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Democrazia in bilico in Senegal: il presidente Sall rinvia sine die le elezioni

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
3 febbraio 2024

Il presidente uscente del Senegal, Macky Sall, ha rinviato sine die la prossima tornata elettorale, già fissate per il 25 febbraio prossimo.

Macky Sall, presidente del Senegal

Quando mancavano poche ore all’apertura della campagna elettorale, Sall si è rivolto alla nazione, spiegando di aver abrogato il decreto sulla convocazione del corpo elettorale, rinviando così de facto le elezioni presidenziali, per le quali erano in lizza 20 candidati.

Il discorso del presidente era atteso da giorni, in particolare da parte dei supporter di Karim Wade, figlio dell’ex capo di Stato, Abdoulaye Wade, al potere dal 2000 al 2012, Karim è stato ritenuto non eleggibile, in quanto in possesso di doppia nazionalità (franco-senegalese). I sostenitori di Wade hanno chiesto la creazione di una commissione parlamentare d’inchiesta per indagare su alcuni componenti del Consiglio costituzionale, la cui integrità, per quanto concerne il processo elettorale, è stata messa in discussione.

Oltre a Wade, sono stati esclusi un’altra decina di candidati in lizza, tra loro anche Ousmane Sonko, che si trova ancora in prigione. Su di lui pendono diversi capi d’accusa.

“Il mio impegno solenne a non candidarmi alle elezioni rimane invariato”, ha ribadito Sall. “Mi impegnerò in un dialogo nazionale aperto per creare le condizioni per elezioni libere, trasparenti e inclusive”, ha sottolineato nel suo discorso alla nazione.

È la prima volta dal 1963 che un’elezione presidenziale a suffragio universale diretto viene rinviata nella ex colonia francese.

La data delle elezioni era stata fissata con un decreto del 29 novembre 2023. A fine dicembre Sall aveva promesso di consegnare il potere al presidente eletto all’inizio di aprile, impegno ribadito più volte.

L’attuale capo di Stato, eletto nel 2012 per sette anni e rieletto nel 2019 per altri cinque. A settembre dello scorso anno ha nominato il primo ministro Amadou Bâ, leader del partito al potere, come suo successore.

Cornelia I. Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
X: @cotoelgyes

©RIPRODUZIONE RISERVATA

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Repressione in Senegal: arrestato l’avvocato del leader dell’opposizione già in galera

Chi è la giudice ugandese Julia Sebutinde, l’unica pro Israele alla Corte di Giustizia

 

Speciale per Africa ExPress
Federica Iezzi
31 gennaio 2024

All’Aja i riflettori rimangono ancora puntati sulla controversa posizione della giudice ugandese Julia Sebutinde. Ha espresso il suo voto dissenziente contro le sei misure provvisorie, proposte dalla Corte Internazionale di Giustizia, contro Israele per “prevenire possibili atti genocidari” nella Striscia di Gaza.

International Court of Justice, The Hague

Nella tempesta legale in corso, la mossa di Sebutinde, in evidente e non giustificabile antitesi ad un collegio di 17 giudici, ha subito suscitato indignazione, polemiche e provocato una rapida dissociazione da parte del suo Paese d’origine, l’Uganda.

https://twitter.com/UgandaMFA/status/1751310695532998939

Lo scorso dicembre, il Sudafrica ha avviato un procedimento contro lo Stato di Israele presso il più alto organo giudiziario delle Nazioni Unite, per atti di genocidio contro i palestinesi della Striscia di Gaza.

In questo arazzo giudiziario, Sebutinde ha affermato che la disputa israelo-palestinese è una questione politica con radici storiche, non adatta ad una soluzione giudiziaria. Inoltre, a suo avviso, “il Sud Africa non ha dimostrato, nemmeno prima facie, che gli atti presumibilmente commessi da Israele siano stati commessi con il necessario intento genocida e che, di conseguenza, possano rientrare nell’ambito di applicazione della Convenzione sul Genocidio” [https://www.icj-cij.org/node/203449].

Julia Sebutinde, giudice ugandese di formazione britannica, è la prima donna africana a sedere nella Corte Internazionale di Giustizia. La carriera non è stata priva di controversie. E la sua voce, che fa eco al suo precedente dissenso sul caso dell’Uganda riguardante la Repubblica Democratica del Congo e sul caso Charles Taylor, ex presidente liberiano, riguardante i crimini di guerra in Sierra Leone, aggiunge complessità alla narrazione che circonda le azioni di Israele a Gaza.




La sentenza integrale della Corte Internazionale di Giustizia sul massacro a Gaza




Il modello di voto unanime di Sebutinde, contro tutte le misure provvisorie, è degno di profonde riflessioni, data la sua specializzazione in crimini di guerra e l’apparente forza della tesi del Sudafrica.

Considerata la gravità delle accuse e le potenziali implicazioni per la giustizia internazionale, crescono le richieste di un’indagine approfondita e trasparente sul voto del giudice Sebutinde.

Nel campo del diritto internazionale e della giustizia, l’integrità e l’imparzialità dei giudici sono intoccabili. La Corte Internazionale di Giustizia, in quanto organo critico delle Nazioni Unite, sostiene i principi di un giudizio legittimo e imparziale. Pertanto, qualsiasi accusa o percezione di parzialità, coercizione o corruzione deve essere affrontata con la massima serietà, per preservare la credibilità della Corte stessa e la fiducia della comunità internazionale in questa istituzione.

Sebbene sia essenziale rispettare l’indipendenza della magistratura e l’integrità personale e professionale del giudice Sebutinde, queste circostanze insolite meritano un esame più attento.

Con l’ultima sentenza, la Corte ha tuonato che non è implausibile che le operazioni militari di Israele sulla Striscia di Gaza e il suo assedio violino la Convenzione sul Genocidio (UN, 1948). Né la Corte ha ritenuto inverosimile che le dichiarazioni pubbliche di politici israeliani costituiscano un incitamento al genocidio. Questo rappresenta una disapprovazione significativa nei confronti di un Paese definito democratico e nei confronti della Comunità Internazionale che sostiene che il rispetto del diritto internazionale da parte di Israele, può essere dato per scontato perché è una democrazia.

Federica Iezzi
federicaiezzi@hotmail.it
Twitter @federicaiezzi
©️ RIPRODUZIONE RISERVATA

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Il tribunale delle Nazioni Unite ordina a Israele di fare di più per prevenire uccisioni e danni a Gaza

Gaza, ostaggi morti senza ferite e la madre di uno di loro accusa: “L’esercito usa gas come ad Auschwitz”

A Gaza neppure i morti riposano: la CNN conta 16 cimiteri devastati dai buldozer

UNRWA: donatori interrompono aiuti a Gaza mentre la gente muore di fame

 

 

 

In mostra a Genova quel che resta della Palestina: macerie

Speciale per Africa ExPress
Stefano Bigazzi
Genova, 31 gennaio 2023

Quello che resta. “Macerie. Sculture, dipinti, disegni incisioni (1976-2023): per la Palestina” è il titolo che Selim (Selim Abdullah, Baghdad 1950) ha coerentemente pensato per la mostra personale in corso nei due spazi di quello che fu l’antico convento di San Francesco di Castelletto, Palazzo Montanaro (l’oratorio, già sala capitolare) e nell’adiacente Spazio-Laboratorio (la sacrestia, a esso collegata), a Genova.

Una testimonianza di impegno civile, politico nonché prova artistica e culturale: aspetto questi ultimi, tutt’altro che ovvi. Selim dopo il 7 ottobre ha ripreso un discorso mai d’altra parte interrotto, con molta passione e altrettanto sconcerto. Tanto da chiedersi e chiedere ma davvero l’arte può salvare il mondo? Interrogativo legittimo, cui ha nelle settimane successive ha meditatamente dato risposta, con alcuni dipinti ad aggiungersi al repertorio che ha elaborato, seguendo la storia recente, più o meno negli ultimi cinquant’anni.

Opere che si riferiscono a Tell al-Za’tar, a Sabra e Chatila, ovvero ai massacri – di civili palestinesi – nei campi profughi (di concentramento, di sterminio, evidentemente) sino alla grande tela “Gaza” (ottobre 2023).

Selim rappresenta nella sua arte l’idea di migrazione come necessità ineluttabile, tracciando una geografia di percorsi obbligati, in questo caso verso e intorno al Mediterraneo – luogo simbolico – e nella storia e nel mito (prendendo spunto dalla letteratura greca, in particolare), nel paradosso di genti costrette a spostarsi, a fuggire, a girare in tondo cacciate da tutti, usate da molti. Esodo, appunto, e il paradosso è questo.

Tra migranti e profughi, tra esuli e fuggitivi la differenza è spesso solo lessicale, la sostanza nella maggior parte dei casi è la stessa; si fa prima a dire sconfitti.

“Nell’arco di cinquant’anni di impegno artistico – spiega Selim – le sofferenze del popolo palestinese sono state spesso fonte e sprone determinanti, come del resto sono sempre presenti nella coscienza di ogni individuo medio-orientale. Costante è stata – ed è – la mia ammirazione per questo popolo che, malgrado l’abbandono e il tradimento di tutti, resiste abbarbicato alla propria terra, contro un occupante feroce e disumano. Le tragedie da esso vissute sono tante e, a scadenze pressoché regolari, tornano a colpirlo, a colpirlo con la complicità dei governi dell’Occidente e e non solo dell’Occidente…

Queste opere sono anche il segno di una precisa scelta di campo in ambito artistico: sin dagli inizi della mia attività ho sempre ritenuto che l’arte non debba mai essere un puro esercizio estetico, bensì l’espressione di una ricerca e di una riflessione continue su ciò che siamo… il che, nel mio lavoro, si traduce sovente nell’idea di un’identità collettiva. L’artista per me ė dunque un osservatore, un testimone, un trasmettitore, partecipe e solidale, degli accadimenti che tormentano l’uomo moderno”.

Dell’artista, poi, riporto un commento dello storico dell’arte Roland Scotti: “Selim Abdullah visualizza l’esperienza della sofferenza: sia che si tratti di dolore fisico, sia che si tratti di tragico sradicamento e fuga sia che si tratti della crudeltà delle guerre. Al tempo stesso conserva la tensione esistenziale nella bellezza (quindi nella luce) del disegno, nella materialità e nella forma delle sue opere. La sua arte si bilancia sul crinale che sta tra l’inquietante e il glorioso – come se egli nell’atto artistico, nel processo di lavoro, per tutti noi, ma soprattutto per le vittime della storia, potesse dare forma al momento in cui il destino è superato, o avrebbe potuto esser superato. E sia solo per questo che, seduti insieme come in un rituale arcaico, si tace e si aspetta: Attesa (2008) – un’attività che può essere più eroica di qualsiasi conquista, di qualsiasi impresa ardita generatrice di ripetuti disastri”.

Stefano Bigazzi
©️ RIPRODUZIONE RISERVATA

La mostra è visibile fino all’11 febbraio, Spazio-Laboratorio d’Arte San Francesco, salita Spianata di Castelletto 1r (si raggiunge da salita San Francesco/piazza della Meridiana) Genova. Sabato e domenica ore 16-19.

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E anche nel calcio prosegue il razzismo: africani contro africani arabi

Dal Nostro Corrispondente Sportivo
Costantino Muscau
Nairobi 1° febbraio 2024

“Tutte le nazionali di calcio dei Paesi arabi sono state eliminate, sono
rimaste in campo solo quelle africane vere”. Così ha esultato su X (già
Twitter) il tifoso Dahiru Dauda Idris alla vista del tabellone con le
squadre che si affronteranno il 2 e il 3 febbraio nei quarti di finale della
37esima edizione della Coppa delle Nazioni africane in svolgimento in
Costa D’Avorio.

Coppa delle Nazioni Africane

E così ha dato ragione al titolo di un libro del celebre psichiatra
americano Robert L. Simon: “I buoni lo sognano, i cattivi lo fanno”.
Sono stati in tanti nell’Africa nera a pensarlo nel vedere sbattuti fuori
dal torneo, nel girone eliminatorio, Egitto, Marocco e Algeria e Tunisia, Mauritania.
E rallegrarsi nel guardare elenco delle 8 squadre rimaste: Nigeria, Angola
(2 febbraio), Congo, Guinea Bissau (idem) Mali, Costa d’Avorio (3
febbraio), Capo Verde, Sud Africa (pure il 3 febbraio). Tutte
rappresentanti nazioni situate nel Subsahara, al di sotto del Sahel,
tropicali, equatoriali o sub equatoriali, con centinaia di etnie che il
nostro tifoso (cripto leghista?) considera genuinamente afro.

A dire il vero, anche all’interno di chi sta a nord del Sahel, non c’è
proprio un grande amore. Alla notizia della sconfitta, il 30 gennaio sera,
del Marocco da parte dei Bafana Bafana del Sud Africa (un secco 2-0),
centinaia di tifosi algerini sono scesi in strada urlando dalla gioia. Facile
e immediata la ripicca dei fans marocchini: “Noi siamo diversi da loro,
nel 2019 quando l’Algeria vinse noi gioimmo con loro e per loro”.
Lontani i tempi in cui i magrebini, vittoriosi sul Portogallo di Cristiano
Ronaldo, ai mondiali del Qatar, nel dicembre del 2012, andarono in
semifinale: allora rappresentavano l’Africa intera.

Va a capirlo questo pazzo mondo del pallone….
Di sicuro questa Coppa d’Africa ha riservato sorprese a non finire e
capovolgimenti che ricordano il cosiddetto editto di Franceschiello: “Chilli che stanno abbascio vann’coppa e chilli che stanno ‘ncoppa vann’abbascio”.

Esemplificando fuor di vernacolo: la Guinea Equatoriale, che aveva
rifilato 4 pappine a zero ai padroni di casa e aveva chiuso il girone in
testa, il 28 gennaio è stata battuta dall’altra Guinea e spedita a casa. La
beffa è stata che causa del suo male è stato il capocannoniere della
manifestazione, Emilio Nsue, 34 anni, che ha fallito sia un gol già belle
che fatto è un rigore. In compenso la Costa d’Avorio, data per spacciata, era stata recuperata come terza e ha cacciato il favoritissimo Senegal,
campione uscente, lunedì 29 gennaio, sconfiggendolo ai rigori.

I Leoni della Teranga non hanno gradito l’eliminazione. Un loro
attaccante, Krepin Diatta, 24 anni, (gioca nel Monaco) rientrando negli
spogliatoi, ha urlato ai dirigenti della federazione calcistica africana:” Ci
avete ucciso. Siete corrotti. Tenetevi la vostra Coppa d’Africa”.
Sicuramente seguiranno sanzioni…
Non meno dolorosa, ma meno violenta, la reazione dei
Leoni dell’Atlanta. Prima del match con il Sud Africa, preghiere intense
ad Allah di giocatori e tifosi, poi fiumi di lacrime di fronte alla
conclusione disastrosa della loro partecipazione alla Coppa. Vale la
pena ricordare che il Marocco è la prima squadra del continente nero ed
è fra i tre giganti (con Egitto e Algeria) tornati in patria con la coda fra le
gambe.

Quanto a preghiere, non sono stati da meno in Congo RD. Secondo
quanto ha scritto Patrick Llunga corrispondente di The Nation da
Kinshasa, la partita tra congolesi ed egiziani ha spinto molti predicatori
a ricorrere alla Bibbia, esattamente al capitolo 14:13 dell’Esodo: “Gli
egiziani che vedi oggi, non li vedrai mai più!”

I Leopardi congolesi avevano una paura fottuta dei Faraoni: non li
battevano dal 1974 (allora era Zaire. E vinsero la Coppa). Questa volta ci
sono voluti i rigori: il portiere Lionel Mpasi-Nzau, 29 anni, francese
naturalizzato congolese, ha segnato l’ultimo tiro dal dischetto dopo che
l’omologo avversario Mohamed Gabaski,35, aveva sbagliato. Scherzi del
pallone.

C’è poi chi non ha neanche partecipato alla competizione, ma si è
divertito a sfottere i vicini di casa. Parliamo del Kenya verso la Tanzania,
che non ha mai vinto una sola partita nella Coppa della nazioni africane
e ha dovuto aspettare 30 anni per partecipare alle finali. “Siete più bravi
a cantare che a giocare, l’aereo che vi ha portati ad Abidijan non doveva
spegnere i motori”, hanno irriso in tanti i Taifa Stars (stelle della
nazione) di Dar es Salaam.

Forse solo invidia. Il Kenya intanto cerca di migliorare il suo calcio. Un
forte aiuto, anche se soprattutto simbolico, lo sta dando l’Italia.
È appena ripartito infatti sulle sponde dell’ oceano Indiano un nuovo
ciclo di 22 bambini dai 7 agli 11 anni che frequentano le prime due classi
della Ganda Primary School, in uno dei quartieri periferici più poveri di
Malindi. Fanno parte del Real Malindi (un nome non casuale): è
l’accademia, che racchiude tre leve calcistiche, quella dei bambini dai 7
agli 11 anni, quella juniores dai 12 ai 17 e la squadra vera e propria, composta da giovanissimi Under 21, che si è iscritta al campionato
regionale della costa, una sorta di LegaPro nazionale. Una scuola di
football creata nel 2009 da un gruppo di volonterosi nostri connazionali
per tentare di contrastare microcriminalità, droga e prostituzione
minorile.

Real Malindi Team A

Malindi non è (soltanto o più) la cartolina turistica che ci hanno venduto
per anni. Come ha scritto l’antropologa dell’università di Torino, Lea
Viola, 38 anni, nel suo libro “Corpi fuori controllo – violenza omofobia ed
eteronormarivita’ a Malindi”, “Malindi ha anche un passato ingombrante
di colonialismo, turismo di massa a cui si associa una forte
razzializzazione e oggettificazione dei corpi neri che diventano vittime
del turismo sessuale europeo”. Del quale una parte della generazione di
italiani ha fatto ampiamente parte. La scuola calcistica, diretta da Davis
Badili, ha già dato buoni frutti. La microcriminalità adolescenziale e l’uso
di stupefacenti tra i minori delle periferie di Malindi sono calate del 40 per cento.
Alcuni ragazzi hanno proseguito negli studi, come il capitano Joseph
Nyababwe, laureatosi da poco in Risorse Umane all’università di
Eldoret. Altri hanno dimostrato talento per il calcio, come Eugene Moses
Mokangula, che gioca nella Premier League keniota ed è stato un
cardine della nazionale Under 21.

In serie A, nel Thika United, gioca Baraka Badi, 25 anni, che per essere
accettato nella Real Malindi arrivò alle selezioni camminando a piedi
nudi per 30 chilometri e senza cibo da due giorni. Un suo collega gioca
in Europa.

Per loro, come calciatori, c’è uno stipendio di circa 500 euro al mese.
Ma soprattutto – specifica Badili – prima del pallone fondamentale è lo
studio. Far parte della Real Malindi deve essere uno stimolo per farli
rendere meglio a scuola. Perché se non superi la sufficienza, sei fuori
dal team, anche se sei il nuovo Cristiano Ronaldo”.

Costantino Muscau
muskost@gmail.com
©️ RIPRODUZIONE RISERVATA

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Guinea Equatoriale: un milione 200 mila euro regalo del feroce dittatore alla nazionale di calcio

Costa d’Avorio: Coppa d’Africa, il grande party del calcio africano

 

Giochi di guerra in Africa: anche il Mali acquista droni di ultima generazione dalla Turchia

Speciale per Africa ExPress
Antonio Mazzeo
31 gennaio 2024

Shopping di droni turchi per la giunta militare golpista del Mali. A inizio gennaio, nel corso di una cerimonia ufficiale tenutasi presso l’aeroporto internazionale Modibo Keita di Bamako, le forze armate maliane hanno ricevuto cinque velivoli senza pilota Baykar Bayraktar TB2 prodotti in Turchia dall’azienda Baykar Technologies di Esenyurt. Alla consegna hanno partecipato il colonnello-presidente del “governo di transizione”, Assimi Goita, il corpo diplomatico turco in Mali e i massimi vertici delle forze armate nazionali.

Droni turchi Bayraktar TB2

I nuovi droni d’attacco Bayraktar TB2 giunti nel Paese africano sono stati armati con bombe a guida laser MAM-L, prodotte da un’altra grande industria bellica turca, la Roketsan di Ankara, controllata in buona parte dalle forze armate. Lunghi 12 metri, i velivoli possono volare ininterrottamente per 24 ore ad una velocità di crociera di 130 Km/h.

Secondo la rivista specializzata Jane’s Defense Weekly, sarebbero non meno di 17 i droni TB2 in servizio con i militari maliani. I primi due sono stati consegnati nel dicembre 2022; altri quattro erano arrivati con un volo cargo all’aeroporto di Mopti-Sevare nel marzo 2023 insieme ad una stazione di comando e controllo. I velivoli killer sono impiegati dalle forze armate di Bamako nelle operazioni di guerra contro i gruppi estremisti ribelli nel nord del paese, ma anche fuori confine in Niger e Burkina Faso.

Altri quattro Paesi africani hanno acquistato i droni di fabbricazione turca: si tratta di Niger, Burkina Faso, Togo e Nigeria.

Oltre ai Bayraktar TB2 la giunta militare maliana ha completato l’acquisto di altri sistemi di guerra, principalmente in Russia e in Cina. Dalle industrie belliche russe sono giunti una decina di caccia-addestratori L-39 (impiegati anche per attacchi al suolo), due elicotteri da trasporto Mi-8, un cacciabombardiere Su-25, due elicotteri d’attacco Mi-24P, un aereo da trasporto C295 e sistemi radar mobili Protivnik-GE/59N6-TE. Da Mosca sarebbero arrivati anche un imprecisato numero di blindati ruotati BRDM-2, BTR-60 e BTR-70 ammodernati.

Secondo Analisi Difesa, nei mesi scorsi le forze armate del Mali hanno ricevuto anche decine di veicoli militari, blindati e MRAP (veicoli tattici leggeri con protezione anti-mine) di produzione cinese. Ad essi si sono aggiunti anche non meno di otto veicoli da trasporto truppe “Norinco VP11” e 25 veicoli fuoristrada 4×4 Lynx CS (trasportabili all’interno di un elicottero di media portata e armati di mitragliatrici da 12,7 mm), camion logistici (autocisterne per acqua e carburante, autocarri leggeri), ambulanze e armi portatili.

Antonio Mazzeo
amazzeo61@gmail.com
©️ RIPRODUZIONE RISERVATA

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UNRWA: donatori interrompono aiuti a Gaza mentre la gente muore di fame

 

Speciale per Africa ExPress
Alessandra Fava
30 gennaio 2024

“Nove Paesi hanno sospeso temporaneamente i loro contributi a UNRWA. Questa decisione mette a rischio l’attività umanitaria nella regione e specialmente nella Striscia di Gaza”, anzi dalla fine di febbraio le attività potrebbero essere sospese. Così il commissario generale UNRWA (United Nation Relief and Work Agency for Palestinian Refugees in the Near East), Philippe Lazzarini ha lanciato una richiesta di donazioni da chiunque, compresi i privati, dopo che alcuni tra i principali contribuenti del badget hanno deciso di sospendere gli aiuti in seguito alla denuncia da parte dello Stato di Israele della partecipazione di alcuni dipendenti UNRWA all’attacco di Hamas del 7 ottobre in Israele che ha causato 1,200 morti.

https://www.unrwa.org/newsroom/official-statements/unrwa%E2%80%99s-lifesaving-aid-may-end-due-funding-suspension

Il taglio dei fonti mette a rischio gli aiuti alimentari che eventualmente devono arrivare a Gaza ora, ma anche la sopravvivenza di molte famiglie palestinesi considerando anche che secondo il report del 2022 su 28.044 dipendenti 27.852 sono rifugiati palestinesi. 

Il commissario spiega che per ora le accuse mosse sono contro “un gruppo ristretto dello staff”, dodici persone, di cui uno deceduto e due ancora da identificare. UNRWA ha subito interrotto il contratto dei nove identificati e chiesto un’inchiesta indipendente nel segno della trasparenza. Il dipartimento si occupa a Gaza di 2 milioni di persone in grave deperimento, vicini alla morte per fame e dà cure a 1 milione di sfrattati con 13 mila operatori, di cui 3 mila costituiscono lo staff centrale nella Striscia.

E’ sospetta la tempistica dell’accusa all’UNRWA che sui giornali israeliani circolava almeno da un mese e mezzo, come fonte militare. Infatti le accuse più dettagliate di Israele sono state diffuse il 27 gennaio, il giorno dopo la storica decisione della Corte Internazionale di Giustizia, che chiede misure effettive e immediate da parte del governo Netanyhau per fornire e far passare aiuti alla popolazione civile di Gaza al fine di “evitare atti di genocidio” e include anche di bloccare manifestazioni che incitano all’odio etnico, proprio come la convention dell’estrema destra che si è tenuta domenica scorsa a Gerusalemme, dove mille persone (tra cui moltissimi coloni, 11 ministri e 15 membri della Knesset) hanno sostenuto il diritto a rioccupare di Gaza e a lo sgombero di tutti i gazawi verso paesi in grado di accoglierli. 

Resa nota la decisione della Corte, il giorno dopo Israele ha dato fuoco alle polveri mediatiche diffondendo l’accusa a dodici impiegati dell’UNRWA che avrebbero preso parte all’attacco del 7 ottobre, anche se poi da inchieste successive emerge che solo due di loro sarebbero entrati effettivamente in Israele il 7, mentre un altro avrebbe ricevuto alcuni messaggi a proposito di missili da lanciare.

Sette di loro erano insegnanti nelle scuole e altri due personale di appoggio. Con prove dunque tutte da verificare (infatti si invoca un’indagine appropriata), UNRWA ha deciso di procedere subito al licenziamento, ma nove Paesi tra cui gli Stati uniti, Giappone, Austria, Germania e l’Italia hanno bloccato i fondi. Spagna e Unione Europea hanno invece deciso di non procedere al blocco.

Il relatore per il diritto di accesso al cibo delle Nazioni Unite, Michael Fakri, ha detto che la fame a Gaza è un fatto accertato e ha definito la decisione sulla sospensione dei fondi “una punizione collettiva inflitta a 2 milioni e 200 mila palestinesi”.

Per altro è un giallo come Israele non si sapesse della partecipazione alle attività di Hamas da parte di alcuni, visto che “UNRWA – scrive ancora Lazzarini – ha sempre comunicato la lista dello staff ai Paesi ospitanti, incluso Israele. L’Agenzia non ha mai ricevuto segnalazioni su specifici membri dello staff”.

Photo UNRWA- Fadi Thabet

UNRWA è stata creata dalle Nazioni Unite nel 1949 per assistere i profughi palestinesi cacciati dalle zone della costa verso l’interno e di quelli sfollati da altre aree nelle guerre successive. UNRWA si occupa solo di palestinesi registrati come profughi e dei loro discendenti. Oggi gli assistiti sono 5 milioni e novecentomila persone, divisi in 58 campi: sono 19 i campi delle aree di Gerusalemme Est e nei Territori occupati (per il diritto internazionale attribuiti all’Autorità palestinese ma sempre più occupati da insediamenti non riconosciuti), erano 8 nella Striscia di Gaza dove è in corso la guerra da inizio ottobre; sono dieci in Giordania, dodici in Libano e la Siria ne ha 12 di cui tre campi non ufficiali.

Tutti i cosiddetti campi profughi sono diventati delle città, con strade strette, immobili di diversi piani che man mano sono stati costruiti in aree ridotte. In molti di questi centri, tra cui Shabra e Shatila in Libano, abita un numero più ridotto di palestinesi della Nakba (l’esodo forzato di 700mila palestinesi dai territori occupati nel corso della prima guerra arabo-israeliana  del ‘48) e sono subentrati stranieri africani e asiatici, ovviamente non più assistiti da URWA.

L’agenzia dell’ONU si occupa di microprogetti, microfinanziamenti oltre a programmi educativi e sanitari. Ad esempio gestisce 706 scuole con oltre 543 mila studenti.

Dal report del 2021 che è di oltre 200 pagine apprendiamo in una nota che
“i donatori tradizionali includono Australia, Austria, Belgio, Canada, Danimarca, Francia, Finlandia, Germania, Irlanda, Italia, Giappone, Giordania, Libano, Lussemburgo, Paesi Bassi, Norvegia, l’Autorità palestinesi, la Spagna, Svezia, Svizzera, Siria, Turchia, Stati Uniti, Gran Bretagna e Unione europea. Tra i partner regionali ci sono Egitto, il Fondo per lo sviluppo del Kuwait, Oman, Qatar, Islamic Development Bank, e la Fondazione Khalifa Bin Zayed. Tra i donatori più recenti ci sono Azerbaijan, Brasile, Brunei, Bulgaria, Cile, Cina, Cipro, la repubblica ceca, Estonia, Grecia, la Santa Sede, Islanda, India, Indonesia, Kazakhstan, Latvia, Liechenstein, Malesia, Maldive, Malta, Messico, Monaco, Nuova Zelanda, Pakistan, Filippine, Polonia, Portogallo, Romania, Russia, Slovacchia, Slovenia, Corea del Sud, Tailandia e Uzbekistan.

I fondi totali si aggirano su 1.19 miliardi, di cui 1.7 derivante dai donatori (report 2022). Le donazioni principali arrivano da Stati Uniti con quasi 344 milioni di dollari, dalla Germania 202,1; dall’Unione europea 114,2; dalla Svezia 61. L’Italia versava 18 milioni (dati Urwa del 2022).

https://www.unrwa.org/sites/default/files/content/resources/2021_aor_eng_-_sept_20-2022_1.pdf

Photo URWA – Ashraf Amra

UNRWA come OCHA e altre agenzie delle Nazioni Unite impegnate a monitorare la situazione mediorientale, ha sempre denunciato le sofferenze delle guerre a Gaza e gli effetti devastanti sulla popolazione civile di questa in corso con report puntuali. Il 25 gennaio scriveva “gli attacchi persistenti sui luoghi abitati da civili a Khan Yunis sono inaccettabili e devono fermarsi subito. La gente viene ferita e uccisa. Mentre gli scontri si intensificano in prossimità di ospedali e aree di rifugio degli sfollati, la gente è circondata e vengono impedite le operazioni per salvare delle vite. Il centro UNRWA ieri è stato colpito da due missili e ha preso fuoco”.

Lazzarini ha ricordato come fa da ottobre che “le misure di protezione della popolazione civile, la protezione degli ospedali, delle cliniche, del personale medico e delle Nazioni Unite sono specialmente sancite dall diritto internazionale”.

Alessandra Fava
alessandrafava2023@proton.me
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Il tribunale delle Nazioni Unite ordina a Israele di fare di più per prevenire uccisioni e danni a Gaza

A Gaza neppure i morti riposano: la CNN conta 16 cimiteri devastati dai buldozer

Gaza, ostaggi morti senza ferite e la madre di uno di loro accusa: “L’esercito usa gas come ad Auschwitz”

Vertice Italia-Africa: appello a Mattarella per la liberazione dell’italiano Esono, detenuto in Guinea Equatoriale

Speciale per Africa ExPress
Sandro Pintus
29 gennaio 2024

Fulgencio Obiang Esono, 53 anni, è un ingegnere con passaporto italiano residente a Pisa. Nato in Guinea Equatoriale, da 30 anni in Italia, nel 2018 è stato rapito a Lomè, in Togo, dal servizi equatoguineani.

 Senza prove è stato accusato di un tentativo di colpo di stato del 2017.

Una prigione nella Guinea Equatoriale

Nel giugno 2019 è stato condannato a 60 anni di prigione e le uniche informazioni che si hanno sono che è rinchiuso nella terribile prigione di Playa Negra, nella capitale Malabo. Il carcere è famoso in tutta l’Africa per le torture più terribili e per lo scarsità di cibo dato ai detenuti.

 Nessuno riesce a capire come possa aver partecipato al presunto golpe, visto che in quel periodo era a Pisa dove viveva dal 1988.

Quella inflitta a Fungencio è una condanna pesantissima più simile a una pena di morte, vista la terrificante situazione delle carceri dell’ex colonia spagnola.

“Il processo contro Fulgencio Obiang Esono è al di fuori di ogni standard internazionale. La confessione gli è stata estorta sotto tortura e senza la presenza di un avvocato di fiducia. Hanno preteso e ottenuto la condanna”.

Le prigioni della Guinea Equatoriale sono simili all’inferno

Era stato il forte commento di Corrada Giammarinaro, legale dell’ingegnere pisano ha seguito il caso insieme all’avv. Ponziano Nbomio Nvò, in loco, per Amnesty International.

Africa ExPress, in occasione del Vertice internazionale “Italia-Africa” che si sta tenendo a Roma, chiede al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che si faccia portavoce con il presidente della Guinea Equatoriale, Teodoro Obiang Nguema Mbasogo, per il rilascio di Fulgencio Obiang Esono.

Teodorino Obiang, figlio del dittatore Teodoro Obiang, nel 2008 possedeva questo yacht, mentre la popolazione del suo Paese moriva di fame

Anche Roberto Berardi, imprenditore italiano ha provato le terribili prigioni della Guinea Equatoriale. Nel 2014 era finito in galera accusato ingiustamente di truffa, incastrato dalla dittatura della famiglia Obiang. Su quell’inferno vissuto da Berardi per due anni è nato un libro: “Esperanza. La vera storia di un uomo contro una dittatura africana”, scritto dallo stesso imprenditore con il giornalista Andrea Spinelli Barrile e pubblicato da Slow News.

Sandro Pintus
sandro.p@catpress.com
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Al Quirinale dittatori africani cleptocrati e assassini con i diritti umani sempre in secondo piano

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Guinea Equatoriale, sessant’anni di galera a ingegnere italiano sequestrato dal governo

 

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Il calvario di Roberto Berardi in una galera della Guinea Equatoriale: il fallimento della diplomazia

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EDITORIALE
Massimo A. Alberizzi
28 gennaio 2024

La cosa che più sorprende della politica estera italiana, ma non solo, sono i doppi standard. I comportamenti degli altri sono valutati non in quanto tali, ma piuttosto in base al grado di amicizia con il nostro Paese o quello dei nostri alleati. Un atteggiamento fedele al principio: forte con i deboli, debole con i forti.

Funzionari dell’UNRWA intenti a distribuire cibo a Gaza

L’altro ieri, appena arrivata la notizia che 12 funzionari dell’agenzia delle Nazioni Unite incaricata di assistere i rifugiati palestinesi (UNRWA, United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees in the Near East) sono accusati di aver partecipato all’orrendo massacro perpetrato da Hamas il 7 ottobre contro cittadini israeliani (oltre 1200 morti), i governi americano e britannico hanno annunciato il blocco dei finanziamenti all’agenzia. L’Italia, sempre garantista ma solo con gli amici, senza aspettare un’inchiesta seria e indipendente (annunciata dall’ONU, che ha ovviamente già licenziato i 12 del suo staff) si è subito allineata.

 

L’UNRWA è stata costituita l’8 dicembre 1949 e da allora assiste i rifugiati palestinesi – definiti “persone il cui luogo di residenza abituale era la Palestina nel periodo compreso tra il 1° giugno 1946 e il 15 maggio 1948 – e che hanno perso la casa e i mezzi di sostentamento a causa della guerra del 1948”, e i loro discendenti. Allora aveva in carico 750 mila rifugiati palestinesi. Ora il loro numero è lievitato a poco meno di 6 milioni. Che rischiano di restare senza assistenza.

L’Agenzia (che ha due sedi, Amman e Gaza e vari uffici in Cisgiodania e il Libano è ha oltre 30 mila dipendenti quasi tutti profughi palestinesi) è stata colpita pesantemente dai bombardamenti israeliani su Gaza: sono state uccise 150 persone del suo staff.

Benjami Netanyahu, primo ministro israeliano

Un’accusa, quella fornita da Israele, corredata da prove e confermata dal Dipartimento di Stato americano, profondamente infamante. Il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres, che certamente non può essere accusato di simpatie israeliane,  si è detto “inorridito”. Occorre reagire contro ogni violazione dei diritti umani, specie se condita da violenza.

La decisione di chiudere i finanziamenti all’UNRWA, misura comprensibile giacché l’accusa (ammesso che sia provata) ha inorridito tutte le persone sensibili ai richiami della pietà e dotate di un minimo di compassione per chi ha sofferto dall’attacco dell’7 ottobre, provoca una domanda: perché lo stesso tipo di embargo non si applica nei confronti di dittatori e tiranni che con il loro pugno di ferro insanguinano quotidianamente il nostro pianeta?

Afeworki

Oggi il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, riceve al Quirinale un gruppo di capi di Stato di Paesi africani. Ma tra gli invitati spiccano i nomi di due leader, il presidente/dittatore dell’Eritrea Isaias Afeworki e il vice presidente della Guinea Equatoriale e figlio del tiranno al potere laggiù, Teodoro Nguema Obiang Mangue, detto Teodorino per distinguerlo dal padre che ha lo stesso nome proprio.

I due leader sono accusati di pesanti violazioni dei diritti umani nei confronti dei cittadini del loro Paese che guidano con il pugno di ferro. Afeworki ha impedito all’Eritrea di dotarsi di una Costituzione e tiene in ostaggio la sua gente dove i giovani sono costretti a un servizio militare che si sa quando comincia ma non quando finisce.

Isaias Afeworki, presidente dell’Eritrea

Ogni libertà è impedita, vietati i partiti politici e chi dissente sparisce nelle galere segrete del regime. Dal 18 settembre 2001 una quindicina di ministri e funzionari governativi sono scomparsi, arrestati e non si sa da allora che fine abbiano fatto. I giovani tentano di scappare e se vengono riacciuffati finiscono nei centri di tortura del Paese e sottoposti a violenze inaudite e costretti a “corsi di rieducazione”.

Afeworki e i suoi gerarchi hanno anche lanciato condanne e morte contro giornalisti stranieri che “osano” criticare il regime: una di queste ha colpito anche me, notizia confermata anche da una soffiata arrivata in redazione da parte di alti funzionari del governo italiano.

Per quel che riguarda Teodorino Obiang Mangue basta dare un’occhiata a Wikipedia per capire che tipo è. Dagli incarichi ufficiali ottenuti dal padre, Teodoro Obiang – salito al potere nella Guinea Equatoriale dopo aver ammazzato con le sue mani suo zio e suo predecessore – ha lucrato e saccheggiato i beni del suo Paese. E’ per questo che è inquisito da diverse polizie occidentali. Cleptocrate miliardario amante dalla bella vita e delle belle macchine (Bentley e Lamborghini, anche antiche, Bugatti) ha acquistato ville da sogno in mezzo mondo, poi sequestrate dalle varie  polizie anticorruzione. Mentre lui si gode la bella vita dai proventi del petrolio di cui la Guinea Equatoriale è ricchissima, nel suo Paese la gente muore di fame giacché può contare di poco più di un dollaro al giorno.

Teodorin Obiang, vicepresidente della Guinea Equatoriale

Il 19 gennaio 2013, il padre e padrone della Guinea Equatoriale, ha arrestato l’italiano Roberto Berardi, che aveva aperto un’impresa edile con Teodorino. Berardi aveva poi scoperto operazioni sospette sul conto corrente della società. Poche ore dopo aver chiesto spiegazioni al suo socio era stato arrestato dalla polizia equatoguineana con l’accusa di frode e appropriazione indebita. Era stato multato per 1,2 milioni di euro e tenuto i galera per ben 2 anni.

In queste condizioni è difficile capire l’atteggiamento schizzofrenico delle autorità italiane: l’UNRWA viene penalizzata immediatamente per presunto comportamento criminale di 12 suoi funzionari e gli vengono tolti i finanziamenti con pesanti ricadute sul 6 milioni di profughi palestinesi che l’agenzia sta assistendo.

Dall’altra parte si ricevono con tutti gli onori capi di Stato e i loro rampolli cleptocrati, con le mai sporche di sangue e affamatori di milioni di loro concittadini. Obbiettivo fare affari  assieme e fermare il flusso dei migranti verso il nostro Paese. E’ un mondo capovolto dove dominano logiche che mirano a tutelare interessi di pochi e consolidare il potere di altri. I diritti umani vanno tutelati, sì. Ma solo a parole.

Penso al povero presidente Mattarella costretto a stringere mani sporche di sangue. Francamente non credo che ne abbia alcuna voglia.

Massimo A. Alberizzi
massimo.alberizzi@gmail.com
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Il tribunale delle Nazioni Unite ordina a Israele di fare di più per prevenire uccisioni e danni a Gaza


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L’Aia, 26 gennaio 2024

La più alta corte delle Nazioni Unite ha dichiarato venerdì che Israele deve agire per prevenire atti di genocidio da parte delle sue forze a Gaza e deve far entrare più aiuti nell’enclave. La Corte non ha tuttavia ordinato un cessate il fuoco, come richiesto dal Sudafrica, ma ha detto che Israele deve presentare entro un mese un rapporto che illustri le misure adottate per dare attuazione agli ordini della Corte. Il tribunale non ha strumenti per far rispettare la sentenza e non è chiaro come Israele risponderà alla decisione. Tel Aviv ha negato con forza le accuse di genocidio.

La sentenza, emessa dalla Corte internazionale di giustizia dell’Aia, è stata un primo passo in una causa intentata dal Sudafrica che accusa Israele di aver commesso un genocidio contro i palestinesi di Gaza. Il caso, molto seguito, ha aumentato la pressione sul Primo Ministro Benjamin Netanyahu per la guerra di Israele contro Hamas.

Gaza durante un bombardamento israeliano

In un’udienza molto seguita al Palazzo della Pace dell’Aia, il presidente della Corte ha letto l’ordinanza e le motivazioni, confermando che la Corte ha giurisdizione e sostenendo che c’è un urgente bisogno di misure di emergenza, tra cui maggiori aiuti.

L’ordinanza non è una decisione sul fatto che Israele abbia o meno commesso un genocidio, per quello potrebbero volerci anni. Piuttosto, la misura provvisoria mira a impedire che la situazione peggiori mentre il caso procede.

La battaglia legale ha catturato l’attenzione del mondo, mettendo in luce profonde divisioni. Il Sudafrica sostiene che Israele ha violato la legge commettendo e non impedendo atti di genocidio e ha chiesto alla Corte di ordinare a Israele di cessare immediatamente le operazioni militari a Gaza. Numerose capitali hanno espresso il loro sostegno, così come la Lega Araba, che conta 22 membri, e l’Organizzazione della Cooperazione Islamica, che conta 57 membri.

Palestinesi evacuano un’area dopo un attacco aereo israeliano alla moschea di Sousi, a Gaza City, il 9 ottobre 2023. La crisi umanitaria a Gaza ha raggiunto un punto senza precedenti mentre le ostilità continuano. AFP/Mahmud Hams

Israele ha respinto con forza le accuse, affermando che il Sudafrica ha presentato un quadro “grossolanamente distorto”, ignorando il ruolo di Hamas e “armando” la convenzione internazionale contro il genocidio. L’amministrazione Biden ha respinto la denuncia come “priva di merito”. La Gran Bretagna ha definito le affermazioni “senza senso”.

Secondo il Ministero della Sanità di Gaza, l’offensiva israeliana ha ucciso circa 26.000 palestinesi, la maggior parte dei quali donne e bambini. È stata lanciata dopo che i militanti di Hamas hanno attaccato Israele il 7 ottobre, uccidendo circa 1.200 persone e prendendone circa 253 in ostaggio.

All’inizio del mese, in un’aula gremita, gli avvocati del Sudafrica hanno sostenuto che Israele aveva intenzione di “creare condizioni di morte” a Gaza e hanno chiesto alla corte di ordinare una sospensione d’emergenza della campagna militare.

Gli avvocati di Israele hanno sostenuto che l’esercito del Paese ha lavorato per preservare le vite dei civili a Gaza. Israele ha anche detto di aver dato ai civili due settimane per lasciare il nord di Gaza prima di invadere a fine ottobre e, dopo aver congelato la consegna degli aiuti all’inizio della guerra, ha poi attivato la fornitura giornaliera.

Si prevede che la Corte non emetterà una sentenza sull’accusa di genocidio per anni, e la decisione di venerdì è stata una sentenza provvisoria. “La corte non è tenuta ad accertare se si siano verificate violazioni degli obblighi di Israele ai sensi della Convenzione sul genocidio”, ha dichiarato venerdì Joan E. Donoghue, presidente della corte. “Questo avverrà in una fase successiva del processo”.

I funzionari sanitari di Gaza affermano che più di 25.000 persone sono state uccise da quando Israele ha iniziato un’operazione militare per sconfiggere Hamas, bombardando il territorio e poi lanciando un’invasione di terra. Secondo le Nazioni Unite, oltre il 70% delle vittime sono donne o bambini. Nell’annunciare la sentenza di venerdì, il giudice Donoghue ha citato un alto funzionario delle Nazioni Unite che ha detto recentemente: “Gaza è diventata un luogo di morte e disperazione”.

La campagna di Israele è una risposta all’assalto guidato da Hamas del 7 ottobre, durante il quale, secondo i funzionari israeliani, sono state uccise circa 1.200 persone e circa 240 sono state portate a Gaza come ostaggi.

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La sentenza integrale della Corte Internazionale di Giustizia sul massacro a Gaza

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L’Aja, 26 gennaio 2024

Pubblichiamo  il testo integrale della sentenza emessa dalla Corte Internazionale dell’Aja. Inoltre abbiamo raccolto in un breve riassunto le più importanti conclusioni della Corte:

1.. E’ stata ammessa la causa intentata dal Sudafrica e respinta la richiesta israeliana di archiviazione.

2..La sentenza considera i palestinesi della Striscia di Gaza come un gruppo umano nazionale omogeneo protetto dal diritto internazionale.

Una palazzina palestinese distrutta da un bombardamento israeliano – credit Samar Abu Elouf for The New York Times

3..La Corte ha citato esempi di dichiarazioni israeliane relative al genocidio, all’uccisione e alla pulizia, come quelle di Gallant e di Netanyahu.

4..La corte ha citato esempi di decisioni e dichiarazioni di organizzazioni internazionali riguardanti le violazioni israeliane e le descrizioni della situazione catastrofica a Gaza.

5..Il tribunale ha ritenuto che Israele stesse commettendo atti incompatibili con i suoi obblighi, giacché firmatario di convenzioni internazionali.

6..Il tribunale ha chiesto di fermare tutto ciò che riguarda l’uccisione, il danno fisico e psicologico e la distruzione dei palestinesi.

7..La Corte ha chiesto a Israele di garantire che il suo esercito sia controllato non possa violare gli obblighi internazionali sottoscritti nei trattati.

8..La Corte ha chiesto a Israele di presentare entro un mese un rapporto sulle misure che adotterà per fermare le uccisioni, le distruzioni e i danni causati e per garantire che le sue forze non compiano atti di genocidio.

9.. La Corte ha chiesto a Israele di attuare misure per migliorare le condizioni dei palestinesi e soddisfare i bisogni umanitari urgenti.

10…La Corte ha affermato che le sue decisioni impongono obblighi legali internazionali a Israele.

11.. I giudici del tribunale hanno approvato le decisioni quasi all’unanimità, 15 su 16. Solo la giudice ugandese si è dichiarata contraria.

Sentenza su Gaza 1

Sentenza su Gaza 2

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