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Israele studia nuovi giri di vite a Gerusalemme e giustifica la guerra facendo pubblicità sul Washington Post

Speciale per Africa ExPress
Eric Salerno
21 febbraio, 2024

Nelle vicende di una terra – quella “santa” della Palestina soprattutto – intrisa di ricordi, di memorie, di storie di conquiste legate alle tre religioni monoteistiche, ogni data, ogni evento, ogni scelta di vita o morte porta a guardare con attenzione alle vicende del passato, ai ricordi, a come e da chi furono tramandate e a come il rispetto reciproco, il buonsenso impongono o suggeriscono di agire nel presente.

Slogan, annunci a pagamento sui giornali, americani specialmente ma non solo, propaganda tivù e ancora di più sul web, sui sociali, diretta ai grandi ma che arriva alle nuove generazioni, turbano, confondono e trasformano una guerra tra due popoli in lotta per la stessa terra in un arcaico conflitto tra i fedeli, credenti, di religioni diverse.

Sul Washington Post di ieri è apparso un grande annuncio pagato dallo stato di Israele. Due concetti, due frasi in contrapposizione. “Se Hamas abbassa le armi non ci sarebbe più guerra” si legge in alto. E accanto, più piccolo: “Il giorno del giudizio non verrà fino a quando i musulmani non combatteranno contro gli ebrei e li uccideranno. Poi gli ebrei si nasconderanno dietro alle pietre e agli alberi e le pietre e gli alberi urleranno “o musulmano, dove si nasconde un ebreo dietro di me, vieni e uccidilo.  Articoli 7 Carta della fondazione di Hamas.”

Pagina di pubblicità sul Washington Post del 21 febbraio. Non si dice che fine fanno i palestinesi

 

“Se Israele abbassa le armi non ci sarebbe più Israele”, è scritto subito sotto. E accanto, più piccolo:“Lo Stato di Israele garantirà uguaglianza complete dei diritti sociali e politici ai suoi abitanti di qualsivoglia religione, razza o sesso”.

Articolo 13 – La dichiarazione d’Indipendenza d’Israele

Furono gli ebrei a scrivere la dichiarazione d’indipendenza; furono gli ebrei israeliani a finanziare, quasi dal suo inizio, Hamas e i suoi leader.

L’altro giorno Itamar Ben Gvir, il ministro per la sicurezza nazionale, uno degli esponenti più a destra e più nazional-religiosi del governo Netanyahu ha detto che le forze di sicurezza israeliane dovrebbero impedire ai residenti palestinesi della Cisgiordania occupata di entrare sulla spianata sacra di Gerusalemme e pregare nella moschea di Al-Aqsa durante il mese del Ramadan, una delle festività più importanti del calendario islamico.

Secondo Ben Gvir, che vive in un insediamento ebraico nella Cisgiordania occupata, il divieto andrebbe esteso anche ai palestinesi con cittadinanza israeliana di età inferiore ai settanta anni. “Non dovremmo consentire in alcun modo ai residenti dell’Autorità [palestinese] di entrare in Israele”, ha ripetuto più volte, perché non possiamo “correre rischi”.

La moschea Al Aqsa a Gerusalemme, una delle più importanti per i musulmani

Categorico, su posizioni diametralmente opposte il capo dello Shin Bet, il servizio di sicurezza interno israeliano. “Una restrizione del genere potrebbe allargare il conflitto e, sopratutto, assumere i connotati di guerra di religione”.

Il premier Netanyahu ha subito chiesto ai suoi collaboratori di studiare la questione e decidere eventuali – probabili – limiti di età per chi vuole accedere al luogo santo. Non sarebbe la prima volta.

E ieri, per ridurre timori e la rabbia crescente nella popolazione palestinese musulmana, il ministro Benny Gantz si è rivolto mercoledì ai cittadini arabi di Israele: “Siete una parte inseparabile della società israeliana. Cittadini con uguali diritti. Lo Stato di Israele rispetta la libertà di religione e agirà per consentire al maggior numero di fedeli di visitare il Monte del Tempio in modo sicuro durante il Ramadan. Anche in questo periodo di minaccia alla sicurezza, garantiremo la libertà di religione e la santità della festa. Agiremo solo contro coloro che mettono in pericolo la sicurezza, e non contro coloro che vengono a adorare. Tutti i membri del gabinetto di guerra sono uniti su questi principi, e questi saranno gli ordini dati alle forze di sicurezza”.

Molti siti musulmani raccontano storie vecchie, spesso antiche, collegate al mese di Ramadan. Nel 1187, Saladino – quello che siamo stati abituati a chiamare “il feroce” ma che, invece, lo era molto meno di altri guerrieri del passato e del nostro presente, era in guerra contro il regno crociato di Gerusalemme. Fu durante la grande festa dei musulmani che ebbe luogo la battaglia di Hattin, a ridosso del lago di Tiberiade definita “la più grande vittoria per i musulmani da quando Khalid ibn al-Walid sconfisse i romani nella battaglia di Yarmouk”.

Forze di sicurezza israeliane pattugliano la spianata davanti alla moschea Al Aqsa. Questa foto, come quella più in basso, è stata scattata nel 2022

Non facevo il cronista o l’inviato di guerra, allora, e ci sono versioni appena differenti di come andarono le vicende ma, nell’insieme, gli storici sembrano concordare sopratutto sui comportamenti dei leader di allora nei confronti di combattenti e non combattenti.

Riprendo una versione musulmana. Umar ibn al-Khattab aveva conquistato Gerusalemme nel 637; Papa Urbano II indisse le Crociate nel 1095 per portare la Terra Santa sotto il dominio cristiano e la città santa fu strappata ai musulmani solo quattro anni dopo. “I crociati massacrarono oltre 70.000 musulmani ed ebrei e per la prima volta dai tempi di Umar ibn al-Khattab non ci furono preghiere nelle moschee di Gerusalemme”.

Facciamo un salto in avanti. La battaglia di Hattin aprì la strada a Gerusalemme ed entro 3 mesi Gerusalemme fu riconquistata da Saladino e le sue armate. “Laddove i crociati massacrarono migliaia di musulmani ed ebrei per conquistare Gerusalemme nella prima crociata, Salahuddin fu magnanimo e li lasciò andare pacificamente con tutti i loro averi dopo aver pagato un piccolo riscatto e coloro che non potevano pagare andarono completamente liberi”.

 

Torniamo a oggi. Le ultime proposte di Ben-Gvir hanno suscitato costernazione a Gerusalemme. Mustafa Abu Sway, membro del consiglio consultivo della moschea di Al-Aqsa, ha affermato che è deludente vedere il complesso utilizzato come strumento politico.

“Al Aqsa avrebbe dovuto essere risparmiata dalla politica interna israeliana”, ha aggiunto ricordando come la Seconda Intifada scoppiò allindomani della visita nel settembre 2000 al complesso di Al-Aqsa di Ariel Sharon, che allepoca era candidato alla carica di primo ministro. Le rivolte e i disordini durarono cinque anni. Era una tattica elettorale e ha funzionato, ha detto Abu Sway, poiché Sharon fu eletto premier l’anno successivo.

Eric Salerno
eric2sal@yahoo.com
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Volontariato giovane: da Milano un container di abbigliamento da basket per la gioia dei piccoli togolesi

Africa ExPress
Milano, 21 febbraio 2024

Un piccolo aiuto ma significativo. Perché nato dal cuore grande di un adolescente e sportivo. Accade a Milano e va in direzione di Afagnan, piccola località nella regione marittima del Togo, 180° stato al mondo per prodotto interno lordo (PIL) sui 193 censiti.

Cosa può unire una distanza siderale come i 6.700 chilometri che separano il capoluogo lombardo dal Paese africano? Un pallone da basket. Può sembrare poco ma è pur sempre un gesto di amicizia, vicinanza, sostegno e solidarietà.

Un’idea, o un sogno quello del giovane Matteo, atleta del gruppo Under14 della SocialOsa, storica squadra-associazione di basket di Milano fondata nel 1948 e oggi presieduta da Alessandro Airoldi che può diventare realtà. Grazie al volontariato. Perché, e così andiamo al cuore del progetto, è appena nato il progetto SocialOsa 4 Togo, con l’obiettivo di dare un po’ di gioia ai bambini e ai ragazzi della comunità di togolesi locale.

Togo, Afagnan

Di cosa si tratta? Il prossimo 16 marzo partirà un container con destinazione Afagnan con il materiale che ora Matteo e la SocialOsa chiedono di condividere: abbigliamento sportivo da basket, in particolare scarpe, non così facilmente recuperabili in Togo. E poi anche indumenti adatti per poter giocare, quindi in buone condizioni d’uso.

Oltre a palloni (sgonfi per facilitarne l’imballaggio). In più SocialOsa ci mette del suo: t-shirt, completi da basket, felpe e altro materiale. Ma il vero obiettivo è poter regalare alla comunità di Afagnan 4 canestri da basket, con relative strutture di sostegno, da poter installare sui campi in loco e far giocare, divertire, correre, sudare, tirare e socializzare.

La comunità sportiva che si raccoglie attorno alla SocialOsa – centinaia di ragazzi dagli Under19 ai pulcini del microbasket – farà la sua parte. Ma contribuire non è vietato. Tutti possono farlo. Al grido di #solochiOSAvola.

L’attuale presidente togolese, Faure Gnassingbé, è succeduto al padre nel 2005 con elezioni marcate da violenze e brogli, ha appoggiato la nuova legge che pone limiti ai mandati presidenziali, ma escludendo i propri. Si è ripresentato alla tornata elettorale del 2020, che ovviamente ha vinto e potrà ricandidarsi anche a quelle del 2025. Gnassingbé, la cui famiglia di cleptocrati che ha saccheggiato il Paese, governa questo Stato dell’Africa occidentale da ormai cinquantasette anni.

Piccola curiosità, il capo di Stato è nato proprio a Afagnan, il 6 giugno 1966.

Africa ExPress
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La guerra e il web: alla fiera della Cyber Security due mattatori, Leonardo e Israele

Speciale per Africa ExPress
Antonio Mazzeo
20 febbraio 2024

Una delle maggiori partner mondiali delle aziende israeliane che operano nel redditizio mercato delle cyberwar e della “sicurezza” cibernetica? Ovviamente l’immancabile Leonardo SpA, la holding del complesso militare-industriale italiano a capitale pubblico.

Il 3 e 4 ottobre 2023 (un paio di giorni prima dell’attacco di Hamas e della controffensiva delle forze armate di Israele contro la popolazione palestinese di Gaza), il centro congressi “La Nuvola” di Roma ha ospitato CyberTech Europe 2023, il più grande evento europeo dedicato alla cybersecurity. Ad organizzare la kermesse, la “piattaforma di networking” Cybertech Global con la collaborazione del gruppo Leonardo e di una delle più note società di consulenza internazionale, Accenture, quartier generale a Dublino, Irlanda, e fatturati che nell’anno 2022 hanno superato 61,6 miliardi di dollari.

Sponsor della manifestazione i giganti dell’informatica e delle nuove tecnologie come Cisco ed IBM ed alcune importanti aziende internazionali produttrici di software e sistemidi sicurezza informatica: le californiane Fortinet, Palo Alto Networks e Sentinel One Inc., la giapponese Trend Micro e, dulcis in fundo, l’israeliana Check Point Software Technologies Ltd. con sede centrale a Tel Aviv e ufficio di rappresentanza a San Carlos, California.

“A CybertTech Europe vengono affrontati i temi più attuali in materia di protezione e sicurezza, con focus quali la difesa attiva e il principio di zero-trust, anche guardando al futuro con SuperTech e tecnologie di nuova generazione, come l’apprendimento automatico avanzato e l’intelligenza artificiale”, spiegano i manager di Leonardo SpA.“Vengono organizzate sessioni dedicate a specifici settori, tra cui la Sicurezza Cloud, il FinTech, lo spazio, le infrastrutture critiche, la sicurezza marittima e dei trasporti, e gli investimenti nella cybersicurezza. Vengono inoltre trattati temi quali il Quadro Strategico Europeo per la Sicurezza Informatica, l’utilizzo dell’IA nella cybersecurity e della cybersecurity nell’IA”.

Lunga la lista degli enti e delle organizzazioni internazionali che hanno preso parte ai meeting della cyber-kermesse; tra essi, la Commissione Europea, la NATO, l’Agenzia Europea per la Difesa (EDA), l’Agenzia Spaziale Europea (ESA), l’Agenzia dell’Unione Europea per la Sicurezza Aerea (EASA), l’Agenzia per la Cybersicurezza Nazionale (ACN), l’Organizzazione europea per la Cybersicurezza (ECSO).

Nomi di rilievo pure tra i relatori e i conferenzieri di CyberTech Europe: il ministro della Difesa, Guido Crosetto; il vicepresidente della Commissione Europea, Margaritis Schinas; l’amministratore delegato di Leonardo, Roberto Cingolani (già ministro della Transizione ecologica con il governo Draghi); il direttore Generale dell’Agenzia Nazionale per la Cybersicurezza, Bruno Frattasi; il direttore del Laboratorio Nazionale di Cybersecurity del Consorzio Interuniversitario Nazionale per l’Informatica (CINI), Paolo Prinetto; l’ad di Accenture, Mauro Macchi; il direttore del Servizio della Polizia Postale,Ivano Gabrielli.

Imponente il numero di espositori negli stand allestiti all’interno del palacongressi capitolino: oltre 90 tra aziende e start up provenienti da tutto il mondo, in particolare da Israele, vero dominus di CyberTech Europe 2023.“Per l’occasione l’Ambasciata dello Stato d’Israele, Paese leader nel settore, ha organizzato un proprio padiglione, dove ha ospitato numerose start-up, tra cui figuravano imprese come AimBetter, Cinten, ItsMine, Orchestra Group, Perception Point, Rescana, Seraphic Security, Sling e Symmetrium”, si legge nel reportage pubblicato da www.shalom.it., il magazine online della Comunità ebraica di Roma.“Altre società più affermate, come Checkpoint, CyberArk, Cybergym, SentinelOne, Terafence e XM Cyber, hanno invece allestito i propri boots. La maggior parte di queste aziende sono accomunate da un innovativo uso dell’intelligenza artificiale associato alla cybersicurezza: sono infatti numerose le minacce che aziende e governi devono affrontare, a partire dal furto dei dati sensibili. Le start-up israeliane invitate in questa rassegna utilizzano le enormi potenzialità dell’IA sia per prevenire che per contrastare i numerosi attacchi hacker a cui sono soggette ormai quasi tutte gli enti pubblici e privati”.

Ad inaugurare il mega padiglione israeliano l’ambasciatore di Israele in Italia, Alon Bar.“La cooperazione tra Italia e Israele nel campo della cybersicurezza è intensa, sia a livello istituzionale che privato, e va rafforzandosi sempre più”, ha enfaticamente dichiarato il diplomatico. “Lo Stato ebraico è lieto di poter condividere la sua esperienza e le sue soluzioni più all’avanguardia con l’Italia, perché le minacce senza confine del nostro mondo interconnesso si vincono soltanto collaborando”. “Le nostre dieci startup hanno già tenuto oltre 100 meeting con realtà italiane, tra cui aziende, infrastrutture critiche, enti nel settore della sanità e molto altro ancora”, ha invece dichiarato Ophri Zohar Hadar, capo del settore Cyber, Fintech and Insurtech presso l’Israel Export Institute.

Sempre secondo l’ambasciata di Israele in Italia, nel corso delle due giornate di CyberTech Europe 2023, gli stand israeliani sono stati  visitati, tra gli altri, dall’on. Giorgio Mulè (Forza Italia), vicepresidente della Camera dei deputati ed ex sottosegretario alla difesa; dall’on. Lorenzo Guerini (Pd), presidente del Copasir (il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica) ed ex ministro della difesa; dall’on. Giovanni Donzelli (Fratelli d’Italia), vicepresidente del Copasir; dalla vicepresidente del Senato, Licia Ronzulli (Forza Italia); dal presidente della commissione Finanze della Camera dei deputati, Marco Osnato (Fratelli d’Italia); dal generale Stefano Del Col(già comandante della forza internazionale in Libano, Unifil), “in rappresentanza del Consiglio Supremo di Difesa presso il Segretariato Generale della Presidenza della Repubblica”.

Amir Rapaport, fondatore ed amministratore delegato di CyberTech Global

A fare da anfitrione alla kermesse romana l’imprenditore e giornalista israeliano, Amir Rapaport, fondatore ed amministratore delegato di CyberTech Global. “La sinergia tra l’ecosistema Israeliano e l’Italia è notevole e ci sono molte opportunità di collaborazione tra i due governi e tra i mercati dei due Paesi”, ha dichiarato all’inaugurazione. “Abbiamo ideato questo evento per diffondere consapevolezza e sensibilizzare sul tema della sicurezza informatica: le aziende – che siano esse grandi multinazionali, startup o enti pubblici – sono sempre più chiamate ad adottare un approccio proattivo per essere in grado di gestire attivamente e prevenire efficacemente le minacce informatiche, rimanere competitive e innovative sul mercato. Anche quest’anno, sono onorato di accogliere e ospitare sul palco gli attori più esperti nel settore della cybersecurity tra cui leader globali e decision maker, provenienti dall’Europa e da tutto il mondo, insieme ad importanti enti come la Commissione europea, la NATO, Europol, la DG Connect e altri ancora per discutere di come cambiano le esigenze di sicurezza e delle soluzioni necessarie per indirizzare le nuove sfide in continua evoluzione”.

Nato nella città di Be’er Sheva nel deserto del Negev, Amir Rapaport ha conseguito una laurea in economia presso la Ben-Gurion University of the Negev e un dottorato in Defense and Policy Studiesalla Bar Ilan University di Ramat Gan. Prima di fondare la Cybertech Global (2014) con cui organizza eventi per l’industria della cyber security da Tel Aviv a New York, da Roma a Dubai e Tokyo, Rapaport ha fatto da analista militare per alcune riviste specializzate e da Chief Military Commentator per quotidiani e periodici seguendo le operazioni delle forze armate israeliane durante la seconda guerra in Libano o nella seconda Intifada. Nel 2010 l’analista ha pubblicato il volume The IDF and the Lessons of the Second Lebanon War per conto del Begin-Sadat Center for Strategic Studies, il think tank della Bar-Ilan University finanziato anche con i fondi della NATO Mediterranean Initiative.

Amir Rapaport è anche tra i fondatori del media group Arrowmedia Israel Ltd., specializzato nella creazione e gestione di siti internet e nell’organizzazione di eventi e fiere. Arrowmedia Israel Ltd. è nota tra i vertici delle forze armate e di manager delle industrie belliche internazionali per la pubblicazione del bimestrale in lingua inglese ed ebraica Israel Defense che analizza le politiche militari-industriali di Tel Aviv e del Medio Oriente. Israel Defense cura anche un quotidiano online di informazione su difesa e sicurezza.

A margine di CyberTech Europe 2023, Amir Rapaport ha rilasciato una intervista a Formiche.net in cui ha stigmatizzato il “pericolo” russo-cinese nel cyber-spazio ed enfatizzato la necessità di un’alleanza strategica tra governi, industrie del settore e centri di ricerca universitari. “Nazioni come Stati Uniti, Regno Unito, Italia e Israele collaborano, mentre altre come la Corea del Nord, la Russia e la Cina possono essere considerate avversarie”, ha dichiarato l’analista. “La guerra cibernetica si è evoluta ben al di là degli attacchi e comprende campagne di influenza, intensificate durante la pandemia a causa del maggiore ricorso alle piattaforme digitali. La collaborazione, sia all’interno dei Paesi sia oltre i confini nazionali, è essenziale per combattere efficacemente le minacce informatiche. Gli ecosistemi, che consistono in collaborazioni tra Paesi, aziende e università, svolgono un ruolo cruciale. La condivisione delle informazioni, la promozione dei progressi tecnologici in campo informatico e la sensibilizzazione alla sicurezza informatica sono componenti fondamentali”.

CyberTech Europe 2023 è stata una vetrina di successo del modello militare-industriale-finanziario-accademico made in Israel con ministri, politici, alti ufficiali, aziende e start up alla corte di Leonardo e socie transnazionali del business cibernetico. E tutto questo quarant’otto ore prima che prendessero il via le operazioni di genocidio del popolo palestinese della Striscia di Gaza.

Antonio Mazzeo
amazzeo61@gmail.com
©RIPRODUZIONE RISERVATA

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Business first: Leonardo vende a Israele elicotteri prodotti nei suoi stabilimenti americani

Israele bombarda violentemente Gaza e l’Italia continua a comprare armi sofisticate da Tel Aviv

A Londra si decide la sorte di Assange. Appelli dal mondo: “Non estradatelo in USA”

Speciale per Africa Express e per Senza Bavaglio
Francesca Piana
Milano, 19 febbraio 2024

Giornalista d’inchiesta autrice del libro “Il potere segreto. Perché vogliono distruggere Julian Assange”, Stefania Maurizi ha lavorato sui documenti di WikiLeaks per i giornali per i quali scrive, inizialmente “L’Espresso” e “la Repubblica”, oggi “Il Fatto Quotidiano”. Non ha mai lavorato per WikiLeaks.

Ha scritto più volte che Julian Assange, il fondatore di WikiLeaks, è stato incriminato nel 2019 dall’amministrazione Trump grazie alla legge “Espionage Act” del 1917 per avere pubblicato 700 mila documenti segretati del governo americano, che hanno svelato al mondo crimini di guerra dall’Afghanistan all’Iraq e gravissime violazioni dei diritti umani.

È stata utilizzata per l’incriminazione una legge sullo spionaggio contro un giornalista che ha rivelato informazioni di pubblico interesse. L’estradizione negli Stati Uniti, dove Assange rischia una condanna a 175 anni di carcere, è un procedimento politico che il Regno Unito avrebbe potuto negare. Tutte le organizzazioni per la difesa dei diritti umani e della libertà di stampa chiedono di non estradare Assange e di liberarlo.

Il 20-21 febbraio, cioè domani e dopodomani, l’Alta Corte del Regno Unito deciderà se accettare o rigettare l’appello della difesa di Julian Assange di non estradarlo negli U.S.A. Questa è l’ultima possibilità per evitare l’estradizione: com’è la situazione e che speranze ci sono?

La High Court del Regno Unito ascolterà le ragioni della difesa del fondatore di WikiLeaks contro l’estradizione. Emetterà la sentenza, difficilmente immediata, nell’arco di settimane o anche mesi. Se rigetterà la richiesta, come tutti ci aspettiamo, può essere l’ultima udienza sul suolo inglese.

Davanti all’Alta Corte di Londra si sussuegono manifestazione per chiedere che Assange non sia estradato in America e che sia invece liberato (foto Africa ExPress)

Verrà fatto il ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo?

Il ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo verrà fatto, ma può accadere che il Regno Unito estradi Assange prima che la Corte emetta le misure di protezione, con la sospensione temporanea dell’estradizione, per avere il tempo di valutare l’appello.

Quanto è informata l’opinione pubblica in Europa e negli Stati Uniti?

Negli Stati Uniti l’opinione pubblica è tenuta nell’ignoranza più assoluta, non vengono forniti gli elementi di base per comprendere il caso, come se non li riguardasse. In Europa l’informazione è più attiva. Italia e Germania danno un forte supporto, come anche la Francia. In Italia ho contribuito con il mio giornalismo e con il mio libro, hanno contribuito gli attivisti diffondendo le informazioni alla base e l’attribuzione delle cittadinanze onorarie come quella di Roma, appena avvenuta.

Annullare le accuse contro Julian Assange

Il giornalista Riccardo Iacona dedica ad Assange la puntata di “Presadiretta” in onda su Rai3 il 19 febbraio. Il presidente della FNSI Vittorio di Trapani ha invitato tutte le testate a pubblicare i documenti di Wikileaks fino al 20. Giuseppe Giulietti, coordinatore dei Presidi di Articolo 21, ha fatto un appello alla Rai a dare voce alla protesta. Queste iniziative possono in qualche misura servire?

Sensibilizzare l’opinione pubblica sul lavoro giornalistico di Assange è fondamentale. Iacona già nel 2021 ha fatto un lavoro importante sul caso e l’ha portato in Rai in prima serata rompendo il silenzio. Vittorio di Trapani ha dato la tessera del sindacato della FNSI a Julian Assange e mobilitato i sindacati dei giornalisti di venti Paesi europei invitandoli a fare lo stesso.

Il 20 febbraio a Londra ci sarà una grande mobilitazione e ce ne saranno altre in Italia a Milano, Roma, Napoli e in altre città. Che speranze ci sono che Assange non venga estradato negli Stati Uniti?

Speranze poche, ma la forza dell’opinione pubblica può ancora cambiare le cose. Il premio Nobel per la Pace, l’argentino Adolfo Perez Esquivel, aveva lanciato un appello forte della sua vicenda personale nella quale è stata l’opinione pubblica a salvarlo quando tutto sembrava perduto. Il suo appello è stato raccolto dalla professoressa Grazia Tuzi che ha invitato artisti, giornalisti e commentatori a sottoscriverlo dando forma al comitato “La mia voce per Assange”.

Francesca Piana
francescapiana@gmail.com
©RIPRODUZIONE RISERVATA

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Da Londra al Kenya con una bimba da sottoporre a mutilazione genitale: condannata a 7 anni in Inghilterra

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
18 febbraio 2024

Amina Noor, una donna quarantenne residente Harrow, Londra, è stata condannata a 7 anni di galera dall’ Old Bailey (Tribunale penale centrale londinese, ndr), perché nel 2006 ha portato una bimba di 3 anni in Kenya, dove è stata sottoposta alla mutilazione genitale femminile (MGF). I giudici del Regno Unito hanno emesso una  sentenza storica severissima nei confronti di una persona per aver collaborato a un atto di infibulazione.

Nel 2019, invece, è stata processata e condannata a 11 anni di prigione una donna ugandese di Walthamstow, nell’est di Londra, per aver mutilato lei stessa una bambina di tre anni.

Amina Noor, condannata a 7 anni di prigione

Nel 2006,  la Noor, all’epoca 22enne, si era recata con la piccola da Harrow verso il Kenya. Lì la bimba fu portata in una casa privata e sottoposta a MGF.

Secondo un’antica tradizione che risale ai tempi dei faraoni, quella che viene chiamata anche “circoncisione femminile”, riguarda la rimozione, in toto o in parte, della parte esterna dei genitali delle donne. In alcuni casi comporta il taglio del clitoride e la cucitura delle grandi labbra.

Di solito vengono eseguite da una donna specializzata in MGF con una lama e senza anestetico. L’eventuale cucitura nel villaggio della boscaglia avviene utilizzando spine d’acacia come spilli. Sebbene sia internazionalmente riconosciuta come violazione dei diritti umani, si calcola che siano circa 68 milioni le ragazze in tutto il mondo che rischiano di subire questa atrocità entro il 2030.

A dispetto di quanto molti credono, non è una regola musulmana, tant’è vero che in Arabia Saudita, il Paese culla dell’islam, non viene per nulla praticata. E’ diffusa invece in Egitto e nella fascia dell’Africa sub sahariana, anche tra le comunità cristiane o animiste. Sono le madri che la impongono alle figlie e viene praticata tra l’infanzia e i 15 anni di età.

La Noor ha spiegato alla Corte che l’infibulazione viene praticata per motivi culturali e anche lei stessa è stata sottoposta alla mutilazione genitale in età infantile. Ma il giudice Bryan non ha voluto sentire ragioni e durante la lettura della sentenza ha sottolineato che si tratta di un crimine orribile e ripugnante che lascia segni indelebili nella vita della vittima.

Il magistrato ha poi elogiato il coraggio della ragazza, che si è confidata con la sua insegnante e spera che altre giovani si facciano ora avanti e denuncino le violazioni e i crimini subiti. Mentre il legale della Noor ha cercato di spiegare che l’accusata era convinta di fare la cosa giusta per essere accettata dalla gente della sua cultura.

Il procuratore Deanna Heer KC pur riconoscendo la “pressione culturale”, ha specificato che la Noor “non è intervenuta in alcun modo per proteggere” la ragazza. Il suo crimine è venuto alla luce solo anni dopo, nel novembre 2018, quando la vittima, allora sedicenne, si è confidata con la sua insegnante di inglese a scuola.

La vittima, che oggi ha 21 anni e la cui identità non può essere resa pubblica per motivi legali, il giorno dell’infibulazione, ha pianto tutta la notte per i dolori.

Noor è nata in Somalia e si è trasferita in Kenya all’età di otto anni durante la guerra civile nel suo Paese. A 16 anni è arrivata nel Regno Unito e in seguito ha ottenuto la cittadinanza britannica.

Faty Kane, consulente senior per i diritti delle bambine di ActionAid UK, ha accolto favorevolmente la sentenza, ma ha precisato: “Le punizioni da sole non funzionano; per porre fine alle mutilazioni genitali femminili bisogna lavorare con le comunità”.

Cornelia I. Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
X: @cotoelgyes
©RIPRODUZIONE RISERVATA

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L’infibulazione, una piaga che affligge 130 milioni di donne

Un nuovo esodo biblico: in Egitto nasce l’ennesimo campo profughi per i palestinesi sfollati di Gaza

Da La Voce di New York
Eric Salerno
17 febbraio 2024

Fadi Jamjoun aveva quaranta anni. Era nato e cresciuto nel campo profughi palestinese di Shuafat, incastrato tra la città santa – Gerusalemme – e l’insediamento israeliano di Pisgat Zeev, una delle tante colonie illegali secondo il diritto internazionale.

Il luogo dove viveva o sopravviveva fu fondato dall’UNRWA nel 1965 per rispondere alla richiesta del governo giordano di fornire alloggi alle circa 500 famiglie di rifugiati che vivevano nel sovraffollato campo profughi di al-Mu’askar, nella Città Vecchia di Gerusalemme. Era, Jamjoun, a giudicare dalla sua foto postata su un sito palestinese, un uomo dedito alla religione. Ieri, da solo, è sceso da una vettura con targa israeliana a una fermata degli autobus a Kiryat Malachi, non lontano da Ashdod, una città israeliana poco a nord di Gaza, e ha sparato contro quelli che aspettavano l’autobus. Due persone sono morte, altre tre o quattro ferite. E lui è stato ucciso da un giovane colono che si trovava sul posto e che era armato.

Sfollati palestinesi residenti a Khan Yunis lasciano le loro case e si spostano verso il campo di Rafah vicino al confine con l’Egitto

Dopo le ambulanze e le forze di sicurezza israeliane, si è precipitato sul posto il ministro della Sicurezza nazionale, l’estremista di destra Itamar Ben-Gvir, che tra le altre cose sostiene che bisogna rioccupare Gaza e impiantare nuove colonie ebraiche quando sarà finita la guerra. “Questo attacco dimostra ancora una volta che le armi salvano vite umane. Questo mese, ci sono state tutti i tipi di critiche su di me. Non solo non cederò alle critiche, ma amplierò la nostra politica per incoraggiare i cittadini di Israele a portare le armi”. E ha aggiunto: “È così che dovrebbe essere a Gaza, è così che dovrebbe essere in Libano, è così che dovrebbe essere ovunque. Risposta audace, tolleranza zero, guerra fino alla distruzione. Distruggiamoli”.

Poche ore prima la stampa americana aveva mostrato una serie di foto satellite per raccontare come l’Egitto stia creando un campo vicino al suo confine con Gaza, come contingenza per un potenziale esodo di palestinesi dall’enclave se Israele dovesse andare avanti, come appare sempre più probabile, con un’offensiva di terra su Rafah, la regione di confine dove più della metà della popolazione di Gaza si sta rifugiando.

L’Egitto ha ufficialmente negato di aver fatto tali preparativi. Una affermazione in linea con la posizione pubblica ufficiale di essere veementemente contrario allo spostamento dei palestinesi fuori da Gaza. Le prove fotografiche indicano, però, che il primo Paese ad aver firmato un accodo di pace con lo Stato ebraico – nell’ormai lontanissimo 1979 – si sta attrezzando rapidamente per bloccare il probabile esodo da Gaza. Il New York Times ha confermato il contenuto delle immagini e ha parlato con gli appaltatori del sito, che hanno affermato di essere stati assunti per costruire un muro di cemento armato altissimo intorno all’appezzamento di terreno – cinque chilometri quadrati – nel Sinai vicino al confine di Gaza.

Da più di una settimana i leader di Hamas e di Israele, tramite americani, europei, arabi stanno negoziando al Cairo per concordare uno scambio ostaggi-prigionieri, per una tregua o fermare la guerra. Tra gli uni e gli altri non sembra che vi sia molto spazio per un’intesa, anche se Washington manda segnali positivi. Forse nel tentativo di trascinare il dialogo a ridosso delle feste islamiche del Ramadan, quando Netanyahu avrebbe promesso di concludere o sospendere i combattimenti. Proprio ieri, però, Benny Gantz, ex capo di stato maggiore e uno dei suoi ministri della strana coalizione di estrema destra, è tornato a minacciare: se Hamas non accetta subito i termini per uno scambio, le forze armate israeliane attaccheranno Rafah “anche se sarà tempo di Ramadan”. Della popolazione di Gaza, delle famiglie palestinesi accampate nella città a ridosso del Sinai egiziano non ha parlato. Ormai nessuno sembra essere capace, o volere, costringere Israele a fermare il suo micidiale assalto alla zona in cui si è spostata parte notevole della popolazione della Striscia.

E, così, il presidente al-Sisi avrebbe deciso: non sparare sui palestinesi per respingerli a morire a Gaza, ma accoglierli come animali in un grande corral da far-west, cemento invece di reticolato di legno o filo spinato. Un altro campo profughi con capacità, dicono i tecnici che stanno lavorando nel Sinai, per centinaia di migliaia di persone. Saranno accolte nelle tende che si stanno scaricando e che devono rapidamente allestire. Una soluzione provvisoria, con le solite garanzie americane, come dovevano essere provvisori i 58 campi situati in tutta la Palestina e nei paesi vicini. Oggi ci sono 2,3 milioni di rifugiati palestinesi in Giordania, 1,5 milioni di rifugiati a Gaza – ossia il 70 per cento dei residenti nella Striscia, 870.000 rifugiati nella Cisgiordania occupata, 570.000 rifugiati in Siria e 480.000 rifugiati in Libano.

Secondo il diritto internazionale, i rifugiati hanno il diritto di tornare alle loro case e alle loro proprietà da cui furono cacciati. Molti palestinesi dicono di sperare ancora di tornare in Palestina. Alle loro case e terreni in Israele, o almeno in uno Stato palestinese che fu promesso loro molte volte.

Eric Salerno
Eric2sal@yahoo.com
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Senegal: rimandare le elezioni è incostituzionale così il consiglio dei saggi annulla il rinvio deciso dal presidente

Africa ExPress
Dakar, 16 febbraio 2024

Colpo di scena in Senegal. Il Consiglio costituzionale ha dichiarato che il rinvio delle elezioni presidenziali al 15 dicembre 2024 è incostituzionale e ha revocato il decreto del capo di Stato Macky Sall, che aveva annullato le elezioni previste per il 25 febbraio 2024.

Il Consiglio dei saggi ha basato la sua decisione sull’articolo 103 della Costituzione secondo cui il mandato presidenziale di cinque anni è intoccabile

Consiglio costituzionale del Senegal

L’attuale presidente è stato  eletto nel 2012 per sette anni e poi rieletto nel 2019 per altri cinque; il suo mandato scade il 2 aprile prossimo. Rinviando le elezioni presidenziali al 15 dicembre, Sall rimarrebbe al potere ben oltre il suo mandato.

“È una decisione che ripristina l’immagine della democrazia in Senegal“, ha dichiarato Aminata Touré, l’ex primo ministro la cui candidatura alle presidenziali non è stata accettata.

Mentre Aly Ngouille Ndiaye, un ex ministro in lizza alle presidenziali, si è detto soddisfatto ma di non essere assolutamente sorpreso della decisione dei saggi.

“Il capo di Stato credeva, come molti presidenti africani, di poter violare impunemente la Costituzione”, ha affermato Thierno Alassane Fall, un altro aspirante alla poltrona più ambita, che poi ha aggiunto: “Un passo cruciale per la nostra democrazia è stato appena compiuto”.

La decisione è stata accolta favorevolmente anche dall’ex partito PASTEF, il cui leader è Ousmane Sono, il maggior oppositore di Sall.

Ovviamente i senegalesi non potranno recarsi alle urne il prossimo 25 febbraio, come previsto inizialmente. I tempi sono troppo stretti per organizzare la tornata elettorale. Gli ermellini raccomandano al presidente e all’esecutivo di predisporre le presidenziali prima del 2 aprile 2024, anche se ciò dovesse ridurre il periodo di campagna elettorale.

In un comunicato pubblicato oggi, Sall ha fatto sapere che “intende attuare pienamente la decisione del Consiglio costituzionale” e “svolgerà senza indugio  le consultazioni necessarie per l’organizzazione delle elezioni presidenziali il prima possibile”.

Africa ExPress
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©RIPRODUZIONE RISERVATA

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Democrazia in bilico in Senegal: il presidente Sall rinvia sine die le elezioni

Corruzione milionaria in Angola: a processo Kopelipa e Dino, due generali ricchi sfondati dell’era Dos Santos

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Speciale per Africa ExPress
Sandro Pintus
15 febbraio 2024

I due alti ufficiali sono Leopoldino Fragoso do Nascimento, noto come “Dino” e Manuel Helder Vieira Dias, conosciuto come “Kopelipa”. Kopelipa era l’ex capo dei Servizi segreti angolani mentre Dino è stato al comando dei Servizi di comunicazione. Insieme ai due potenti uomini di fiducia dell’ex presidente Eduardo dos Santos, ci sono altri cinque imputati.

I generali Kopelipa e Dino
I generali Kopelipa (a sinistra), e Dino

Tutti sono accusati di associazione a delinquere, riciclaggio di denaro, appropriazione indebita e falsificazione di documenti. Il danno per lo Stato angolano sarebbe di centinaia di milioni di euro. L’atto di accusa è stato emesso dalla Camera Penale della Corte Suprema dell’Angola il 20 dicembre scorso ma scoperto dall’agenzia portoghese Lusa pochi giorni fa.

Le fortune dei generali

Non si conosce esattamente il valore del “maltolto” dei due alti ufficiali che sono stati citati anche dal Consorzio Internazionale di Giornalisti Investigativi (ICIJ) nei Panama Papers e Luanda Leaks. Ma nel 2014 quello di Kopelipa era stimato in 3 miliardi di euro. Circa un milione di euro era il valore del capitale di Dino.

La loro ricchezza deriva dalla vendita e acquisto di azioni di varie società angolane delle quali detengono percentuali di azioni. Ma, nel caso del generale Leopoldino Nascimento, anche dalla vendita di petrolio in 30 Paesi.

Secondo il giornale portoghese Expresso hanno informato il presidente João Lourenço di essere disposti a cedere allo Stato beni per un miliardo di euro. Ma era il 2020 e molte cose sono cambiate.

I due generali sotto sanzioni USA

Gli Stati Uniti, nel 2021, hanno congelato tutti i beni dei due alti ufficiali angolani. Il gen. Kopelipa e il gen. Dino sono sotto sanzioni anti-corruzione. Secondo le leggi americane agli imprenditori USA è vietato fare business con i due ufficiali angolani.

Le società cinesi coinvolte

Le accuse sono attinenti al caso della filiale angolana del China International Fund (CIF-Angola). Il CIF, di proprietà di imprenditori cinesi con sede a Hong Kong, si occupa di costruzione di infrastrutture nei Paesi in via di sviluppo. Ha investito circa 20 miliardi di USD, principalmente in Paesi africani con governi dittatoriali attraverso le sue succursali nel grande continente.

Oltre al CIF-Angola sono coinvolte altre due aziende: Plansmart International Limited e Utter Right International Limited, anche queste cinesi. Secondo la nuova legge angolana sono accusate solo di traffico di influenze, riciclaggio di denaro.

Per il momento, secondo il tribunale, gli imputati non hanno portato alcuna prova rilevante per contestare le accuse. Al contrario, ha ritenuto che fossero state raccolte prove sufficienti per incriminare, e processare, tutti gli imputati.

Kopelipa Dino China International Fund ltd
China International Fund Limited

Omaggio all’accusato Kopelipa

Lo scorso 10 novembre l’MPLA (Movimento Popolare di Liberazione dell’Angola al potere dal 1975, anno dell’indipendenza dal Portogallo) ha reso omaggio al generale Kopelipa.

Oggi settantenne è nella riserva. È uno degli eroi della lotta di liberazione che hanno fatto parte della prima delegazione del partito a Luanda nel 1974. Gli analisti politici leggono questa manifestazione di stima e rispetto come un aiuto per evitare la condanna.

Lotta alla corruzione o resa dei conti?

Dopo le accuse di corruzione e riciclaggio ai figli di Eduardo dos Santos, soprattutto Isabel, ora tocca ai due militari. Per molti è una pulizia contro la corruzione promessa dall’attuale presidente, João Lourenço. Per altri è una resa dei conti con i personaggi dei 43 anni di potere dell’ex presidente, deceduto nel 2022.

Sandro Pintus
sandro.p@catpress.com

X (ex Twitter):
@sand_pin
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Giornalismo investigativo: 12 capi d’accusa inchiodano la figlia dell’ex presidente angolano Dos Santos

Panama papers (2), Africa: i politici e uomini (e donne) d’affari coinvolti

Luanda Leaks (1): Angola, crolla l’impero miliardario di Isabel dos Santos

Luanda Leaks (2): corruzione in Angola continua anche senza dos Santos

“Ha rubato milioni di dollari”: sotto accusa il figlio dell’ex presidente dell’Angola

Da combattente per la libertà a dittatore cleptocrate: muore Eduardo dos Santos, ex presidente dell’Angola

Natanyahu resiste agli assalti. Ma anche i suoi processi resistono e non mollano

 

Speciale per Africa ExPress
Alessandra Fava
13 febbraio 2024

La guerra sottrae il premier Benjamin Netanyahu ai suoi processi. Gli israeliani li chiamano per numero. Il caso 1.000 aperto nel dicembre del 2016 riguarda i regali fatti da due megamiliardari al premier e alla moglie. Il caso 2.000 riguarda invece delle telefonate col direttore di Yedioth Ahronoth su come indebolire il partito Israel Hayom.

Il caso 4.000 è relativo alle norme favorevoli alla compagnia di telecomunicazioni Bezeq e conseguenti mazzette ricevute da Netanyahu mentre era ministro delle telecomunicazioni (2014-2017).

Benjamin Netanyahu mentre arriva a una conferenza stampa a Tel Aviv, Israel, 28 ottobre 2023. EPA/ABIR SULTAN / POOL

Morale il premier è accusato di frode in tutti i fascicoli e per il 1.000 e 2.000 anche di aver violato la fiducia in lui riposta e nel caso 4.000 di aver preso delle tangenti.
Relativamente al 4.000 il Tribunale ha appena intimato la chiusura di due testate coinvolte nell’affaire, il sito di notizie Walla e il giornale Yedioth Aharonoth, più una multa di 800 mila shekel (217 mila dollari) nei confronti della società Bezeq.

Tra familiari dei 134 ostaggi e contestatori vari, i presidi sotto le case del premier continuano incessanti. I giornali israeliani da settimane riportano le proteste di piazza che chiedono dimissioni subito del premier, un rimpasto per eliminare i ministri più oltranzisti e un passo indietro come fece Golda Meier dopo la guerra dello Yom Kippur. Nei sondaggi però la linea sembra più cauta, le elezioni subito sarebbero caldeggiate dal 63 per cento degli israeliani, mentre il resto si oppone (su un campione di 500 israeliani intervistati). Sta di fatto che i processi del premier per ora sono accantonati. Finché c’è guerra c’è speranza, ma solo per Netanyahu.

Benjamin Netanyahu, primo ministro israeliano


Intanto i media lanciano frecce al premier ma sembrano tutte spuntate. A gennaio Haaretz ha scritto che Bibi tre anni fa aveva promesso un ventennio di pace e non ci sono mai stati tanti israeliani morti; che aveva promesso di fermare i terroristi e ha lasciato che Hamas si armasse fino ai denti; che dal 7 ottobre in poi ha corroso tutti i rapporti instaurati con gli stati arabi ma anche quelli con gli Usa e con l’Europa e che ora promette di salvare gli ostaggi e sconfiggere Hamas, due obiettivi in contemporanea che non sembrano per niente raggiungibili. Quindi la guerra con Hamas continua e non a Rafah che lui minaccia di attaccare, ma a Khan Younis dove gli scontri vanno avanti da settimane (sono morti in questi giorni altri tre soldati).

Netanyahu durante un processo

Quindi la guerra tiee campo e ogni tanto qualche vignetta e qualche fondo rispolvera la memoria delle accuse a Bibi. Tornano particolari come i 200 mila dollari accettati in champagne e sigari per vent’anni e i gioielli per oltre 3 mila dollari ricevuti da Sara, personaggio non molto amato nel suo paese per l’atteggiamento da stella di Hollywood e vari eccessi. Nel dubbio a uno dei due miliardari del caso 1.000 il premier aveva anche garantito l’esenzione dalle tasse visto che tornava ad essere residente in Israele. Intanto Sara, la moglie di Bibi, si è fatta vedere e riprendere qualche giorno fa all’ultima udienza del processo 1.000 nel tribunale di Gerusalemme dove deponeva un ex generale.

Adesso Bibi ha lanciato la sua nuova sfida: radere al suolo Rafah. Così tutti tengono il fiato sospeso per un po’. La guerra continua e il governo anche.

Alessandra Fava
alessandrafava2023@proton.me
©️ RIPRODUZIONE RISERVATA

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Costa d’Avorio-Kenya: lo sport africano tra esaltazione e disperazione

Dal Nostro Corrispondente Sportivo
Costantino Muscau
13 febbraio 2024

La Costa d’Avorio impazza di gioia, il Kenya è impietrito dal dolore.

Sarà indimenticabile per lo sport africano, la notte della domenica 12 febbraio. Ad Abidjan più che la nazionale di calcio è scesa in campo un’intera nazione per conquistare la terza Coppa d’Africa.

A Nairobi tutto il Paese si è stretto intorno alle bare di uno dei suoi più grandi campioni dell’Atletica e del suo allenatore. Se la vita è fatta di coincidenze, come ha scritto Josè Saramago, alcune sono crudeli, beffarde.

Nelle stesse ore in cui gli Elefanti ivoriani si apprestavano ad alzare al cielo, nello stadio Olympique Alassane Ouattara di Abidjan, la Coppa dorata, da un burrone nel cuore del Kenya salivano al cielo le anime di Kelvin Kiptum, 24 anni, recordman mondiale della maratona, e del suo allenatore ruandese, Garvais Hakizimana, 36 anni, ex atleta.

Mentre i calciatori e il popolo ivoriano si lanciavano in festeggiamenti sfrenati per la vittoria (2-1) sulla Nigeria, nel cuore del Kenya si consumava una tragedia che lasciava basito il mondo dell’atletica e non solo.

Una vittoria e una sciagura che hanno dell’incredibile. Anche se la fine del maratoneta si tinge di giallo: suo papà ha chiesto al governo di indagare sullo schianto fatale.

La Costa d’Avorio aveva rischiato l‘eliminazione dalla 37 Coppa delle Nazioni d’Africa nella fase a gironi, dopo l’umiliante sconfitta per 4-0 contro la Guinea Equatoriale. Era stato mandato via l’allenatore francese Jean-Louis Gasset, 70 anni, sostituito subito dal vice Emerse Fae, 40 anni, che ha rivitalizzato l’équipe portandola al trionfo.

La nazionale, infatti, recuperata come migliore terza, da quel momento ha infilato quattro vittorie prodigiose. Agli ottavi di finale ha battuto il Senegal ai rigori, passando il turno e rimontando sul Mali; poi in semifinale ha piegato la Repubblica Democratica del Congo per arrivare allo scontro conclusivo di domenica sera contro la Nigeria.

Costa d’Avorio, CAN, Sebastian Haller

Un trionfo, tanto più dolce per una nazione che ha ballato fino all’alba di lunedì, dopo essere stata dilaniata da una guerra civile di cinque anni fino al 2007.

Non solo: la squadra è stata trascinata dal centravanti Sebastian Haller, 29 anni, che ha deciso il match segnando il gol della vittoria a 10 minuti dal termine. “Se stiamo vivendo una bella favola e siamo sopravvissuti a un miracolo, come ha dichiarato il trainer Fae – l’ incarnazione di questo miracolo è Haller”.

Nell’estate 2022, appena ingaggiato dal Borussia Dortmund, in Germania, Haller aveva visto in pericolo la sua carriera e la sua vita. Era stato colpito da un tumore maligno ai testicoli e si era sottoposto a due interventi chirurgici e a quattro cicli di chemioterapia. Solo nel gennaio di un anno fa aveva ripreso a giocare. Ora Haller può dire “grazie alla vita che gli ha dato tanto” e la possibilità di conquistare il terzo titolo continentale al suo Paese. Altrettanto non può dire Kelvin Kiptum, morto al culmine della sua fulminante carriera.

Kelvin Kiptum, medaglia d’oro a Velencia, terzo uomo più veloce al mondo

“Kelvin era il nostro futuro”, lo ha pianto il presidente della Repubblica keniota, William Ruto. In verità, Kelvin era anche il presente: alla sua età era l’unica persona nella storia dell’atletica ad aver corso la maratona in meno di due ore e un minuto (2h 00’ 35” a Chicago, 8 ottobre 2023) e ad aver vinto tre delle sette maratone più veloci della storia.

Anche la sua fine inaspettata e tragica è carica di maledette coincidenze. Kelvin è morto vicino a casa. Il papà è stato tra i primi ad accorrere su posto della disgrazia.

Ha dichiarato il comandante della polizia della contea di Elgeyo Marakwet, Peter Mulinge :”Kelvin era al volante della sua Toyota Premio, da Eldoret diretto a Ravine; ha perso il controllo, è uscito di strada, è finito in un burrone prima di schiantarsi contro un grosso albero, dopo un volo di 60 metri. Lui e il suo trainer sono morti sul colpo. Una donna che era con loro, la ventiquattrenne Sharon Kosgei Chepkurui è rimasta ferita”. (Lunedì 12 febbraio è stata dimessa dall’ospedale di Eldoret)

Kelvin, padre di Caleb e Precious, di 7 e 4 anni, era nato e cresciuto nel villaggio di Chepsamo, circa 30 chilometri da Eldoret nella Rift Valley nel Kenya occidentale. E’ il cuore della suggestiva regione forestale d’alta quota rinomata come base di allenamento per i migliori corridori a distanza dal Kenya e da tutto il mondo.

Lì Kelvin aiutava la famiglia a curare le capre fino all’età di 13 anni, quando cominciò a correre. “Lo conoscevo fin da bambino, allevando bestiame a piedi nudi” – aveva ricordato lo scorso anno parlando con La BBC, il suo allenatore, morto con lui, Hakizimana – “Era nel 2009, mi allenavo vicino alla fattoria di suo padre, mi prendeva a calci e lo cacciavo via”. A 18 anni, alla sua prima gara, una vittoriosa mezza maratona, si presentò con un paio di scarpe prese in prestito. Non aveva soldi per comprarsele, neppure usate.

Kelvin si stava preparando per battere il suo record, a Rotterdam, il 14 aprile. Appena la settimana scorsa era stato riconosciuto ufficialmente il primato stabilito a Chicago e 2 mesi fa a Montecarlo era stato votato miglior atleta mondiale del 2023.

Era pronto anche a scendere in pista alle olimpiadi di Parigi la prossima estate. Appuntamenti prestigiosi, ma non aveva calcolato l’appuntamento col destino spietato.

Il giovane atleta è l’ultima stella keniota a morire in circostanze devastanti. David Lelei, medaglia d’argento di All-Africa Games, perse la vita in un incidente d’auto nel 2010 a 38 anni. Il maratoneta Francis Kiplagat, 28 anni, fu tra le cinque persone decedute nel febbraio 2018 in una sciagura avvenuta sulla stessa strada.

Anche Nicholas Bett, oro negli ostacoli di 400 metri ai campionati del mondo 2015 di Pechino, scomparve tragicamente a 26 anni: la su auto finì in un fossato nel 2018 nella contea Nandi (situazione e area parallele a quelle che hanno coinvolto Kiptum). Altri campioni, quali Rudisha, Tanui, Tergat sono miracolosamente sopravvissuti a schianti automobilistici. Tuttavia, come accennato, su questa vicenda aleggia un terribile alone di mistero. Il padre di Kiptum, Samson Cheruyot parlando con Citizen TV, ha invitato il governo a condurre indagini approfondite. Devastato dal dolore, Cheruiyot ha detto che recentemente quattro persone sconosciute hanno visitato la sua fattoria in cerca del figlio. A precisa richiesta di fornire documenti, si sono rifiutate di identificarsi e se ne sono andate.

In attesa dell’inchiesta, se ci sarà, la fine dolorosa e terrificante dell’ex pastorello di capre purtroppo è da inserire anche in un contesto più vasto: l’altissimo numero di incidenti stradali che flagella il Kenya. L’Autorità nazionale del trasporto e della sicurezza (NTSA) stima che ogni anno nel Paese muoiano in auto 3000 persone. Nel 2022 le vittime sono state 4690, 4579 nel 2021 e nei primi 10 mesi del 2023 già 3609. Una strage a cui non si riesce porre rimedio.

Costantino Muscau
muskost@gmail.com
©RIPRODUZIONE RISERVATA

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E anche nel calcio prosegue il razzismo: africani contro africani arabi

A Chicago maratona dei record e strapotere del Kenya