14.6 C
Nairobi
sabato, Gennaio 11, 2025

Lo storico israeliano Ilan Pappe racconta la pulizia etnica della Palestina

Speciale per Africa Express Filippo Senatore Gennaio 2025 Per comprendere...

Iran: lo “scollegato” caso Sala-Abedini, due liberazioni “simmetriche”

Speciale per Africa ExPress Fabrizio Cassinelli* 8 gennaio 2025 Si...
Home Blog Page 37

Congo-K: Tshisekedi confermato presidente ribadisce la cacciata dei caschi blu

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
14 gennaio 2024

Il presidente uscente, Félix Tshisekedi, ha vinto le elezioni presidenziali del 20 dicembre 2023 con oltre il 73 per cento delle preferenze. La Corte costituzionale della Repubblica Democratica del Congo ha confermato martedì scorso i risultati già annunciati dalla Commissione Elettorale Nazionale Indipendente (CENI) il 31 dicembre. Nessuna sorpresa dunque. Tshisekedi, salito al potere nel 2019, resterà alla guida del Paese per un altro quinquennio.

Corte Costituzionale del Congo-K

Il più alto organo di garanzia della Costituzione ha respinto una richiesta di annullamento della tornata elettorale.

Il 20 dicembre è stato organizzato un quadruplo scrutinio – presidenziale, legislativo, provinciale e locale – che si è prolungato di almeno un giorno a causa dei ritardi dovuti a numerosi problemi logistici. Oltre 40 milioni di elettori sono stati chiamati alle urne, su una popolazione totale di circa 100 milioni di abitanti.

Intanto la CENI ha reso noto ieri notte, con diversi giorni di ritardo, anche i risultati provvisori delle legislative. Il partito di Tshisekedi, Unione per la Democrazia e il Progresso Sociale (UPDS) ha ottenuto 66 seggi su 500, che, insieme a quelli riportati dai partiti alleati, gli permetterebbero di mantenere la coalizione al potere e di nominare il nuovo governo. Alle scorse elezioni l’UPDS si era fermato alla soglia di 38 rappresentanti all’Assemblea nazionale.

Sempre in base ai risultati provvisori, anche i partiti guidati da alcuni alleati di Félix Tshisekedi hanno ottenuto diversi seggi.

Il ginecologo e ostetrico Denis Mukwege nel suo ospedale in Congo
Il ginecologo e ostetrico Denis Mukwege nel suo ospedale in Congo

Nessun seggio, invece, per il raggruppamento politico all’opposizione, Alliance des Congolais pour la Refondation de la Nation (ACRN) di Denis Mukwege, medico insignito del Premio Nobel per la Pace nel 2018. ACRN non ha raggiunto la soglia dell’1 per cento richiesto.

Ensemble pour la République,partito del 58enne ricco uomo d’affari Moïse Katumbi, rappresenta il primo partito all’opposizione. Katumbi, ha la madre congolese, mentre il padre, Nissim Soriano, era un ebreo italo-greco di Cefalonia (lui usa il cognome della madre, Virginia Katumbi), non ha rilasciato commenti finora.

Sta di fatto che partiti all’opposizione e osservatori indipendenti avevano denunciato disorganizzazione e mancanza di trasparenza durante la tornata elettorale.

E, dopo 25 anni di presenza in Congo-K, MONUSCO (la Missione di Pace delle Nazioni Unite nella ex colonia belga) sta iniziando a preparare i bagagli. Dovrà lasciare il Paese entro dicembre 2024, come è stato confermato proprio ieri dalle autorità di Kinshasa e dai caschi blu.

Il contingente internazionale, dispiegato nella provincia del Sud-Kivu partirà entro la fine di aprile. Dal 1° maggio in questa zona la protezione dei civili sarà affidata esclusivamente alle forze armate congolesi (FARDC). Dopo il Sud Kivu, i caschi blu lasceranno il Nord-Kivu e infine l’Ituri, tutte province nell’est del Paese, che da decenni sono sconvolte da continui attacchi di gruppi armati. I civili sono sempre i primi a subire le conseguenze delle violazioni, degli attacchi, delle violenze. Basti pensare che gli sfollati sono ormai quasi 7 milioni.

Protesta davanti al quartier generale di MONUSCO, Goma, Congo-K

I militari congolesi, in particolare la guardia repubblicana, sono stati addestrati da contractor israeliani, richiamati però in patria subito dopo il 7 ottobre 2023.

Gli istruttori israeliani, per lo più assunti da società di contractor, facevano parte di un accordo di cooperazione in materia di sicurezza firmato nel 2019 tra Israele e la RDC, in base al quale lo Stato ebraico si è offerta di addestrare ed equipaggiare l’esercito congolese per combattere le Allied Democratic Forces (ADF), un’organizzazione islamista ugandese, presente anche nel Congo-K dal 1995, legata allo stato islamico.

Il presidente del Congo-K, Felix Tshisekedi e il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyauh

Nel settembre 2023, a margine dell’Assemblea generale dell’ONU a New York, Tshisekedi, presidente del Congo-K, ha incontrato Benjamin Netanyahu, primo ministro israeliano. In tale occasione il leader di Kinshasa ha promesso al capo del governo israeliano che avrebbe spostato la sua ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme.

Anche l’ex presidente Jospeh Kabila, al potere dal 2001 al 2019, aveva chiesto l’intervento di ex funzionari del Mossad. Lo aveva rivelato nel 2019 una giornalista del programma investigativo israeliano Uvda. Kabila avrebbe assoldato personale specializzato dalla compagnia privata di intelligence israeliana Black Cube già nel 2015 per spiare i suoi oppositori.

Cornelia I. Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
X: @cotoelgyes
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Vuoi contattare Africa ExPress? Manda un messaggio WhatsApp con il tuo nome e la tua regione (o Paese) di residenza al numero +39 345 211 73 43 e ti richiameremo. Specifica se vuoi essere iscritto alla Mailing List di Africa Express per ricevere gratuitamente via whatsapp le news del nostro quotidiano online.

 

 

 

La supremazia razziale e il diritto all’autodifesa: così volevano giustificare il genocidio in Rwanda

 

Speciale per Africa ExPress
Federica Iezzi
12gennaio 2024

Nel 1993, quando il Mouvement Républicain National pour la Démocratie et le Développement (MRND), partito al potere in Rwanda, era impegnato in negoziati per porre fine alla guerra civile, la voce ufficiale dello Stato, la stazione Radio Télévision Libre des Mille Collines (RTLM), trasmetteva odio e preparava i suoi ascoltatori alla violenza. La radio era sostenuta dal giornale filogovernativo, Kangura.

Kangura, No 6, 1990

RTLM inizia le sue trasmissioni poco dopo gli accordi di Arusha, che avevano posto fine alla guerra civile rwandese del 1990-1993. A differenza di Radio Rwanda, vetusta e formale, RTLM aveva portato la voce della gente comune sulle onde radio. Gli ascoltatori potevano interagire con la radio, richiedendo musica o scambiando opinioni. I giornalisti di RTLM scendevano in strada invitando i passanti a commentare gli argomenti del giorno. Un approccio populista che gli aveva permesso di entrare in ogni casa.

RTLM, dopo aver acquistato popolarità e fiducia, aveva ripetutamente e con forza sottolineato le differenze tra hutu e tutsi, l’origine straniera dei tutsi e quindi il loro non-diritto a dichiararsi ruandesi, la sproporzionata quota di ricchezza e potere detenuti dai tutsi e gli orrori del passato del dominio tutsi. Aveva continuamente sottolineato la necessità di prestare attenzione ai complotti e ai possibili attacchi tutsi. Usando il termine inyenzi (scarafaggio) in riferimento ai tutsi del Front Patriotique Rwandais e ai suoi sostenitori, ribadiva che “la crudeltà degli inyenzi può essere curata solo dal loro totale sterminio”. Aveva descritto come traditori, gli Hutu disposti a collaborare con i tutsi definendoli come “nemici della nazione che dovrebbero essere eliminati in un modo o nell’altro dalla scena pubblica”.

Sui documenti dell’International Residual Mechanism for Criminal Tribunals (IRMCT), si può leggere ancora oggi una lunga lista tra responsabili e incitatori del genocidio in Ruanda, privi di una sentenza.

Il fallimento politico e morale della comunità internazionale in Ruanda è innegabile, compresa la disastrosa Opération Turquoise, lanciata nel 1994 dalla Francia, sotto il mandato delle Nazioni Unite. Innegabile è stato anche il silenzio del continente africano.

La Missione di assistenza delle Nazioni Unite per il Ruanda (UNAMIR) valutò erroneamente la gravità degli avvenimenti. E se da un lato il comandante della missione, il generale canadese Roméo Dallaire, sbagliò completamente strategia, dall’altro alla guida delle Nazioni Unite figuravano due africani: l’egiziano Boutros Boutros-Ghali, segretario generale, e il ghanese Kofi Annan, sottosegretario generale e responsabile delle operazioni di pacificazione. Entrambi poi accusati d’inazione, in riferimento al genocidio.

Solo Nelson Mandela, durante il vertice annuale dell’Organizzazione dell’Unità Africana nel 1994, urlò al mondo africano di mettere in atto “azioni concrete per porre fine al genocidio”. Non si fece attendere la risposta sconcertante di François Mitterrand “Mandela o no, non permetteremo che gli anglosassoni ficchino il naso nei nostri affari”. E così il genocidio ebbe il via libera.

Una mappa della diaspora genocida mostra che ancora oggi, gli imputati sono saldi in tutto il continente, dal Sud Africa al Kenya, dallo Zimbabwe alla Repubblica Democratica del Congo. Ne è un esempio Félicien Kabuga, finanziatore del genocidio, catturato solo nel 2020 in Francia, dopo una lunga latitanza tra Repubblica Democratica del Congo e Kenya, e nemmeno mai condannato a causa di una malattia degenerativa neurologica.

Le ex colonie francesi sono state, per ovvi motivi politici, la prima scelta per i sicari in fuga. Particolarmente benvenuti in Gabon o in Camerun. Come il colonnello Théoneste Bagosora, considerato la mente del genocidio, condannato poi nel 2008.

Il tema centrale delle campagne di informazione condotte da chi aveva stretti legami con il regime genocida, era quello del popolo maggioritario e della legittimità all’autodifesa contro un sistema feudale. Il riferimento normalizzava il massacro perpetrato dalla maggioranza, che diventava espressione di rabbia democratica. “Se gli hutu, che rappresentano il 90% nel nostro Paese, riescono ad essere sconfitti da una combriccola del 10%, i tutsi, significa che non abbiamo dimostrato tutta la nostra forza”, erano le parole del leader del MRND, Joseph Nzirorera, che riecheggiavano su RTLM.

Il tocco finale è stato affidato alla rivista Kangura, diretta da Hassan Ngeze, condannato poi dal Tribunale Penale Internazionale per il Rwanda (ICTR) nel 2003, con riduzione della pena nel 2007. Il giornale divenne presto famoso per la pubblicazione di quelli che venivano follemente definiti i “Dieci Comandamenti” [Hutu Ten Commandments, Kangura, No 6, 1990], base dell’ideologia di supremazia hutu, e per aver rilanciato il Manifesto Bahutu del 1957, documento considerato l’anima dell’emancipazione hutu.

Federica Iezzi
federicaiezzi@hotmail.it
Twitter @federicaiezzi
©️ RIPRODUZIONE RISERVATA

Vuoi contattare Africa ExPress? Manda un messaggio WhatsApp con il tuo nome e la tua regione (o Paese) di residenza al numero +39 345 211 73 43 e ti richiameremo. Specifica se vuoi essere iscritto alla Mailing List di Africa Express per ricevere gratuitamente via whatsapp le news del nostro quotidiano online.

“Io, bianco accusato di genocidio in Ruanda vi racconto quella follia”

La carneficina dei tutsi del 1994: la macabra storia di padre Seromba

Ruanda, ergastolo a padre Seromba rinchiuse i fedeli tutsi in chiesa poi diede ordine di abbatterla

Costa d’Avorio: Coppa d’Africa, il grande party del calcio africano

Dal Nostro Corrispondente Sportivo
Costantino Muscau
11 gennaio 2024

L’Africa chiama a raccolta e mette in mostra i suoi gioielli calcistici sparsi per il mondo. Non è stato facile mettere assieme 628 giocatori, buona parte dei quali accasati in diversi angoli del pianeta.

Alassane Ouattara Stadium, Abidjan, Costa d’Avorio

L’occasione per lo show (inter) continentale è la 34a edizione della Coppa delle Nazioni Africane 2023 (Afcon) che prende il via sabato 13 gennaio. Palcoscenico d’apertura sarà l’Alassane Ouattara Stadium, di Abidijan, nella Costa d’Avorio, Paese che  organizza il torneo per la seconda volta in 39 anni. “È la festa dell’Africa per un mese, il più grande evento del Continente”, ha commentato Didier Drogba, 45 anni, “icona del calcio ivoriano e globale – secondo CAFOnline che lo ha intervistato – per aver contribuito immensamente alla ricca storia del calcio africano”.

Un grande party cui prendono parte (ci si perdoni il gioco di parole) tra il 13 gennaio e l’11 febbraio, 24 nazioni alla “caccia” del trofeo più prestigioso nel continente nero.

Aprono le danze, sabato sera, i padroni di casa contro la Guinea-Bissau, (Elefanti contro Licaoni). Domenica pomeriggio sarà la volta dell’altra Guinea (quella equatoriale), soprannominata Nzalanga Nacional (flash nazionale) o Elefanti, che sfiderà la Nigeria (“Super aquile”) sempre ad Abidjan.

Ancora domenica, ma di sera, toccherà ai Faraoni egiziani, vincitori ben sette volte del torneo, tentare di domare i Mambas del Mozambico nell’impianto Felix Houphuet-Boigny. I detentori del titolo, i senegalesi, noti come Leoni del Teranga, invece, vedranno di non farsi pungere dagli Scorpioni del Gambia nel pomeriggio di lunedì 15 gennaio nella città di Yamoussoukro, capitale amministrativa, a 230 km a nord di Abidjan, capitale economica.

La nazionale del Gambia ha cominciato in modo drammatico la sua partecipazione al campionato. Gli Scorpioni se la sono vista proprio brutta. Nove minuti dopo il decollo dalla capitale Banjul, il charter che li trasportava a Yamoussoukro si è depressurizzato. Il pilota ha fatto immediatamente ritorno nella capitale gambiana. Per un atterraggio di emergenza. Alcuni giocatori hanno avuto crisi respiratorie e forti emicranie, dovute alla mancanza di ossigeno. “Saremmo potuti morire tutti”, ha commentato il commissario tecnico belga Tom Saintfiet, 50 anni, “Siamo svenuti tutti rapidamente, nell’incoscienza ho avuto dei flash della mia vita”, ha aggiunto infine.

Già in questi incontri si esibiranno molte perle del football, dal nigeriano del Napoli, Victor Osimhen, 25 anni, premiato come il miglior player africano dell’anno (valore di mercato 110 milioni), al senegalese Sadio Mane’, 31 anni e 35/40 milioni di valore, giudicato il più bravo della scorsa edizione, alla superstar egiziana Mohamed Salah, 31 anni, (65 milioni), all’ivoriano Ousmane Diomande, 20 anni e già valutato 40 milioni.

“Dovrebbe essere la competizione più bella per tutti gli africani – per citare ancora l’ex attaccante del Chelsea, Drogb -. Sono stato ispirato da Roger Milla, Gadji Celi, Youssouf Fofana e molti altri. Le nostre leggende si sono rivelate in questo torneo. Per noi è la celebrazione del calcio africano. L’unità di un continente per vedere i nostri campioni”.

In realtà ha del miracoloso riuscire a riunire centinaia di atleti sparpagliati tra Europa, Asia, Australia, USA, superando ostacoli di vario genere.

Inizialmente, la fase conclusiva della Coppa d’Africa era programmata tra il 23 giugno e il 23 luglio 2023. A causa però delle forti piogge che caratterizzano il Paese ospitante, si è deciso per il posticipo invernale. Meno piogge, si spera (perché con il Nino quest’anno in Africa il tempo non è più quello di una volta), ma maggiori complicazioni con i principali tornei europei.

La maggioranza dei calciatori africani, infatti, gioca… fuori casa, soprattutto in Europa. Per rendere bene l’idea, Africa Express ha fatto alcuni calcoli, senza l’aiuto della tanto chiacchierata Intelligenza Artificiale, che si è rivelata assolutamente impreparata, imprecisa, non solo inutile ma anche fuorviante. Si vede che gli addestratori degli algoritmi non prendono in giusta considerazione il grande evento africano…

La CAF ha rilasciato il 6 gennaio l’elenco ufficiale delle 24 nazionali che prendono parte alla competizione.
Secondo i nuovi regolamenti, ogni partecipante è autorizzata a presentare una squadra con un massimo di 27 giocatori ma con 23 disponibili per ogni partita durante il torneo. In tutto 628 calciatori. Quindici nazionali hanno presentato un elenco di 27 atleti, quattro squadre con 26, due con 25, tre con 23. E qui spuntano le sorprese. Dei 628 in lista ufficiale, ben 486 sono lontani dalle loro sedi di origine. Una vera diaspora.

Il Burkina Faso tra i 27 nomi non ne ha uno che giochi in patria: 5 sono in Francia, 3 nel Regno Unito, 2 in Spagna e Marocco, 1 in Danimarca, Serbia, Moldavia, Germania, Belgio, Grecia, Olanda, Cipro, Tanzania, Congo, Armenia, Egitto, Russia e….Italia. Si tratta del difensore del Modena Calcio (serie B) Abdul Guiebre, 26 anni.

Ma il Burkina non è solo: anche la Guinea Bissau e la Guinea Equatoriale dei loro 27 e 23 giocatori non se ne rintraccia uno che sia impegnato in quel di Bissau e di Malabo (le rispettive capitali, per chi se lo fosse scordato). Ben 10 degli equatoguineiani si guadagnano la pagnotta in Spagna, 2 in Romania e Polonia, 1 in Sudafrica, Tunisia, Regno Unito, Repubblica Ceca, Grecia, Portogallo, Stati Uniti, Andorra (!) e a Monza. In Brianza, infatti, è sbarcato il centrocampista Jose’ Machin Di Combo, detto Pepin, 27 anni, nato a Bata, sulla costa atlantica.

Per non dire dei campioni in carica del Senegal: tutti emigrati,10 in Francia, 7 in UK, 4 in Arabia Saudita, 2 in Spagna, 1 in Qatar, Scozia, Israele e Italia. Nella Salernitana, gioca, infatti, Boulaye Dia, 27 anni, attaccante. Per la verità, Dia è nato in Francia, ma è senegalese per scelta. In compenso brillano per ”nazionalismo” l’Angola, il Sudafrica, l’Egitto.

La nazionale di Luanda ha solo due espatriati fra i 27, uno in Francia, l’altro a Cagliari: è Zito Andre Sebastiao Lubumbashi, attaccante di 21 anni. I Faraoni su 27 in 19 hanno preferito restare all’ombra delle Piramidi. Il Sudafrica batte tutti per fedeltà alla propria terra: 23 su 26 non hanno varcato l’Equatore.

La maggioranza delle altre nazionali, però, ha solo un calciatore che non si sia mosso dal patrio lido.

Ultima curiosità: quale è il Paese che ha accolto il maggior numero dei 486 transfughi? La Francia, con 78 giocatori. E questo non sorprende. Ma fra le mete appetibili e appetitose, oltre ai prevedibili Regno Unito, Germania, Spagna e Italia (da noi sono 19 gli atleti africani convocati per la Costa d’Avorio) non poteva mancare l’Arabia Saudita, nuova calamita con 23 pedatori. Ma, come detto, non c’è parte del mondo dove non calci e scalci un “immigrato” del pallone: dal Brasile, alla Russia, all’Australia, all’Ucraina, a Cipro, Serbia, Romania, Bulgaria, Israele, Malta, Finlandia… È “fattuale”: il calcio africano è sempre più planetario.

Costantino Muscau
muskost@gmail.com
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Vuoi contattare Africa ExPress? Manda un messaggio WhatsApp con il tuo nome e la tua regione (o Paese) di residenza al numero +39 345 211 73 43 e ti richiameremo. Specifica se vuoi essere iscritto alla Mailing List di Africa Express per ricevere gratuitamente via whatsapp le news del nostro quotidiano online.

Costa d’Avorio: un calcio ai poveri delle catapecchie con l’inizio della Coppa d’Africa

Coppa di calcio in Camerun: il Senegal sul tetto dell’Africa calcistica

Con la Superlega il calcio africano cerca la sua indipendenza nello sport

Giurisdizione universale per crimini contro l’umanità: processo in Svizzera contro un ex ministro gambiano

0

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
10 gennaio 2024

Il Pubblico ministero della Confederazione Elvetica ha accusato l’ex ministro dell’Interno del Gambia, Ousman Sonko, di crimini contro l’umanità.

Ousman Sonko, ex ministro degli Interni gambiano

Il processo è cominciato lunedì scorso presso il Tribunale Penale Federale di Bellinzona. Ousman Sonko, nel 2016 era caduto in disgrazia e quindi destituito dall’ex dittatore Yahya Jammeh, al potere dall’ottobre del 1996 a gennaio 2017, e ora è in esilio in Guinea Equatoriale.

Di per sé il caso Sonko non ha alcun legame diretto con la Svizzera. Tuttavia, la Confederazione, secondo il principio del diritto internazionale, può sempre perseguire crimini contro l’umanità, a condizione che l’autore del reato si trovi sul territorio nazionale e non venga estradato. In questo caso, il Gambia non ha presentato una richiesta di estradizione. Tuttavia, gli investigatori svizzeri sono stati autorizzati a recarsi in Gambia per raccogliere prove in loco.

Secondo Vony Rambolamanana della ONG Trial International con sede a Ginevra, si tratta di un processo storico, giacché mai prima d’ora in Europa un funzionario governativo di così alto livello era stato processato sulla base del principio della giurisdizione universale.

E, sempre in base al diritto internazionale, a fine novembre è stato processato in Germania un ex soldato gambiano per il suo coinvolgimento in atrocità commesse durante il regime di Jammeh. Un tribunale di Celle (Bassa Sassonia) lo ha condannato all’ergastolo .

Sonko è apparso in Svizzera alla fine del 2016 con passaporto diplomatico, dopo aver tentato invano di essere accolto in Svezia, che lo ha poi deportato in Spagna. E il regno ispanico, a sua volta, gli ha negato il permesso di soggiorno.

Tribunale Penale Federale, Bellinzona, Svizzera

Una volta giunto a Berna, Sonko ha inoltrato richiesta di asilo e da prassi è stato portato a Lyss (Canton Berna), in un centro per rifugiati. Poco dopo il suo arrivo, i TG locali  hanno parlato della presenza di un ex ministro del Gambia in Svizzera. La ONG Trial International, ha subito sporto denuncia contro Sonko. La Confederazione Elvetica ha poi aperto un’inchiesta nei suoi confronti e così l’ex ministro e ex alleato di Jammeh, da richiedente asilo è diventato imputato. Da quasi sette anni si trova dietro le sbarre in custodia cautelare.

Le vittime di Sanko chiedono giustizia

Secondo l’accusa, Sonko avrebbe imprigionato, torturato e persino ucciso illegalmente chi osava criticare il regime, per intimidire l’opposizione e prevenire tentativi di golpe. L’imputato non solo sarebbe stato responsabile di questi atti in qualità di capo politico e militare, ma avrebbe anche partecipato in prima persona ad alcuni omicidi. Ad esempio, avrebbe sparato a un uomo insieme ai soldati sotto il suo comando, perché sospettato di pianificare un colpo di Stato. Avrebbe poi violentato ripetutamente la vedova per un periodo di quasi due anni. Sonko nega ovviamente tutte le accuse. Anzi, ora si considera lui stesso una vittima di torture, perché nei centri di detenzione di Berna sarebbe stato  trattato in modo disumano.

Il dibattimento in aula durerà almeno tre settimane e potrebbe finalmente dare una spinta alla giustizia del Gambia, dove nessun crimine, commesso sotto il regime dittatoriale di Yahya Jammeh, è mai stato processato in tribunale.

Cornelia I. Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
@cotoelgyes
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Vuoi contattare Africa ExPress? Manda un messaggio WhatsApp con il tuo nome e la tua regione (o Paese) di residenza al numero +39 345 211 73 43 e ti richiameremo. Specifica se vuoi essere iscritto alla Mailing List di Africa Express per ricevere gratuitamente via whatsapp le news del nostro quotidiano online

Chiede asilo in Svizzera ex ministro gambiano, accusato di violazione dei diritti umani

Disoccupazione e povertà: la difficile transizione del Gambia dalla tirannide alla democrazia

 

Sudafrica, cade accusa di truffa per il presidente dell’associazione Zonderwater degli ex POW italiani

Speciale per Africa ExPress
Sandro Pintus
10 gennaio 2024

La disputa tra il Consolato d’Italia di Johannesburg e l’associazione Zonderwater Block ex Pow, finita in tribunale, va a favore dell’associazione.

Cimitero militare italiano di Zonderwater, Sudafrica
Cimitero militare italiano di Zonderwater, Sudafrica

La sentenza

Il Tribunale penale di Roma ha scagionato Emilio Coccia, presidente della Zonderwater Block, dalle accuse di truffa perché il fatto non costituisce reato. Accuse mosse, nel gennaio 2022, dalla Console generale, Emanuela Curnis, riguardo alle gestione del Cimitero militare italiano.

Nella sentenza si legge che a WT Memorials di Emilio Coccia, “…non è mai stata affidata la gestione sia del minuto mantenimento che della straordinaria manutenzione […] firmava esclusivamente i contratti per l’esecuzione dei lavori. Lavori di minuto mantenimento eseguiti al 100 per cento in territorio sudafricano.

Conclude che “…sarebbe del tutto improbabile che cinque Consoli generali, dal 2000 al 2019, abbiano eseguito liquidazioni […] errate o inesatte”.

La disputa

Tutto nasce con la petizione “Rivogliamo il ruolo di custodi morali di Zonderwater”, postata l’8 dicembre 2021, firmata da oltre 1.300 utenti.

Cimitero Zonderwater da satellite
Foto satellitare del Sacrario militare italiano di Zonderwater, Sudafrica (Courtesy GoogleMaps)

L’Associazione Zonderwater Block ex Pow accusava la nuova Console generale: “…siamo stati estromessi da qualsiasi attività riguardante il cimitero” – scrivono nella petizione. E chiede di rimanere custode morale del Sacrario di Zonderwater, dove riposano 277 salme di ex prigionieri di guerra italiani.

La Console generale, nel gennaio 2022, aveva rilasciato un’intervista ad Africa ExPress (leggi qui). “…è bene chiarire sin dall’inizio che l’Associazione non è mai stata estromessa. E riguardo alla WT Memorials: “È emerso che la ditta è completamente sconosciuta (incluso ai membri del comitato direttivo dell’Associazione Zonderwater Block)”, ci aveva detto la Console.

“Non è una ditta, non è registrata, non ha dipendenti e, soprattutto, non ha fatto o ha eseguito male quanto asserisce di aver effettuato presso il Cimitero. Ha dichiarato di non essere in grado di fornire fatture per beni acquistati e servizi resi – aveva affermato -. “È attualmente in corso un’indagine della Magistratura italiana, dal momento che WT Memorials riceveva fondi pubblici italiani”.

Sacrario di Zonderwater
Sacrario di Zonderwater, Sudafrica

 Cosa è il Sacrario

Il Sacrario di Zonderwater nasce nel 1947, a una quarantina di chilometri da Pretoria, dopo la chiusura del campo di concentramento dove erano presenti 2.000 prigionieri di guerra italiani. Il campo, dal 1941 al 1947, ha visto circa 100.000 prigionieri. In 828 ex POW hanno chiesto, e ottenuto, la cittadinanza sudafricana. I loro eredi si occupano oggi del Sacrario.

Su un’area di 18.000 mq, di cui 11.000 tra mura, c’è il Cimitero, la biblioteca con 10 mila volumi e un piccolo museo. Un importante luogo di rimembranza per l’Italia e per i familiari dei prigionieri di guerra (POW), soldati italiani catturati nella Seconda guerra mondiale.

Sandro Pintus
sandro.p@catpress.com

X (ex Twitter):
@sand_pin
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Vuoi contattare Africa ExPress? Manda un messaggio WhatsApp con il tuo nome e la tua regione (o Paese) di residenza al numero +39 345 211 73 43 e ti richiameremo. Specifica se vuoi essere iscritto alla Mailing List di Africa Express per ricevere gratuitamente via whatsapp le news del nostro quotidiano online.

Eredi dei prigionieri di guerra in Sudafrica: “Ridateci il sacrario di Zonderwater”

Il Consolato di Johannesburg sul Sacrario Zonderwater: “Mai estromessi gli ex Pow”

Accusa di genocidio: il Sudafrica trascina Israele davanti alla Corte di Giustizia dell’Aja

Speciale per Africa ExPress
Luciano Bertozzi
Gennaio 2024

Il Sudafrica ha denunciato Israele alla Corte Internazionale di Giustizia (CIG) con sede all’Aia. Lo ha annunciato sul suo account X il portavoce del ministero degli Affari Internazionali e della Cooperazione, Clayson Monyela.

Corte Internazionale di Giustizia, Aja

Il tribunale esercita una funzione giurisdizionale riguardo all’applicazione e l’interpretazione del diritto internazionale.

L’accusa di Pretoria, esposta in un corposo fascicolo di 84 pagine, è basata sul fatto che Tel Aviv avrebbe violato la Convenzione contro il genocidio del 1948 e ratificata anche da Israele. Nel documento, oltre ai bombardamenti ed alle uccisioni mirate, il Sudafrica fa riferimento anche alla scelta deliberata del governo israeliano, di infliggere condizioni di vita volte a distruggere una parte sostanziale del gruppo nazionale etnico palestinese. La denuncia elenca in dettaglio le violazioni commesse dallo Stato ebraico, che dal 7 ottobre ha ucciso oltre ventimila persone, il 70 per cento donne e bambini, ha causato l’evacuazione forzata di gran parte della popolazione civile di Gaza, e ridotto alla fame e alla sete la popolazione assediata.

Il Sudafrica ha invitato la Corte di Giustizia di valutare le accuse e fare in modo di evitare ulteriori atti di genocidio. Ha chiesto inoltre che venga messo in atto un provvedimento urgente per porre fine ai bombardamenti e a tutte le operazioni militari israeliane.

Gaza distrutta dai bombardamenti

La Corte in via di urgenza, può emettere una decisione provvisoria volte a sospendere le violazioni fino alla conclusione del procedimento legale. La prima e la seconda udienza sono previste giovedì 11 e venerdì 12 gennaio , come spiega il sito della Corte.

Va fatto presente, tuttavia, che un’eventuale condanna difficilmente potrà avere conseguenze concrete, in quanto la CIG non ha a disposizione organi che possano attuarne le sentenze. Ad esempio, nei confronti della Russia, l’ordine della Corte di porre fine al conflitto scatenato da Mosca in Ucraina, non ha interrotto la guerra. L’ipotetica condanna di Tel Aviv potrebbe avere, invece, importanti conseguenze mediatiche sull’opinione pubblica occidentale con conseguente impulso a una campagne di boicottaggio.

Ricordiamo che scopo della Corte è quello di definire sulla base del diritto internazionale le controversie e dare pareri su questioni sottoposte da organismi delle Nazioni Unite e da agenzie indipendenti.

La risposta di Tel Aviv? “Israele rifiuta con disgusto la diffamazione del sangue” così il portavoce del ministero degli Esteri, Lior Haiat, ha ribaltato le accuse, affermando, invece, che è Hamas il responsabile delle sofferenze dei palestinesi a Gaza, usandoli come scudi umani e rubando loro gli aiuti umanitari.

Israele si difenderà davanti alla Corte, ciò rappresenta una novità, visto che nel 2004 nell’esaminare la questione della barriera di sicurezza in Cisgiordania, Tel Aviv si è rifiutata di riferire alla CIG, in quanto non ne riconosceva la giurisdizione e presumendo che essa si sarebbe pronunciata a favore dei palestinesi.

La Corte aveva definito illegale la costruzione del muro, ma tale decisione è rimasta lettera morta. Il Tribunale Penale Internazionale (TPI), ha maggiore autorità. Visto che sta indagando sulla situazione in Palestina, in quanto può chiedere agli Stati membri, praticamente tutti quelli europei, di arrestare qualsiasi israeliano considerato responsabile di crimini. In tale ipotesi i Paesi occidentali non potrebbero rifiutarsi di adempiere all’arresto.

Preoccupano le dichiarazioni del ministro della Sicurezza Nazionale, Itamar Ben-Gvir, secondo cui bisogna “incoraggiare l’emigrazione di massa da Gaza, che consentirà agli israeliani residenti al confine, di tornare a vivere in sicurezza”. Anche il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich si è espresso in tal senso senso. Le dichiarazioni dei due ministri israeliani sono state condannate dagli Stati Uniti e dall’Alto rappresentante UE per gli Affari esteri, Josep Borrell. Per il momento si parla di contatti in corso per deportare i palestinesi in altri Paesi.

Mentre Israele annuncia la volontà di combattere il terrorismo e non la popolazione civile, un rapporto del 28 dicembre delle Nazioni Unite (ONU) relativo al periodo 7 ottobre al 20 novembre, descrive una situazione diversa, anche al di fuori dalla  Gaza: il rapido deterioramento della situazione dei diritti umani nella Cisgiordania occupata, compresa Gerusalemme Est, dopo il 7 ottobre 2023, e invita Israele a porre fine alle uccisioni illegali e alla violenza dei coloni contro la popolazione palestinese.

Il Documento descrive un forte aumento degli attacchi aerei, nonché delle incursioni di mezzi corazzati e bulldozer inviati nei campi profughi e in altre aree densamente popolate della Cisgiordania, provocando morti e feriti. e danni estesi a beni e infrastrutture civili. Queste incursioni, che continuano ad avere luogo, hanno provocato la morte di almeno 105 palestinesi, tra cui 23 bambini, dal 7 ottobre ad oggi (al 20.11.23 data presa a riferimento dall’ONU).

Nel rapporto Pretoria chiede la fine immediata dell’uso di armi e mezzi militari durante le operazioni di applicazione della legge, la fine della detenzione arbitraria e dei maltrattamenti dei palestinesi e la revoca delle restrizioni discriminatorie ai movimenti. L’Ufficio delle Nazioni Unite per i diritti umani ha verificato la morte di 300 palestinesi dal 7 ottobre al 27 dicembre 2023 – tra cui 79 bambini – nella Cisgiordania occupata, inclusa Gerusalemme Est.

A questa denuncia va aggiunta anche quella di Human Right Watch che ha accusato Israele di utilizzare “la fame dei civili come strumento di guerra nella Striscia di Gaza”.

Rimane il problema di come garantire un futuro ai palestinesi, il cui territorio è ridotto ad un cumulo di macerie, in un conflitto che le autorità israeliane hanno affermato che durerà ancora molti mesi.

La Turchia ha accolto con favore la richiesta del Sudafrica di portare Israele davanti alla CIG. All’iniziativa sudafricana si sono aggiunte oltre ad Ankara anche la Maleisia e la Bolivia

Luciano Bertozzi
luciano.bertozzi@tiscali.it
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Vuoi contattare Africa ExPress? Manda un messaggio WhatsApp con il tuo nome e la tua regione (o Paese) di residenza al numero +39 345 211 73 43 e ti richiameremo. Specifica se vuoi essere iscritto alla Mailing List di Africa Express per ricevere gratuitamente via whatsapp le news del nostro quotidiano online.

Il Sudafrica alla Corte Penale Internazionale: “Arrestate Netanyahu per crimini contro l’umanità”

 

 

Costa d’Avorio: un calcio ai poveri delle catapecchie con l’inizio della Coppa d’Africa

  1. Africa ExPress
    Abidjan, 7 gennaio 2024

Abidjan, la capitale della Costa d’Avorio è già in festa per la 34esima Coppa della Nazioni Africane (CAN). Apriranno le danze la nazionale ivoriana contro quella della Guinea Bissau, sabato prossimo, 13 gennaio.

Felix Houphouet-Boigny stadio

Ma non tutta la popolazione di Abidjan condivide la gioia di ospitare la grande kermesse calcistica. Ieri, 28mila abitanti di Boribana, una bidonville tra la laguna di Ebrié e l’imponente “Quatrième Pont”, che sarà ufficialmente aperto alla circolazione nei prossimi giorni, hanno protestato durante una conferenza stampa: non vogliono lasciare le proprie catapecchie fatte con tetti di latta e muri precari. Nelle intenzioni del governo, devono essere distrutte. Senza un risarcimento non intendono andarsene. Il quartiere esiste da oltre 60 anni e gran parte dei suoi abitanti è nato e cresciuto lì.

Costa d’Avorio, Abidjan: Quarto Ponte

La capitale è stata tirata a lucido e a fine novembre, il ministro dell’Acqua, dei Servizi igienici e dell’Igiene pubblica, Bouaké Foufana, aveva annunciato che tutti suoli comunci dovevano essere sgomberati. “Abbiamo inviato avvisi formali, affinché la popolazione che si è installata su terreni pubblici, lasci spontaneamente le aree, in modo organizzato. Vorremmo evitare l’intervento delle forze dell’ordine”, ha spiegato il ministro che ha aggiunto infine: “La popolazione è chiamata a fare la sua parte affinché questa kermesse sia  la più bella di tutti tempi”.

Abidjan: quartiere di Boribana

Secondo le autorità, i residenti di Boribana, occuperebbero illegalmente spazi di proprietà pubblica. L’annuncio del ministro-governatore, Cissé Bacongo, che il quartiere sarebbe stato demolito entro le prossime 72 ore, ha suscitato preoccupazione e desolazione.

Una padre di famiglia 51enne ha raccontato ai giornalisti di RFI: “Se vuoi trasferire un animale, devi prima trovargli un nuovo recinto. Noi siamo esseri umani, dove andremo? Siamo nati e cresciuti qui, nessuno di noi ha deciso di nascere povero. Non ci muoveremo dalle nostre case, se vogliono seppellirci, che lo facciano qui”.

Per la costruzione del nuovo ponte sono già stati rasi al suolo sei ettari dei ventuno che compongono il quartiere. Pur essendo consapevoli che la zona dovrà subire ulteriori cambiamenti nell’ambito del progetto governativo di riqualificazione delle borgate precarie, i residenti hanno spiegato che le loro catapecchie sono ancora in fase di rilevamento e di censimento per dare un equo risarcimento ai proprietari.

“Ed ora, per colpa della competizione, vogliono mandarci via. La Costa d’Avorio sta organizzando la Coppa d’Africa per portare gioia alla gente, non per distribuire lutto e tristezza. Chiediamo con forza al governo di riconsiderare la propria posizione”, hanno precisato alcuni abitanti della favela.

Africa ExPress
X: @africexp
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Vuoi contattare Africa ExPress? Manda un messaggio WhatsApp con il tuo nome e la tua regione (o Paese) di residenza al numero +39 345 211 73 43 e ti richiameremo. Specifica se vuoi essere iscritto alla Mailing List di Africa Express per ricevere gratuitamente via whatsapp le news del nostro quotidiano online.

E mentre in Europa si festeggia il Natale, in Niger i migranti sono abbandonati a sé stessi

Mauro Armanino*
Niamey, Natale 2023

Mentre l’Europa è sempre più orientata a controllare, limitare, punire e organizzare le migrazioni qui, dall’altra parte del mondo chiamato creativamente Sahel, ci sono altre realtà con le quali fare i conti.

Niamey, capitale del Niger

C’è, per esempio, Emanuel, liberiano di nascita, che spesso passava a salutare, chiedere consigli e soprattutto aiuti. Non si vedeva da tempo perché imprigionato per un anno per una storia inverosimile. E’ stato rilasciato l’altro giorno per grazia ricevuta, per decongestionare il carcere civile di Niamey, la cui popolazione è cresciuta in modo insostenibile in questi ultimi anni.

Emanuel è sopravvissuto solo per via dei miracoli che si moltiplicano senza darlo a vedere da questa parte del mondo, poco strutturato per tali sventure. Ha dovuto pagare il “re” della cella per un posto letto di alcune decine di centimetri quadrati. Lavarsi era un’avventura occasionale.

Una delle prigioni di Niamey

Mentre in Europa si compra il Natale, spesso rinnegandolo nei fatti, ritorna alla ribalta dopo qualche mese Camara, originario della Costa d’Avorio. Espulso dal Marocco, dall’Algeria e poi gettato nel deserto, era sbarcato con l’intenzione di trovare se stesso tra i meandri della vita. Si trovava tra coloro che erano stati ripescati nel mare dalla guardia costiera marocchina. Aveva visto l’altra riva da lontano e da allora non l’ha più dimenticata. Dice che, una volta tornato al suo Paese, preparerà i documenti personali e di viaggio per partire regolarmente dall’altra parte. Cerca qualcosa con cui coprirsi dal fresco delle notti,  che passa nei pressi degli uffici dell’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni (OIM). Dice che non mangia da un paio di giorni e che, per imbrogliare lo stomaco, beve acqua a non finire. Attende un regalo per Natale.

Gli uffici di OIM a Niamey, Niger

Mentre in Europa ci si interroga su identità di genere e dove, in generale, il matrimonio è in cerca d’autore, passano a salutarci Celestine e Boa. Si sposeranno a fine mese in cattedrale a Niamey. Lei togolese e lui liberiano, con un figlio adottato nell’attesa di altri, che forse arriveranno da migranti come tutti, su questa terra che è diventata un esilio per troppe persone.

I due giovani si sono conosciuti in questo Paese, entrambi stranieri qui. Il Niger,  dopo essere stato per qualche giorno sulle prime pagine dei giornali e nei titoli di testa dei notiziari, è  tornato velocemente nella sabbia da dove viene. Non sarà certo il loro matrimonio a cambiare le sorti del colpo di Stato militare, che, fino ad oggi tiene in galera il presidente eletto dubbiosamente nel 2021.

Non ci sarà nessun viaggio di nozze visto che le frontiere sono ancor chiuse. Il riso degli sposi sarà messo da parte per la cucina.

Mentre in Europa si è smarrito il sentiero della vita e si è adottato l’effimero come unico orizzonte, arriva, trafelato, l’amico Khalifa, libico di origine. E’ scappato dal suo Paese per persecuzione religiosa, dopo aver scelto di diventare cristiano. Incarcerato, picchiato e minacciato di morte, è scappato in Algeria e da lì, è stato espulso come di prammatica dai militari. Infine è arrivato fortunosamente a Niamey e si è presenta all’ufficio dell’Alto Commissariato per i Rifugiati (UNHCR). Accolto dai funzionari riceve in cambio un foglio plastificato col nome, la data di arrivo , un numero di riconoscimento e poi più nulla. Non si allontana dall’ufficio che centralizza i servizi. Stanco di non mangiare e dormire, ha poi accettato di alloggiare nella casa degli amici del Togo. E’ passato a salutarci, perché pure lui non mangia da alcuni giorni e teme di dover rientrare nel suo Paese. L’essenziale per lui è il cibo e una croce al collo.

Mentre in Europa si fanno le guerre per procura, si investono sempre più soldi nella fabbricazione, l’acquisto e la vendita di armi. Nella tacita ipocrisia accettata e riprodotta da buona parte dei media compiacenti, ci si presenta al mondo come paladini del diritto e della pace. Nessuno ci crede più, perché promesse di giustizia, equità, solidarietà e bene comune sono state da tempo abbandonate o buttate al macero.

Qui si soffre per le conseguenze delle armi, guerre e geopolitiche in subappalto. Milioni di persone col diritto di vivere si trovano nella categoria degli sfollati, rifugiati, abbandonati, dimenticati e liquidati sull’altare di interessi politici, religiosi e soprattutto economici. Il Dio, preso come ostaggio da una parte o dall’altra dei poteri, sta coi bambini della Sierra Leone che qui non hanno neppure una mangiatoia.

Mauro Armanino

Vuoi contattare Africa ExPress? Manda un messaggio WhatsApp con il tuo nome e la tua regione (o Paese) di residenza al numero +39 345 211 73 43 e ti richiameremo. Specifica se vuoi essere iscritto alla Mailing List di Africa Express per ricevere gratuitamente via whatsapp le news del nostro quotidiano online.

 

*Mauro Armanino è un missionario
italiano impegnato a Niamey.
Collabora spesso con Africa ExPress

Il mio straniero è il mio dio: parola di un nigerino non pentito

Il capo degli ex janjaweed sudanesi in tour in Africa, primi segnali per porre fine alla guerra

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
5 gennaio 2024

Il capo delle Rapid Support Forces (RSF), Mohamed Hamdan Dagalo, meglio noto come Hemetti, è in tour in Africa alla ricerca di supporto e legittimazione politica. E, secondo alcuni analisti, sembra che Hemetti abbia ambizioni di voler governare il Sudan. Fino a qualche tempo fa Dagalo aveva tenuto un profilo basso, tant’è vero che circolavano voci che fosse morto o gravemente ferito durante i combattimenti che infiammano il Sudan dal 15 aprile 2023.

Il presidente sudafricano, Cyril Ramaphosa, a destra con Hemetti, leader delle RFS a Pretoria

La guerra dei due generali sudanesi, appunto Hemetti (un ex capo dei famigerati janjaweed, uomini a cavallo che ammazzavano gli uomini, stupravano le donne e rapivano i bambini), da un lato, e Abdel Fattah Abdelrahman al-Burhan, presidente del Consiglio Sovrano e di fatto capo dello Stato, dall’altro, continua senza sosta. E secondo gli ultimi dati rilasciati da OCHA (Ufficio della Nazioni Unite per gli Affari Umanitari), sono ormai 7,3 milioni i sudanesi che hanno lasciato le loro case dall’inizio della guerra. I morti sono ben oltre 12mila.

Poche ore fa il sottosegretario generale per gli Affari Umanitari delle Nazioni Unite, Martin Griffiths, ha lanciato un nuovo allarme. La portavoce dell’ONU, Stéphanie Tremblay, ha spiegato che quest’anno oltre 25 milioni di persone avranno bisogno di aiuto. Ha poi precisato che molti convogli non possono raggiungere i bisognosi proprio a causa dell’escalation del conflitto.

Sudanesi in fuga dalla guerra

Durante le sue visite in alcuni Paesi africani, Dagalo ha incontrato ieri a Pretoria il presidente sudafricano, Cyril Ramaphosa. Alla fine dei colloqui il generale dei paramilitari sudanesi ha dichiarato di impegnarsi per raggiungere un cessate il fuoco. Purtroppo anche questa volta Hemetti non ha fatto menzione se o quando incontrerà al-Burhan capo dell’esercito suo nemico giurato. Eppure IGAD (Autorità intergovernativa per lo sviluppo, un’organizzazione internazionale politico-commerciale formata dai Paesi del Corno d’Africa), aveva annunciato a fine dicembre che entrambe le parti in causa avevano accettato di incontrarsi per avviare trattative per fermare il sanguinario conflitto.

Mercoledì scorso anche il presidente del Kenya, William Ruto, ha ricevuto il capo dei ribelli a Nairobi. Dagalo ha espresso nuovamente la sua volontà di voler porre fine alla guerra. Parole apprezzate da Ruto, che ha aggiunto: “I colloqui in corso con IGAD dovrebbero portare a una soluzione politica, volta a una pace duratura nel Paese”. Peccato solo che alla fine dell’incontro con il capo di Stato kenyota sia stata annullata la conferenza stampa già programmata.

Nei giorni precedenti il capo delle RSF si era recato anche a Gibuti, Etiopia, Ghana e Uganda, e ogni volta ha parlato del suo impegno per porre fine al conflitto. Al termine dell’incontro con Ismail Omar Guelleh, presidente gibutino e a capo di IGAD, il ministro degli Esteri della ex colonia francese, Mahmoud Ali Youssouf, a fatto sapere che l’autorità intergovernativa del Corno d’Africa sta preparando nuovi colloqui per il Sudan ed è previsto anche un “incontro cruciale”. Mentre Dagalo ha sottolineato di aver presentato a Guelleh una proposta delle RSF, volta a mettere un punto finale al conflitto.

Ad Addis Abeba Hemetti ha incontrato anche l’ex primo ministro sudanese, Abdallah Hamdok, leader di  Taqaddum (l’organo di coordinamento delle forze civili democratiche sudanesi). In tale occasione i due hanno siglato un documento, Addis Ababa Declaration, riportato integralmente dal quotidiano Sudan Tribune. Nella capitale etiopica, Dagalo ha anche incontrato Abiy Ahmed, premier e uomo forte del Paese, per discutere strategie per terminare il conflitto.

Hemetti, a sinistra e l’ex primo ministro sudanese, Hamdok, alla firma di Addis Ababa Declaration

Il documento siglato in Etiopia è stato criticato dal vicepresidente del Consiglio Sovrano, Malik Agar, che ha inoltre precisato: “Le autorità sudanesi non hanno mai ricevuto un invito da parte Taqaddum, ne abbiamo sentito parlare come tutti gli altri. A dire il vero non sappiamo nemmeno cosa sia Taqaddum”. Agar ha poi aggiunto che in vista del prossimo incontro tra i comandanti di SAF e i leader di RSF a Gibuti, è necessario concentrarsi sugli accordi di Gedda (negoziati tra le parti in causa mediati da USA, Arabia Saudita e IGAD, bloccati dai mediatori a tempo indeterminato all’inizio di dicembre).

Ma come risulta ad Africa ExPress, proprio mercoledì scorso Hamdok ha ribadito la richiesta per un incontro urgente con i vertici di SAF per discutere i modi per fermare il devastante conflitto.

Cornelia I. Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
@cotoelgyes
©RIPRODUZIONE RISERVATA

Vuoi contattare Africa ExPress? Manda un messaggio WhatsApp con il tuo nome e la tua regione (o Paese) di residenza al numero +39 345 211 73 43 e ti richiameremo. Specifica se vuoi essere iscritto alla Mailing List di Africa Express per ricevere gratuitamente via whatsapp le news del nostro quotidiano online.

Altri articoli di archivio sul Sudan li trovate qui

La guerra insanguina il Natale in Sudan: morti e 7,1 milioni in fuga

Sollevati dubbi sulla accuse israeliane ad Hamas di stupri etnici. Blumenthal: “Prove fabbricate”

Speciale per Africa ExPress
Alessandra Fava
3 gennaio 2024

Gli stupri da parte di Hamas e delle altre brigate nell’attacco del 7 ottobre 2023 hanno tenuto banco sui media israeliani con particolari agghiaccianti. A distanza di due mesi non c’è alcuna vittima che abbia sporto denuncia o testimoniato pubblicamente la violenza subita e a ottobre non furono mai fatte autopsie. In alcuni casi i parenti non hanno neanche ricevuto il certificato di morte. Le fonti militari dicono che la maggior parte delle vittime è stata uccisa e alcune donne sgozzate.

Media indipendenti come Greyzone di Max Blumenthal pensano invece che sia stata costruita ad arte una narrazione volta a criminalizzare Hamas e farla apparire all’opinione pubblica mondiale uguale all’Isis. Per questo alcune associazioni, come la superortodossa Zaka, avrebbero inventato di sana pianta alcune storie come quella della famiglia del kibbutz di Bee’ri riunita, durante l’attacco di Hamas, per la prima colazione . Le fonti militari hanno detto che i figli sono stati uccisi e la madre violentata e le è stato amputato anche il seno, mentre secondo la ricostruzione di Blumenthal non ci fu alcuna vittima di quell’età nel kibbutz.

Uno dei recenti bombardamenti a Gaza

Forse anche per questo le Nazioni Unite e le organizzazioni internazionali femminili non hanno finora commentato gli episodi che sarebbero avvenuti a ridosso degli attacchi ai Kibutz sopratutto su donne partecipanti al rave party ai confini di Gaza, che era in corso già da tre giorni. Su 1,200 morti negli attacchi del 7 ottobre, infatti 360 persone provenivano dal rave e sono state uccise dai guerriglieri di Hamas ma in minima parte anche da fuoco amico, grazie alla reazione sconclusionata dell’esercito israeliano intervenuto in maniera confusa. Reazioni su cui molti israeliani invocano un’inchiesta.

Gli stupri per i media israeliani sono diventati un tormentone in questi mesi, amplificato con moltissimi articoli con paginoni. Ecco qualche titolo “Ho detto a mia madre: temo di essere violentata”, anche se leggendo poi l’intero pezzo si scopre che la persona intervistata non subì violenze. Oppure: un’altra donna “Mi hanno mezzo denudata, adesso mi violentano”, e poi nell’articolo risulta che è stata tirata per il pigiama fuori da casa da uomini armati e ha temuto violenze che poi non sono successe.

Gaza è stata distrutta dai continui bombardamenti

A novembre e dicembre il tormentone è diventato uno stillicidio tale che Haaretz a un certo punto ha pubblicato un commento sostenendo che continuare a parlare degli stupri non faceva che acuire il dolore delle sopravvissute. Sopravvissute come testimoni, non come vittime, almeno da quel che risulta finora.

Il New York Times ha appena pubblicato sull’argomento un’inchiesta durata due mesi che ha individuato sette luoghi in cui sono avvenute delle violenze, tre episodi riguardano i partecipanti al Rave e gli altri due i kibutz di Kfar Aza e quello di Bee’ri. Il giornalista Jeffrey Gettleman, premio Pulitzer, ha visionato video, foto e analizzato i dati dei cellulari su GPS e intervistato dei testimoni oculari.

A parte alcuni partecipanti al rave, le altre fonti sono video e montaggi dell’esercito e della polizia israeliani o di una ong ebraica legata agli Haredim, gli ebrei ultraortodossi, che ha recuperato i corpi delle vittime per dare loro degna sepoltura.

Dopo questa inchiesta che ha avuto risonanza mondiale, Hamas ha dichiarato che non sono state fatte violenze dai suoi militanti. In effetti il 7 ottobre sono intervenute anche altre brigate e molti civili sono usciti da Gaza approfittando delle breccie nel famoso muro difensivo.

Il quotidiano americano ha intervistato due testimoni chiave: una donna del rave che si trovava ferita sulla Strada 232, si è coperta di fango e finta morta. Guardando le mappe la testimone sarebbe stata a 100 metri dal Kibutz di Kfar Aza, da lì sarebbe riuscita a scattare delle foto sia delle violenze sulla strada che di quelle che venivano perpetrate nella comunità rurale. La ragazza avrebbe assistito alle violenze su cinque vittime, a un assalto di 100 uomini nel kibutz e allo stupro di altre sei donne. Poi dice di aver perso conoscenza. Un altro sopravvissuto al rave dice di aver visto violentare un’altra donna, sempre dalla Strada 232.

Altre foto si riferiscono a un altro episodio sulla Route 232 che riguarda cinque palestinesi in abiti civili che violentano una donna nuda. Un video dell’esercito testimonia di due soldatesse violentate e uccise con spari alla vagina e una donna in uno dei Kibbutz è stata ritrovata con il corpo denudato trafitto da aghi. Fonti militari avrebbero reperito le prove di violenze sessuali su altre 24 donne.

Su nessuna delle presunte vittime a ottobre sono state eseguite autopsie: la giustificazione è che si è preferito seppellire i corpi il prima possibile come previsto dalla religione ebraica. E come si è detto non c’è alcuna denuncia da parte delle vittime sopravvissute. Inoltre alcune famiglie non hanno mai ricevuto i certificati di morte dei loro congiunti.

Israele in stallo nella guerra contro Hamas

Con tutta questa documentazione, mostrata anche alle comunità ebraiche statunitensi e ai giornalisti, i media israeliani ripetono che ci fu uno stupro seriale e quindi uno stupro etnico, cercando di pareggiare i conti con la guerra in corso a Gaza dove le vittime palestinesi hanno oltrepassato adesso il numero di 22 mila.

I dubbi restano: Blumenthal pensa che molte delle vittime del rave siano state uccise dagli elicotteri Apache dell’esercito israeliano intervenuti dopo l’attacco di Hamas. Alcune estratte dalle carcasse delle auto post mortem. Quindi video e foto potrebbero anche essere prove costruite ad arte per criminalizzare Hamas.

Intanto un imprenditore israeliano a novembre ha messo in vendita appartamenti a Gaza di futuribili condomini con tanto di mappe e cartine.

Foto pubblicate da Al Jazeera

Sui giornali israeliani l’azienda ha smentito la questione dicendo che era uno scherzo. Però la quantità di articoli e commenti pubblicati in questi mesi sulla ricostruzione di Gush Katif, l’antico insediamento israeliano a Gaza composto di 17 villaggi non riconosciuti dagli organismi internazionali e sgomberati da Sharon nel 2005 nonostante le proteste dei coloni andate avanti per settimane davanti alla Knesset, fa pensare che l’imprenditore abbia visto lontano.

Timeofisrael.com/return-to-gush-katif-determined-movement-emerges-to-resettle-israelis-in-gaza/

Il proseguire della guerra con ormai il 70 per cento delle abitazioni di Gaza distrutte rafforza il concetto.

Alla fine dell’anno il varco israeliano di Kerem Shalom a sud di Gaza, vero passaggio commerciale per la Striscia gestito di Israele e riaperto il 17 dicembre per far arrivare gli aiuti ai civili allo stremo (poi attivato veramente il 20 dicembre), è rimasto chiuso per tre giorni, tra il 27 e il 29, dopo che alcuni palestinesi erano stati uccisi da un drone. Un convoglio umanitario dell’Unrwa (United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees in the Near East) è stato colpito mentre tornava dal nord di Gaza il 29 dicembre. Non si sono state vittime ma il mezzo è distrutto.

La situazione sanitaria è al limite: 180 mila persone hanno infezioni ai polmoni e 140 mila soffrono di diarrea. E sono proseguiti gli scontri e le uccisioni in Cisgiordania con attacchi nei pressi di Betlemme, le vittime sono 307 dal 7 ottobre .

Israele sta conducendo una guerra anche nel fronte nord: ha colpito con attacchi vari guerriglieri legati all’Iran in Siria, Libano e al confine tra Siria e Iraq.

Nonostante Netanyhau stia perdendo consensi, come dimostrano i sondaggi, ha dichiarato che non si dimetterà neppure alla fine della guerra.

Alessandra Fava
alessandrafava2023@proton.me
©️ RIPRODUZIONE RISERVATA

Vuoi contattare Africa ExPress? Manda un messaggio WhatsApp con il tuo nome e la tua regione (o Paese) di residenza al numero +39 345 211 73 43 e ti richiameremo. Specifica se vuoi essere iscritto alla Mailing List di Africa Express per ricevere gratuitamente via whatsapp le news del nostro quotidiano online.

Gaza: chiunque si muove è freddato, come i tre ostaggi ebrei uccisi dal loro esercito