnia tutsi che combattono contro le Forze armate congolesi (FARDC).
La motivazione è che i fondi UE verrebbero sviati verso i militari RDF che aiutano i ribelli M23 nel Nord Kivu, provincia orientale del Congo-K. Concedere nuovi finanziamenti al Ruanda viene considerato un sostegno chi è accusato di essere coinvolto nel conflitto in Nord Kivu.
In un intervento in sessione plenaria del Parlamento UE (24 febbraio scorso) ha accusato il Ruanda del saccheggio di metalli strategici. Ha anche accusato l’esercito ruandese di appoggiare le peggiori violazioni dei diritti umani nella regione.
Congo-K, miliziani M23 in villaggio del Nord Kivu
La linea rossa
“Questo nuovo aiuto rappresenterebbe ‘linea rossa’ ” – scrive Radio France International. “Il mese scorso, la firma di un accordo di cooperazione tra Unione Europea e Ruanda sui minerali strategici aveva già suscitato la rabbia del Congo-K, che accusa il suo vicino di aver saccheggiato il suo sottosuolo”.
Kigali è accusata di rubare questi minerali strategici nel Nord Kivu e venderli all’estero. Ue inclusa. Secondo fonti vicine alla presidenza congolese “l’accordo UE-Ruanda è un ulteriore segno della connivenza di Bruxelles con Kigali”.
HRW: crimini contro l’umanità
Oltre alla denuncia dell’eurodeputata Maria Arena c’è anche quella dell’Osservatorio per i diritti umani Human Right Watch (HRW) soprattutto contro M23 accusati di crimini contro l’umanità. HRW ha documentato stupri di donne davanti ai figli e mariti, uccisioni sommarie, attacchi con armi esplosive in aree popolate della provincia del Nord Kivu.
I miliziani di M23 hanno ucciso e ferito civili, danneggiato infrastrutture e aggravato una crisi umanitaria già grave. Dal 2022 ad oggi la crisi del Nord Kivu ha causato oltre un milione di sfollati. Molti di questi vivono in campi improvvisati senza latrine, senza ripari, senza acqua e senza assistenza sanitaria.
Congo-K, sfollati in campo profughi improvvisato nel Nord Kivu
“L’Unione Europea dovrebbe garantire che la sua recente assistenza alla missione della RDF nel nord del Mozambico sia adeguatamente monitorata – dichiara HRW -. Questo per evitare che l’UE contribuisca indirettamente a operazioni militari abusive nel Congo orientale”.
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Speciale per Africa ExPress Federica Iezzi
28 Marzo 2024
Il Kenya ha sospeso i suoi piani di dispiegamento di polizia ad Haiti, a causa della recente e critica ondata di violenza e del cambiamento significativo nella leadership del Paese.
Nel luglio 2023, il Kenya ha accettato di guidare la missione di Sostegno alla Sicurezza Multinazionale, approvata dalle Nazioni Unite, a supporto del Paese caraibico, avvolto dalla brutalità del conflitto tra bande armate. Tuttavia, lo scorso gennaio, la massima corte del Kenya si è pronunciata contro il dispiegamento di polizia, citando la mancanza di accordi formali tra i due Paesi.
Sembrava che l’ostacolo fosse stato superato quando, all’inizio di marzo, il presidente kenyano, William Ruto, e il primo ministro haitiano, Ariel Henry, firmarono i reciproci accordi necessari. In ogni caso, a decidere se l’accordo firmato avesse soddisfatto o meno i requisiti legali, sarebbe spettato alla Corte d’appello del Kenya, in un’udienza in tribunale che non ha ancora avuto luogo.
Il dispiegamento di una forza di polizia internazionale, mira a sedare la crescente violenza delle bande armate, che si è preoccupantemente intensificata dalla fine di febbraio.
L’annuncio della dimissione di Henry, di qualche settimana fa, e la successiva costituzione di un consiglio di transizione ha complicato le cose.
Had a telephone conversation with United States Secretary of State Antony Blinken on the developments in Haiti. @SecBlinken briefed me on the decision of the Summit of Caribbean Countries (Caricom) and the US, together with other partners, on the political situation in Haiti.…
— William Samoei Ruto, PhD (@WilliamsRuto) March 13, 2024
Il ministro degli Esteri del Kenya, Korir Sing’Oei, ha dichiarato che le dimissioni del primo ministro hanno apportato un “cambiamento fondamentale nelle circostanze”. I politici dell’opposizione kenyana hanno ribadito lo scarso addestramento e equipaggiamento della polizia del proprio Paese, di fronte a un rapido deterioramento della situazione di sicurezza ad Haiti.
Obiettivo e condizione necessaria al dispiegamento della forza multinazionale è dunque la formazione di un governo ad interim haitiano, in modo da rendere concreto il coordinamento con le forze di sicurezza del Paese, per la conduzione verso elezioni libere ed eque.
Da anni Haiti registra un trend crescente di omicidi e rapimenti. L’iniziale obiettivo, dichiarato delle bande armate, era forzare le dimissioni del primo ministro Henry. Ora si ambisce ad un cambiamento completo del sistema politico haitiano.
In settimana, il Comando Meridionale degli Stati Uniti (SOUTHCOM) ha annunciato che la flotta di sicurezza antiterrorismo della marina statunitense (FAST – Marine Fleet-Anti-terrorism Security Team) è stata schierata nella capitale haitiana Port-au-Prince, per mettere in sicurezza l’ambasciata americana ed evacuare parte del personale.
Il dispiegamento del corpo dei Marines arriva pochi giorni dopo che gli Stati Uniti hanno accennato all’istituzione di misure politiche per arginare la crescente violenza a Haiti, in attesa di una nuova autorità costituzionale.
Gli Stati Uniti hanno molti interessi nello schieramento del Kenya a Haiti, essendo il principale finanziatore della missione e il luogo di predilezione per la migrazione da Haiti.
Il governatore della Florida, Ron DeSantis, ha già annunciato il dispiegamento di 250 ulteriori agenti di polizia e guardie nazionali al confine, nonché il dispiegamento di aerei e navi, in previsione di un aumento del flusso migratorio da Haiti. La Florida rimane un punto caldo per la migrazione dal Paese.
Il generale Laura Richardson, comandante del Comando Meridionale degli Stati Uniti, non esclude che le truppe statunitensi possano essere coinvolte in uno sforzo internazionale ad Haiti “Siamo preparati se chiamati dal nostro Dipartimento di Stato e dal Dipartimento della Difesa”.
Le preoccupazioni di Washington riguardo all’intervento diretto sono in parte dovute alla lunga storia di interferenza degli Stati Uniti nella politica haitiana, inclusa l’occupazione americana decennale nei primi anni del 1900 e la presunta interferenza americana nelle recenti elezioni haitiane. La fascia politica haitiana vede gli Stati Uniti come parzialmente responsabili dell’attuale crisi, a causa del sostegno americano a Henry, e ad altri leader haitiani, che hanno represso le proteste e guidato il Paese verso un governo autoritario.
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Speciale per Africa ExPress Cornelia I. Toelgyes
26 marzo 2024
Le forze speciali di Kiev si sono spostate in Sudan, a ben 6000 chilometri dall’Ucraina, per combattere il nemico numero uno del loro Paese: i russi, i mercenari della società Wagner, presenti nell’ex protettorato anglo egiziano dal 2017.
Mercenari russi delle Wagner catturati dalle forze speciali ucraine in Sudan
I contractor di Mosca supportano le RSF (Rapid Support Forces, gli ex janjaweed), capitanate da Mohamed Hamdan Dagalo, meglio noto come Hemetti, mentre il de facto presidente e capo delle forze armate (SAF), Abdel Fattah Abdelrahman al-Burhan, gode da alcuni mesi dell’appoggio delle forze dell’intelligence militare di Kiev.
Secondo un recente articolo del Wall Street Journal, l’estate scorsa al-Burhan avrebbe chiesto aiuto al suo omologo ucraino, Volodymyr Zelensky, per contrastare i paramilitari delle RSF. Kiev ha accolto l’appello, non solo perché Khartoum ha fornito armi all’Ucraina subito dopo l’invasione dei russi nel 2022, ma soprattutto per arginare l’influenza di Mosca in Africa.
Le RFS controllano parte del territorio sudanese, in particolare zone dove si trovano le miniere aurifere.
Va ricordato che anche l’Italia ha dato supporto logistico alle RSF. Nel gennaio 2022 il colonnello Antonio Colella, del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza (DIS) si era recato a Khartoum, dove ha incontrato Hemetti, allora vicepresidente del Consiglio sovrano. Africa ExPress e il Fatto Quotidiano avevano reso noto l’incontro in un loro articolo.
Già a settembre dello scorso anno la CNN aveva dato notizia del trasferimento di materiale bellico da Kiev verso l’ex protettorato anglo-egiziano e operazioni effettuate con droni che avrebbero colpito postazioni delle RSF. Mentre i primi di novembre, il Kyiv Post, principale quotidiano ucraino in lingua inglese, aveva pubblicato un video nel quale si vedono unità speciali della Direzione principale dell’intelligence del ministero della Difesa ucraino (HUR), filmato condiviso anche in un articolo di Africa-ExPress.
Pochi giorni fa la LCI (canale televisivo all news francese) ha presentato un documento in esclusiva con interviste e filmati delle forze speciali ucraine in Sudan, presenti nel Paese dall’agosto scorso. Combattono i mercenari di Wagner e le RSF, accanto all’esercito sudanese. Ma vogliono soprattutto destabilizzare l’attività russa e arginare l’estrazione dell’oro nelle miniere controllate da Wagner. “Il Sudan è diventato un importante punto di transito logistico nella regione, con infrastrutture sul Mar Rosso. Dunque per Wagner è semplice prelevare ogni sorta di risorsa naturale e trasportarla attraverso il Sudan per finanziare le proprie attività e la guerra in generale”, ha spiegato un soldato ucraino dell’intelligence militare.
Durante svariate operazioni, i soldati ucraini hanno ucciso diversi mercenari di Wagner, mentre altri sono stati fatti prigionieri. Gli uomini di Zelensky addestrano inoltre le truppe sudanesi. “I militari di Kiev hanno acquisito molta esperienza, sono pronti a trasmettere le proprie competenze a altri Paesi”, ha sottolineato un militare dei servizi speciali intervistato dall’emittente LCI.
Sudan: vietato il transito dei convogli umanitari provenienti dal Ciad
La sanguinosa guerra, iniziata poco meno di un anno fa e ignorata quasi completamente dalla comunità internazionale, continua a mietere vittime. Secondo le Nazioni Unite sono stati uccisi 12.000 civili entro la fine del 2023 (anche se si ritiene che il bilancio reale delle vittime sia molto più alto) e quasi la metà dei 49 milioni di abitanti del Sudan ha bisogno di aiuti umanitari. I combattimenti continuano e la sopravvivenza è sempre più difficile. La popolazione è costretta a fuggire dalle proprie case. Gli sfollati sono ben oltre 10 milioni e lo spettro della carestia si avvicina sempre di più.
Edem Wosornu, direttore delle operazioni dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (OCHA), ha sottolineato mercoledì scorso: “Il Sudan è uno dei peggiori disastri umanitari a memoria d’uomo”.
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Questa la quinta e ultima puntata della traduzione dell’inchiesta
della rivista onlineThe Intercept che smonta l’articolo del NEW YORK TIMES del 28 febbraio scorso sugli stupri di Hamas a Gaza, a firma di Jeffrey Gettleman, Anat Schwartz e Adam Sella. L’articolo originale è qui: https://theintercept.com/2024/02/28/new-york-times-anat-schwartz-october-7/?utm_medium=email&utm_source=The%20Intercept%20Newsletter
Da The Intercept 28 febbraio 2024
Israele ha promesso di avere una quantità straordinaria di testimonianze oculari. Secondo la polizia israeliana, gli investigatori hanno raccolto “decine di migliaia” di testimonianze di violenze sessuali commesse da Hamas il 7 ottobre, anche sul luogo di un festival musicale attaccato”, hanno riferito Schwartz, Gettleman e Stella il 4 dicembre. Queste testimonianze non si sono mai concretizzate.
Netanyahu il mese scorso all’assemblea generale delle Nazioni Unite -Credit Maansi Srivastava/The New York Times
Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha ribadito il tema in un discorso tenuto il 5 dicembre a Tel Aviv. “Dico alle organizzazioni per i diritti delle donne e a quelle per i diritti umani: avete sentito parlare dello stupro delle donne israeliane, di atrocità orribili, di mutilazioni sessuali? Dove diavolo siete?”.
Lo stesso giorno, il presidente Joe Biden ha tenuto un discorso in cui ha detto: “Il mondo non può distogliere lo sguardo da ciò che sta accadendo. È compito di tutti noi – governo, organizzazioni internazionali, società civile, singoli cittadini – condannare con forza la violenza sessuale dei terroristi di Hamas senza equivoci, senza equivoci e senza eccezioni”.
L’inchiesta del Times, durata due mesi, era ancora in fase di editing e revisione, ha detto la Schwartz nel podcast, quando ha iniziato a preoccuparsi della tempistica. Così mi sono detta: “Stiamo perdendo lo slancio. Forse le Nazioni Unite non stanno affrontando il tema della violenza sessuale perché nessun [media] uscirà con una dichiarazione su ciò che è accaduto lì”. Se la storia del Times non verrà pubblicata presto, ha detto, “potrebbe non essere più interessante”. La Schwartz ha spiegato che il ritardo le è stato spiegato internamente con un “Non vogliamo rendere la gente triste prima di Natale”.
Ha anche raccontato che fonti della polizia israeliana le hanno fatto pressioni affinché si muovesse rapidamente per la pubblicazione. Ha detto che le hanno chiesto: “Cosa c’è, il New York Times non crede che ci siano state aggressioni sessuali qui?”. La Schwartz si sentiva nel mezzo: “Sono anche in questo posto, sono anche un’israeliana, ma lavoro anche per il New York Times“, ha affermato. “Quindi sono tra l’incudine e il martello”.
Gal Abdush con il marito Nagi
L’articolo del 28 dicembre “Urla senza parole” si apriva con la storia di Gal Abdush, descritta dal Times come “la donna con il vestito nero”. Il video del suo corpo carbonizzato sembrava mostrare il suo fondo schiena. “I funzionari della polizia israeliana hanno detto di ritenere che la signora Abdush sia stata violentata”, ha riferito il Times. L’articolo ha definito Abdush “un simbolo degli orrori inflitti alle donne e alle ragazze israeliane durante gli attacchi del 7 ottobre”.
Il Times cita i messaggi WhatsApp di Abdush e di suo marito alla famiglia, ma non dice che alcuni membri della famiglia ritengono che i messaggi cruciali rendano poco plausibili le affermazioni dei funzionari israeliani. Come riportato successivamente da Mondoweiss, (ma anche da Africa Express, ndr) Abdush ha inviato un messaggio alla famiglia alle 6:51 del mattino, dicendo che erano in difficoltà al confine. Alle 7:00, il marito ha inviato un messaggio per dire che era stata uccisa. La famiglia ha detto che la carbonizzazione è stata causata da una granata.
“Non ha senso – ha spiegato la sorella di Abdush – che in un breve lasso di tempo l’abbiano violentata, massacrata e bruciata?”. Parlando dell’accusa di stupro, suo cognato ha commentato: “I media se lo sono inventato”.
Un altro parente ha confessato che la famiglia ha subito pressioni, con un falso pretesto, per parlare con i giornalisti. La sorella di Abdush ha scritto su Instagram che i giornalisti del Times “hanno detto di voler scrivere un reportage in memoria di Gal, e questo è tutto. Se avessimo saputo che il titolo avrebbe parlato di stupri e massacri, non avremmo mai accettato”. Nel suo articolo successivo, il Times ha cercato di screditare il suo commento iniziale, citando la sorella di Abdush come se fosse stata “confusa su ciò che era successo” e stava cercando di “proteggere sua sorella””.
La donna che ha filmato Abdush il 7 ottobre ha dichiarato al sito israeliano YNet che Schwartz e Sella l’hanno costretta a dare al giornale l’accesso alle sue foto e ai suoi video per servire la propaganda israeliana. “Mi hanno chiamato più volte e mi hanno spiegato quanto sia importante per l’hasbara israeliana”, ha ricordato la donna, usando il termine per la diplomazia pubblica, che in pratica si riferisce agli sforzi di propaganda israeliana diretti al pubblico internazionale.
Quando i giornalisti del New York Times hanno incontrato ostacoli nel confermare le soffiate, si sono rivolti a funzionari israeliani anonimi o a testimoni che erano già stati intervistati ripetutamente dalla stampa. Parecchio tempo dopo l’inizio della loro inchiesta, i reporter si sono ritrovati esattamente al punto di partenza, e, per corroborare la loro affermazione che più di 30 corpi di donne e ragazze erano stati scoperti con segni di abusi sessuali, si sono affidati in larga misura alla parola di funzionari israeliani, soldati e operatori di Zaka
Nel podcast di Channel 12, la Schwartz ha sostenuto che l’ultimo tassello mancante per la storia era il numero preciso fornito dalle autorità israeliane su eventuali sopravvissuti a violenze sessuali. Ha assicurato: “Ne abbiamo quattro e siamo in grado di dimostrare la veridicità di quel numero”, spiegando che le era stato comunicato dal Ministero del Welfare e degli Affari Sociali. Non sono stati diffusi altri dettagli. L’articolo del Times riportava infine che c’erano “almeno tre donne e un uomo che sono stati aggrediti sessualmente e sono sopravvissuti”.
Quando il 28 dicembre la storia è stata finalmente pubblicata, Schwartz ha descritto l’ondata di emozioni e reazioni online e in Israele. “Prima di tutto, sul giornale abbiamo dato un posto molto, molto importante. Il che è, a proposito di tutte le mie paure, è una grande dimostrazione di fiducia essere messi in prima pagina”.
“In Israele le reazioni sono state incredibili. Tutti i media hanno ripreso l’articolo e lo hanno descritto come una sorta di ringraziamento per aver fornito il numero delle vittime. Grazie per aver detto che c’erano molti casi, che si trattava di uno schema. Grazie per avergli dato un titolo che suggerisce che forse c’è una logica organizzativa dietro, che non si tratta di un atto isolato di una persona che agisce di propria iniziativa”.
I collaboratori del Times, che hanno parlato con The Intercept a condizione di restare anonimi per timore di ritorsioni professionali, hanno descritto l’articolo “Urla senza parole” come il prodotto degli stessi errori che hanno portato alla disastrosa nota del redattore e alla ritrattazione del podcast “Caliphate” e della serie cartacea di Rukmini Callimachi sul gruppo dello Stato Islamico.
Kahn, l’attuale direttore esecutivo, era noto per essere un promotore e un protettore di Callimachi. Il reportage, che il Times ha riconosciuto in una revisione interna di non essere stato sottoposto a un esame sufficiente da parte dei redattori di alto livello e non ha rispettato gli standard del giornale per garantirne l’accuratezza, era stato finalista per il Premio Pulitzer 2019. Tale premio, insieme ad altri prestigiosi riconoscimenti, è stato revocato in seguito allo scandalo.
Margaret Sullivan, l’ultima redattrice pubblica del New York Times (un giornalista addetto al controllo della qualità degli articoli, ndr) che ha ricoperto un intero mandato prima che il giornale cancellasse la posizione nel 2017, ha dichiarato di sperare che venga avviata un’indagine sulla storia di “Urla senza parole”. “A volte scherzo dicendo: è un altro buon giorno per non essere il redattore pubblico del New York Times – ha scritto – ma l’organizzazione potrebbe davvero usarne uno in questo momento per indagare a nome dei lettori”.
In alcune riunioni per la stesura delle storie, ha raccontato la Schwartz nel podcast di Channel 12, erano presenti redattori con esperienza in Medio Oriente per porre domande approfondite. “Avevamo una riunione settimanale in cui si esponeva lo stato di avanzamento del lavoro sul nostro progetto”, ha raccontato. “E gli scrittori e i redattori del Times che si occupano di questioni mediorientali, provenienti da ogni parte del mondo, ti fanno domande che ti mettono alla prova, ed è eccellente che lo facciano, perché tu non credi a te stessa neanche per un momento”.
Le domande erano impegnative e si doveva rispondere, ha raccontato nel podcast: “Una delle domande che ti vengono poste – ed è la più difficile a cui non poter rispondere – è che se questo è successo in così tanti posti, com’è possibile che non ci siano prove forensi? Com’è possibile che non ci sia documentazione? Come è possibile che non ci siano documenti? Un rapporto? Un foglio Excel? Mi sta parlando di Shari [Mendes]? È una persona che ha visto con i suoi occhi e ora vi sta parlando – non c’è un rapporto [scritto] che renda autorevole ciò che sta dicendo?”.
A questo punto nel podcast interviene il conduttore: “E allora vi siete rivolti alle autorità ufficiali israeliane, chiedendo che vi dessero qualcosa, qualsiasi cosa. E come hanno risposto?”. “Non c’è niente – ha detto la Schwartz -. Non c’è stata alcuna raccolta di prove dalla scena”. Ma in generale, ha raccontato, i redattori sostenevano pienamente il progetto. “Non c’è mai stato scetticismo da parte loro – ha affermato -. Ciò non significa comunque che avessi [la storia], perché non avevo una ‘seconda fonte’ per molte cose”.
Un portavoce del Times ha sottolineato questa parte dell’intervista come prova del processo rigoroso del giornale: “Abbiamo rivisto l’intera trascrizione ed è chiaro che lei si ostina a prendere citazioni fuori contesto. Nella parte dell’intervista a cui lei fa riferimento, Anat descrive di essere stata incoraggiata dai redattori a corroborare le prove e le fonti prima di pubblicare l’inchiesta. In seguito, parla di incontri regolari con i redattori in cui venivano poste domande “difficili” e “impegnative”, e del tempo necessario per intraprendere la seconda e la terza fase di ricerca delle fonti. Tutto questo fa parte di un processo di giornalismo rigoroso che continuiamo a sostenere”.
Nell’intervista rilasciata al podcast di Channel 12, la Schwartz ha dichiarato di aver iniziato a lavorare con Gettleman subito dopo il 7 ottobre. “Il mio compito era quello di aiutarlo. Aveva tutti i tipi di pensieri sulle cose, sugli articoli che voleva fare”, ha ricordato. Il primo giorno c’erano già tre cose nella [sua] scaletta, e poi ho visto che al terzo posto c’era “Violenza sessuale””. La Schwartz ha raccontato che all’indomani degli attacchi del 7 ottobre non ci si è concentrati molto sulle violenze sessuali, ma quando ha iniziato a lavorare per Gettleman, hanno cominciato a diffondersi voci su tali atti, la maggior parte delle quali si basavano sui commenti degli operatori della Zi e degli ufficiali e soldati dell’IDF.
Dopo la pubblicazione dell’articolo, Gettleman è stato invitato a parlare alla School of International and Public Affairs della Columbia University in un panel sulla violenza sessuale. I suoi sforzi sono stati elogiati dal panel e dalla sua ospite, Sandberg, ex dirigente di Facebook. Invece di raddoppiare il servizio che ha contribuito a far vincere al New York Times il prestigioso Polk Award, Gettleman ha respinto la necessità per i giornalisti di fornire “prove”.
Israele: attacco di Hamas
“Quello che abbiamo trovato – non voglio nemmeno usare la parola ‘prove’, perché prove è quasi un termine legale che suggerisce che si sta cercando di dimostrare un’accusa o di provare un caso in tribunale”, ha detto Gettleman a Sandberg. “Non è il mio ruolo. Ognuno di noi ha il suo ruolo. Il mio ruolo è documentare, presentare informazioni, dare voce alle persone. E abbiamo trovato informazioni lungo tutta la catena della violenza, quindi della violenza sessuale”.
Gettleman ha detto che la sua missione era quella di smuovere le persone. “È davvero difficile ottenere queste informazioni e poi dar loro forma”, ha detto. “Questo è il nostro lavoro di giornalisti: ottenere le informazioni e condividere la storia in modo che le persone si preoccupino. Non solo per informare, ma per commuovere le persone. Ed è quello che faccio da molto tempo”.
Un giornalista del Timesha detto che i colleghi si chiedono come potrebbe essere un approccio equilibrato: “Sto aspettando di vedere se il giornale farà un servizio approfondito, impiegando lo stesso tipo di risorse e mezzi, sul rapporto delle Nazioni Unite che ha documentato gli orrori commessi contro le donne palestinesi”.
Aggiornamento: 29 febbraio 2024
Questa storia è stata aggiornata per includere i commenti twittati dopo la pubblicazione da Anat Schwartz. Questa storia è stata aggiornata anche per includere una dichiarazione del Times, ricevuta dopo la pubblicazione, secondo cui il redattore degli standard Phil Corbett intendeva lasciare l’incarico a partire dal giugno 2022 e riguardo a un episodio di “The Daily” che non è mai andato in onda.
Correzione: 29 febbraio 2024
The Intercept (3e – fne)
Questa storia è stata corretta per rimuovere un riferimento errato a esperti non nominati in un articolo del New York Times; il Times ha nominato un esperto. È stato rimosso un riferimento agli ospiti di una riunione editoriale del Times, dovuto a un errore di traduzione; i partecipanti erano redattori. Questa storia è stata corretta per indicare che Adam Sella è il nipote del partner di Anat Schwartz, e non della Schwartz.
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Questa la quarta puntata della traduzione dell’inchiesta della rivista online The Intercept che smonta l’articolo del NEW YORK TIMES del 28 febbraio scorso sugli stupri di Hamas a Gaza, a firma di Jeffrey Gettleman, Anat Schwartz e Adam Sella. L’articolo originale è qui: https://theintercept.com/2024/02/28/new-york-times-anat-schwartz-october-7/?utm_medium=email&utm_source=The%20Intercept%20Newsletter
Da The Intercept 28 febbraio 2024
Schwartz ha assistito alle interviste rilasciate ai media internazionali da Raz Cohen, che ha partecipato al Nova festival. Veterano delle forze speciali israeliane, Cohen ha rilasciato diverse interviste su uno stupro che ha dichiarato di aver visto. Pochi giorni dopo gli attacchi, ha dichiarato a PBS NewsHour di aver assistito a diversi stupri: “I terroristi, gente di Gaza, violentavano le ragazze. E dopo averle violentate, le uccidevano, le uccidevano con i coltelli, o al contrario, prima le uccidevano e dopo le violentavano “, ha raccontato. In un’apparizione alla CNN il 4 gennaio, ha descritto di aver assistito a uno stupro e ha detto che gli assalitori erano “cinque ragazzi – cinque civili di Gaza, ragazzi normali, non soldati, non Nukhba – riferendosi al commando d’élite di Hamas -. Erano persone normali di Gaza con vestiti normali”.
Raz Cohen, intervistato dalla CNN
Nell’intervista alla Schwartz per il Times, Cohen ha raccontato di aver visto cinque uomini, in abiti civili, tutti muniti di coltelli e uno di un martello, che trascinavano una donna per terra. Era giovane, nuda e urlava.
“Si sono radunati tutti intorno a lei”, ha detto il signor Cohen. Lei si alza in piedi. Cominciano a violentarla. Ho visto gli uomini in piedi in un mezzo cerchio intorno a lei. Uno la penetra. Lei urla. Ricordo ancora la sua voce, urla senza parole”.
“Poi uno di loro ha alzato un coltello”, ha spiegato, “e l’hanno massacrata”.
È stata questa intervista a ispirare il titolo del Times: “Urla senza parole”: How Hamas Weaponized Sexual Violence on Oct. 7″. Il fatto che Cohen abbia descritto i presunti assalitori come non membri di Hamas compromette il titolo, che però rimane invariato. Il Times non ha preso in considerazione le precedenti affermazioni di Cohen, che ha dichiarato di aver assistito a diversi stupri.
Nell’intervista in podcast la Schwartz ha raccontato che, poiché il Times insisteva sulla necessità di avere almeno due fonti, chiese a Cohen di fornirle le informazioni di contatto delle altre persone con cui si nascondeva nella boscaglia, in modo da poter corroborare la storia dello stupro. Ha ricordato: “Raz si nasconde. Nel cespuglio accanto al suo si trova il suo amico Shoam. In un altro cespuglio ci sono altre due persone, che guardano nella direzione opposta, e una quinta. Cinque persone nello stesso cespuglio. Solo Raz vede tutto: i suoi vicini guardano in un’altra direzione”.
Nonostante nel podcast abbia detto che solo Cohen ha assistito all’evento e che gli altri guardavano in direzioni diverse, nella storia del Times Shoam Gueta viene presentato come un testimone che conferma lo stupro: Ha detto di aver visto almeno quattro uomini scendere dal furgone e attaccare la donna, che è finita “tra le loro gambe”. Ha racontato che “parlavano, ridacchiavano e gridavano” e che uno di loro l’ha colpita ripetutamente con un coltello, “letteralmente massacrandola”. Gueta non ha menzionato di aver assistito a uno stupro in un’intervista rilasciata alla NBC News l’8 ottobre, un giorno dopo l’attacco, ma ha descritto di aver visto una donna uccisa con un coltello. “Abbiamo visto terroristi che uccidevano persone, bruciavano auto, urlavano ovunque”, aveva spiegato Gueta alla NBC. “Se solo dici qualcosa, se fai rumore, vieni ucciso”. Gueta si è poi schierato a Gaza con l’IDF e ha postato molti video su TikTok in cui rovistava nelle case palestinesi. Cohen e Gueta non hanno risposto alle richieste di commento.
Il sito indipendenteOctober 7 Fact Check, Mondoweiss e i giornalisti Ali Abunimah di Electronic Intifada e Max Blumenthal di The Grayzone hanno segnalato numerose incongruenze e contraddizioni nelle storie raccontate dal Times, tra cui il resoconto di Cohen, che inizialmente aveva detto “di aver scelto di non guardare, ma di averli sentiti ridere continuamente”.
Sotto pressione interna per difendere la veridicità della storia, il Times ha riassegnato a Gettleman, Schwartz e Sella l’incarico di riportare la storia, con un articolo pubblicato il 29 gennaio. Cohen ha rifiutato di parlare con loro: “Alla domanda di questo mese sul perché non avesse parlato di stupro all’inizio, il signor Cohen ha citato lo stress della sua esperienza e ha detto in un messaggio di testo che non si era reso conto di essere uno dei pochi testimoni sopravvissuti. Ha rifiutato di essere intervistato di nuovo, dicendo che stava lavorando per riprendersi dal trauma subito”.
7 ottobre 2023 il sito dove si è tenuto il Nova Music Festival, assalto dai miliziani di Hamas
Oltre alla testimonianza di Cohen, la Schwartz ha detto nel podcast di Channel 12 di aver visto anche il video di un interrogatorio di un prigioniero palestinese preso dall’IDF che, secondo lei, ha descritto “ragazze” trascinate da aggressori palestinesi nei boschi vicino al festival di Nova. Si è anche commossa dallo spezzone di un’intervista a cui ha visto a novembre durante una conferenza stampa tenuta da funzionari israeliani, quello che è stata al centro del suo primo articolo sul Times.
Una contabile di nome Sapir ha descritto una lurida scena di stupro e mutilazione, e la Schwartz ha detto di essersi pienamente convinta dell’esistenza di un programma sistematico di violenza sessuale da parte di Hamas. “La sua testimonianza è pazzesca, da far rizzare i capelli, enorme e barbara – ha detto la Schwartz -. E non si tratta solo di stupri, ma anche amputazioni. Mi sono resa conto che è una storia più grande di quanto potessi immaginare, avvenuta in parecchi luoghi diversi. E allora ha cominciato a emergere un quadrocompleto: cosa sta succedendo qui?”.
Secondo il Times, Sapir è stata intervistata per due ore in un caffè nel sud di Israele e ha descritto di aver assistito a diversi stupri, tra cui un episodio in cui un aggressore stupra una donna mentre un altro le taglia il seno con un taglierino.
Durante la conferenza stampa di novembre, le autorità israeliane hanno dichiarato che stavano raccogliendo ed esaminando materiale forense che avrebbe confermato i racconti specificamente dettagliati di Sapir. “La polizia ha dichiarato che sta ancora raccogliendo prove (DNA, ecc.) dalle vittime di stupro, oltre che dai testimoni oculari, per costruire il caso più solido possibile”, ha dichiarato un corrispondente che ha seguito l’evento stampa. Una scena del genere dovrebbe produrre una quantità significativa di prove fisiche, ma i funzionari israeliani non sono stati finora in grado di fornirle. “Ho prove circostanziali, ma alla fine è mio dovere trovare prove a sostegno della sua storia e scoprire l’identità delle vittime”, ha dichiarato il sovrintendente Adi Edri, il funzionario israeliano che guida le indagini sulle violenze sessuali, il 7 ottobre, una settimana dopo la pubblicazione del rapporto del Times. “In questa fase, non ho organi specifici”.
Israele: Hamas: assalto del 7 ottobre 2023
Nel podcast di Channel 12, alla Schwartz viene chiesto se esistono testimonianze di prima mano di donne sopravvissute allo stupro del 7 ottobre. “Non posso davvero parlare di questo, ma la stragrande maggioranza delle donne che sono state aggredite sessualmente il 7 ottobre sono state uccise subito dopo, ed è lì che si trovano i grandi numeri – ha risposto -. La maggior parte sono cadaveri. Alcune donne sono riuscite a scappare e a sopravvivere”. Ha poi aggiunto: “So che ci sono elementi molto significativo di dissociazione quando si tratta di violenza sessuale. Quindi molte volte non si ricorda tutto, ma solo frammenti. Non sempre riescono a descrivere gli avvenimenti come sono accaduti e come si è stati salvati”.
All’inizio di dicembre, i funzionari israeliani hanno lanciato un’intensa campagna pubblica, accusando la comunità internazionale e in particolare le leader femministe di essere rimaste in silenzio di fronte alla violenza sessuale diffusa e sistemica dell’attacco di Hamas del 7 ottobre. I loro sforzi di pubbliche relazioni è stati portati davanti alle Nazioni Unite il 4 dicembre, con un evento ospitato dall’ambasciatore israeliano e dall’ex dirigente di Meta (ex Facebook, ndr) Sheryl Sandberg. Le organizzazioni femministe prese di mira dalle figure pro-Israele sono state colte alla sprovvista, anche perché le accuse di violenza sessuale non erano ancora circolate ampiamente.
Sandberg è stata anche citata per aver attaccato le organizzazioni per i diritti delle donne in un articolo del New York Times del 4 dicembre, intitolato “Cosa sappiamo della violenza sessuale durante gli attacchi del 7 ottobre a Israele” e la cui pubblicazione ha coinciso con il lancio della campagna di PR alle Nazioni Unite.
L’articolo, riportato anche da Gettleman, Schwartz e Sella, si basava su affermazioni fatte da funzionari israeliani e riconosceva che il Times non era ancora in grado di confermare le accuse. Una correzione rivelatrice è stata successivamente allegata alla storia: “Una versione precedente di questo articolo riportava erroneamente il tipo di prove che la polizia israeliana ha raccolto per indagare sulle accuse di violenza sessuale commesse il 7 ottobre nell’attacco di Hamas contro Israele. La polizia si sta basando principalmente su testimonianze, non su autopsie o prove forensi”.
The Intercept Dossier Gaza/3d – Continua
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Questa la terza puntata della traduzione dell’inchiesta della rivista online The Intercept che smonta l’articolo del NEW YORK TIMES del 28 febbraio scorso sugli stupri di Hamas a Gaza, a firma di Jeffrey Gettleman, Anat Schwartz e Adam Sella. L’articolo originale è qui: https://theintercept.com/2024/02/28/new-york-times-anat-schwartz-october-7/?utm_medium=email&utm_source=The%20Intercept%20Newsletter
Da The Intercept 28 febbraio 2024
Mentre la Schwartz iniziava a cercare prove di violenza sessuale, cominciarono a emergere le prime accuse specifiche di stupro. Una persona identificata in interviste anonime ai media come un paramedico dell’unità sanitaria 669 dell’aeronautica israeliana ha affermato di aver visto le prove che due ragazze adolescenti del Kibbutz Nahal Oz erano state violentate e uccise nella loro camera da letto. Tuttavia, l’uomo ha fatto altre affermazioni oltraggiose che hanno messo in discussione il suo rapporto.
Kibbutz Nahal Oz attacco 7 ottobre 2023
Ha sostenuto che un altro soccorritore ha “tirato fuori dalla spazzatura” un bambino pugnalato più volte. Ha anche detto di aver visto “frasi arabe scritte sulle entrate delle case… con il sangue delle persone che vivevano nelle case”. Non esistono messaggi di questo tipo e la storia del bambino nel bidone della spazzatura è stata smentita. Il problema maggiore era che nessuna delle due ragazze del kibbutz corrispondeva alla descrizione della fonte. Nelle interviste successive, ha cambiato il luogo in Kibbutz Be’eri. Ma anche lì nessuna vittima uccisa corrispondeva alla descrizione, come riporta Mondoweiss.
Dopo aver visto queste interviste, la Schwartz ha iniziato a chiamare le persone del Kibbutz Be’eri e degli altri kibbutzim presi di mira il 7 ottobre, nel tentativo di rintracciare la storia. “Niente. Non c’era niente – ha detto -. Nessuno ha visto o sentito nulla”. Ha quindi contattato il paramedico dell’unità 669, il quale ha riferito alla Schwartz la stessa storia che aveva raccontato ad altri organi di informazione e che, a suo dire, l’ha convinta della natura sistematica della violenza sessuale. Ho detto: “Ok, è successo, una persona l’ha visto accadere a Be’eri, quindi non può essere solo una persona, perché si tratta di due ragazze. Sono sorelle. È nella stanza. C’è qualcosa di sistematico, qualcosa che mi fa pensare che non sia casuale”, ha concluso la Schwartz nel podcast.
Anat Schwartz, regista israeliana
La Schwartz ha affermato di aver iniziato una serie di colloqui approfonditi con i funzionari israeliani di Zaka, un’organizzazione privata di soccorso ultraortodossa che, come è stato documentato, ha gestito male le prove e ha diffuso diverse storie false sugli eventi del 7 ottobre, tra cui le accuse, smentite, di militanti di Hamas che hanno decapitato dei bambini e tagliato il feto dal corpo di una donna incinta.
Gli operatori di Zaka non hanno una formazione da scienziato forense o da esperto di scene del crimine. “Quando entriamo in una casa, usiamo la nostra immaginazione”, ha detto Yossi Landau, un alto funzionario della Zaka, descrivendo il lavoro del gruppo sui luoghi degli attacchi del 7 ottobre. “I corpi ci dicevano cosa era successo, ecco cosa è successo”.
Landau è citato nel rapporto del Times, anche se non si fa menzione del suo ben documentato curriculum di diffusione di storie sensazionali di atrocità che poi si sono rivelate false. La Schwartz ha detto che nelle sue interviste iniziali, i membri della Zaka non hanno fatto accuse specifiche di stupro, ma hanno descritto le condizioni generali dei corpi che dicevano di aver visto. Mi hanno detto: “Sì, abbiamo visto donne nude” o “Abbiamo visto una donna senza biancheria intima”. Entrambe nude, senza biancheria intima, e legate con fascette. E a volte non con fascette, a volte con una corda o il filo del cappuccio di una felpa”.
Schwartz ha continuato a cercare prove nei vari luoghi di aggressione e non ha trovato testimoni che confermassero le storie di stupro. “Ho cercato molto nei kibbutzim e, a parte la testimonianza del [paramedico militare israeliano] e in più, qua e là, di persone di Zaka, le storie non sono emerse da lì”, ha spiegato.
Mentre continuava a lavorare al telefono con i soccorritori, la Schwartz ha visto le interviste che i canali di informazione internazionali hanno mandato in onda con Shari Mendes, un’architetta americana che presta servizio in un’unità rabbinica delle Forze di Difesa israeliane. Mendes, che era stata inviata in un obitorio per preparare i corpi per la sepoltura dopo gli attacchi del 7 ottobre, ha affermato di aver visto numerose prove di aggressioni sessuali.
“Abbiamo visto prove di stupro – ha dichiarato Mendes in un’intervista-. I bacini erano rotti, e probabilmente ci vuole molto per rompere un bacino… e questo anche tra le nonne fino ai bambini piccoli. Non è solo qualcosa che abbiamo visto su internet, abbiamo visto questi corpi con i nostri occhi”. La Mendes è stata una figura onnipresente nelle narrazioni del governo israeliano e dei principali media sulla violenza sessuale del 7 ottobre, nonostante non abbia credenziali mediche o forensi per determinare legalmente lo stupro.
Aveva anche parlato di altre violenze del 7 ottobre, dicendo al Daily Mail in quei giorni: “Un bambino è stato strappato da una donna incinta e decapitato e poi la madre è stata decapitata”. Nessuna donna incinta è morta quel giorno, secondo l’elenco ufficiale israeliano delle persone uccise negli attacchi, e il collettivo di ricerca indipendente October 7 Fact Check ha dichiarato che la storia della Mendes era falsa.
Dopo aver visto le interviste di Mendes, la Schwartz si è ulteriormente convinta che la narrazione dello stupro sistematico fosse vera. “Mi sono detta: wow, cos’è questo? – ha ricordato -. E mi sembra che stia iniziando ad avvicinarsi a una pluralità, anche se non si sa ancora quali dimensioni dare”.
Allo stesso tempo, la Schwartz ha raccontato di essersi sentita a volte in conflitto, chiedendosi se si stesse convincendo della veridicità della storia generale proprio perché stava cercando prove a sostegno di tale affermazione. “Continuavo a chiedermi se, sentendo parlare di stupro, vedendo lo stupro e pensandoci su, non fosse solo perché mi stavo orientando verso questo”, ha spiegato. Ha messo da parte questi dubbi.
Quando Schwartz ha intervistato Mendes, la storia del riservista dell’IDF aveva fatto il giro del mondo ed era stata definitivamente smentita: Nessun bambino è stato strappato alla madre e decapitato. Tuttavia, Schwartz e il New York Times hanno continuato a basarsi sulla testimonianza di Mendes, così come su quella di altri testimoni con precedenti di affermazioni inaffidabili e privi di credenziali forensi. Non è stato fatto alcun riferimento a dubbi sulla credibilità di Mendes.
Come Schwartz sia approdata ad una posizione così straordinaria in un momento cruciale della guerra non è del tutto chiaro. Prima di entrare al Times come stringer lo scorso autunno, Sella era un giornalista freelance che si occupava di storie che spaziavano “dal cibo, alla fotografia, alla cultura, agli sforzi per la pace, all’economia e all’occupazione”, secondo il suo profilo Linkedin. La prima collaborazione di Sella con Gettleman, pubblicata il 14 ottobre, riguardava un trauma subito dagli studenti di un’università nel sud di Israele. Per Schwartz, il suo primo titolo è stato pubblicato il 14 novembre.
“Martedì i funzionari di polizia israeliani hanno diffuso altre prove sulle atrocità commesse durante gli attacchi del 7 ottobre guidati da Hamas, affermando di aver raccolto le testimonianze di più di mille testimoni e sopravvissuti su violenze sessuali e altri abusi”, ha riferito Schwartz. L’articolo prosegue citando il capo della polizia israeliana, Kobi Shabtai, che spiega una litania di prove di uccisioni raccapriccianti e aggressioni sessuali il 7 ottobre. “Questa è l’indagine più estesa che lo Stato di Israele abbia mai conosciuto”, ha dichiarato Shabtai nell’articolo di Schwartz, promettendo che presto sarebbero state fornite ampie prove.
Quando in seguito il Times ha prodotto la sua inchiesta definitiva “Urla senza parole”, tuttavia, la Schwartz e i suoi partner hanno riferito che, contrariamente a quanto affermato da Shabtai, le prove forensi della violenza sessuale erano inesistenti.
Senza consultare le passate dichiarazioni di Shabtai, il Times ha riferito che i funerali rapidi secondo la tradizione ebraica hanno impedito la conservazione delle prove. Gli esperti hanno detto al Times che la violenza sessuale nelle guerre spesso lascia “prove forensi limitate”.
Funerali in Israele delle vittime del 7 ottobre 2023
Nel podcast, la Schwartz ha spiegato che il suo prossimo passo sarebbe stato quello di recarsi in una nuova struttura di terapia olistica creata per affrontare il trauma delle vittime del 7 ottobre, in particolare di quelle che hanno subito la carneficina al Nova music festival. Aperta una settimana dopo gli attentati, la struttura ha iniziato ad accogliere centinaia di sopravvissuti che hanno potuto chiedere consulenza, fare yoga e ricevere medicine alternative, oltre a trattamenti di agopuntura, guarigione del suono e riflessologia. L’hanno chiamato Merhav Marpe, o Spazio di guarigione.
In diverse visite a Merhav Marpe, la Schwartz ha ribadito nell’intervista in podcast di non aver trovato prove dirette di stupri o violenze sessuali. Ha espresso la sua frustrazione nei confronti dei terapeuti e dei consulenti della struttura, affermando che hanno messo in atto “una cospirazione del silenzio”. “Tutti, anche quelli che hanno sentito questo tipo di cose dalle persone – ha raccontato – si sentivano molto impegnati nei confronti dei loro pazienti, o anche solo delle persone che assistevano i loro pazienti, a non hanno voluto rivelare le cose”, ha detto.
Alla fine, la Schwartz ha ricevuto dai terapeuti solo allusioni e affermazioni generiche su come le persone elaborano i traumi, compresi la violenza sessuale e lo stupro. Ha detto che le potenziali vittime potrebbero vergognarsi di parlare, sperimentare il senso di colpa dei sopravvissuti o essere ancora sotto shock. “Forse anche perché la società israeliana è conservatrice, c’era una certa inclinazione a tacere su questo tema dell’abuso sessuale”, ha ipotizzato la Schwartz. “A questo si aggiunge probabilmente la dimensione dell’aspetto religioso-nazionale, il fatto che questo sia stato fatto da un terrorista, da qualcuno di Hamas – ha aggiunto -. Parecchie remore hanno fatto sì che le persone non parlassero”.
Secondo l’articolo pubblicato dal Times, “due terapeuti hanno detto che stavano lavorando con una donna che è stata violentata in gruppo al rave e non era in condizione di parlare con gli investigatori o i giornalisti”.
La Schwartz ha sostenuto di essersi concentrata sui kibbutzim perché inizialmente aveva stabilito che era improbabile che si fossero verificate aggressioni sessuali al festival musicale di Nova. “Ero molto scettica sul fatto che fosse successo nell’area della festa, perché tutti i sopravvissuti che ho intervistato mi hanno parlato di un inseguimento, di una corsa, di uno spostamento da un posto all’altro – ha ricordato -. Come avrebbero potuto avere il tempo di fare i conti con una donna, è impossibile. O ti nascondi, o… o muori. Inoltre il festival era organizzato in uno spazio pubblico, cioè aperto”.
The Intercept Dossier Gaza/3c – Continua
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Speciale per Africa ExPress Cornelia I. Toelgyes
23 marzo 2024
Nel 2015, l’ex dittatore del Gambia, Yahya Jammeh, aveva abolito le Mutilazoni Genitali Femminili (MGF). Purtroppo da quando la legge è entrata in vigore solamente due casi sono stati perseguitati penalmente.
Gambia: a rischio revoca legge contro l’infibulazione
Il 18 marzo scorso, la stragrande maggioranza dei parlamentari (54 su 58 deputati) del Gambia, una enclave anglofona all’interno del Senegal francofono, ha votato a favore di un progetto di legge che prevede il ripristino delle Mutilazioni Genitali Femminili. Un testo in tal senso è stato inviato a una commissione della Camera, che dovrà pronunciarsi sulla questione prima del voto finale, previsto fra tre mesi.
Il deputato Almameh Gibba, presentando il testo ai suoi colleghi, ha sottolineato: “Il disegno di legge mira a preservare i principi religiosi e a salvaguardare le norme e i valori culturali”.
Mentre veniva presentato il progetto di legge in Parlamento, nella capitale Banjul si è svolta una piccola manifestazione di militanti pro infibulazione.
Per gli attivisti e difensori dei diritti umani del Paese a maggioranza musulmana, rappresenta un pericoloso precedente per la salvaguardia dei diritti delle donne gambiane e hanno chieste una massiccia mobilitazione sia a Banjul che all’estero. Se la circoncisione femminile dovesse essere nuovamente autorizzata per legge, significherebbe tornare indietro di anni e danneggerebbe il duro lavoro svolto finora. Tale procedura viene spesso eseguita su bambine sotto i cinque anni con l’ovvia finalità di controllare la loro sessualità ma rischia di ledere fortemente la salute fisica e psichica delle piccole che vi vengono sottoposte.
Secondo un’antica tradizione che risale ai tempi dei faraoni, quella che viene chiamata anche “circoncisione femminile”, riguarda la rimozione, in toto o in parte, della parte esterna dei genitali delle donne. In alcuni casi comporta il taglio del clitoride e la cucitura delle grandi labbra.
Di solito vengono eseguite da una donna specializzata in MGF con una lama e senza anestetico. Sebbene sia internazionalmente riconosciuta come violazione dei diritti umani, si calcola che siano circa 68 milioni le ragazze in tutto il mondo che rischiano di subire questa atrocità entro il 2030.
A dispetto di quanto molti credono, non è una regola musulmana, tant’è vero che in Arabia Saudita, il Paese culla dell’islam, non viene per nulla praticata. E’ diffusa invece in Egitto e nella fascia dell’Africa sub sahariana, anche tra le comunità cristiane o animiste. Sono le madri che la impongono alle figlie e viene praticata tra l’infanzia e i 15 anni di età.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha precisato che le complicazioni immediate includono ritenzione di urina, ulcerazioni genitali, emorragie, tetano o setticemia, e, una donna sottoposta a MGF, può soffrire di problemi urinari e vaginali a lungo termine, tessuto cicatriziale e cheloidi. Inoltre, è a maggior rischio di complicazioni durante il parto.
Mentre per le Nazioni Unite tali pratiche riflettono una radicata disuguaglianza tra i sessi e costituiscono una forma di discriminazione nei confronti delle donne.
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Questa la seconda puntata della traduzione dell’inchiesta della rivista online The Intercept che smonta l’articolo del NEW YORK TIMES del 28 dicembre scorso sugli stupri di Hamas a Gaza, a firma di Jeffrey Gettleman, Anat Schwartz e Adam Sella. L’articolo originale è qui: https://theintercept.com/2024/02/28/new-york-times-anat-schwartz-october-7/?utm_medium=email&utm_source=The%20Intercept%20Newsletter
Da The Intercept 28 febbraio 2024
Dopo le rivelazioni sulla recente attività della Schwartz sui social media, il suo nome non è più apparso sul giornale e non ha partecipato alle riunioni di redazione. Il giornale ha dichiarato che è in corso una verifica dei suoi “mi piace” sui social media. Quei “mi piace” sono violazioni inaccettabili della nostra politica aziendale”, ha dichiarato un portavoce del Times.
Lo scandalo più grande potrebbe essere il reportage stesso, il processo che gli ha permesso di essere stampato e l’impatto che ha avuto sulla vita di migliaia di palestinesi la cui morte è stata giustificata dalla presunta violenza sessuale sistematica orchestrata da Hamas che il giornale ha affermato di aver rivelato.
Un altro reporter frustrato del Times, che ha lavorato anche come redattore, ha dichiarato: “Molta attenzione sarà comprensibilmente e giustamente rivolta a Schwartz, ma questa è chiaramente una decisione editoriale sbagliata che mina tutto il grande lavoro instancabilmente svolto quotidianamente in tutto il giornale – sia legato che completamente estraneo alla guerra – in grado di sfidare i nostri lettori e di soddisfare i nostri standard”.
L’intervista podcast di Channel 12 alla Schwartz, che The Intercept ha tradotto dall’ebraico, apre una finestra sul processo di giornalismo della controversa storia e suggerisce che il compito del New York Times fosse quello di sostenere una narrazione predeterminata.
In risposta alle domande di The Intercept sull’intervista in podcast della Schwartz, un portavoce del New York Times ha fatto marcia indietro rispetto alla perentoria affermazione dell’articolo a dimostrazione che Hamas ha usato come arma la violenza sessuale. Il portavoce ha affermato in modo più morbido che “potrebbe esserci stato un uso sistematico della violenza sessuale”.
Il direttore del Times International, Phil Pan, ha dichiarato in un comunicato di essere a favore del lavoro. “La signora Schwartz ha fatto parte di un rigoroso processo di redazione e di reporting – ha affermato -. Ha dato un contributo prezioso e non abbiamo riscontrato alcuna prova di pregiudizio nel suo lavoro. Rimaniamo fiduciosi nell’accuratezza del nostro reportage e sosteniamo l’indagine del team. Ma come abbiamo detto, i suoi “mi piace” a post offensivi e d’opinione sui social media, precedenti al suo lavoro con noi, sono inaccettabili”.
Dopo la pubblicazione di questa storia, la Schwartz, che non ha risposto a una richiesta di commento, ha twittato per ringraziare il Times per “il sostegno alle storie importanti che abbiamo pubblicato”. Ha aggiunto poi: “I recenti attacchi contro di me non mi scoraggeranno dal continuare il mio lavoro”. In merito alla sua attività sui social media, la Schwartz ha dichiarato: “Capisco perché le persone che non mi conoscono si siano sentite offese dai “mi piace” involontari che ho messo il 7 ottobre e me ne scuso”. Almeno tre dei suoi “mi piace” sono stati oggetto di un’indagine pubblica.
Nell’intervista, la Schwartz descrive i suoi sforzi per ottenere conferma dagli ospedali israeliani, dai centri di crisi per gli stupri, dalle strutture per il recupero dei traumi e dalle linee telefoniche per le violenze sessuali in Israele, ma non è riuscita a ottenere una sola conferma da nessuno di loro.
“Le è stato detto che non c’erano state denunce di aggressioni sessuali – ha ammesso il portavoce del Times dopo che The Intercept ha portato all’attenzione del giornale l’episodio del podcast di Channel 12 –. Questo però è stato solo il primo episodio di violenza sessuale. Ed era solo il primo passo della sua ricerca. L’autrice ha descritto poi la raccolta delle prove, delle testimonianze e dei dati finali che dimostrano che potrebbe esserci stato un uso sistematico della violenza sessuale”, ha affermato il portavoce. “L’autrice ha descritto in dettaglio le fasi della sua ricerca e sottolinea i rigorosi standard del Times per corroborare le prove, e gli incontri con i giornalisti e i redattori per discutere le domande più spinose e riflettere criticamente sulla storia”.
La questione non è mai stata se il 7 ottobre si siano verificati singoli atti di violenza sessuale. Gli stupri non sono rari in guerra, e ci sono state anche diverse centinaia di civili che si sono riversati in Israele da Gaza quel giorno in una “seconda ondata”, contribuendo e partecipando al caos e alla violenza. La questione centrale è se il New York Times abbia presentato prove solide a sostegno della sua affermazione secondo cui ci sarebbero stati nuovi dettagli “che dimostrano che gli attacchi contro le donne non sono stati eventi isolati ma parte di un più ampio schema di violenza di genere il 7 ottobre”, un’affermazione contenuta nel titolo, che Hamas ha deliberatamente usato la violenza sessuale come arma di guerra.
Assalto Hamas 7 ottobre 2023
Schwartz ha iniziato il suo lavoro sulla violenza del 7 ottobre dove ci si aspetterebbe, chiedendo informazioni alle strutture chiamate “Room 4” in 11 ospedali israeliani che esaminano e curano le potenziali vittime di violenza sessuale, incluso lo stupro. Per prima cosa le ha chiamate tutte e le hanno detto: “No, non è stata ricevuta alcuna denuncia di violenza sessuale”, come ha ricordato l’autrice nell’intervista in podcast. “Ho avuto molti colloqui che non hanno portato a nulla. Ad esempio, andavo in tutti i tipi di ospedali psichiatrici, mi sedevo di fronte al personale, tutti completamente impegnati nella missione e nessuno aveva incontrato una vittima di violenza sessuale”.
Il passo successivo è stato quello di chiamare il responsabile della linea diretta per le aggressioni sessuali nel sud di Israele, che si è rivelato altrettanto infruttuoso. Il responsabile le ha raccontato che non c’erano segnalazioni di violenza sessuale. La donna ha descritto la telefonata come una “folle conversazione approfondita” in cui ha chiesto casi specifici. “Qualcuno l’ha chiamata? Ha sentito qualcosa?”, ha ricordato chiedendo poi: “Com’è possibile che non l’abbiate fatto?”.
The Intercept Dossier Gaza/3b – Continua
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Speciale per Africa ExPress Federica Iezzi
20 Marzo 2024
Il messaggio del Sudafrica è stato inequivocabile: coloro che hanno la doppia cittadinanza sudafricana-israeliana e che attualmente combattono nelle Forze di Difesa Israeliane, contro la Palestina, saranno perseguiti e arrestati e avranno l’immediata revoca della cittadinanza sudafricana.
Naledi Pandor, Ministro delle relazioni internazionali e della cooperazione in Sudafrica, indossa una kefiah lo “straccio” palestinese
A scandirlo a chiare lettere è stata Naledi Pandor, ministro delle relazioni internazionali e della cooperazione in Sudafrica, dal 2019, e membro del Parlamento per l’African National Congress, dal 1994, in uno dei meeting del partito politico a Pretoria. [https://www.youtube.com/watch?v=87fyilgnwng]
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Continua ad approfondirsi dunque la spaccatura tra le due nazioni, iniziata con il procedimento avviato dal Sudafrica contro lo Stato di Israele, presso la Corte Internazionale di Giustizia, per atti di genocidio contro i palestinesi della Striscia di Gaza, e proseguita con la completa sospensione dei rapporti diplomatici bilaterali.
Già lo scorso dicembre, il ministero degli Esteri sudafricano aveva avvertito i suoi cittadini, residenti permanenti in Israele, che se, senza permesso di Pretoria, si fossero uniti all’esercito israeliano per combattere sulla Striscia di Gaza o nei Territori Palestinesi Occupati, avrebbero potuto essere perseguiti. Lo stretto monitoraggio di questi cittadini, da parte delle autorità sudafricane, si motiva nel fatto che l’arruolamento nelle Forze di Difesa Israeliane può potenzialmente contribuire alla violazione del Diritto Internazionale Umanitario e alla commissione di ulteriori crimini di guerra, rendendoli quindi esplicitamente perseguibili in Sudafrica.
La legge sulla cittadinanza sudafricana (Act 88/1995) prevede che chiunque la abbia ottenuta per naturalizzazione, se dovesse esercitare la propria attività sotto la bandiera di un altro Paese in una guerra che il Sudafrica non sostiene, gli verrà revocata la nazionalità.
E’ evidente che la storia tra Sudafrica e Palestina non inizia lo scorso 7 ottobre. Per anni il governo sudafricano ha paragonato le politiche di Israele, contro i palestinesi a Gaza, in Cisgiordania e a Gerusalemme Est, al trattamento riservato ai non-bianchi in Sudafrica, durante l’era dell’apartheid, quando erano in vigore segregazione razziale forzata e oppressione.
Ma a quando risale il legame di Pretoria con il popolo palestinese? Il Sudafrica aveva espresso solidarietà alla Palestina già negli anni ’50 e ’60, così come avevano scelto molte nazioni africane, colonie europee fino all’inizio degli anni ’60. L’Organizzazione per la Liberazione della Palestina ha collaborato con numerosi movimenti rivoluzionari africani, nel sostegno reciproco alla lotta anticoloniale.
La narrativa palestinese, con repressione, crudeltà, brutalità della polizia israeliana, restrizioni ai movimenti, arresti, detenzioni arbitrarie, coloni illegali, evoca esperienze della storia di discriminazione e oppressione del Sudafrica.
Il regime di apartheid in Sudafrica, guidato dal Partito Nazionale, aveva uno stretto rapporto con Tel Aviv. Negli anni ’70, il governo israeliano, guidato dal primo ministro Yitzhak Rabin, strinse forti legami con il regime nazionalista di estrema destra sudafricano. L’allora ministro della difesa israeliano, Shimon Peres, ha avuto un ruolo determinante nella creazione di un’alleanza che ha contribuito a mantenere a galla l’apartheid.
Vale fortemente la pena ricordare che alla lotta del Sudafrica contro l’apartheid, hanno attivamente partecipato migliaia di ebrei, sopravvissuti all’olocausto o discendenti delle vittime dell’olocausto.
La voce di Cyril Ramaphosa, presidente sudafricano, sigilla in Parlamento il sostegno alla lotta del popolo palestinese “Non è semplicemente un prodotto della storia. È un rifiuto di accettare che a un popolo venga continuamente negato il diritto all’autodeterminazione, in violazione del diritto internazionale”.
E il popolo sudafricano risponde attivamente con decine di movimenti internazionali per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni, che mirano ad aumentare la pressione economica e politica su Israele, con l’obiettivo di porre fine all’occupazione della Palestina.
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Pubblichiamo la traduzione dell’inchiesta della rivista online
The Intercept che smonta l’articolo del NEW YORK TIMES
del 28 febbraio scorso sugli stupri di Hamas a Gaza,
a firma di Jeffrey Gettleman, Anat Schwartz e Adam Sella.
L’articolo originale è qui:
https://theintercept.com/2024/02/28/new-york-times-anat-schwartz-october-7/?utm_medium=email&utm_source=The%20Intercept%20Newsletter
Da The Intercept 28 febbraio 2024
Anat Schwartz aveva un problema. La regista israeliana ed ex ufficiale dei servizi segreti dell’aeronautica era stata incaricata dal New York Times di collaborare con il nipote del suo partner, Adam Sella, e con il veterano, Jeffrey Gettleman, reporter del Times, a un’inchiesta sulla violenza sessuale perpetrata da Hamas il 7 ottobre, che avrebbe potuto ridisegnare il modo in cui il mondo intendeva la guerra in corso nella Striscia di Gaza.
Anat Schwartz, regista israeliana ed ex ufficiale servizi
A novembre, stava montando l’opposizione globale contro la campagna militare di Israele, che aveva già ucciso migliaia di bambini, donne e anziani. Sul suo feed di social media, che il Times ha dichiarato di stare rivedendo, la Schwartz ha messo un like sotto un tweet che incoraggiava Israele a “trasformare la Striscia in un mattatoio”. “Violare qualsiasi norma, sulla strada della vittoria – si leggeva nel post -. Quelli che abbiamo di fronte sono animali umani che non esitano a violare regole minime”.
Il New York Times, tuttavia, ha regole e norme severe. La Schwartz non aveva alcuna esperienza precedente in giornalismo. Il suo collega Gettleman le ha spiegato le basi, ha confessato la Schwartz in un’intervista podcast del 3 gennaio, prodotta dall’israeliano Channel 12 e condotta in ebraico.
Gettleman, ha sostenuto di essersi preoccupato di “ottenere almeno due fonti per ogni dettaglio inserito nell’articolo e di fare un controllo incrociato delle informazioni. Abbiamo prove forensi? Abbiamo prove visive? Oltre a dire al nostro lettore “questo è successo”, “cosa possiamo dire?” “Possiamo dire cosa è successo a chi?”.
La Schwartz ha raccontato che inizialmente era riluttante ad accettare l’incarico perché non voleva guardare le immagini di potenziali aggressioni e perché non aveva le competenze necessarie per condurre un’indagine del genere. “Le vittime di violenza sessuale sono donne che hanno vissuto un’esperienza [drammatica], e quindi venire a sedersi di fronte a una donna del genere…. Chi sono io, comunque? Non ho alcuna qualifica”.
Attacco Hamas 7 ottobre 2023
Ciononostante, ha iniziato a lavorare con Gettleman sulla storia, come ha spiegato nell’intervista in podcast. Gettleman, reporter vincitore del Premio Pulitzer, è un corrispondente internazionale e, quando viene inviato in un ufficio, lavora con assistenti e freelance per le storie. In questo caso, secondo diverse fonti della redazione che hanno familiarità con il processo, Schwartz e Sella hanno fatto la maggior parte del reportage sul campo, mentre Gettleman si è concentrato sull’inquadratura e sulla scrittura.
Il rapporto che ne è scaturito, pubblicato a fine dicembre, era intitolato “Urla senza parole”: How Hamas Weaponized Sexual Violence on Oct. 7″. Fu una notizia bomba e galvanizzò lo sforzo bellico israeliano in un momento in cui anche alcuni alleati di Israele esprimevano preoccupazione per l’uccisione su larga scala di civili a Gaza.
All’interno della redazione, l’articolo è stato accolto con elogi dai leader editoriali ma con scetticismo da altri giornalisti del Times. Il podcast di punta del giornale, “The Daily”, ha tentato di trasformare l’articolo in un episodio, ma non è riuscito a superare il controllo dei fatti, come ha riportato The Intercept. (In una dichiarazione ricevuta dopo la pubblicazione, un portavoce del Times ha commentato: “Nessun episodio del Daily è stato eliminato a causa di errori di fact checking”).
Il timore dei collaboratori del Times che hanno criticato la copertura di Gaza da parte del giornale è che la Schwartz diventi un capro espiatorio per quello che è un fallimento molto più profondo. Può nutrire animosità verso i palestinesi, non avere esperienza di giornalismo investigativo e sentire pressioni contrastanti tra l’essere una sostenitrice dello sforzo bellico di Israele e una giornalista del Times, ma la Schwartz non ha incaricato se stessa e Sella di raccontare una delle storie più importanti della guerra. Sono stati i vertici del New York Times a farlo.
Schwartz lo ha dichiarato in un’intervista alla Radio dell’Esercito israeliano il 31 dicembre. Il New York Times ha chiesto: “Facciamo un’inchiesta sulle violenze sessuali, e poi sono stati loro a dovermi convincere”, ha spiegato Schwartz. Il suo ospite l’ha interrotta: “È stata una proposta del New York Times, l’intera faccenda?” “Inequivocabilmente. Inequivocabilmente. Ovviamente. Ovviamente – ha spiegato -. Il giornale ci ha sostenuto al 200 per cento e ci ha dato il tempo, il denaro, le risorse per approfondire l’inchiesta quanto necessario”.
Poco dopo lo scoppio della guerra, alcuni redattori e reporter si sono lamentati perché le norme del Times impedivano loro di riferirsi ad Hamas come “terroristi”. La motivazione dell’ufficio standard, diretto per 14 anni da Philip Corbett, è stata a lungo che Hamas era l’amministratore de facto di un territorio specifico, piuttosto che un gruppo terroristico senza Stato. L’uccisione deliberata di civili, si sosteneva, non era sufficiente per etichettare un gruppo come terrorista, in quanto tale etichetta poteva essere applicata in modo piuttosto ampio.
Corbett, dopo il 7 ottobre, ha difeso la politica fino allora applicata dalle pressioni, secondo fonti della redazione, ma ha perso. Il 19 ottobre, a nome del direttore esecutivo Joe Kahn, è stata inviata una email in cui si diceva che Corbett aveva chiesto di ritirarsi dalla sua posizione. “Dopo 14 anni in cui ha incarnato gli standard del Times, Phil Corbett ci ha detto che vorrebbe fare un passo indietro e lasciare che qualcun altro assuma il ruolo di guida in questo sforzo cruciale”, ha spiegato la direzione del giornale.
Tre fonti della redazione hanno spiegato che la mossa era legata alle pressioni subite per ammorbidire la copertura e rivolgerla a favore di Israele. Uno dei post sui social media che erano piaciuti a Schwartz e che hanno scatenato la revisione del Times, sosteneva che, ai fini della propaganda israeliana, Hamas dovesse essere sempre paragonato allo Stato Islamico. Un portavoce del Times ha dichiarato a The Intercept: “La vostra affermazione su Phil Corbett è assolutamente falsa”. E, in una dichiarazione ricevuta dopo la pubblicazione: “Phil aveva chiesto di cambiare ruolo prima ancora che Joe Kahn diventasse direttore esecutivo nel giugno 2022. E non aveva assolutamente nulla a che fare con una disputa sulla copertura”.
The Intercept
Dossier Gaza/3a – Continua
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