15.9 C
Nairobi
venerdì, Gennaio 10, 2025
Home Blog Page 34

Massacro senza fine in Sudan: ospedali distrutti, senza medici e medicine

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
11 febbraio 2024

La guerra dei due generali che infuria in Sudan dal 15 aprile dell’anno scorso non tende a placarsi. Finora sono morte tra 13.000 – 15.000 persone. Cifra sicuramente sottostimata e alla quale vanno aggiunti quelli che hanno perso la vita durante la fuga.

In fuga dalla guerra, migranti sudanesi annegano al largo delle coste tunisine

Pochi giorni fa nel Mediterraneo, al largo della Tunisia, sono annegati 13 sudanesi e altri 27 risultano dispersi. Il gruppo, composto da 42 persone, era partito da Jebiniana, Sfax; tutti erano regolarmente registrati come rifugiati all’UNHCR. L’imbarcazione con la quale hanno tentato di raggiungere le coste italiane, si è capovolta e, secondo quanto riportato da Farid Ben Jha, portavoce del tribunale di Montasir, la guardia costiera tunisina è riuscita a salvarne solamente due.

Certo, sono naufragati per scappare dalla guerra nel loro Paese, ma non solo. L’accoglienza che la Tunisia riserva ai migranti africani è ben nota. Basti pensare alle parole pronunciate un anno fa dal presidente tunisino, Kaïs Saïed, che ha definito coloro che provengono da Paesi sub sahariani “orde di immigrati clandestini, fonte di violenza, crimini e atti inaccettabili”.

Altri sudanesi, invece, muoiono di fame e stenti anche nei campi per sfollati e profughi. E proprio qualche giorno fa l’UNICEF ha lanciato un nuovo allarme: “Settecentomila bambini rischiano di essere colpiti dalla peggior forma di malnutrizione e decine di migliaia potrebbero morire”. Oltre 10,7 milioni di sudanesi hanno dovuto abbandonare le proprie case, tra loro 1,7 sono fuggiti nei Paesi limitrofi. Il Ciad ospita il 37 per cento di chi ha cercato protezione all’estero, il Sud Sudan il 30 per cento, l’Egitto il 24 per cento e l’Etiopia, la Libia e la Repubblica Centrafricana il resto.

La situazione umanitaria resta catastrofica in tutto il territorio nazionale. Oltre 25 milioni di sudanesi necessitano di aiuti umanitari.

Sudan: situazione umanitaria catastrofica

Poi piove sempre sul bagnato: il colera si sta diffondendo a causa delle cattive condizioni igieniche. Finora sono stati riscontrati 10.500 casi sospetti e 292 decessi.

La guerra tra i due generali, Mohamed Hamdan Dagalo “Hemetti”, leader delle Rapid Support Forces (RSF), e il de facto presidente e capo dell’esercito, Abdel Fattah Abdelrahman al-Burhan, non solo ha messo in ginocchio l’intera popolazione, ma ha anche distrutto gran parte delle infrastrutture del Paese. Gli ospedali, sono chiusi o operano solo parzialmente per mancanza di medicinali, attrezzature e personale.

Dall’inizio del mese, la rete internet non funziona quasi del tutto e in alcune zone è fuori uso. Le due fazioni si accusano a vicenda di aver provocato i guasti.

Dopo un’assenza prolungata, l’8 febbraio scorso il presidente al-Burhan è ritornato a Khartoum. Si trovava a Port Sudan, nel nord-ovest del Paese, dallo scorso agosto, insieme al Consiglio sovrano e al governo.

Obiettivo principale del suo rientro nella capitale è quello di allentare le tensioni all’interno dell’esercito.

Negli ultimi mesi il presidente sudanese si è recato spesso all’estero, dove ha incontrato diversi capi di Stato. Un prossimo tour lo porterà a breve a Teheran, in Turchia e in altri Paesi della regione.

Mercoledì scorso a Ginevra Martin Griffiths, capo di Ocha, l’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari, ha annunciato che le parti belligeranti abbiano accettato di incontrarsi per discutere di questioni umanitarie. Al meeting in Svizzera dovrebbero partecipare i due generali. Non è ancora stata fissata la data

Cornelia I. Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
X: @cotoelgyes
©RIPRODUZIONE RISERVATA

Vuoi contattare Africa ExPress? Manda un messaggio WhatsApp con il tuo nome e la tua regione (o Paese) di residenza al numero +39 345 211 73 43 e ti richiameremo. Specifica se vuoi essere iscritto alla Mailing List di Africa Express per ricevere gratuitamente via whatsapp le news del nostro quotidiano online.

Scene dall’apocalisse in Sudan: Khartoum è diventata una città spettrale, morte e distruzione ovunque

Tunisia ritira dal confine con la Libia centinaia di migranti deportati da Sfax

Affari di guerra imbarazzanti per Leonardo: accordo bellico con l’Arabia Saudita che bombarda lo Yemen

Speciale per Africa ExPress
Antonio Mazzeo
Febbraio 2024

Mentre è in atto una pericolosa escalation del conflitto anti-Houthi in Yemen e l’Arabia Saudita conquista le vette mondiali per barbarità e violazioni sistematiche dei diritti umani (196 esecuzioni capitali nel 2022, 54 nei primi sei mesi del 2023), le industrie belliche e le forze armate italiane scelgono di rafforzare la partnership con la petromonarchia saudita.

Il 4 febbraio scorso, in occasione del World Defense Show 2024 (la kermesse internazionale degli strumenti di morte che le autorità saudite organizzano ogni due anni a Riad), la holding Leonardo SpA a capitale statale ha sottoscritto un Memorandum of Understanding (MoU) con il Ministero degli Investimenti e l’Autorità Generale per l’Industria militare dell’Arabia Saudita.

Combattimento aereo

“L’accordo ha l’obiettivo di discutere, sviluppare e valutare una serie di investimenti e opportunità di collaborazione nei settori dell’aerospazio e della difesa”, spiegano i manager di Leonardo. “Il MoU copre ampi settori; spazio, velivoli aerei, radar, sensori integrati esistemi di guerra elettronica, sistemi a pilotaggio remoto, tecnologie digitali, servizi e processi di industrializzazione,manutenzione, riparazione e revisione per aerostrutture, assemblaggio di elicotteri. Esso offre inoltre un focus su aree specifiche, sia nel settore del combattimento aereo, che in quello dell’integrazione multi-dominio, campi dove Leonardo sta sviluppando tecnologie di nuova generazione e implementando una serie di progetti dimostrativi abilitanti”.

Il nuovo accordo con il regime saudita è stato enfatizzato dal Presidente di Leonardo SpA, l’ex ambasciatore Stefano Pontecorvo. “Questa firma rappresenta non solo un’importante opportunità per consolidare la cooperazione sulla difesa e rafforzare una visione comune sulle operazioni future del combattimento aereo, ma anche una piattaforma per sviluppare congiuntamente nuove tecnologie, attraverso l’esperienza e le capacità delle parti”, ha dichiarato Pontecorvo.

Per il condirettore della holding armiera italiana, Lorenzo Mariani, il consolidamento della collaborazione con il governo di Riad consentirà di lavorare in vista di nuove soluzioni nel campo della ricerca e sviluppo, industriale e dei servizi.“Per decenni Leonardo ha fornito al Paese piattaforme, sistemi, tecnologie, dal trasporto aereo, al supporto all’industria energetica, agli elicotteri, fino a sistemi elettronici e sensori, a cui si aggiungono sistemi per la difesa marittima e cyber, oltre a un contributo chiave nel campo della difesa aerea”, ha spiegato Mariani.

Un hub regionale

“Questo accordo – ha continuato il condirettore – rappresenta l’ultimo passo nel rafforzare le attività di Leonardo nel Regno, a partire dalla costituzione di un hub regionale. Collaborando con partner locali, Istituti di ricerca e utenti finali, Leonardo potrà generare sviluppo sostenibile e attività di produzione nel Paese. Il MoU contribuirà significativamente alla Vision 2030 dell’Arabia Saudita finalizzata all’implementazione di riforme senza precedenti nel settore pubblico, alla diversificazione dell’economia, per consentire a cittadini e imprese di raggiungere pienamente il loro potenziale e creare opportunità di crescita innovative”. Vision 2030 è il programma strategico di sviluppo industriale promosso dalla dinastia Al-Saud, finalizzato in buona parte ad un ulteriore rafforzamento del proprio apparato bellico.

Al World Defence Showdi Riad, conclusosi l’8 febbraio, erano presenti espositori provenienti da 65 paesi. Per l’Italia, oltre a Leonardo, vi hanno partecipato numerose aziende del settoreaerospaziale, dell’elettronica militare e delle cyberwared una delegazione del ministero della Difesa e delle forze armate. Gli stand della fiera delle armi sono stati visitati il 5 febbraio dall’ammiraglio Federico Bisconti, vice-segretario generale della Difesa e della Direzione nazionale degli armamenti. Bisconti ha pure incontrato il viceministro della difesa saudita, nonché capo dell’Armament and Procurement, generale Ibrahim Al Suwayed.

Tre giorni dopo è stata la volta del segretario della Difesa e direttore nazionale degli armamenti, il generale Luciano Portolano: a Riad ha incontrato il Capo di Stato Maggiore della difesa, generale Fayyadh al-Ruwaili, con il quale ha avuto un “colloquio cordiale e proficuo su temi di mutuo interesse, quali quelli relativi a Difesa, Sicurezza e collaborazione industriale di settore”.

Eccellenti relazioni

Luciano Portolano ed alti rappresentanti dello Stato Maggiore delle forze armate italiane erano già stati ricevuti dal generale Fayyadh al-Ruwaili in occasione del Joint Consultative Committee, il comitato consultivomilitare tra Arabia Saudita e Italia, tenutosi il 4 al 5 dicembre 2023. In quell’occasione il Capo di Stato Maggiore della petromonarchia aveva pubblicamente espresso la propria soddisfazione per le“eccellenti relazioni” tra i due paesi. “Il generale Portolano ha assicurato la piena disponibilità e collaborazione in campo militare, enfatizzando l’importanza dell’interoperabilità dei nuovi programmi superando il concetto di interforze, e proiettandosi a quello di All Domain, attraverso l’integrazione di tutte le capacità e le risorse della Difesa”, riporta l’ufficio stampa del Ministero della difesa italiano.

Il 25 gennaio 2023, il generale Fayyadh al-Ruwailiera stato ospite a Roma del ministro Guido Crosetto. Nei giorni precedenti, una delegazione del Corpo sanitario delle forze armate dell’Arabia Saudita aveva visitato l’Istituto di Medicina Aerospaziale (IMAS) dell’Aeronautica Militare per “osservare, comprendere e studiare le procedure di selezione e delle visite mediche effettuate presso l’Istituto”.

I grandi affari di Leonardo SpA in Arabia Saudita

Dopo la recentissima missione in terra araba, i manager di Leonardo e dell’intero comparto militare-industriale italiano sono convinti di poter ottenere nuove commesse miliardarie da parte del belligerante regime saudita. “A Riad siamo presenti con il nostro ufficio di rappresentanza, la nostra controllata Selex ES Saudi Arabia, e con succursali dedicate al settore bancario; inoltre, abbiamo personale nelle basi militari del Regno e presso Aramco, la principale società nel settore degli idrocarburi, nella regione orientale”, spiega Leonardo. E aggiunge: “Forniamo soluzioni tecnologiche al Regno dell’Arabia Saudita, a partire dagli elicotteri VIP fino ai sistemi per la gestione del sistema bancario islamico.

Abbiamo fornito elicotteri per il trasporto alla Reale Aeronautica saudita. Per oltre 40 anni abbiamo fornito l’avionica e i principali sistemi di comunicazione dei cacciabombardieri Typhoon e Tornado operati dall’Aviazione. Siamo leader nel campo delle soluzioni ISTAR (Intelligence, Surveillance, Target Acquisitione  Reconnaissance) e offriamo all’Arabia Saudita i nostri velivoli senza pilota per la sorveglianza aerea, oltre a garantire servizi di assistenza, formazione e manutenzione sul posto”.

Il gruppo Leonardo ha pure fornito alle forze armate di Riad i sistemi radio per le missioni tattiche e le comunicazioni strategiche e quelli a diffusione troposferica e satellitari per la Guardia Nazionale.

Venduti 75 cacciabombardieri

Il maggiore affare per il gruppo italiano è rappresentato però dalla vendita ai sauditi di 72 cacciabombardieri “EurofighterTyphoon”, per il valore complessivo di 6,5 miliardi di euro. Il contratto fu firmato nel 2007 dal consorzio europeo “Eurofighter” con sede a Monaco di Baviera, controllato per il 46% dal gruppo tedesco-spagnolo Eads, per il 33% da Bae Systems (Regno Unito) e per il restante 21 per cento da Alenia Aeronautica/Leonardo. La consegna dei velivoli è stata completata nel 2017.

EurofighterTyphoon

“Velivolo da combattimento multiruolo bimotore, supersonico, il Typhoon è un autentico concentrato di tecnologie fortemente innovative; grazie ai sensori di bordo i piloti hanno una superiore consapevolezza della situazione, oltre ad una capacità operativa net-centrica”, decantano i manager Leonardo. Caratteristiche sperimentate con un immane tributo di sangue in territorio yemenita da parte dell’Aeronautica saudita che ha poi richiesto altri 48 cacciabombardieri Eurofightere armamenti di supporto (valore 12 miliardi di euro). La trattativa si è arenata a fine 2018 a seguito del divieto del governo tedesco di esportare armi all’Arabia Saudita, dopo l’uccisione in Turchia del giornalista dissidente Jamal Khashoggi. Il veto è stato rimosso nei mesi scorsi dall’amministrazione Sholze adesso il consorzio industriale europeo punta a chiudere l’accordo con Riad entro la fine dell’anno.

Intanto i piloti sauditi continuano ad addestrarsi e formarsi nelle “prestigiose” scuole di volo dell’Aeronautica Militare italiana. “Da diversi anni tale azione è concretizzata con l’istruzione di cadetti piloti della RoyalSaudi Air Force presso l’Accademia Aeronautica di Pozzuoli, la Scuola di Volo del 70° Stormo di Latina, del 61° Stormo di Galatina e l’adempimento dei rigorosi controlli medici presso gli Istituti di Medicina Aerospaziale di Roma e Milano”, spiega lo Stato maggiore della difesa. Inoltre dal 2021 sono stati avviati presso lo scalo militare di Pratica di Mare (Roma) i corsi di formazione per gli allievi pilota dell’Arabia Saudita a bordo degli aerei multimissione ed intelligence, mentre dal 2022 presso il 72° stormo di Frosinone si svolgono le attività formative per il conseguimento del brevetto di pilota militare “linea elicotteri”.

Frosinone: diploma a 4 piloti della Royal Saudi Air Force.

Proprio a Frosinone il 30 ottobre 2023 l’Aeronautica italiana ha “diplomato” quattro frequentatori della Royal Saudi Air Force. “I giovani piloti hanno svolto un lungo periodo di formazione in Italia, presso il Centro Aviation English di Loreto, successivamente presso il 70° stormo di Latina per il brevetto di pilota di aeroplano e la fase II – PrimaryPilot Training (finalizzata alla individuazione delle linee su cui saranno impiegati – fighters, pilotaggio remoto RPA, elicotteri, trasporto) presso il 61° stormo”, aggiunge lo Stato Maggiore. “Dopo la fase II, i piloti idonei per le linee elicotteri o trasporto, vengono indirizzati rispettivamente presso il 72° stormo di Frosinone dove si svolge la fase addestrativa sugli elicotteri TH500B e UH-139; oppure presso il CAE MultiCrew di Pratica di Mare utilizzando il velivolo P180 Avanti e il simulatore di volo statico AL-SIM”.

Alla cerimonia di consegna dei diplomi era presente il comandante dell’Accademia Aeronautica saudita, generale Hazim Bin Gheshiyan. Rivolgendosi agli ospiti stranieri, il generale Silvano Frigerio (alla guida del Comando delle Scuole dell’Aeronautica Militare della 3^ Regione Aerea), ha sottolineato come i rapporti con le forze aeree del paese arabo risalgano a quasi un secolo fa. “Nel 1933 abbiamo formato in Italia il primo pilota saudita”, ha ricordato Frigerio. “Oggi la nostra cooperazione si basa su un’eredità di amicizia, per creare nuove generazioni di piloti e ingegneri che possano contribuire a rafforzare questa collaborazione e promuovere la pace.

Sì, quella pace dei camposanti dove riposano i corpi dei bambini yemeniti dilaniati dai bombardamenti della Reale aeronautica saudita.

Antonio Mazzeo
amazzeo61@gmail.com
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Vuoi contattare Africa ExPress? Manda un messaggio WhatsApp con il tuo nome e la tua regione (o Paese) di residenza al numero +39 345 211 73 43 e ti richiameremo. Specifica se vuoi essere iscritto alla Mailing List di Africa Express per ricevere gratuitamente via whatsapp le news del nostro quotidiano online.

 

Gli Stati Uniti bloccano all’ONU ancora una volta la mozione in aiuto della Palestina

Speciale per Africa ExPress
Federica Iezzi
9 febbraio 2024

Su richiesta dell’Algeria, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha discusso la recente ordinanza della Corte Internazionale di Giustizia, che obbliga Israele a prendere tutte le misure necessarie per evitare atti di genocidio a Gaza.

Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite

Secondo la sentenza provvisoria, inoltre, Israele deve adottare misure per prevenire e punire l’incitamento al genocidio, consentire immediatamente aiuti umanitari nella Striscia di Gaza e riferire entro un mese sulle sue azioni.

L’Algeria, membro non permanente del Consiglio di Sicurezza, attraverso il suo ambasciatore Amar Bendjama, ha condiviso la bozza di risoluzione con i 15 membri del Consiglio, chiedendo un cessate il fuoco immediato. Richiede inoltre l’attuazione delle due precedenti risoluzioni 2712 (2023) e 2720 (2023), per consentire un accesso umanitario immediato e sicuro, e per creare le condizioni per una cessazione sostenibile delle ostilità.

https://twitter.com/AlgeriaUN/status/1752768142001025239

Nel Consiglio di Sicurezza, per essere adottata, una risoluzione necessita di almeno nove voti a favore e nessun veto da parte di Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Cina o Russia, membri permanenti dell’organismo.

Senza farsi attendere, è arrivata presto l’opposizione degli Stati Uniti. Linda Thomas-Greenfield, rappresentante permanente degli Stati Uniti presso le Nazioni Unite, ha giustificato l’atteggiamento del suo Paese affermando che il progetto algerino potrebbe compromettere i negoziati in corso, mediati dal Qatar e proposti da Stati Uniti, Israele ed Egitto, e interrompere gli sforzi diplomatici in corso per garantire il rilascio degli ostaggi.

Succede ancora una volta, dunque. Lo scorso dicembre, il Consiglio di Sicurezza ha approvato una risoluzione volta ad aumentare gli aiuti umanitari sulla Striscia di Gaza. Però nessun cessate il fuoco, a causa del veto da parte degli Stati Uniti. Solo “pause umanitarie nei combattimenti”, per proteggere i civili e liberare gli ostaggi.

Linda Thomas-Greenfield inverte così i ruoli e cerca di impedire qualsiasi decisione che costringa l’entità israeliana a fermare i suoi crimini contro la popolazione palestinese di Gaza e della Cisgiordania, sostenendo che qualsiasi misura sfavorevole a Israele costituirebbe una minaccia ad un presunto progetto di tregua che sarebbe in discussione.

L’ultima ordinanza della Corte Internazionale di Giustizia è stata oggetto di interpretazioni divergenti. All’inizio del procedimento, l’Algeria, seguendo il filo sudafricano, ha appoggiato le misure provvisorie imposte a Israele, le cui azioni costituiscono potenzialmente un genocidio.

Secondo la Cina, le misure provvisorie della Corte rappresentano un appello alla protezione della popolazione civile, mentre Mozambico e Guyana ritengono che la sentenza spinga per una pausa umanitaria immediata e duratura. Gli Stati Uniti hanno ritenuto che, nelle sue conclusioni preliminari, la Corte non avesse raccomandato un cessate il fuoco immediato, né affermato che Israele avrebbe potuto violare la Convenzione sul Genocidio. Israele ha invece denunciato un “processo politicizzato”.

Federica Iezzi
federicaiezzi@hotmail.it
Twitter @federicaiezzi
©️ RIPRODUZIONE RISERVATA

Vuoi contattare Africa ExPress? Manda un messaggio WhatsApp con il tuo nome e la tua regione (o Paese) di residenza al numero +39 345 211 73 43 e ti richiameremo. Specifica se vuoi essere iscritto alla Mailing List di Africa Express per ricevere gratuitamente via whatsapp le news del nostro quotidiano online.

Il tribunale delle Nazioni Unite ordina a Israele di fare di più per prevenire uccisioni e danni a Gaza

La sentenza integrale della Corte Internazionale di Giustizia sul massacro a Gaza

Gaza, ostaggi morti senza ferite e la madre di uno di loro accusa: “L’esercito usa gas come ad Auschwitz”

La guerra a Gaza e le minacce degli houti nel Mar Rosso rendono complicato il traffico marittimo

Gaza, ostaggi morti senza ferite e la madre di uno di loro accusa: “L’esercito usa gas come ad Auschwitz”

Fuoco e fiamme nell’est della Repubblica Democratica del Congo: migliaia di nuovi sfollati

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
8 febbraio 2024

Migliaia di congolesi sono nuovamente in fuga nell’est della Repubblica Democratica del Congo. I combattimenti tra l’esercito (FARDC) e i ribelli M23 (che prendono il nome da un accordo, firmato dal governo del Congo-K e da un’ex milizia filo tutsi il 23 marzo 2009) ieri si sono intensificati e i miliziani avrebbero circondato Saké, città strategica sulla strada per Goma, a una ventina di chilometri dal capoluogo del Nord-Kivu.

E anche questa mattina gli scontri tra i militari di Kinshasa e miliziani dell’ M23 sono continuati. Verso mezzogiorno una bomba è caduta in un campo per sfollati non lontano dal fiume Mubangu, per fortuna non  sono state registrate vittime. Mentre un’altra, caduta ieri a Kimoka, nel territorio di Masisi, ha causato danni ingenti e ha ucciso e ferito parecchie persone.

Nuovi pesanti scontri nell’est del Congo-K tra FARDC e M23

L’esercito congolese e MONUSCO (Missione di pace dell’ONU in RDC) hanno lottato e faticato per contenere l’avanzata degli M23. E Mentre i combattimenti erano in pieno svolgimento, migliaia di persone fuggite da Saké sono arrivate a Bulengo, a circa 10 chilometri a ovest di Goma.

Gli sfollati sono disperati: “Stiamo scappando dai combattimenti, non sappiamo dove andremo, dove ci accoglieranno. Qui a casa non possiamo restare, non possiamo sopravvivere in una situazione del genere”, ha raccontato una donna ai reporter di al Jazeera.

Gli scontri tra i ribelli, esercito e milizie filogovernative si sono intensificati di recente, costringendo intere comunità nei territori di Masisi e Rutshuru a fuggire verso aree più sicure alla periferia di Goma.

Natalia Torrent, responsabile di Medici Senza Frontiere (MSF) a Mweso, ha dichiarato che i combattimenti sono scoppiati due settimane fa. Ma anche la ONG ha dovuto evacuare parte del suo staff, dopo che un loro ospedale è stato crivellato di proiettili. Nel nosocomio si erano rifugiati migliaia di residenti di Mweso prima di abbandonare la città.

Sfollati in Congo-K

Jean-Pierre Lacroix, sottosegretario generale delle Nazioni Unite per le operazioni di pace, è stato in Congo-K in questi giorni. Durante la sua permanenza è stato anche nell’est del Paese, zona da decenni devastata dai gruppi armati, mentre il 6 febbraio l’alto funzionario dell’ONU ha incontrato anche il presidente, Felix Tshisekedi, appena rieletto per un secondo mandato.

MONUSCO,  dopo 25 anni di presenza in Congo-K,  sta iniziando a preparare i bagagli. Dovrà lasciare il Paese entro dicembre 2024. Il contingente internazionale, dispiegato nella provincia del Sud-Kivu partirà entro la fine di aprile. Dal 1° maggio in questa zona la protezione dei civili sarà affidata esclusivamente alle forze armate congolesi (FARDC). Dopo il Sud Kivu, i caschi blu lasceranno il Nord-Kivu e infine l’Ituri, tutte province nell’est del Paese, che da decenni sono sconvolte da continui attacchi di gruppi armati. I civili sono sempre i primi a subire le conseguenze delle violazioni, degli attacchi, delle violenze. Basti pensare che gli sfollati sono ormai quasi 7 milioni.

Secondo quanto riferito da fonti locali, i caschi blu avrebbero aperto il fuoco dalle loro posizioni a Kimoka, a circa 8 chilometri da Saké, contro gli M23 sostenuti, secondo Kinshasa e l’ONU, da Kigali.

E proprio dietro pressioni di Washington, Kinshasa ha accettato con riluttanza di riaprire il dialogo con Kigali, ma solo se cesserà la sua presenza militare in territorio congolese. Va ricordato che Tshisekedi, lo scorso dicembre, alla chiusura della campagna elettorale, aveva annunciato di voler dichiarare guerra al Ruanda se dovesse essere rieletto e se “i nostri nemici continueranno ad agire in modo irresponsabile”.

Cornelia I. Toelgyes
corneliaacit@hotmail.it
X: @cotoelgyes
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Vuoi contattare Africa ExPress? Manda un messaggio WhatsApp con il tuo nome e la tua regione (o Paese) di residenza al numero +39 345 211 73 43 e ti richiameremo. Specifica se vuoi essere iscritto alla Mailing List di Africa Express per ricevere gratuitamente via whatsapp le news del nostro quotidiano online.

ALTRI ARTICOLI SUL CONGO-K LI TROVATE QUI

Elezioni in Congo-K: l’opposizione denuncia disorganizzazione e irregolarità, seggi aperti anche oggi, dopo la giornata caotica di ieri

Gaza: oltre 27 mila morti, quasi la metà bambini, 7 mila dispersi, trattative in corso

 

Speciale per Africa ExPress
Alessandra Fava
7 febbraio 2024

A Gaza si continua a morire sotto i bombardamenti. Anche tra il 2 e il 5 febbraio i morti sono stati 234, per una cifra complessiva da inizio della guerra di 27.365, di cui 12 mila bambini e 8.190 donne. Secondo un dispaccio del governo della Striscia quindi di Hamas, la cifra, compresi i dispersi, arriva a 34.238. I giornalisti morti sono 122, tutti stringer o reporter palestinesi della Striscia. L’accesso dei media internazionali continua ad essere vietato per ragioni di sicurezza da parte di Israele oppure i giornalisti entrano solo embedded con le truppe israliane per vedere fortini e i tunnel scoperti. Sabato scorso il quotidiano francese Liberation ha dedicato un articolo ai reporter di guerra autocotoni, quindi giornalisti e insieme vittime, con un titolo in prima pagina “La morte ad occhi chiusi”.

La Croce rossa internazionale ha espresso il suo shock per l’uccisione di altri sei suoi volontari, tre il 31 gennaio ammazzati dall’esercito israeliano, vicino alla porta di entrata dell’ospedale di Al-Amal. Secondo la Croce Rossa di Gaza sono stati uccisi anche tre volontari ospedalieri il 2 febbraio. Nuovamente è stato ricordato come il personale sanitario sia tutelato dal diritto internazionale in tempo di guerra. Inoltre ci sono due altri volontari dispersi mentre prestavano soccorso ad una bambina gravemente ferita.

Continua per altro la distruzione di infrastrutture, abitazioni e case e interi quartieri. Tra fine gennaio e primi di febbraio sono stati tirati giù diversi edifici di Khan Younis con le ruspe e le bombe. Secondo un report di Unosat (United Nation Satellite Center) https://unosat.org/products/3793 che utilizza immagini satellitari comparando foto ricavate tra maggio/novembre 2023 con altre dei primi di gennaio 2024, a Gaza sarebbe stato distrutto il 30 per cento degli edifici, per un totale di quasi 70 mila costruzioni e almeno 93 mila abitazioni. Ma dalle immagini si vede come siano scomparsi i terreni agricoli a suon di bombe e buldozer eliminando qualsiasi vegetale commestibile.

Mappa della Striscia di Gaza occupata dall’esercito israeliano

Secondo i dati forniti dall’esercito israeliano sono morti a Gaza 223 soldati ma gli scontri tra Hamas e Israele continuano in diverse aree della Striscia, a nord e a sud e anche il governo è costretto ad ammettere che Hamas non ha perso vigore.

Gli sfollati hanno raggiunto secondo UNRWA, l’Agenzia dei rifugiati palestinesi, un milione e 700 mila persone, ormai per lo più accampati alla belle e meglio in tendopoli o sotto qualche struttura pericolante. Unicef calcola che ci sono almeno 17 mila bambini orfani o che hanno perso i contatti con loro famiiari e che quasi tutti (almeno un milione e duecentomila bambini) avrebbero bisogno di cure psicologiche per superare i traumi degli scontri e le morti di parenti.

Civili gazawi chiusi tra due carri armati israeliani a Rafah, nel sud della Striscia di Gaza Photo Ocha/Olga Cherevko

800 diplomatici europei e statunitensi hanno firmato un appello ai loro governi che contiene una critica molto marcata all’operato dell’amministrazione Nethanyau e chiedono un intervento decisivo ai propri leader per fermare la strage di civili e la morte per fame ormai fattiva a Gaza. Come gli Usa anche Canada e UE stanno studiando l’ipotesi di imporre sanzioni sui coloni che assaltano palestinesi nei Territori occupati. La misura impedirebbe ad associazioni e imprese legate a coloni condannati di accedere a fonti e donazioni dall’estero. Al momento sono 4 i coloni messi all’indice dagli Stati Uniti.

I giornali israeliani ormai parlano apertamente della lotta tra l’estrema destra e i familiari degli ostaggi: i primi determinati a continuare la guerra a Gaza ad ogni costo fino a una rioccupazione di tutta la Striscia da parte dei coloni supportati dall’esercito e i secondi che chiedono la trattativa, la fine delle ostilità e la liberazione dei 130 ostaggi ancora nei tunnel. Il progetto esplicitato dal ministro delle finanze Bezalel Smotrich nella conferenza di dieci giorni fa nella quale si sono riuniti i suprematisti a Gerusalemme è un’occupazione permanente della Striscia con l’imposizione delle manu militari.

Si calcola che la rioccupazione costerebbe alle casse statali 16 miliardi di dollari all’anno. Smotrich come Ben-Gvir calcolano che Netanyahu non ha intenzione di indire nuove elezioni e che l’appoggio dell’estrema destra sovranista per ora gli viene comoda per sventare il rischio di finire a processo per le sue numerose cause pendenti per corruzione e altri reati.

Secondo Wall Street Journal, ripreso da Haaretz (4 febbraio), le spaccature interne ad Hamas impedirebbero di arrivare a un accordo per la liberazione degli ostaggi: i capi esterni a Gaza come Ismail Haniyeh che vive a Doha in Qatar e Khaled Mashal chiedono un cessate il fuoco definitivo, mentre quelli di Gaza come Yahya Sinwar (ammesso che sia ancora a Gaza) si accontentano di un blocco delle ostilità per sei settimane. Comunque le risposte da Gaza arrivano anche attraverso canali multipli e quindi le trattative sono complesse perché tutti cercano di non far individuare i luoghi dove sono nascosti. Si continua a parlare della liberazione di Marwan Barghouti storico leader dell’ANP, insieme a migliaia di altri prigionieri arrestati in parte durante la presente guerra, ma non ci sono riscontri.

Quel che è certo è che i paesi arabi sunniti stanno facendo pressioni perché la guerra finisca prima dell’inizio del Ramadam (9 marzo). Secondo un mediatore di Ramallah, citato sempre da Haaretz, Hamas vuole il cessate il fuoco come prima cosa e Israele vuole il rilascio degli ostaggi come prima cosa, quindi ci saranno diverse fasi della negoziazione e degli eventi a seguire. Il governo israeliano chiede il rilascio di tutti gli ostaggi insieme, compresi i militari.

Alessandra Fava
alessandrafava2023@proton.me
©️ RIPRODUZIONE RISERVATA

Vuoi contattare Africa ExPress? Manda un messaggio WhatsApp con il tuo nome e la tua regione (o Paese) di residenza al numero +39 345 211 73 43 e ti richiameremo. Specifica se vuoi essere iscritto alla Mailing List di Africa Express per ricevere gratuitamente via whatsapp le news del nostro quotidiano online.

Israele agisce in nome del sionismo, non in nome degli ebrei

UNRWA: donatori interrompono aiuti a Gaza mentre la gente muore di fame



Senegal: l’assemblea generale fissa le presidenziali al 15 dicembre

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
6 febbraio 2024

Ieri sera l’Assemblea generale del Senegal ha approvato la nuova legge volta a rinviare le elezioni presidenziali al 15 dicembre 2024. Nel frattempo resterà al potere Macky Sall, capo di Stato attuale, che sabato scorso aveva rimandato sine die il voto previsto per il 25 febbraio prossimo.

Senegal: Assemblea generale approva rinvio elezioni presidenziali

Subito dopo l’annuncio del presidente sul rinvio delle elezioni, l’Unione Africana, l’Unione Europea, gli Stati Uniti e la Francia, hanno chiesto che venisse fissata quanto prima una nuova data.

Lunedì sera, dopo una lunga discussione in aula, la nuova norma è stata votata e adottata con 105 voti a favore e uno solo contrario. I membri della principale coalizione all’opposizione non hanno potuto partecipare alla votazione. Le forze dell’ordine li hanno costretti a lasciare l’aula dopo aver disturbato i lavori dell’Assemblea. Anche all’esterno del parlamento è stato dispiegato un gran numero di agenti di polizia per evitare nuove manifestazioni.

Domenica è stata arrestata Aminata Touré, ex primo ministro del Senegal, mentre partecipava a un manifestazione indetta dagli oppositori del regime contro il posticipo delle presidenziali. La signora Touré, premier del governo di Sall dal 2013 al 2014, è poi passata all’opposizione.

I gendarmi, schierati in gran numero, hanno sparato gas lacrimogeni per disperdere i manifestanti.

Dakar: manifestazioni contro il rinvio delle presidenziali

Il segnale dell’emittente televisiva privata Walf è stato interrotto mentre trasmetteva in diretta le manifestazioni di domenica, mentre lunedì i responsabili hanno fatto sapere che la loro licenza è stata ritirata. E infine ieri, come succede in molti Paesi africani durante dimostrazioni contro il regime, internet ha subito restrizioni, “A causa della diffusione di diversi messaggi sovversivi”, ha spiegato il ministro dell’Informazione di Dakar.

L’Africa occidentale, regione scossa dall’avanzata dei sanguinari jihadisti e colpi di Stato militari, il Senegal rappresenta un’eccezione. Dall’indipendenza (1960), i militari non hanno mai minacciato il governo e la libertà di espressione ha sempre alimentato un dibattito politico dinamico, che ha portato a due alternanze politiche  pacifiche  in un quadro istituzionale relativamente stabile.

Intanto la CEDEAO (Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale), è molto preoccupata di quanto sta accadendo a Dakar e, in un comunicato di questa sera ha chiesto alla classe politica senegalese di ristabilire il calendario elettorale. L’istituzione regionale ha poi sottolineato di voler supportare il Senegal affinché mantenga la propria “tradizione democratica”.

Dopo l’annuncio a sorpresa di sabato 3 febbraio da parte del presidente della Repubblica del Senegal, Macky Sall, a tre settimane dalle elezioni presidenziali previste per il 25 febbraio e del loro rinvio a dicembre, ottenuto dall’Assemblea generale, gli oppositori denunciano una deriva autoritaria. Inoltre segna una pericolosa rottura con una lunga storia di democrazia. Dal 1963, le elezioni presidenziali in Senegal si sono sempre tenute alla data prevista.

Cornelia Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
X: @cotoelgyes
©RIPRODUZIONE RISERVATA

Vuoi contattare Africa ExPress? Manda un messaggio WhatsApp con il tuo nome e la tua regione (o Paese) di residenza al numero +39 345 211 73 43 e ti richiameremo. Specifica se vuoi essere iscritto alla Mailing List di Africa Express per ricevere gratuitamente via whatsapp le news del nostro quotidiano online.

Democrazia in bilico in Senegal: il presidente Sall rinvia sine die le elezioni

 

Altri articoli sul Senegal li trovate qui

In luglio termina la missione militare SADC in Mozambico contro i jihadisti. Molti interrogativi

Speciale per Africa ExPress
Sandro Pintus
6 febbraio 2024

La missione militare SAMIM della Comunità per lo Sviluppo dell’Africa Australe (SADC) termina a luglio 2024. Il vertice della Troika, in riunione straordinaria a Luanda (Angola) del 17 agosto 2023, aveva deciso di prorogare il mandato SAMIM di 12 mesi. Dal 15 dicembre 2023 è iniziato il ritiro graduale che si completerà entro il 15 luglio 2024.

A fine dicembre Elias Magosi, segretario esecutivo SADC, è arrivato a Pemba, nord del Mozambico e capitale della provincia di Cabo Delgado. La sua presenza nel nord del Paese è stata voluta per valutare i risultati della missione e per visionare il processo di ritiro e il piano di uscita dalla provincia.

Militari SADC del Botswana in Mozambico
Militari SADC del Botswana per la missione SAMIM in Mozambico

La missione SAMIM

La missione militare SADC a Cabo Delgado è iniziata nel luglio 2021 per sostenere il Mozambico nella lotta al jihadismo nel nord del Paese. Una situazione che avrebbe potuto espandersi in tutta l’area dei 16 Paesi SADC.

È composta da militari di Angola, Botswana, Repubblica Democratica del Congo (RDC), Lesotho, Malawi, Sudafrica, Tanzania e Zambia. Il maggior contingente è rappresentato dal Sudafrica presente con circa 1.500 militari. Gli altri Paesi ne hanno circa 300 e si occupano soprattutto della logistica.

I militari ruandesi

Con un accordo bilaterale Mozambico-Ruanda, da giugno 2021, è presente anche un migliaio di soldati ruandesi giunti su richiesta del presidente mozambicano Filipe Nyusi. Nyusi non ha mai comunicato il termine della missione ruandese né il suo costo, situazione che ha suscitato proteste e un’aspra discussione nella società civile mozambicana.

La sicurezza dei giacimenti di gas

La missione dei militari ruandesi è soprattutto la messa in sicurezza dei giacimenti di gas naturale (GNL) del Rovuma a Palma, confine con la Tanzania. Qui operano ENI (off-shore), Exxon-Mobil e TotalEnergies. Quest’ultima, ha investito in loco 20 miliardi di dollari. A causa dell’attacco jihadista a Palma arrivato fino ai suoi cantieri, nell’aprile 2021, ha interrotto i lavori.

Gli attacchi jihadisti sono iniziati nell’ottobre 2017 tra Palma e Mocimboa da Praia, dove era situato il quartier generale di Al Sunnah wa-Jamà (o Al-Shebab). Oggi il gruppo terroristico, affiliato allo Stato islamico è conosciuto come Is-Mozambico ed è nella lista nera americana dei gruppi più pericolosi.

Secondo l’Africa Center for Strategic Studies (ACSS), la violenza militante islamista nel nord del Mozambico, nel 2023, è diminuita del 71 per cento. Nell’area ci sono ancora tra 850.000 e 900.000 sfollati. L’ultimo aggiornamento di Cabo Ligado, ong collegata ad ACLED (Armed Conflict Location & Event Data Project)  dal 2017 al 21 gennaio 2024 sono registrati quasi 4.850 morti. Quasi 2.080 sono civili.

SADC SAMIM mappa scontri Cabo Ligado
Mappa degli scontri armati dal 1° novembre 2023 al 19 gennaio 2024 (Courtesy Cabo Ligado)

Continuano gli assalti jidadisti

Is-Mozambico, nonostante l’intervento della missione SAMIN e le truppe ruandesi, continua a massacrare civili e rimane una spina nel fianco dei militari mozambicani.

Secondo l’analista Jasmine Opperman gli insorti utilizzano nuove tattiche e strategie. “L’uso di pescatori e barche da parte degli insorti a Cabo Delgado è stata una strategia persistente – scrive in un tweet -. I rapporti del 2019 evidenziano l’attenzione verso i pescatori, grazie alla loro conoscenza delle aree costiere”.

Il giornale online ZitamarNews di Tom Bowker, giornalista britannico non gradito in Mozambico, invece riporta l’ultimo attacco di Is-Mozambico, contro i militari mozambicani. È successo la sera del 30 gennaio.

“Gli insorti hanno attaccato una pattuglia congiunta delle Forze Armate di Difesa del Mozambico (FADM) e della milizia locale Force – scrive Bowker su Telegram -. Almeno due membri della Forza locale sono stati uccisi nel loro veicolo, altri sono rimasti feriti e un mezzo militare è stato bruciato. Una fonte in loco ha riferito che in totale sono stati uccisi otto soldati”.

Il comandante:”terroristi sconfitti”

È solo l’ultima delle azioni jihadiste, un capitolo che per il Mozambico è difficile chiudere. Secondo AllAfrica, Tiago Alberto Nampele, generale maggiore comandante delle Forze armate mozambicane (FADM), ha affermato che i terroristi di Cabo Delgado sono stati sconfitti. È stato riconquistato oltre il 90 del territorio che controllavano.

Nampele ritiene che attualmente siano rimasti circa 250 terroristi. “Siamo stati informati che il nemico si trova nelle foreste di Catupa (70km a sud di Mocimboa, ndr), in piccoli gruppi. Stiamo pianificando come lanciare un’offensiva e al momento abbiamo elaborato un piano con le forze ruandesi”.

Intanto, secondo MediaFax, i terroristi raggiungono i quartieri intorno alla città di Pemba. Dal 31 gennaio scorso diverse fonti da zone di Cabo Delgado riportano movimenti di gruppi jihadisti nei quartieri che circondano la capitale di Cabo Delgado. Sono raccontati anche casi di scontri con militari delle FADM e del Ruanda.

Con la fine delle operazioni militari SAMIM vedremo se il presidente Nyusi con le sole truppe FADM e ruandesi riuscirà a risolvere definitivamente il problema del terrorismo jihadista nell’estremo nord del Paese.

Sandro Pintus
sandro.p@catpress.com

X (ex Twitter):
@sand_pin
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Vuoi contattare Africa ExPress? Manda un messaggio WhatsApp con il tuo nome e la tua regione (o Paese) di residenza al numero +39 345 211 73 43 e ti richiameremo. Specifica se vuoi essere iscritto alla Mailing List di Africa Express per ricevere gratuitamente via whatsapp le news del nostro quotidiano online.

Mozambico, spasmodica attesa di marines sudafricani per liberare Palma dai jihadisti

Mozambico: chiamata alle armi anti-jihadista, ExxonMobil e Total chiedono più militari

Le truppe SADC e il corpo di pace ruandese non fermano la cieca violenza jihadista in Mozambico

Jihadisti all’attacco in Mozambico: undici cristiani trucidati in base al nome

Fanteria e marines sudafricani in Mozambico: rafforzato l’aiuto contro i jihadisti

Israele agisce in nome del sionismo, non in nome degli ebrei

Speciale per Africa ExPress
Federica d’Alessio*
5 febbraio 2024

Agli inizi del Novecento, all’interno della compagine governativa in Gran Bretagna andò in scena un paradosso: mentre Londra dava il suo assenso alla nascita di uno Stato di Israele in Palestina, per il tramite della famosa “Dichiarazione di Balfour”, dal nome del ministro degli esteri che la firmò, l’unico ministro di origini ebraiche nel governo, Edwin Montagu, si opponeva fermamente alla stessa, prevedendo che avrebbe comportato un interminabile conflitto in terra di Palestina, la cacciata dei non-ebrei e “magari, per ottenere la cittadinanza sarà necessario persino un test della religione”.

Il questa fotografia e in quelle seguenti manifestazioni di ebrei contro il sionismo

Amaramente profeta, in un documento intitolato significativamente “L’antisemitismo dell’attuale governo” Montagu spiegava che l’assenso di Balfour e colleghi al progetto sionista si era accompagnato fin dal principio ad ammiccanti dichiarazioni fatte ai più noti personaggi antisemiti del Paese.

Derive scioviniste

L’allusione era chiara: liberarsi della sgradita presenza degli ebrei nei propri Paesi sarebbe stato molto più facile, con uno Stato d’Israele poco lontano.

Il progetto di Israele come Stato, pensava Montagu, da una parte nasceva in seno alle derive scioviniste frutto della Prima guerra mondiale e della dottrina nazionalista che con essa si era imposta, dall’altra solleticava anche la tentazione, da parte di chi non vedeva di buon occhio gli ebrei, di fare della Palestina “il ghetto del mondo”.

Lungi dall’essere ascoltata con maggiore attenzione, l’opinione dell’unico ebreo del gabinetto di governo fu ridicolizzata come “eccentrica”, come racconta lo stesso Montagu in una lettera al collega Lord Robert Cecil, segretario per gli Affari esteri di quel governo. Eppure, si legge in quella missiva, la stessa comunità ebraica in Gran Bretagna era lungi dall’essersi dimostrata a favore del sionismo.

Un progetto non convincente

Conducendo alcune ricerche presso gli organismi della comunità, Montagu aveva verificato che il progetto di istituzione di uno Stato-nazione degli ebrei trovava più favore fra i non ebrei (all’interno delle élite cui era richiesto un parere) di quanto non ne trovasse fra gli ebrei; esso, infatti, non convinceva una buona fetta della comunità ebraica. In particolare, a non convincere era che lo statuto di cittadinanza previsto per gli ebrei nel loro Stato fosse di rango superiore a quello dei non-ebrei.

Montagu stigmatizza in più passaggi, nel suo documento e nella sua lettera, il carattere suprematista (non lo definisce con questo termine) del sionismo: garantire più diritti agli ebrei di quanti non se ne sarebbero garantiti ai non-ebrei era un punto cardine insito nell’idea di Stato di Israele. Una pretesa inaccettabile, dal suo punto di vista.

Fin dal principio, dunque, il sionismo fu accolto con grande preoccupazione da un’ampia fetta di ebrei, sia perché vedevano un pericolo per la loro stessa comunità nel definire quella ebraica come una “razza” o come una “nazione” piuttosto che come una religione, sia perché avevano ben intuito che il progetto sionista si presentava esplicitamente come avverso alle popolazioni arabe e cristiane che in Palestina già vivevano; una avversità da cui non sarebbero scaturite che guerre e odi.

“Una gioia enorme”

“Il sogno di uno Stato ebraico con un numero ridotto di palestinesi”, scrive lo storico dell’Olocausto e cittadino israeliano-americano Alon Confino, animava il sionismo. Ben testimoniato dalle parole di un comandante della battaglia di Tiberiade del 1948 – parte di quegli scontri feroci che precedettero la dichiarazione ufficiale di fondazione dello Stato di Israele e che i palestinesi chiamano nakba, la catastrofe –, il quale dichiarava: “La gioia è stata enorme. Non potevo credere ai miei occhi. La fuga degli arabi dalla città mi sembrava un sogno. C’era un senso di euforia tra tutti [i soldati]”.

Lo stesso senso di euforia, a distanza di oltre 75 anni, lo osserviamo nei video su TikTok dei soldati israeliani che sono entrati a Gaza da ottobre 2023 a oggi; occupano le case, le distruggono, dipingono le stelle di David sui muri, affiggono la bandiera israeliana nell’ufficio del Parlamento, appiccano il fuoco alle abitazioni, sparano ai bambini, e di ognuna di queste azioni e di ancora molte altre si vantano lasciando testimonianza della fierezza, della gioia e della soddisfazione con cui si muovono. È la gioia di infliggere ai palestinesi, senza tema di dichiararlo, una nuova nakba.

Militanti ebrei contro l’occupazione

Ma anche oggi, come allora, non tutti gli ebrei condividono questa euforia. Tanti fra loro sono convinti – come lo erano Montagu all’epoca, i militanti del Bund (il partito dei lavoratori ebrei in Polonia, che diresse l’insurrezione nel ghetto di Varsavia), Primo Levi, Hannah Arendt, l’attivista Rachel Corrie uccisa da un bulldozer israeliano nel 2003, varie associazioni di ebrei contro l’occupazione, negli Stati Uniti e in molti altri Paesi del mondo, le comunità di ebrei ortodossi e anche tanti ebrei laici e ancora migliaia e migliaia di personalità e realtà collettive appartenenti al mondo ebraico – che il sionismo e le istituzioni dello Stato sionista d’Israele non abbiano alcun titolo di parlare a nome degli ebrei del mondo.

Accuse di antisemitismo

E che dunque non sia legittimo accusare di “antisemitismo”, ovvero di odio contro gli ebrei, coloro che criticano le politiche israeliane, quand’anche ritengano la nascita stessa dello Stato d’Israele una disgrazia, un atto di prevaricazione coloniale e terroristica che il diritto internazionale avrebbe dovuto impedire dall’inizio.

“Not in my name”, ripetono da decenni gli ebrei contro l’occupazione. Il sionismo, come il Bund denunciò in tempo reale durante l’occupazione nazista, non è un movimento di solidarietà fra ebrei ed ebrei; è un movimento etnonazionalista che si propone di portare avanti, secondo una logica costantemente espansionistica, un progetto di Stato “con un numero ridotto di palestinesi” destinati a vivere, secondo i piani così come candidamente li svelano i coloni stessi, in una posizione di sottomissione, senza diritti politici e senza cittadinanza; da lavoratori schiavi in buona sostanza, a disposizione dell’economia e della società israeliana.

Tutti i partiti di destra

Ecco perché, come ben vediamo oggi, possono esserci e ci sono feroci sionisti non ebrei, come per esempio i componenti delle sette cristiane evangeliche e messianiche statunitensi, capeggiati da Donald Trump. O come lo stesso Joe Biden e una ampia fetta di elettorato bianco democratico negli Stati Uniti.

O come i rappresentanti di tutti i partiti di destra e persino di destra fascista e nazista in tutta Europa, dall’Afd tedesco ai Fratelli d’Italia nostrani al partito di Marine Le Pen in Francia, passando per le grandi amicizie fra Netanyahu e Orbán, o con il PiS polacco; e possono esserci e ci sono ebrei radicalmente antisionisti, come i rabbini ortodossi o gli attivisti di Jewish Voice for Peace che dall’inizio dell’ultima rappresaglia su Gaza hanno manifestato in massa nelle principali città americane gridando “Cessate il fuoco”. “Spero che vi mandino tutti nei forni”, ha gridato loro di recente una cittadina americana sionista durante una manifestazione.

ll sionismo non appartiene agli ebrei più di quanto non appartenga ai nostalgici fascisti d’Europa.

L’accusa di antisemitismo lanciata contro chi ritiene il sionismo un progetto reazionario, razzista e pericoloso – non soltanto per il popolo palestinese che ne sta subendo da oltre un secolo le principali conseguenze, ma per il sistema democratico nel suo complesso – non è semplicemente pretestuosa, è parte integrante della politica etno-tribale che i sionisti e i loro alleati portano avanti.

Restrizioni maccartiste

Non a caso è in nome del contrasto all’antisemitismo che la libertà di espressione sta subendo restrizioni maccartiste in numerosi luoghi d’Europa, dalla Francia alla Germania; è in nome del contrasto all’antisemitismo che i rappresentanti di numerose minoranze etniche, compreso gli stessi ebrei quando si tratta di antisionisti, vengono zittiti o cancellati nelle manifestazioni culturali, licenziati dai ruoli che ricoprono all’Università, indotti al silenzio all’interno dei posti di lavoro se solo osano chiedere un cessate il fuoco.

Ed è ancora attraverso l’uso disinvolto dell’etichetta “antisemita” o “alleati di Hamas” che Israele manifesta il suo disprezzo verso ogni istituzione della democrazia internazionale che provi a denunciare la carneficina in corso nei confronti dei palestinesi o semplicemente a ribadire l’umanità delle vittime: l’ONU e i suoi alti rappresentanti, la Corte internazionale di Giustizia, l’UNRWA, Medici senza frontiere, le agenzie di cooperazione europee, qualsiasi organo che richiami al rispetto del diritto internazionale o agli obblighi di rispetto dei diritti umani è bollato come antisemita o filoterrorista dalle autorità israeliane.

Una forma d’odio

L’antisemitismo è stata una delle forme d’odio che ha prodotto le più abiette persecuzioni nel corso della Storia; consentite da una disumanizzazione totale che ha portato, nel caso del nazismo, a privare di ogni umanità la considerazione degli ebrei. Durante la Seconda guerra mondiale la carneficina verso le popolazioni ebraiche era giustificata dalla convinzione dei rappresentanti di ideologie totalitarie, quella nazista e quella fascista – costruite sull’etnicità razzista e sul suprematismo nei confronti di altre etnie – di dover creare uno spazio vitale per consentire al popolo supremo di prosperare.

Dottrina sciovinista

Il sionismo attinge a quella stessa visione, come aveva compreso chiaramente Montagu oltre un secolo fa: è figlio della dottrina sciovinista che sconfisse e schiacciò l’afflato internazionalista dopo la Prima guerra mondiale, e che vedeva nella nazione il totem attorno al quale articolare la definizione di principi e obiettivi da difendere, per i quali guerreggiare.

Il fascismo, il sionismo, il nazismo, furono in quel frangente storico interpretazioni differenti di un nazionalismo che coagulava attorno a una certa idea di popolo ideali revanscisti, pretese colonialiste e una visione superomista.

È incorretto, perciò, pensando a Israele, ritenere che le vittime di ieri si siano trasformate nei carnefici di oggi, come vuole un certo luogo comune che è risuonato molto, per esempio, durante l’ultima Giornata della memoria. I carnefici sono gli stessi, ieri come oggi: sono congreghe di suprematisti, fanatici e tribali, animati da un disprezzo per l’umanità e da una visione esaltata di sé e della propria razza. Israele sta sterminando il popolo palestinese e minando la sopravvivenza del sistema democratico; e lo sta facendo in nome di questa ideologia, non in nome degli ebrei.

Federica d’Alessio*
federica.dalessio@gmail.com

©RIPRODUZIONE RISERVATA

*Federica d’Alessio è giornalista, redattrice di MicroMega. Cura inchieste e analisi su fenomeni sociali e politici. Ha vinto il Premio Luchetta 2022-Stampa italiana per il giornalismo sui diritti dell’infanzia. Una sua inchiesta sulla filiera del grano ha vinto il Premio Parco Majella 2021.

Vuoi contattare Africa ExPress? Manda un messaggio WhatsApp con il tuo nome e la tua regione (o Paese) di residenza al numero +39 345 211 73 43 e ti richiameremo. Specifica se vuoi essere iscritto alla Mailing List di Africa Express per ricevere gratuitamente via whatsapp le news del nostro quotidiano online.

 

Stroncato da un tumore è morto Hage Geingob, terzo presidente della Namibia

0

Africa ExPress
4 gennaio 2024

Il presidente della Namibia, Hage Geingob, è morto. L’annuncio della sua dipartita è stato dato via X (ex Twitter) da Nangolo Mbumba, presidente ad interim del Paese Africano.

“È con estrema tristezza e rammarico che vi informo che il nostro amato Dr. Hage G. Geingob, il Presidente della Repubblica di Namibia, è deceduto oggi, domenica 4 febbraio 2024, intorno alle 00h04 presso il Lady Pohamba Hospital, dove stava ricevendo cure dalla sua équipe medica”.

“La nazione namibiana ha perso un illustre servitore del popolo, un’icona della lotta di liberazione, il principale architetto della nostra costituzione e il pilastro della casa namibiana”. Continua il comunicato.

Hage Geingob aveva 82 anni e stava lottando contro un tumore. È stato il primo ministro più longevo della Namibia, terzo presidente e primo presidente non di etnia Owambo.

Da attivista anti-aparteid a presidente

Fin dai primi anni di scuola si impegnò contro il regime sudafricano dell’apartheid. In quegli anni il Sudafrica controllava la Namibia e Geingob, come oppositore, fu costretto a lasciare il Paese.

Trascorse quasi tre decenni in Botswana e nel 1964 si trasferì negli Stati Uniti. Negli USA, è rimasto un forte sostenitore dell’indipendenza della Namibia e rappresentante del Swapo, il movimento di liberazione (dall’indipendenza ad oggi al potere), alle Nazioni Unite e nelle Americhe.

presidente Namibia Hage Geingob
Il presidente della Namibia, Hage Geingob, morto il 4 febbraio 2024

Era tornato in Namibia un anno prima dell’indipendenza, nel 1989, dopo 27 anni. “Guardando indietro, il viaggio per costruire una nuova Namibia è stato proficuo”, aveva commentato appena toccato il suolo del suo Paese.

È stato Primo ministro della Namibia per due mandati dal marzo 1990 all’agosto 2002 e dal dicembre 2012 al marzo 2015. Nel 2015 Geingob era diventato presidente e stava svolgendo il suo secondo mandato.

L’annuncio del tumore

L’8 gennaio aveva annunciato che gli era stato diagnosticato un cancro, tre settimane dopo era andato negli USA per un trattamento antitumorale. Tornato in Namibia il 30 gennaio la sua salute e ulteriormente peggiorata.

Crediti foto:
– Presidente Hage Geingob
Wikipedia © European Union, 2024

Sandro Pintus
sandro.p@catpress.com

X (ex Twitter):
@sand_pin
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Vuoi contattare Africa ExPress? Manda un messaggio WhatsApp con il tuo nome e la tua regione (o Paese) di residenza al numero +39 345 211 73 43 e ti richiameremo. Specifica se vuoi essere iscritto alla Mailing List di Africa Express per ricevere gratuitamente via whatsapp le news del nostro quotidiano online.

 

Presidente della Namibia dichiara crisi umanitaria per le baracche dei poveri

Sentenza storica in Namibia: lo Stato ora riconosce i matrimoni all’estero di coppie omosessuali

Bracconieri in azione in Namibia: strage di rinoceronti a rischio nel parco Etosha, 11 capi uccisi in una settimana

La Namibia inizia la corsa verso la produzione di idrogeno verde

Corruzione in Namibia per 11 milioni di euro: coinvolti due ex ministri

I leoni della Namibia dal deserto al mare: ora cacciano foche

 

Democrazia in bilico in Senegal: il presidente Sall rinvia sine die le elezioni

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
3 febbraio 2024

Il presidente uscente del Senegal, Macky Sall, ha rinviato sine die la prossima tornata elettorale, già fissate per il 25 febbraio prossimo.

Macky Sall, presidente del Senegal

Quando mancavano poche ore all’apertura della campagna elettorale, Sall si è rivolto alla nazione, spiegando di aver abrogato il decreto sulla convocazione del corpo elettorale, rinviando così de facto le elezioni presidenziali, per le quali erano in lizza 20 candidati.

Il discorso del presidente era atteso da giorni, in particolare da parte dei supporter di Karim Wade, figlio dell’ex capo di Stato, Abdoulaye Wade, al potere dal 2000 al 2012, Karim è stato ritenuto non eleggibile, in quanto in possesso di doppia nazionalità (franco-senegalese). I sostenitori di Wade hanno chiesto la creazione di una commissione parlamentare d’inchiesta per indagare su alcuni componenti del Consiglio costituzionale, la cui integrità, per quanto concerne il processo elettorale, è stata messa in discussione.

Oltre a Wade, sono stati esclusi un’altra decina di candidati in lizza, tra loro anche Ousmane Sonko, che si trova ancora in prigione. Su di lui pendono diversi capi d’accusa.

“Il mio impegno solenne a non candidarmi alle elezioni rimane invariato”, ha ribadito Sall. “Mi impegnerò in un dialogo nazionale aperto per creare le condizioni per elezioni libere, trasparenti e inclusive”, ha sottolineato nel suo discorso alla nazione.

È la prima volta dal 1963 che un’elezione presidenziale a suffragio universale diretto viene rinviata nella ex colonia francese.

La data delle elezioni era stata fissata con un decreto del 29 novembre 2023. A fine dicembre Sall aveva promesso di consegnare il potere al presidente eletto all’inizio di aprile, impegno ribadito più volte.

L’attuale capo di Stato, eletto nel 2012 per sette anni e rieletto nel 2019 per altri cinque. A settembre dello scorso anno ha nominato il primo ministro Amadou Bâ, leader del partito al potere, come suo successore.

Cornelia I. Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
X: @cotoelgyes

©RIPRODUZIONE RISERVATA

Vuoi contattare Africa ExPress? Manda un messaggio WhatsApp con il tuo nome e la tua regione (o Paese) di residenza al numero +39 345 211 73 43 e ti richiameremo. Specifica se vuoi essere iscritto alla Mailing List di Africa Express per ricevere gratuitamente via whatsapp le news del nostro quotidiano online.

Repressione in Senegal: arrestato l’avvocato del leader dell’opposizione già in galera