Speciale per Africa ExPress Sandro Pintus 26 gennaio 2024
Da prima donna d’Africa nelle classifiche di Forbes ai tribunali di Luanda. È la veloce discesa agli inferi di Isabel dos Santos, figlia ex miliardaria del defunto presidente angolano, José Eduardo dos Santos.
Secondo la rivista Forbes nel 2017, con un reddito netto di 3,4 miliardi di USD era la donna più ricca del continente africano. Non solo, era all’8° posto (e unica donna) tra i primi 10.
Beni congelati
Dal 2019 una Corte di Luanda ha congelato i suoi beni e oggi ha ben 12 capi d’accusa. Tra questi: riciclaggio di denaro, appropriazione indebita e frode fiscale per i fatti legati alla gestione della compagnia petrolifera statale, Sonangol, (2016-2017).
I pubblici ministeri angolani hanno accusato l’imprenditrice di aver causato allo Stato perdite per circa 219 milioni di dollari. Hanno emesso un atto di accusa di 46 pagine con i dettagli contro la figlia dell’ex presidente e altri tre coimputati.
“In qualità di figlia dell’ex presidente della Repubblica, l’imputata Isabel dos Santos, di concerto con gli imputati Mario Silva, Sarju Raikundalia e Paula Oliveira, ha meticolosamente creato un piano per frodare lo Stato angolano”. È quanto riporta il comunicato dell’International Consortium of Investigative Journalists (ICIJ) ripreso dall’atto di accusa.
Secondo ICIJ gli imputati avrebbero utilizzato società offshore, fatture fraudolente, documenti falsificati e aumenti di stipendio “esorbitanti” per intascare illegalmente milioni.
L’indagine ha fatto il giro del mondo, un’occasione unica per il presidente angolano, João Lourenço, eletto dopo 37 anni di ininterrotta presidenza di Eduardo dos Santos. Ha trovato il materiale che cercava per far restituire all’Angola, dalla famiglia dos Santos, il “denaro della corruzione”.
L’imprenditrice: “è caccia alle streghe”
Isabel, in varie occasioni e interviste ha respinto le accuse. In un’intervista alla BBC, nel 2020, ha sostenuto che le accuse contro di lei sono del tutto false. “Il governo angolano sta conducendo una caccia alle streghe a sfondo politico”.
In un’altra intervista alla CNN portoghese, nel 2022, ha dichiarato che i tribunali in Angola non sono indipendenti e che i giudici vengono “usati per soddisfare un’agenda politica”.
I social di Isabel molto seguiti
I social dell’imprenditrice sono molto seguiti: i suoi follower su Facebook sono circa 596mila e quasi 192mila su Twitter. Ma sono fermi. L’ultimo post di Facebook è del 28 agosto 2022 scritto in occasione del compleanno del padre deceduto nel 2022. Su X (ex Twitter) è si fermano ad aprile 2023. Indicano comunque che Isabel piace a una parte importante di angolani.
Oggi sulla dos Santos esiste un “avviso rosso” dell’Interpol. Si tratta di una richiesta alle forze dell’ordine di tutto il mondo di localizzare – e arrestare provvisoriamente chi ne è colpito – in attesa dell’estradizione. Entro la fine di gennaio, a Luanda, dovrebbe iniziare il processo per la Sonangol. Chissà se sarà presente o in contumacia.
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Speciale per Africa ExPress Alessandra Fava 23 gennaio 2024
La scorsa settimana sono state pubblicato in rete immagini del cimitero di Khan Younis, nel sud della Striscia, bombardato, con qualche vivo fotografato accanto a tombe divelte: neppure i morti riposano in pace.
Ma dopo i bombardamenti, spesso arrivano le ruspe. La tv statunitense CNN con un servizio di quasi 6 minuti, ha contato 16 cimiteri violati, divelti o distrutti dai buldozer dell’esercito israeliano, tra novembre e oggi. In pratica dall’inizio dell’operazione di terra a Gaza si è proceduto anche alla distruzione della memoria.
Grazie a foto aeree, immagini satellitari e video girati dall’esercito israeliano e dai gazawi, il servizio smentisce la parola dell’esercito israeliano sul fatto che la distruzione dei cimiteri serva per combattere Hamas, per liberare degli ostaggi o ritrovarne i cadaveri.
Da un’immagine satellitare presentata dalla Cnn soltanto nel cimitero del campo profughi di Shajaye c’erano tre mezzi militari di Hamas nascosti. Negli altri nulla, solo tombe. Piuttosto sono stati profanati sacrari vecchi e nuovi e chi è rimasto in vita sta cercando di riseppellire centinaia di corpi. Dalla furia dell’esercito si è salvato solo un cimitero della prima guerra mondiale a Deir Al Balah, dove sono sepolti anche cristiani ed ebrei.
La violazione delle tombe è una violazione del diritto internazionale e costituisce, secondo il Sud Africa, una delle prove della volontà di sterminio del popolo palestinese da parte dello Stato di Israele o meglio del governo Netanyhau e infatti è uno dei punti citati nel ricorso del processo alla Corte internazionale di giustizia in corso.
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Dal Nostro Corrispondente Sportivo Costantino Muscau
Nairobi, 23 gennaio 2024
“Se non hanno più pane, che mangino brioche”, avrebbe detto Maria Antonietta di Francia. “Sono poveri, si sazino di calcio (nel senso di pallone, non di sale minerale), devono aver pensato padre e figlio, padroni della Guinea Equatoriale in qualità di presidente e di vicepresidente della (presunta) repubblica dell’Africa centrale che si affaccia sull’Atlantico.
La sonante, schiacciante vittoria per 4-0 del Tuono nazionale – soprannome calcistico della rappresentativa equatoguineiana contro la Costa d’Avorio nella serata di lunedì, 22 gennaio, ha regalato la festa nazionale al popolo e un milione e 200 mila euro ai calciatori impegnati nella 37a edizione della Coppa delle Nazioni africane.
Non male per un Paese in cui il 60/70 per cento degli abitanti (circa un milione e 200 mila) vive con un dollaro al giorno.
Il primo ad aprire i cordoni della borsa è stato il vicepresidente (dal 2012) Teodoro Nguema Obiang Mangue, detto Teodorin 55 anni, figlio di Teodoro Obiang Nguema Mbasogo, 81 anni, presidente dal 1979, cioè da appena 44 anni. Teodorin poco prima della sfida calcistica (cui ha assistito il segretario di stato Usa, Antony Blinken, impegnato in un tour politico nell’Africa Occidentale), ha voluto dare la carica ai suoi uomini, assicurando loro 50 mila euro per ogni gol segnato agli Elefanti avversari. “Per me il match contro gli ivoriani è come una finale”, aveva annunciato su X ( già Twitter).
Ed ecco spiegata la furia con cui i pachidermi (calcisticamente parlando) di Malabo non erano paghi del 4-0 ma hanno cercato fino alla fine dei 90 e passa minuti il quinto gol, mancato per un soffio.
Due ore dopo il papà dittatore (di fatto) della Guinea Equatoriale non vuole essere – giustamente – da meno. Esulta, inizialmente, sempre su X, quindi prende la parola in tv per definire “eroi nazionali” i vincitori e garantire loro “un milione di euro di premio”.
Quel che resta dell’opposizione in un Paese che non brilla certo per democrazia (anche se Teodoro padre è stato eletto col 94 per cento dei suffragi, nel partito unico) ha fatto sentire la sua voce.
È vero che per gli equatoguineani quella vittoria significava la certezza di passare agli ottavi di finale della competizione continentale e la possibilità di migliorare il quarto posto ottenuto nella edizione del 2015, tenutasi in casa. Tuttavia questo “jackpot”, questo fiume di danaro – presumibilmente pubblico – per un successo pallonaro ha suscitato indignazione anche fuori.
Non c’è da stupirsi, però: già nell’edizione del 2012 Teodorin Obiang promise alla nazionale un bonus di un milione di dollari e 20 mila dollari a gol se avesse sconfitto la Libia.
E mantenne la parola: staccò l’assegno per la squadra e dette i 20 mila dollari a Ivan Bolado, autore della rete della vittoria.
Già allora venne fatto notare che in un piccolo Paese pur ricco di petrolio, sette persone su 10 vivevano sotto il livello di povertà e un bambino su 5 moriva prima di compiere i 5 anni.
Tornando al calcio giocato, questa Coppa delle Nazioni Africane è piena di sorprese. Non solo per il prepotente emergere della Guinea Equatoriale, che ha devastato il Costa d’Avorio, un successo meritato e maturato soprattutto grazie alla prestazione stellare di Emilio Nsue Lopez, 34enne capocannoniere del torneo con 5 gol in 3 match. “È il cuore e l’anima della squadra” lo ha definito il sito keniano Pulse sport.
La devastante inattesa sconfitta degli ivoriani avuto notevole risonanza anche in Kenya, assieme alla scomparsa dell’ indimenticabile Gigi Riva. Emilio Nsue è nato a Maiorca da genitori della Guinea Equatoriale, per anni è stato incerto se giocare con la nazionale iberica, o quella africana, la Spagna però lo ignorò e optò per i colori “ familiari”. Dopo aver vagato tra squadre spagnole, inglesi, cipriote, nel 2022 ha firmato con l’Intercity, club di terza serie spagnola!
Insomma, il giocatore che sta trascinando la sua nazionale non è neanche in serie B!
Un’altra rivelazione è la nazionale del Capo Verde, che ha stupito tutti, essendo stata la prima squadra a qualificarsi agli ottavi di finale.
Questi prenderanno il via il 27 gennaio, una volta conclusa la fase a gironi. A quel punto le 16 delle 24 squadre rimaste in lizza si elimineranno negli scontri diretti.
Non sono mancati episodi spiacevoli, inimmaginabili in un torneo africano. Al termine della partita Marocco-RD Congo, il 21 gennaio, finita 1-1, il giocatore Chansel Mbemba, 29 anni, del Congo-K (gioca nel Marsiglia) ha litigato con l’allenatore dei magrebini, Walid Regragui, 48. Sono volate parole grosse, pare, sia da parte di Regragui sia da parte degli atleti marocchini.
Alcuni tifosi marocchini hanno poi reagito su Instagram con offese razziste e numerose emoji raffiguranti delle scimmie. La Federazione marocchina ha cercato di mettere pace sventolando il ramoscello d’olivo, ma la Confederazione africana di football ha aperto un’inchiesta sull’accaduto.
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Speciale per Africa ExPress Sandro Pintus 22 gennaio 2024
Le accuse contro Paul Mackenzie, capo della setta religiosa Good News International Church (Chiesa Internazionale della Buona Novella) e di altre 94 persone sono pesanti.
Le imputazioni
Tra la dozzina di imputazioni ci sono omicidio, tortura e crudeltà verso i bambini, aggressione, associazione a delinquere e radicalizzazione. Ma gli inquirenti hanno aggiunto anche l’accusa di terrorismo.
Ventinove dei 95 imputati sono in custodia cautelare da maggio scorso. Gli altri 66, sopravvissuti al massacro sono trattenuti dal tribunale in attesa di chiarire la loro posizione.
Esumati i corpi di 430 persone
Fino ad oggi, a Shakahola, la foresta vicino a Malindi, sulla costa del Kenya sono stati esumati i resti di 430 seguaci della setta. Un vero e proprio massacro causato dalla follia di Mackenzie, che predicava il digiuno estremo “per incontrare Gesù”.
Identificati i resti di 130 bambini
Dei 184 bambini scomparsi gli investigatori ne hanno identificat1 131. Nonostante la distruzione dei documenti la polizia ha raccolto tutte le informazioni e il dna che hanno permesso il riconoscimento dei piccoli.
L’origine della setta
Paul Mackenzie è stato arrestato nell’aprile scorso dopo il ritrovamento di centinaia di corpi in fosse comuni.
Ex taxista, ha fondato la Good News International Church una ventina di anni fa. Autoproclamatosi profeta e predicatore è contro la scuola e l’educazione.
Il “profeta” predicava l’arrivo del Giorno del giudizio indicato per il 14 aprile scorso. Gli aderenti alla setta dovevano digiunare fino alla morte.
I primi a morire dovevano essere i bambini, poi le donne e in seguito gli uomini. Lui, il profeta, sarebbe stato l’ultimo a lasciare la vita terrena.
Agli aderenti alla setta era vietato lasciare il luogo e se cercavano di scappare venivano malmenati con bastoni e perfino uccisi. Gli inquirenti sospettano che alcuni bambini siano stati picchiati e strangolati.
Il presidente: “sono terroristi”
Anche William Ruto, presidente del Kenya, si è mosso sulla questione delle congregazioni che usano la religione per ideologie inaccettabili. Ha paragonato queste pratiche al terrorismo.
Ora Mackenzie e i suoi aiutanti dovranno affrontare la giustizia. La prossima udienza è programmata per il 6 febbraio.
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Speciale per Africa ExPress Cornelia I. Toelgyes
21 gennaio 2024
Khartoum è una città fantasma. Quasi completamente distrutta. La furia della guerra che imperversa dal 15 aprile 2023 tra il capo degli ex janjaweed, Mohamed Hamdan Dagalo “Hemetti”, e il de facto presidente, Abdel Fattah Abdelrahman al-Burhan, ha deturpato il volto di una città, Khartoum, bellissima, con le sue vestigia coloniali che si potevano ammirare nell’architettura della città gemella Omdurman e nei quartieri centrali della capitale.
I larghi viali, la stazione ferroviaria, il quartiere dei grattacieli ora hanno cambiato volto. I palazzi sono distrutti, le macerie ingombrano le strade stracolme di immondizie. Insomma la città è irriconoscibile ed è diventata la porta di un Paese, il Sudan, che sta precipitando nell’inferno. E la capitale situata alla confluenza tra due maestosi fiumi il Nilo Bianco e il Nilo Azzurro è sconvolta da un’agonia inarrestabile.
Le fotografie e i video che pubblichiamo ce li ha segnalati il nostro stringer, di cui non possiamo rivelare il nome per motivi di sicurezza ma che ringraziamo pubblicamente. Illustrano la situazione drammatica della capitale sudanese, città divisa in tre agglomerati urbani: Khartoum propriamente detta, Omdurman, che fu teatro nel 1898 di un’epica battaglia combattuta tra l’esercito britannico e quello del movimento spirituale islamico mahdista, e la più recente Khartoum Nord, da poco battezzata Bahari.
Nonostante la devastazione drammatica, non solo a Khartoum ma in tutto il Paese, gli scontri tra l’esercito e le milizie ribelli continuano senza interruzione ovunque. Le trattative di pace per porre fine al conflitto tra i due generali, Mohamed Dagalo “Hemetti e Abdel al-Burhan sono in un vicolo cieco.
Sabato, il ministero degli Esteri dell’ex protettorato anglo-egiziano, ha annunciato di aver sospeso la propria adesione da IGAD (Autorità intergovernativa per lo sviluppo, un’organizzazione internazionale politico-commerciale formata dai Paesi del Corno d’Africa), per le dichiarazioni espresse alla fine del 42esimo vertice straordinario tenutosi a Kampala (Uganda) il 18 gennaio scorso.
L’organizzazione regionale già alla fine dello scorso anno aveva proposto un faccia a faccia tra i due generali, incontro rinviato a più riprese.
Hemetti è stato ricevuto giovedì scorso a Kampala dai dirigenti dell’IGAD, a margine del meeting straordinario dell’organizzazione, nonostante al-Burhan avesse comunicato di non partecipare al vertice. Vista l’assenza del presidente sudanese, anche l’arrivo del capo delle RSF era in forse, tuttavia i leader di IGAD hanno voluto ugualmente ascoltare il suo punto di vista sul conflitto.
Al vertice di Kampala, l’IGAD ha ribadito il suo appello per “un cessate il fuoco immediato e incondizionato”, perché “è una guerra ingiusta che colpisce il popolo sudanese”. L’organizzazione ha anche rinnovato la sua disponibilità di intervenire come mediatore tra le parti in conflitto e ha per l’ennesina volta esortato i due comandanti a incontrarsi di persona entro le prossime due settimane. Dichiarazioni non apprezzata dal presidente e dal suo entourage. E, viste le tensioni attuali, difficilmente negoziati di pace potranno aver luogo sotto l’egida di IGAD, accusata da al-Burhan di aver violato la sovranità del Sudan.
Già in passato IGAD, insieme Stati Uniti e Arabia Saudita ha tentato mediazioni per un cessate il fuoco tra le parti, invitate a Gedda, ma le trattative sono sempre terminate in un nulla di fatto.
Entrambe le parti sono state accusate di crimini di guerra, tra cui il bombardamento indiscriminato di aree residenziali, torture e detenzioni arbitrarie di civili.
Le RSF sono anche ritenute responsabili di uccisioni di massa a sfondo etnico, soprattutto nel Darfur, oltre che di saccheggi dilaganti e di stupri, un’arma da guerra antica. Non è solo dal “ratto delle sabine” che le donne sono preda di conquista nei campi di battaglia, ancor prima, nel conflitto cantato da Omero, ci sono riferimenti alle donne troiane come bottino di guerra.
Secondo ACLED (Armed Conflict Location and Event Data Project), oltre 13.000 persone sarebbero state uccise durante i bombardati e gli scontri in Sudan, cifra quasi sicuramente sottostimata, perché in base ai dati forniti dalle Nazioni Unite, 7,5 milioni hanno dovuto lasciare le proprie case. Tra loro circa 1,4 milioni, fuggiti nei Paesi limitrofi.
Intanto non si placano le accuse contro gli Emirati Arabi Uniti di fornire armi ai miliziani delle RSF. A metà dicembre al-Burhan ha espulso 15 diplomatici di Abu Dhabi, il ministero degli Esteri sudanese non ha però precisato il motivo. I rapporti tra i due Paesi sono molto tesi da tempo, specie dopo le dichiarazioni di Yassir Alatta, membro del Consiglio sovrano del Sudan. A novembre aveva accusato gli EAU di fornire armi e logistica alle RSF attraverso i Paesi vicini, tra cui Uganda, Repubblica Centrafricana e Ciad.
Non è la prima volta che Abu Dhabi interviene in conflitti interni in Africa. Durante la guerra in Tigray aveva fornito droni a Abiy Ahmed, primo ministro etiopico e, contravvenendo a un embargo internazionale sul materiale bellico, aveva anche armato il controverso generale libico Khalifa Haftar.
Gli Emirati continuano a negare qualsiasi coinvolgimento nel conflitto. Anzi, sottolineano di fornire aiuti umanitari per i profughi sudanesi nei Paesi limitrofi.
Va ricordato che sotto la dittatura di Omar al-Bashir, le RSF hanno combattuto per anni assieme agli Emirati contro gli houthi (gruppo armato yemenita, supportato dall’Iran) in Yemen, accanto alla colazione guidata dall’Arabia Saudita.
A margine del vertice del Movimento dei Paesi non Allineati, che si è svolto a Kampala in questi giorni, il ministro degli Esteri ad interim sudanese, Ali Al-Sadiq, ha incontrato Mohammad Mokhber, primo vicepresidente iraniano. Durante il colloquio le parti hanno fatto sapere di voler riaprire le rispettive ambasciate quanto prima. Nel 2016 Khartoum aveva deciso di interrompere i rapporti diplomatici con Teheran dopo un attacco alla rappresentanza saudita nella capitale iraniana e per presunte interferenze dell’Iran negli affari regionali. Il Sudan aveva quindi chiuso la sua ambasciata a Teheran e espulso i diplomatici iraniani da Khartoum.
Il conflitto tra i due generali ha messo in ginocchio tutto il Paese. A Khartoum gran parte delle infrastrutture sono state distrutte, sembra una città fantasma: oltre il 70 per cento dei residenti ha lasciato lo stato di Khartoum
E due giorni fa l’UNESCO ha denunciato attività militari delle RSF anche nel campo religioso di Naqa e nel complesso di templi Musawwarat es Sufra, entrambi i siti archeologici fanno parte del Patrimonio Mondiale dell’Umanità dal 2011, insieme alla città reale dei re kushiti a Meroe, vicino al fiume Nilo. Le autorità dello stato del Nilo hanno confermato incursioni delle RSF, poi respinte dalle forze aeree sudanesi. Non è ancora chiaro se i monumenti siano stati danneggiati o saccheggiati.
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Speciale per Africa ExPress Alessandra Fava 19 gennaio 2024
Emergono riscontri dell’utilizzo di gas letali da parte dell’esercito dello Stato ebraico nei tunnel di Hamas a Gaza. I media arabi ne avevano parlato già a dicembre, ma la notizia era stata giudicata di parte. Ora invece la fonte è israeliana: i cadaveri di due ostaggi rivelerebbero tracce dell’utilizzo di gas nervino. Il 14 dicembre infatti sono stati ritrovati nei tunnel di Jabalya i corpi di Ron Sherman, di Nick Beizer ed Elia Toledano.
In un primo tempo è stato detto che gli ostaggi erano stati uccisi da Hamas
traduzione: Titolo: Hanno cercato di sacrificare mio figlio? La madre del rapito assassinato intensifica le accuse contro l’IDF.
Testo dell’articolo: Maayan Sherman, madre del soldato rapito Ron Sherman, che è stato assassinato in prigionia, ha accusato le forze dell’IDF (Israel Defence Forces, ndr) di aver ucciso suo figlio. “Ci è stato detto che c’era una ragionevole possibilità che avesse inalato gas tossici dai bombardamenti dell’IDF”, ha scritto la madre su Facebook. Ha aggiunto che il maggior generale Ghassan Alian le ha detto personalmente che l’IDF “conosceva la posizione di Ron in qualsiasi momento”. Maayan Sherman, madre del soldato rapito Ron Sherman, ucciso in prigionia, ha risposto oggi alla dichiarazione del portavoce dell’IDF. “Ci è stato detto che c’è una ragionevole possibilità che abbia inalato gas tossici derivanti dai bombardamenti dell’IDF”, ha detto la madre. Maayan Sherman ha risposto sul suo account Facebook all’annuncio del portavoce dell’IDF mercoledì, definendolo “un’altra bugia nella maschera delle bugie”. Ha poi proseguito descrivendo i fatti che le sono stati presentati, aggiungendo che “il maggior generale Ghassan Alian mi ha detto personalmente durante il giuramento che lui e il maggior generale Nitzan Alon conoscevano la posizione di Ron e Nik in qualsiasi momento”.
Altri giornali come il Jerusalem Post hanno riportato in maniera esaustiva le parole della madre su Facebook, in cui Maayan Sherman attacca l’esercito accusandolo di aver utilizzato i gas come ad Auschwitz.
“Ron non è stato ucciso da Hamas. Pensate piuttosto a Auschwitz e alle docce, ma senza Nazisti e senza Hamas. Non c’è stato un colpo fatale ma un omicidio premeditato con gas letali”. Poi la madre continua: “Ron è stato rapito a causa della criminale negligenza di tutti i superiori dell’esercito e di questo maledetto governo che ha dato l’ordine di eliminarlo per regolare i conti con qualche terrorista di Jabalya”.
La madre aggiunge che il corpo aveva le unghie consumate nel tentativo di scavare e “uscire dalla tomba avvelenata in cui l’IDF ha deciso di seppellirlo. Non c’è futuro per questo Paese, se questo è quello che ti hanno fatto dopo averti abbandonato quel sabato” 7 ottobre. L’esercito non ha voluto commentare ulteriormente, hanno solo riferito che hanno prelevato campioni di tessuto e che faranno degli esami tossicologici sul corpo di Ron e di un altro ostaggio ritrovato nei tunnel il 14 dicembre. Ma dalle notizie pervenute si sa che nel giorni successivi al 14 dicembre sono stati trovati altri due cadaveri nella stessa area. Di questi non risulta la causa della morte.
Intanto la guerra e i bombardamenti a Gaza continuano. Siamo al 108 giorno di guerra e non si sa quando finirà. Nelle settimane scorse il governo israeliano ha annunciato che “durerà almeno fino alla fine di gennaio”. Ma contrariamente alle sventolate pressioni degli Stati Uniti per il cessate il fuoco, il governo Netanyhau sembra pensarla in tutt’altro modo: la scorsa settimana il ministro della Difesa Yoav Gallant ha aggiunto che è necessario eliminare almeno un numero doppio o meglio, ancora di più, dei membri di Hamas.
Secondo i report i combattenti uccisi a Gaza sarebbero ora 9 mila. Ne vogliono far fuori 18 mila o oltre. In realtà non è chiaro quanti erano all’inizio della guerra gli uomini di Hamas: perché, secondo i calcoli di Israele, la cifra oscillava tra 25 mila e 40 mila. Miliziani dotati di 15 mila missili.
Per capire quanto il governo israeliano ha lasciato fare, basta immaginare che un paio di anni dopo le elezioni vinte da Hamas si parlava di 3 mila uomini dell’esercito di Hamas e sembrava già una cifra monstre.
Tra civili e combattenti si calcolano 23 mila morti. Continuano i bombardamenti su ospedali e i monconi di edifici vengono distrutti coi buldozer, a indicare che la volontà è far tabula rasa di Gaza, esattamente come dichiarato da alcuni membri del governo a inizio della guerra.
Il problema è che nonostante bombardamenti Hamas non ha perso la sua forza di reazione: l’uccisione di militanti, tra cui anche alcuni capi, gli attacchi ai militari israeliani non diminuiscono più di tanto. Prosegue poi il lancio di missili verso Israele e continuano a morire soldati dell’esercito israeliano (522 uccisi nei primi 100 giorni e 2.536 feriti).
Degli ostaggi si sa poco, a parte che con la mediazione quatariota gli sono arrivati dei medicinali. Questa settimana è emersa quella denuncia straziante della madre di uno di loro trovato morto.
Photo URWA – Ashraf Amra
Per quel che riguarda la popolazione civile dei gazawi ogni giorno il quadro è più drammatico: Gaza è alla soglia dell’epidemia e della carestia. I bombardamenti continuano in molte zone del sud, del centro e del nord, di giorno e di notte e quegli edifici che restano in piedi vengono distrutti con i bulldozer, persino i cimiteri sono stati bombardati.
Le autorità della Striscia dicono che sono stati uccisi 23,357 palestinesi e le Nazioni Unite giudicano i numeri credibili. L’IDF, l’esercito israeliano calcola che ci siano stati 30 mila attacchi su Gaza e 750 nel nord contro Hezbollah, altro fronte bollente su cui i suprematisti, anche componenti del governo, vorrebbero scatenare rapidamente un’altro attacco, “Beirut diventerà il copia-incolla di Gaza”, ha tuonato il ministro della Difesa, Yoav Gallant.
In cento giorni a Gaza sono entrati 7.653 camion controllati dall’IDF (Israel Defence Forces, l’esercito israeliano). Già a ottobre l’ONU diceva che ne servivano 100 al giorno. Secondo i report di WPN, WHO e Unicef la carestia è in atto, le risorse alimentari e agricole interne alla Striscia sono finite da tempo e anche le aziende private non riescono a procacciare cibo. Di tre acquedotti ne funziona male solo uno, un altro ha bisogno di riparazioni per 4 settimane. Unicef riferisce che il normale quantitativo di acqua per lavarsi, cucinare e bere è di 15 litri a testa al giorno, mentre a Gaza i bambini ne hanno 1,5-2. Un quarto della popolazione è alla fame e vicino al livello carestia, specie nel Nord.
Le agenzie umanitarie avevano preparato nei giorni scorsi 29 interventi nel nord di Gaza, a nord del Wadi, ma sono riuscite a fare solo 7 missioni. Per le altre l’esercito israeliano ha posto il veto. In alcuni casi le missioni si sono interrotte durante le fasi iniziali, a causa dell’inagibilità delle strade o per i troppi controlli ai checkpoint militari. Secondo un funzionario del Who (World Health Organization) a Gaza funzionano 15 ospedali su 36 , ormai con scarso personale, senza attrezzature né medicine.
Dal 7 ottobre sono stati uccisi 344 palestinesi nella West Bank, continuano perquisizioni e attacchi dell’esercito specie nei campi profughi dei Territori occupati. 300 mila permessi di lavoro di palestinesi della Cisgiordania sono stati revocati e il Likud e due ministri hanno anche presentato una petizione per chiedere che non siano rinnovati. Sono stati riammessi ha lavorare solo 8 mila palestinesi, dipendenti di industrie.
Intanto l’economia israeliana arranca ed la ripresa anche dopo la guerra sarà complicata. Il rapporto debito/Pil dal 58,8 per cento del 2022 è passato a 60,4, secondo un rapporto del Ministero delle finanze del 18 gennaio. Il debito da 280 milioni di dollari è passato a 310 milioni. La Banca di Israele prevede per il 2024 una crescita del 2 per cento (contro la previsione del 3 per cento prima della guerra dell’FMI), ma alcune agenzie di rating pensano che la ripresa sarà molto lenta, addirittura dello 0,5 per cento (S&P).
L’impegno militare blocca anche la gran parte delle attività economiche, a partire dai 300 mila riservisti che non tornano a casa: molti di loro hanno accumulato debiti e hanno chiuso le loro attività.
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Cornelia I. Toelgyes 18 gennaio 2024
Azali Assoumani, 65 anni, ha vinto – come era ampiamente prevedibile – le presidenziali che si sono svolte domenica 14 gennaio alle Comore. Il capo dello Stato è salito al potere con un golpe nel 1999 ed è poi tornato al potere nel 2016. Ora, secondo quanto riportato martedì scorso dalla Commissione elettorale Nazionale Indipendente (CENI), Assoumani ha superato il nuovo test elettorale per un terzo mandato consecutivo, riportando il 62,97 per cento dei consensi al primo turno, e ciò gli consentirebbe di governare sullo Stato insulare, Unione delle Comore, per altri 5 anni.
Secondo il quotidiano locale Al-Watwan, sono 338.940 i comoriani iscritti nelle liste elettorali, ma solamente il 16,30 per cento ha votato. I risultati provvisori annunciati da CENI, dovranno ancora essere convalidati dalla Corte Suprema, il più alto tribunale del Paese, che comprende le isole di Grande-Comore, Anjouan e Mohéli.
Già domenica sera, appena chiusi i seggi, l’opposizione ha denunciato brogli. Ma gli osservatori internazionali (Organizzazione Internazionale della Francofonia, la East African Standby Force e l’Unione Africana) lunedì mattina, durante una conferenza stampa congiunta, hanno dichiarato che le presidenziale si sono svolte in modo trasparente e libero.
Gran parte dei comoriani non ha accettato di buon grado il risultato elettorale e durante la giornata di ieri manifestanti hanno eretto barricate nella capitale Moroni, dove si sono verificati anche scontri con le forze dell’ordine. I dimostranti hanno incendiato pneumatici, hanno dato fuoco a alcuni edifici. Pietre e vecchi elettrodomestici sono stati disseminati lungo le strade e molti esercizi commerciali hanno abbassato le serrande. Insomma ieri sera tutta Moroni sembrava una città sconvolta da una guerriglia urbana.
Nel pomeriggio di mercoledì, in un quartiere nella periferia della città Moroni, alcuni gruppi di giovani hanno lanciato pietre contro le forze dell’ordine, che hanno risposto con gas lacrimogeni, come in altre borgate della capitale. Il centro della città è stato isolato dalle forze dell’ordine e di sicurezza, che hanno bloccato la strada che conduce al principale aeroporto dell’arcipelago. Anche internet è stata parzialmente interrotta.
Nella serata di ieri il governo ha decretato un coprifuoco, annunciato alla TV di Stato da Youssoufa Mohamed Ali, un portavoce del ministero della Difesa. La misura, entrata in vigore immediatamente, prevede il blackout a Moroni tra le 19:00 e le 06:00, mentre nel resto del Paese la restrizione è stata imposta dalle 22:00 alle 06:00. Ma non tutti hanno osservato il decreto. Questa mattina diversi giovani erano ancora in strada nella parte nord della capitale.
Houmed Msaidie, portavoce del governo, ha poi fatto sapere che diverse persone sono state arrestate, senza però fornire ulteriori dettagli.
La stabilità politica delle Comore è fragile. Dal giorno dell’indipendenza ad oggi ci sono stati una ventina di tentati colpi di Stato. Il più famoso quello del 1975, poche settimane dopo l’indipendenza. I golpisti, che rovesciarono il presidente Ahmed Abdallah, erano assistiti dai mercenari guidati dal colonnello francese Bob Denard. Dal 1997 al 2001 le isole Mohéli e Anjouan si erano separate dalla Grande Comore, dove si trova anche la capitale Moroni. Solo grazie all’intervento della comunità internazionale e alla promessa di una nuova costituzione che garantisse larga autonomia, le tre isole si sono ricongiunte in una confederazione.
Gli abitanti vivono in un paradiso terreste ma sono tra i più poveri del mondo. L’economia si basa sull’esportazione di chiodi di garofano, vaniglia e qualche altra spezia profumata. Nell’arcipelago si sopravvive grazie alle rimesse di parenti e amici che lavorano in Francia o in Mozambico. E sono molti i comoriani che cercano di raggiungere Mayotte, in cerca di una vita migliore, rischiando la propria vita. Morti non solo nel Mediterraneo, ma anche qui, nel Canale di Mozambico. Morti dimenticate da tutti.
Lo Stato insulare dell’Africa Orientale posto all’estremità settentrionale del Canale del Mozambico, a differenza di Mayotte, ha votato per l’indipendenza, che ha ottenuto dalla Francia nel 1975. E’ composto da tre isole, Grandi Comore, Mohéli e Anjouan. La quarta isola, Mayotte, ha sempre rifiutato di far parte dell’Unione delle Comore ed è rimasta fedele alla Francia, come territorio d’oltremare. Ma le autorità di Moroni chiedono che Mayotte ritorni a far parte dell’Unione. Anche le Nazioni Unite hanno ritenuto nullo il referendum del 1976 e in più risoluzioni non vincolanti, hanno chiesto l’unificazione come le altre dell’arcipelago.
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Feature article by Africa ExPress Massimo Alberizzi, Alessandra Fava, Cornelia Toelgyes January 17th 2024
The New York Times article by Jeffrey Gettleman, Anat Schwartz and Adam Sella, published on 28 December- the text can be found here – denounces unprecedented mass violence by Hamas, laying the groundwork for charges of “systematic rape and sexual violence against Israeli women.”
Gettleman’s allegations (whom Alberizzi knows personally because he was the American newspaper’s correspondent from Nairobi), were picked up by newspapers around the world, including Italian ones, provoking a wave of outrage. Women have been raped in times of war from time immemorial, before the vile practice was immortalized in paintings depicting the Rape of the Sabine Women in the 8th century BC at the time of the founding of Rome.
In response to The New York Times article, the Teatro Parenti in Milan began collecting signatures in solidarity with Israel, gathering hundreds of names in a matter of hours. But The New York Times article should not be accepted without an adequate critique, not least because a careful reading lays bare several critical issues and questions that need to be clarified.
In wartime more lies than land
Africa ExPress wanted to verify the veracity of these allegations of mass rapes and monstrous violence. Unfortunately, as one of our readers wrote, “Truth is the first casualty of war.” Propaganda plays a perverse role from which it is very difficult to extricate oneself. A journalist’s task, among others, should be to check the veracity and legitimacy of the sources. This is what we should do.
We do not deny Hamas’ gender-based violence but the reports must be accurate and unequivocal, which we believe is not the case as the story relies instead on charges that cannot be verified.
The parking area with cars of ravers (Srgey Ponomerev, New York Times)
We are aware that Hamas is guilty of gross and monstrous crimes and human rights violations. Major newspapers have covered the subject extensively.
With our inquiry, we want to point out that propaganda is tearing apart truthful, intellectually honest and independent information.
Furthermore, the inaccuracy of the accusations leveled against Hamas risks provoking a strong negative reaction: a wave of unacceptable and execrable anti-Semitism. Responsibility for the massacres caused by the Israeli bombings in Gaza should fall not on Jews but on the Zionist policies of a country that has always ill-tolerated the presence of Palestinians. Anti-Zionism and anti-Semitism are by no means synonymous, and it is in our view absurd for them to be treated as such, as Zionism is a political doctrine.
An indirect source: someone who talked to someone else
Africa ExPress underscores that The New York Times investigation did not interview direct witnesses, despite the reporters having stated they talked to more than 150 people across Israel for two months. Correctly, the American colleague, Gettleman, explains that he gathered the accounts from someone who talked to someone else. He goes on to add that Hamas denies its men’s participation in gender-based violence and that no survivor granted him an interview. Gettleman also points out that there were no initial reports of women being raped and no autopsies were performed. Almost all of those quoted by Gettleman are soldiers in the Israeli military apparatus. Not all of them, however.
Sapir, a 24-year-old accountant and one of the Israeli police’s key witnesses, was interviewed for two hours outside a café by The New York Times. She described seeing five women raped. Unfortunately, she did not want her full name revealed thereby making it was impossible to trace her. According to the testimony reported by The Times, she took numerous photographs that she provided to the investigators, but not to the reporters. Strange, but under the circumstances secrecy is understandable and justifiable.
Sapir recounted that at 8 a.m. on October 7, after she had been shot in the back, severely wounded, she had hidden under the low branches of a thick tamarisk tree just off Route 232, about four miles southwest of the party. She had then covered herself with dry grass and mud and remained as still as possible.
Military fatigues and combat boots
Sapir continued her account, and was quoted by the American newspaper: “About 15 meters from her hiding place, she said, she saw motorcycles, cars and trucks pulling up” and “approximately 100 men” . For the most part these men were wearing military fatigues and combat boots, a few wore dark sweatpants, as they got in and out of the vehicles. She recounted how the men passed each other assault rifles, grenades and small missiles. There were also some severely wounded women.
Frankly, it does not seem credible that a person who has been severely wounded by a gunshot in the back, hiding under branches and leaves would not be discovered by one- hundred armed men who are looking for hostages only 15 meters away. But anything is possible. Incidentally, as we already explained in a previous article, Road 232 is 100 meters away from the outskirts of a kibbutz where, according to Sapir, other violent acts took place which she witnessed from her hiding place.
Gettleman’s report includes quotes from another account, an hour-and-a-half interview, in a Tel Aviv restaurant, with witness Raz Cohen, a young Israeli security consultant who had attended the rave party attacked by Hamas. Cohen “had recently worked in the Democratic Republic of Congo training Congolese soldiers.” He recounts hiding in a dried-up creek that provided him with some cover from the assailants who were looking for civilians and ready to shoot anyone.
Mercenaries in the Democratic Republic of Congo at the Kitona base
In 2019 Benjamin Netanyahu’s government signed an agreement with the Congolese President, Félix Tshisekedi, to send elite military personnel to the Democratic Republic of Congo to train troops and organize the President’s personal security. The instructors are stationed at the Kitona base, a few miles away from the Atlantic Ocean but several are also employed as “private military contractors” – read mercenaries. Most are returnees to Israel recalled after the Oct. 7 Hamas assaults, as revealed by the specialized and well-informed periodical,Africa Intelligence.
Military cooperation strengthened bilateral ties between the two countries. Tshisekedi has repeatedly expressed support for Israel’s right to exist and defend itself and has increased trade and investment with the Jewish state. The Congolese army’s special forces has adopted Israeli EMTAN MZ-4P machine guns, which are compatible with NATO ammunition.
In 2019, it was revealed that two private Israeli intelligence agencies, Beni Tal Security and Black Cube, were hired by former Congolese President Joseph Kabila to spy on his opponents and influence the outcome of the presidential election. The two companies, composed mainly of former members of the Israeli military and intelligence services, still operate in Congo and are accused of organizing a covert operation at a Kinshasa hotel, where agents allegedly tapped phones, hacked e-mails and bribed officials.
Obviously none of the men from the two agencies feel like talking to the media, even under the guise of anonymity, but it is safe to assume that Israeli military personnel sent to Congo are employed in agencies supported by the Israeli government.
Mossad in action
The two intelligence agencies are very close to Dan Gertler, the Israeli diamond magnate who operates in Congo, Gertler has been sanctioned by U.S. for alleged corruption. Some say that Gertler actually owns the agencies – a claim that Africa ExPress has not been able to verify.
According to Bloomberg, the head of Mossad, the national intelligence agency of the State of Israel, “Yossi Cohen, and Israel’s former Ambassador to the U.S., Ron Dermer, were involved in a campaign to persuade former U.S. President Donald Trump to suspend sanctions imposed on the Israeli mining magnate, who has been embroiled for years in a multimillion-dollar corruption scandal in the Democratic Republic of Congo”. Trump in the last days of his presidency had in fact lifted the sanctions, but they were reinstated by Joe Biden as soon as he took office.
It is worth noting that on Sept. 23 (just days before the Hamas assault), the Democratic Republic of Congo announced it would move its embassy from Tel Aviv to Jerusalem, a city that few countries have chosen as the site of their diplomatic representation since, according to the United Nations, Jerusalem is not recognized as the capital of the State of Israel because it is an international city that should be shared by Israel and Palestine.
This background casts a shadow on the credibility of the testimonies of the two Israeli mercenaries from Congo.
ZAKA, an ultra-Orthodox association
Among the eye witnesses interviewed by The Times there was another security consultant, Yura Karol, 22, who said he hid in the same spot as Sapir and was visible in one of the woman’s photos. He recounted barely raising his head to look at the street, but he also described seeing a woman raped and killed.
According to witness accounts of Israeli civilians and soldiers, Israeli army helicopter with machineguns intervened that bloody October 7 by shooting into the crowd to stop the Hamas attacks, killing Israelis as well.
Gettleman quotes the Israeli police as acknowledging that during the shock and confusion of Oct. 7, the deadliest day in Israeli history, they were not focused on collecting semen samples from women’s bodies, requesting autopsies or closely examining crime scenes. At the time, authorities said, they were intent on pushing back Hamas and identifying the dead.
It was not until weeks after the funeral that testimonies emerged about the signs of rape that several women were allegedly subjected to by Hamas militants, other brigades and civilians who entered from Gaza that Oct. 7.
Access denied to journalists
Gathering evidence on Oct. 7 would undoubtedly have been complicated, but the next day and the days after that it would have been appropriate to gather evidence of the massacre and identify the perpetrators of that carnage.
It is strange that it did not occur to anyone, unless the intent was to cover up the dead killed by Israeli friendly fire.
This begs the question: Why were journalists who could have independently investigated on those events not allowed in?
We will ignore The Times’ interview with Raz Cohen’s friend Shoam Gueta, since the two are cut from the same cloth, and go on to analyze the testimony of Jamal Waraki, a volunteer with the NGO ZAKA, an organization that rescues Israeli citizens.
Zaka, a Hebrew acronym for “Identification of Disaster Victims,” was created in 1995 by a group of ultra-Orthodox Jews and today has an office in Israel and one in New York. On its website it claims to have 3,000 Christian, Druze and Muslim volunteers and it works with the Israeli Foreign Ministry, the army and other government departments.
Israeli volunteers visit kibbutz Kfar Aza, after Hamas attack (New York Times photo)
The founder, Yehuda Meshi Zahav, ran Zaka until March 2021, when he was denounced by men, women and children he allegedly raped, to the point where he was referred to in the Israeli media as “the Jeffrey Epstein of the Haredi,” the ultra-Orthodox. Meshi Zahav never went to trial because he died in late 2022 after a suicide attempt that left him in a coma for more than a year. Back in 2003 he was charged with indecent acts with minors and assaulting young girls. In addition, he was accused of misappropriating donations from the millions of dollars Zaka raises every year. Since October 7, a special collection dedicated to the ongoing war has raised nearly $3.5 million
Exempt from military service
It is interesting to know that descendants of rabbinic families and the ultra-Orthodox, including those who work at Zaka, are not required to do military service in Israel. They are exempt from the draft that is compulsory for all other young Israelis, and many of them live on state support, provoking much discussion in Israeli society and in the media.
The role of Zaka’s volunteers emerged in the aftermath of the Oct. 7 attack, when the group collected bodies, body parts and traces of blood to give proper burial.
The lady in black
The latest The New York Times story is about “the lady in black,” a woman who a few days after the massacre was identified as Gal Abdush. Some of her family members viewed videos taken by first responders that showed her body.
“The video,” writes The Times, “also caught the attention of Israeli officials who, after Oct. 7, quickly began gathering evidence of atrocities. They included the footage of Mrs. Abdush’s body in a presentation to foreign governments and media organizations, using Mrs. Abdush as a representation of the violence committed against women that day. But the only document the family has received is a one-page letter from the President of Israel, Isaac Herzog, expressing his condolences and sending a hug.”
The Israeli government therefore presented the tragedy of Gal Abdush and her husband Nagi, who was also killed, as an example of the horrors perpetrated by Hamas militia. But the day after the U.S. newspaper’s report, the Israeli news site Ynet published an interview with Abdush’s parents, who underscored that there was no evidence that she was raped and said the The New York Times reporters interviewed them under false pretenses: They said they knew nothing about the alleged sexual assault of their daughter until the newspaper published its story. In addition, Gal’s sister also strongly denied the rape allegations.
Since then, Ynet has deleted all pages referring to Gal Abdush from its English site, except a more recent storyquoting her mother supporting the rape thesis.
Deleted web pages
Nevertheless, screenshots of the web archive site of Ynet English site were taken. The deleted content, saved in screenshots by a person who requested anonymity but allowed Africa ExPress to view them (most of them in Hebrew), indicate that Gal Abdush was not raped.
For example her sister, Miral Altar, wrote a lengthy comment on Instagram: “I can’t understand all this news. It is based on one video posted without the family’s knowledge. … It is true that the scenes in the video are disturbing, but it is clear that the dress is lifted upward and not in its natural state, and half of the head is burned because they threw a grenade at the car. I don’t want to be misunderstood as justifying what they did; they are animals, they raped and beheaded people, but in my sister’s case, this is not true. At 6:51 Gal sent us a message on WhatsApp saying, ‘We are at the border and you cannot imagine the sounds of explosions around us.’ At 7 a.m. my brother-in-law (Nagi) called his brother saying his wife has been shot and was dying. Does it make sense that in four minutes they raped, slaughtered and burned her?”
This is a translation of the message Abdush’s sister posted in Hebrew on Instagram, as reported by the Israeli newspaper Haaretz, quoting the U.S. news website Mondoweiss.
“The family of a key case in the October 7The New York Times sexual assault story renounces the story, claiming they were manipulated by reporters.” Here is the full text.
The timing of the reporting of systematic sexual violence is also suspicious since it appeared in Israeli media only after mid-November, more than a month after the Hamas attack and the burial of the victims. Israeli media do not talk about rape until mid-November. Studying the Ynet news site, mention of rape first appearson November 16 with the announcement of a sexual assault on an underage girl.
“Believe Israeli Women” campaign
On Nov. 23, then Israeli Foreign Minister Eli Cohen (from Jan. 1, 2024 Minister of Energy and Infrastructure) launched an international campaign to fight violence against women with the hashtang “Believe Israeli women.”
On Dec. 4 at the United Nations, Israel denounces Hamas for alleged rapes during the Oct. 7 attack.
On Dec. 29, in the wake of The New York Times report, Wikipedia publishes an article on the woman in black,
On Jan. 1 Gal Abdush’s mother speaks and confirms rape even though earlier the whole family said they had no proof of it and only read about it in The New York Times.
On January 1 Nissim Abdush, Nagi’s brother, during an interview on the Israeli Channel 13, repeatedly denied that Gal was raped. Nissim said that he received a phone call from his brother at 7 a.m. and news that Gal was already dead. At 7:44 a.m. he received a message from his brother who begged the family to care for the couple’s children while he was dying.
The condition in which Gal Abdush’s body was found, which the U.S. newspaper attributes to Hamas without a serious independent investigation, could also be linked to the bombings and interventions, including air strikes, by the Israeli army, which had been ordered to fire on Hamas militants even at the risk of killing Israeli civilians.
Hamas has denied all rape allegations. “We reject Israeli lies about rape, which aim to distort the resistance and besmirch our humane and moral treatment of prisoners,” Hamas said in a statement in early December.
“The Israeli regime,” in Hamas’ thinking, “unleashed the war on Gaza on Oct. 7, after the organization launched its operation against the occupier, in response to Israeli atrocities against Palestinians.”
According to Middle East analysts, Hamas’s main goal was not to kill and slaughter Israelis but rather to take them hostage: the living can be used as bargaining chips; the dead, unfortunately, have no value in a negotiation. Indiscriminately killing people only provokes a violent reaction. Prisoners, on the other hand, as is happening, can be used as human shields. It is important to remember how Israeli helicopters fired into the rave party crowd killing, yes, Hamas militiamen but also their compatriots. What is clear is that on 7th of October 1,200 Israelis died, for the most part killed by Hamas and other brigades.
In January 2024, the Israeli Police Unit 105 opened a file on rape, abuse and sexual assault committed by Hamas on Oct. 7. A chief inspector revealed that “these are first-hand accounts of sexual offenses by people who saw with their own eyes and heard with their own ears” and that evidence of mutilation of sexual organs was brought by Zaka volunteers.
It will be interesting to see the conclusions of U.N. commission appointed to investigate the alleged rapes which will arrive in Israel later this month.
In the meantime journalists should be careful. Propaganda in war is always lurking and it comes from all sides: not only from those directly involved on the battlefield.
Speciale per Africa Express Massimo Alberizzi, Alessandra Fava, Cornelia Toelgyes 17 Gennaio 2024
L’articolo del New York Times del 28 dicembre scorso firmato da Jeffrey Gettleman con la collaborazione di Anat Schwartz e Adam Sella, il cui testo è riportato qui, denuncia una violenza di massa senza precedenti, gettando i presupposti per un’accusa di stupro contro Hamas. Quello del Times è un articolo che provoca orrore e comprensibile disprezzo e sentenzia che “i combattenti di Hamas si sono impegnati in stupri e violenze sessuali sistematiche contro le donne israeliane”.
Le denunce del collega Gettleman (che Alberizzi conosce personalmente perché era corrispondente del quotidiano americano da Nairobi), sono state riprese da vari quotidiani, anche italiani, con grande enfasi. L’articolo ha provocato un’ondata di indignazioni legittime. È dal ratto delle sabine che le donne sono preda di guerra. Una pratica disumana e ignobile. Il Teatro Parenti di Milano ha lanciato anche una raccolta firme che in poche ore ha collezionato centinaia di adesioni. Ma l’articolo del New York Times non può essere accettato acriticamente, anche perché a una lettura attenta presenta diversi punti critici e si presta ad interrogativi che vanno chiariti.
In tempo di guerra più balle che terra
Africa ExPress ha voluto controllare se gli stupri di massa e le mostruose violenze ci sono state veramente. Purtroppo, come ha scritto un nostro lettore: “in tempo di guerra più balle che terra”. Disgraziatamente, la propaganda gioca un ruolo perverso dal quale è assai difficile districarsi. Compito, tra gli altri, dei giornalisti dovrebbe essere quello di controllare la veridicità e l’autorevolezza delle fonti. Ed è a questo cui ci diamo dedicati.
Attenzione non neghiamo le violenze di genere di Hamas ma le denunce devono essere precise e inequivocabili e crediamo che in questo caso non lo siano e invece siano piuttosto grossolane. Siamo consapevoli che organizzazione palestinese si è macchiata di gravi e mostruosi crimini e violazioni dei diritti umani. I grandi giornali hanno abbondantemente trattato l’argomento. Noi con la nostra inchiesta vogliamo sottolineare che la propaganda sta facendo a pezzi l’informazione corretta, intellettualmente onesta e indipendente.
Non solo. L’imprecisione delle accuse rivolte ad Hamas rischia di provocare una pesante reazione negativa: un’ondata di inaccettabile ed esecrabile antisemitismo. Le responsabilità dei massacri provocati dai bombardamenti israeliani a Gaza non devono ricadere sugli ebrei ma sulle politiche sioniste di un Paese che ha sempre mal tollerato la presenza dei palestinesi su un territorio tutto sommato comune. Antisionismo e antisemitismo non sono assolutamente sinonimi ed è secondo noi assurdo che vengano trattati come tali. Il sionismo è una dottrina politica.
Qualcuno che ha parlato con qualcun altro
Africa Express ha potuto constatare che l’inchiesta del New York Times non presenta testimonianze dirette. Correttamente il collega americano racconta di averle raccolte da qualcuno che ha parlato con qualcun altro. E poi aggiunge che Hamas nega la partecipazione dei suoi uomini a violenze di genere e che nessun sopravvissuto ha voluto parlare pubblicamente con lui. Gettlemann precisa anche che non ci sono state denunce di donne violentate e non sono state fatte autopsie. Quasi tutti quelli sentiti da Jeffrey Gettleman sono soldati dell’apparato militare israeliano. Non tutti però.
Sapir, contabile di 24 anni, uno dei testimoni chiave della polizia israeliana, è stata sentita per due ore dal NYTimes in un bar. Racconta di aver visto stuprare 5 donne. Purtroppo, non ha voluto che il suo nome fosse rivelato e quindi è stato impossibile rintracciarla. Secondo la testimonianza riportata dal Times ha scattato numerose fotografie che ha fornito agli investigatori, ma non ai giornalisti. Strano, ma giustificabile con una comprensibile riservatezza.
Sapir “ha raccontato che alle 8 del mattino del 7 ottobre, dopo che le avevano sparato alla schiena, gravemente ferita, si era nascosta sotto i rami bassi di una folta tamerice, appena fuori dalla Route 232, a circa quattro miglia a sud-ovest della festa. Si era quindi coperta con l’erba secca e il fango ed è rimasta il più possibile immobile.
Tute militari e stivali da combattimento
Continua poi il suo racconto, raccolto dal quotidiano americano: “A circa 15 metri dal suo nascondiglio, ha visto accostarsi moto, auto e camion. E un centinaio di uomini, molti dei quali vestiti con tute militari, alcune scure, e stivali da combattimento, che salivano e scendevano dai veicoli. Ha raccontato che gli uomini si sono radunati lungo la strada e si sono passati tra loro fucili d’assalto, granate, piccoli missili. C’erano anche donne gravemente ferite.
Francamente sembra poco credibile che una persona ferita alla schiena da un’arma da fuoco, nascosta sotto le foglie non venga scoperta da quel centinaio di uomini armati, in cerca di ostaggi a 15 metri di distanza. Ma tutto è possibile. Tra l’altro come abbiamo già raccontato in un precedente articolo, la strada 232 si trova a 100 metri dalla periferia di un kibbutz dove secondo Safir sarebbero avvenute altre violenze che lei sarebbe riuscita a vedere dal suo nascondiglio.
Un’altra intervista di un’ora e mezza, in un ristorante di Tel Aviv, riguarda un testimone diretto, Raz Cohen, un giovane israeliano consulente di sicurezza che aveva partecipato al rave party assalito da Hamas e che “aveva lavorato di recente nella Repubblica Democratica del Congo addestrando soldati congolesi”. Racconta di essersi nascosto in un ruscello prosciugato che gli ha fornito una certa copertura dagli assalitori alla ricerca di civili e pronti a sparare a chiunque.
Mercenari in Congo-K
E’ utile sapere che il governo di Benjamin Netanyahu nel 2019 ha firmato un accordo con il presidente congolese Félix Tshisekedi per inviare personale militare scelto nella Repubblica Democratica del Congo con il compito di addestrare le truppe e organizzare la sua sicurezza personale. Gli istruttori sono dislocati nella base di Kitona a pochi chilometri dall’Oceano Atlantico ma parecchi sono impiegati anche da “appaltatori militari privati” (leggi mercenari). La maggior parte sono rientrati in Israele richiamati in patria dopo gli assalti di Hamas del 7 ottobre, come rivelato dal periodico specializzato e informatissimo, Africa Intelligence.
La cooperazione militare ha rafforzato i legami bilaterali tra i due Paesi. Tshisekedi ha più volte espresso il suo sostegno al diritto di Israele di esistere e difendersi e ha aumentato il commercio e gli investimenti con le Stato ebraico. L’esercito congolese per le sue forze speciali ha adottato i mitra israeliani EMTAN MZ-4P, compatibili con le munizioni NATO.
Nel 2019, è stato rivelato che due agenzie di intelligence private israeliane la Beni Tal Security e la Black Cube sono state assoldate dall’ex presidente congolese Joseph Kabila per spiare i suoi oppositori e influenzare l’esito delle elezioni presidenziali. Le due società, composte principalmente da ex membri dell’esercito e dei servizi segreti israeliani, opera ancora in Congo ed è accusata di aver organizzato un’operazione segreta in un hotel di Kinshasa, dove gli agenti avrebbero intercettato telefonate, hackerato e-mail e corrotto funzionari.
Ovviamente nessuno degli uomini delle due agenzie ha voglia di parlare con i media, neanche garantendo loro l’anonimato, ma è lecito supporre che il personale militare israeliano inviato in Congo sia impiegato nelle agenzie sostenute dal governo dello Stato ebraico.
Mossad in azione
Le due società sono molto vicine a Dan Gertler, il magnate dei diamanti che opera prevalentemente proprio in Congo, colpito da pesanti sanzioni negli Stati Uniti. Qualcuno sostiene che siano proprio di sua proprietà, ma Africa ExPress non è stato in grado di verificare questa affermazione. Secondo il quotidiano israeliano Haaretz che cita Bloomberg, il capo del Mossad, “i servizi segreti israeliani, Yossi Cohen, e l’ex ambasciatore di Israele negli Stati Uniti, Ron Dermer, sono stati impegnati in una campagna per convincere l’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump a sospendere le sanzioni imposte al magnate minerario israeliano, coinvolto da anni in uno scandalo di corruzione multimilionario nella Repubblica Democratica del Congo”. Trump negli ultimi giorni della sua presidenza, infatti aveva tolto le sanzioni che furono però ripristinate da Joe Biden appena entrato in carica.
E’ bene notare che 23 settembre scorso (poco prima dell’assalto di Hamas, quindi) il Congo-K ha annunciato che trasferirà la sua ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme, città che hanno scelto pochissimi Paesi al mondo come sede della loro rappresentanza diplomatica, giacché secondo le Nazioni Unite, Gerusalemme non è riconosciuta come capitale dello Stato ebraico in quanto in base all’Onu è città internazionale e dovrebbe essere condivisa tra Israele e Palestina.
Questi dettagli rendono le testimonianze dei due mercenari israeliani in Congo leggermente viziate, se non poco credibili.
ZAKA, associazione ultra ortodossa
Tra i testimoni direttamente sentiti dal Times c’è un altro consulente di sicurezza, Yura Karol, 22enne, che ha dichiarato di essersi nascosto nello stesso punto di Sapir e di essere visibile in una delle foto della ragazza. Ha raccontato di aver alzato a malapena la testa per guardare la strada, ma ha anche descritto di aver visto una donna violentata e uccisa.
Secondo testimonianze di civili e soldati israeliani quel maledetto 7 ottobre per bloccare i massacri di Hamas sono intervenuti elicotteri dell’esercito di Tel Aviv che hanno sparato nel mucchio, uccidendo anche loro connazionali.
Tralasciamo poi l’intervista a Shoam Gueta, l’amico di Raz Cohen per evidenti motivi (condividono gli stessi obiettivi), e passiamo ad analizzare la testimonianza di Jamal Waraki, volontario dell’organizzazione non profit ZAKA. Il pezzo rimanda al sito di ZAKA, in cui viene magnificato il lavoro dell’ente che soccorre i cittadini israeliani.
Gettleman scrive: “The Israeli police have acknowledged that, during the shock and confusion of Oct. 7, the deadliest day in Israeli history, they were not focused on collecting semen samples from women’s bodies, requesting autopsies or closely examining crime scenes. At that moment, the authorities said, they were intent on repelling Hamas and identifying the dead” (La polizia israeliana ha riconosciuto che, durante lo shock e la confusione del 7 ottobre, il giorno più letale della storia di Israele, non si è concentrata sulla raccolta di campioni di sperma dai corpi delle donne, sulla richiesta di autopsie o sull’esame ravvicinato delle scene del crimine. In quel momento, hanno detto le autorità, erano intente a respingere Hamas e a identificare i morti).
Non spiega però che Zaka (che in ebraico vuol dire “Identificazione delle vittime di disastri”) è un’associazione creata nel 1995 da un gruppo di ebrei ultra-ortodossi e oggi ha una sede in Israele e una a New York. Nel suo sito https://zakaworld.org/about-zaka/ dichiara di avere 3 mila volontari cristiani, drusi e mussulmani, lavora con il ministero degli esteri, con l’esercito e con altri dipartimenti del governo.
Il fondatore, Yehuda Meshi Zahav, ha diretto Zaka fino al marzo 2021, quando è stato denunciato da uomini, donne e bambini che avrebbe violentato, al punto da essere definito dai media israeliani “il Jeffrey Epstein degli Haredi”, gli ultraortodossi appunto. Non è mai andato a processo perché è morto alla fine del 2022 dopo aver tentato il suicidio ed essere rimasto in coma per oltre un anno. Già nel 2003 era stato accusato di atti indecenti con minori e di aver aggredito moltissime ragazzine. In aggiunta era accusato di distrazione di fondi derivanti da donazioni: Zaka infatti ogni anno raccoglie milioni di dollari, ad esempio, dal 7 ottobre è in corso una raccolta speciale dedicata alla guerra in corso https://give.zakaworld.org/campaign/israel-needs-stronger-zaka/
Esentati dal servizio militare
E’ interessante sapere che i discendenti dalle famiglie rabbiniche e gli ultraortodossi in generale non sono tenuti a partecipare al servizio militare nazionale. Quindi di fatto sono esentati dall’esercito e molti di loro vivono col sostegno statale, argomento che suscita molte discussioni nella società israeliana e sui media. Molti in Israele vorrebbero che anche loro partecipassero alla leva obbligatoria.
Il ruolo dei volontari di Zaka è emerso nel post attentato di Hamas del 7 ottobre, quando i volontari del gruppo hanno raccolto corpi e parti di cadaveri e tracce di sangue per dare degna sepoltura. Solo settimane dopo le esequie sono emerse le testimonianze dei loro volontari a proposito dei segni di stupri che diverse donne avrebbero subito dai militanti di Hamas, dalle altre brigate e da civili gazawi usciti fuori da Gaza quel 7 ottobre.
Accesso negato ai giornalisti
Certo, forse il 7 ottobre sarebbe stato complicato, ma il giorno successivo e i giorni successivi sarebbe stato opportuno raccogliere le prove del massacro e individuare i colpevoli di quella carneficina. Strano che non sia venuto in mente a nessuno, a meno che non si volevano coprire i morti uccisi dal fuoco amico. E quindi viene spontanea una domanda: perché non sono stati ammessi i giornalisti che avrebbero potuto indagare con indipendenza e onestà sull’accaduto?
La signora in nero
L’ultimo straziante racconto del New York Times è quello che riguarda “la signora in nero”, una donna, Gal Abdush, che è stata identificata pochi giorni dopo la strage. Alcuni membri della sua famiglia hanno visionato alcuni video girati dai primi soccorritori che ritraevano il suo cadavere.
“Il video – scrive il Times – ha attirato l’attenzione anche dei funzionari israeliani che, molto rapidamente dopo il 7 ottobre, hanno iniziato a raccogliere prove di atrocità. Hanno incluso il filmato del corpo della signora Abdush in una presentazione fatta a governi e organizzazioni mediatiche straniere, usando la signora Abdush come rappresentazione della violenza commessa contro le donne quel giorno. Ma l’unico documento che la famiglia ha ricevuto è una lettera di una pagina del presidente di Israele, Isaac Herzog, che esprime le sue condoglianze e manda un abbraccio”.
Il governo israeliano dunque ha presentato la tragedia di Gal Abdush e del marito Nagi, ucciso anche lui, come esempio dell’orrore perpetrato dagli uomini di Hamas, ma il giorno dopo la pubblicazione del rapporto del quotidiano americano, il sito di notizie israeliano Ynet ha condotto un’intervista con i genitori di Gal, i quali hanno sottolineato che non vi è alcuna prova che la ragazza sia stata violentata e che i giornalisti del giornale li hanno intervistati con un falso pretesto, affermando che non sapevano nulla della questione della violenza sessuale fino alla pubblicazione del pezzo del quotidiano americano. Inoltre, anche la sorella di Gal ha negato con forza le accuse di stupro. L’intervista dei familiari sul sito di ynet è stata cancellata, mentre comprare quella della madre che conferma lo stupro:
Dal sito di Ynet news effettivamente sono state depennate numerose pagine di news tra fine dicembre e inizio gennaio che non sono più reperibili, nonostante il sito web.archive abbia fatto ogni giorno decine di screenshot. Insomma, è stato eliminato tutto quello che riguarda gli Abdush, tranne l’intervista alla madre, che avvalora la tesi dello stupro.
Invece a quanto risulta da screenshot cancellati ma salvati da qualcuno e quindi visionati da Africa ExPress, molti dei quali in lingua ebraica, Gal Abdush non sarebbe stata violentata. Ad esempio, il sito americano Mondoweiss, secondo il prestigioso quotidiano israeliano Haaretz , scrive: “La famiglia di un caso chiave nel servizio sulle violenze sessuali del New York Times del 7 ottobre rinuncia alla storia, sostenendo di essere stati manipolati dai giornalisti.
Un articolo del New York Times che denuncia le violenze di genere il 7 ottobre si basava sulla storia di Gal Abdush. Ma la famiglia Abdush afferma che non ci sono prove che la ragazza sia stata violentata e che i giornalisti del Times li hanno intervistati con un falso pretesto”.
Su questo link si può leggere il testo integrale in inglese:
“Il 28 dicembre – scrive Mondoweiss –, il New York Times ha pubblicato un rapporto “investigativo” sulla violenza di genere che sarebbe stata commessa dai palestinesi durante l’attacco del 7 ottobre. Il giornale afferma che la storia si basa su oltre 150 interviste condotte dal reporter premio Pulitzer Jeffrey Gettleman, insieme ad Anat Schwartz e Adam Sella. La storia conclude che i combattenti di Hamas si sono impegnati in stupri e violenze sessuali sistematiche contro le donne israeliane. La storia in sé ripete le testimonianze del 7 ottobre già pubblicate in precedenza e già sfatate e screditate, ma l’inchiesta del Times si basa prevalentemente su una storia centrale, quella dello stupro di “Gal Abdush”, che il Times descrive come “la donna con il vestito nero”.
Sostenendo che la sua storia dimostra che “gli attacchi contro le donne non sono stati eventi isolati, ma parte di un più ampio schema di violenza di genere il 7 ottobre”, la veridicità della storia del New York Times è stata minata quasi subito dopo la sua pubblicazione, anche dalla stessa famiglia Abdush, secondo cui non ci sono prove che Gal Abdush sia stata violentata e che il New York Times li ha intervistati con un falso pretesto”.
(qui il testo originale in inglese: On December 28, the New York Times published an “investigative” report on gender-based violence allegedly committed by Palestinians during the October 7 attack. The newspaper says the story was based on over 150 interviews conducted by Pulitzer Prize-winning reporter Jeffrey Gettleman, along with Anat Schwartz and Adam Sella. The story concludes that Hamas fighters engaged in systematic rape and sexual violence against Israeli women.
The story itself repeats October 7 testimonies that have been previously published and already debunked and discredited, but the Times investigation hinges predominantly on one central story, the story of the rape of “Gal Abdush,” who is described by the Times as “The Woman in the Black Dress.”
Although claiming its story proves that “the attacks against women were not isolated events but part of a broader pattern of gender-based violence on Oct. 7” the veracity of the New York Times story was undermined almost as soon as it was published, including from the Abdush family itself who says there is no proof Gal Abdush was raped and that the New York Times interviewed them under false pretenses.)
Il commento della sorella di Gal Abdush
Anche la sorella di Gal, Miral Altar, ha scritto su Instagram un commento sulla morte della sorella. In risposta a un video, dal suo account, Miralalter, commenta: “Non riesco a capire tutte queste notizie. Ci sono state molte storie difficili, perché questa storia in particolare? Si basa su un solo video pubblicato all’insaputa della famiglia… È vero che le scene del video non sono facili, ma è chiaro che il vestito è sollevato verso l’alto e non nel suo stato naturale, e metà della testa è bruciata perché hanno lanciato una granata contro la macchina. Non voglio essere interpretata come se stessi giustificando quello che hanno fatto; sono animali, hanno stuprato e decapitato persone, ma nel caso di mia sorella, questo non è vero. Alle 6.51 Gal ci ha mandato un messaggio su WhatsApp dicendo: “Siamo al confine e non potete immaginare i rumori delle esplosioni intorno a noi”. Alle 7 mio cognato (Nagi, ndr) ha chiamato suo fratello (il marito di Gal, ndr) dicendo che hanno sparato alla moglie e che sta morendo. Non ha senso che in quattro minuti l’abbiano violentata, massacrata e bruciata?”.
Questo il messaggio in ebraico pubblicato da Miral Altar su Instagram.
E’ anche sospetta la tempistica della denuncia delle violenze sessuali sistematiche apparsa sui media israeliani solo dopo la metà di novembre, quindi oltre un mese dopo l’attacco di Hamas e la sepoltura delle vittime. I media israeliani cominciano a parlare di stupri solo a metà novembre. Ad esempio studiando lo storico di Ynet news le notizie sugli stupri appaiono per la prima volta il 16 novembre con l’annuncio di una violenza sessuale su una ragazza minorenne.
Il 23 novembre l’allora Ministro degli esteri israeliano, Eli Cohen (dal 1 gennaio 2024 Ministro dell’energia e le infrastrutture), lancia campagna internazionale contro violenza sulle donne con l’hashtang “credete alle donne israeliane”.
Il 1° gennaio parla la madre di Gal Abdush e conferma lo stupro anche se prima tutta la famiglia aveva detto che non ne avevano alcuna prova e che ne hanno letto solo dopo l’articolo del NYT
Per altro proprio il 1° gennaio, Nissim Abdush, fratello di Nagi, durante un’intervista a Canale 13 israeliano ha ripetutamente negato che Gal sia stata violentata, dicendo che in una telefonata ricevuta dal fratello alle ore 7, Gal era già morta e che in un messaggio delle ore 7.44 raccomandava di occuparsi dei loro figli.
https://13tv.co.il/item/documentary/worth-a-story/usmj7-903873429/
Le condizioni di ritrovamento del corpo di Gal, che il quotidiano americano attribuisce senza un’indagine indipendente seria, ad Hamas, potrebbero anche essere legate ai bombardamenti e gli interventi anche aerei dell’esercito israeliano, che ha ricevuto l’ordine di sparare contro i militanti di Hamas anche a rischio di uccidere la popolazione civile israeliana.
Hamas ha respinto con forza le accuse di stupri e aggressioni sessuali rivolte ai suoi combattenti, affermando che il regime sta cercando di demonizzare la resistenza con queste storie inventate. “Respingiamo le menzogne israeliane sugli stupri, che mirano a distorcere la resistenza e a infangare il nostro trattamento umano e morale dei prigionieri”, ha dichiarato Hamas in un comunicato all’inizio di dicembre.
“Il regime israeliano – è il pensiero di Hamas – ha scatenato la guerra su Gaza il 7 ottobre, dopo che l’organizzazione ha lanciato la sua operazione contro gli occupanti, in risposta alle atrocità israeliane contro i palestinesi”.
Obbiettivo di Hamas non era di ammazzare e massacrare gli israeliani ma piuttosto di prenderli in ostaggio: i vivi possono essere utilizzati come merce di scambio, i morti, purtroppo, non hanno nessun valore in caso di una trattativa. Ammazzando indiscriminatamente la gente si provoca solo una reazione violenta. I prigionieri invece, come sta accadendo, si possono utilizzare come scudi umani. E’ bene ricordare ancora come gli elicotteri israeliani hanno sparato nel mucchio del rave party uccidendo sì i miliziani di Hamas ma anche i loro connazionali.
La scorsa settimana l’unità 105 della Polizia israeliana ha aperto un fascicolo per stupri, abusi e violenze sessuali commesse da Hamas il 7 ottobre. Un ispettore capo ha rivelato che “si tratta di testimonianze di prima mano di offese sessuali da parte di persone che hanno visto coi loro occhi e sentito con le loro orecchie” e che le prove della mutilazione di organi sessuali sono state portate dai volontari di Zaka.
Sicuramente sarà interessante vedere a quali conclusioni arriverà la commissione ONU preposta per indagare sui presunti stupri etnici che arriverà in Israele alla fine del mese. Ma noi giornalisti, intanto, dovremmo fare attenzione. La propaganda in guerra è sempre in agguato e proviene da ogni parte: non solo da chi è direttamente coinvolto sul campo di battaglia.
Massimo A. Alberizzi (massimo.alberizzi@gmail.com) Alessandra Fava (alessandrafava2023@proton.me) Cornelia Toelgyes (corneliaisabeltoelgyes@gmail.com)
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Dal Nostro Corrispondente Sportivo Costantino Muscau
Nairobi, 15 gennaio 2024
“Ciao mamma, sono contenta di essere arrivata uno”.La celebre frase di un ignoto ciclista italiano d’altri tempi ben può adattarsi anche a Jebet Agnes Ngetich, una giovane atleta kenyana.
Jebet, 23 anni da compiere il prossimo 23 gennaio, non solo è arrivata “uno”, ma tagliando il traguardo è stata anche la prima donna al mondo ad aver sfondato il muro dei 29 minuti nella gara dei 10 chilometri. E a segnare il primo record mondiale del 2024.
È successo domenica 14 gennaio, a Valencia, in Spagna, dove la Ngetich ha coperto la distanza in 28 minuti e 46 secondi, migliorando di 28 secondi il tempo della mezzofondista e maratoneta ventiquattrenne etiope di Yalemzerf Yeuhalaw. World Athletics ha sottolineato che il tempo di 10 chilometri di Ngetich è anche più veloce del record mondiale femminile per la distanza in pista, con il record mondiale di 10.000 metri di Letesenbet Gidey a 29:01.03. “Cose dell’altro mondo” , ha commentato il sito World Athletics.
Già a settembre scorso, Jebet aveva corso la distanza in 29:24 minuti al Brasov Running Festival in Romania, segnando un tempo record mondiale. Purtroppo allora il primato non venne ratificato perché la distanza era risultata inferiore di 25 metri!
Comunque, sia domenica scorsa, sia a settembre, la prima telefonata Jebet Agnes la fece alla mamma, al villaggio natio di Kimwogo, nella contea di Elgeyo Marakwet, a quasi 300 chilometri a nord di Nairobi. Non solo perché la mamma è sempre la mamma, ma perché è la persona che più di ogni altra era ed è in grado di capirla. Mamma Veronica Cheruto, infatti, è stata un’atleta di successo sui 10 mila metri negli anni ‘90. “Devo tutto a lei, è un pilastro della mia carriera – sono le parole di Jebet Agnes – dopo i miei record è la prima persona che sento. È stato il mio stimolo continuo”. Uno stimolo morale e fisico, come l’allenatore Ruth Bundotich, che si è definito come una seconda madre nello sport di Jebet.
“L’ho scoperta quando frequentava la settima classe, aveva 12 anni – ha raccontato Ruth al quotidiano The Star – durante i giochi giovanili era in testa sui 5 mila metri, cadde e andai a sollevarla. Da allora venne a vivere da me e per me è diventata una seconda figlia”. La giovane atleta ha cominciato ad allenarsi a Iten, a 2400 metri di altitudine, divenuto una culla di campioni dell’atletica keniota e mondiale. I risultati sono arrivati e non solo grazie alle scarpette speciali con tacco e intersuola di carbonio (costo commerciale circa) 200 euro per lei approntate dalla Adidas.
E’ stata medaglia di bronzo ai Mondiali di corsa campestre, è titolare del record sui 5 mila metri in Africa, è stata sesta nei 10 mila ai campionati mondiali di Budapest 23 (in agosto) e ora è la regina. La sua intenzione è quella di confermarsi tale in marzo ai mondiali di cross a Belgrado e alle Olimpiadi di Parigi.
E ribadire, con un altro detto di un ciclista dei tempi che furono, “chi vuole arrivar secondo si attacchi alla mia ruota”!
La sensazionale performance di Valencia ha scatenato gli entusiasmo in patria, anche perché il tempo registrato dalla giovane kenyana supera quello di due miti storici della Atletica nei 10 mila metri: Emil Zatopek e Paavo Nurmi.
Vale per tutti il giubilo espresso dal ministro degli sport, Ababu Namwamba, 48 anni: “Sono uscito dalla chiesa in questa benedetta domenica di sole alla bella notizia di Agnes Ngetich che ha battuto il record mondiale nella gara su strada di 10 km a Valencia in Spagna. Ho parlato con Agnes al telefono per congratularmi con lei per questa superba impresa. Tutto il Kenya è orgoglioso di te, Agie. Hongera (congratulazioni)”.
Ma in Kenya, si sa, non tutto è oro quel che luccica.
L’Athletics Integrity Unit (AIU) la settimana scorsa ha bandito la maratoneta Sarah Chepchirchir, 39 anni, dalle gare per quattro anni. Dai test condotti dopo la sua vittoria alla maratona di Tokyo nel 2017, Sarah è risultata positiva al testosterone, sostanza proibita.
È la seconda volta che l’atleta incappa nei controlli dell’antidoping. La prima risale al novembre 2019, quando erano state trovate anomalie nel suo passaporto biologico. La squalifica è stata resa nota una settimana dopo che il presidente del World Athletics, Sebastian Coe, ha visitato il Paese (5 gennaio).
Mentre era in Kenya, Coe ha parlato della minaccia incombente di doping nel Paese: sono oltre 70 gli atleti sospesi nel 2023 per essere risultati positivi alle droghe vietate.
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