Speciale per Africa ExPress Sandro Pintus 13 marzo 2024
Alle 5.00 del 12 marzo la tempesta tropicale Filipo è entrata pesantemente nell’area di Vilankulo, nella provincia di Inhambane, nel centro del Paese. Venti a 110 km orari e piogge fino a 250 mm hanno portato distruzione di villaggi e alluvioni.
Quattro morti
Filipo ha però annunciato la sua pericolosa e invadente presenza a suon di fulmini. Uno di questi ha colpito sette persone uccidendone quattro mentre e altre sono rimaste ferite.
Il centro della tempesta tropicale di 60.000 kmq, (un’area più vasta di Lombardia e Piemonte), si sposta verso sud. Toccherà la capitale, Maputo, e il vicino Eswatini nelle prime ore di oggi 13 marzo. Le previsioni meteo dicono che Filipo attraverserà il centro sud del Mozambico per circa 500 km con una profondità di 350 km all’interno. Poi lascerà la costa per dirigersi a sud-est, verso l’oceano Indiano.
Canale del Mozambico troppo caldo
Filipo è nato lo scorso 4 marzo nel centro del Canale del Mozambico, con acque ormai troppo calde. Nel momento in cui scriviamo la temperatura del Canale arriva anche a 30°C, una ulteriore conferma che il cambiamento del clima è reale e pericoloso soprattutto per Mozambico e Madagascar.
Fino al 10 marzo Filipo ha svolazzato per il sud del Canale come “disturbo tropicale” per 1.850 km per diventare “grave tempesta tropicale”. Vilankulos e dintorni le aree più colpite e alluvionate, con case scoperchiate e distrutte e linee elettriche e telefoniche fuori uso.
In un comunicato Electricidade de Moçambique (EDM) informa che quasi 100.000 utenti sono rimasti senza energia elettrica nelle aree dove è passato Filipe. Le condizioni meteorologiche e l’inaccessibilità di alcune località sono stati i maggiori ostacoli per il ripristino della fornitura di energia elettrica.
L’Istituto mozambicano per la gestione e la riduzione del rischio di disastri (INGD) calcola che oltre 500.000 persone potrebbero essere colpite da inondazioni e forti venti. Lasciato il Mozambico, il ciclone entro sabato 16 marzo, dopo altri 3.500 km dovrebbe spegnersi senza toccare altre terre emerse nel sud dell’oceano Indiano.
Mozambico sempre più colpito
Il Mozambico è uno dei Paesi più colpiti da eventi meteo estremi. Cicloni e tempeste tropicali sono diventati, negli ultimi dieci anni più numerosi e violenti. Tra questi ricordiamo Idal che nel 2019 ha seminato oltre 1.000 morti; Eloisa, nel 2021 ha colpito 250.000 persone; e Freddy che nel 2023 ha lasciato 400 cadaveri.
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Africa ExPress e Senza Bavaglio Milano, 11 marzo 2024
Oggi Milano ha rinnegato se stessa. E la libertà di stampa ha subito un pesante attacco dalla politica della capitale morale del nostro Paese. Ma la sorpresa non sta nel comportamento della destra, ma soprattutto in quello della sinistra.
Poco prima delle 20 è stata votata in consiglio comunale una mozione che proponeva di concedere la cittadinanza onoraria a Julian Assange. La risoluzione è stata respinta con 7 voti favorevoli, 12 contrari, e 6 astenuti.
Senza Bavaglio e Africa ExPress erano presenti in consiglio comunale. Abbiamo constatato che il Partito Democratico ha giocato un ruolo attivo nel contrastare la proposta, nonostante che fuori da Palazzo Marino, sede del consiglio comunale, un manipolo di manifestanti, molti dei quali si sono dichiarati elettori del PD, avesse inscenato una dimostrazione a favore del giornalista australiano.
I lavori del consiglio si sono sviluppati per tutto il pomeriggio. Si è parlato dei problemi attuali di Milano, le buche gigantesche nell’asfalto, il cibo scadente nelle mense scolastiche e altre difficoltà di vita nella metropoli.
Il dibattito sulla “mozione Assange” non era previsto perché la discussione si era già svolta nelle sedute preceenti, ma poiché gli interventi andavano per le lunghe, il consigliere Carlo Monguzzi ha chiesto di sospendere la discussione e di anticipare il voto sulla mozione Assange: “Ci vogliono non più di 5 minuti”, ha scandito Monguzzi. che voleva evitare di arrivare al fuggi fuggi generale del fine seduta
La presidente piddina Elena Buscemi probabilmente ha capito che in quel momento, presenti tutti, la mozione sarebbe passata. Ha quindi respinto la richiesta di Monguzzi facendo continuare la discussione fin quasi alle 8.
Solo a qual punto ha aperto la votazione che si è risolta con la bocciatura per 7 favorevoli, 12 contrari e 6 astenuti.
I consiglieri di destra, tranne uno sono usciti dall’aula quindi non hanno votato. Anche alcuni consiglieri della sinistra sono sgattaiolati fuori. Ma soprattutto 12 consiglieri della sinistra che sostiene il sindaco Sala (che per altro non ha partecipato all’incontro) hanno votato contro e 6 si sono astenuti.
Ecco come hanno votato i consiglieri comunali di Milano la proposta per la cittadinanza onoraria a Julian Assange.
Voti contrari: 12
Arienta Alice (PD) – Barberis Filippo (PD) – Buscemi Elena (PD) – Ceccarelli Bruno (PD) – Costamagna Luca (PD) – De
Marchi Diana (PD) – Mazzei Marco (lista Sala) – Orso Mauro (lista Sala) – Pedroni Valerio (PD) – Pontone Marzia (lista Sala) – Radice
Gianmaria (Riformisti) – Tosoni Natascia (PD)
Astenuti: 6
Bottelli Federico – D’Amico Simonetta – Osculati Roberta – Romano Monica – Uguccioni Beatrice – Vasile Angelica (tutti e 6 del PD)
“Una scelta incoerente con i valori di cui, a parole, l’amministrazione dice di essere portatrice – ha commentato in un comunicato il Comitato italiano per la Liberazione di Julian Assange – Ringraziamo i consiglieri che con perseveranza hanno ripresentato la mozione (Carlo Monguzzi, Rosario Pantaleo ed Enrico Fedrighini) e coloro che l’hanno sostenuta. Nella città della moda e dell’apparenza il risultato, purtroppo, era scontato”.
“Mi vergogno di essere milanese da generazioni – ha commentato una ragazza presente tra il pubblico -. Roma, Napoli e altre città hanno accolto Assange a braccia aperte. Milano no! Ha rinnegato se stessa e le sue tradizioni democratiche”
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Speciale per Africa ExPress Gianni Avvantaggiato
11 Marzo 2024
Oggi, solo in Italia, sono 400 i militari morti a causa dell’uranio impoverito e altri 8mila sono ammalati in maniera grave. Ma è solo durante i bombardamenti NATO, nella ex Jugoslavia del 1999, che i reparti italiani scoprono il pericolo del DU (Depleted Uranium, in inglese), quando vengono diffuse le norme di protezione destinate ai militari nei Balcani.
Tuttavia i nostri soldati, del tutto inconsapevoli, ne conoscevano le conseguenze già qualche tempo prima, nel 1992, per la precisione, quando partecipano in Somalia all’operazione multinazionale (quella italiana si chiamava Ibis) a fianco degli USA. Gli americani guidano la coalizione internazionale – UNITAF, Unified Task Force – composta da tredici nazioni.
Il Paese del Corno d’Africa, che sotto il regime dispotico del generale Mohamed Siad Barre dal 1969, versa in una grave crisi umanitaria, nel 1991 sprofonda in un lungo periodo di guerra civile. Il dittatore fugge e il Paese è sconvolto da una violenta carestia e sprofonda in una catastrofico conflitto tra clan, seminando morte e distruzione.
“L’Italia è sicuramente responsabile delle lotte tribali e del genocidio in Somalia”, commenta Francesco Rutelli, al corrispondente americano a Roma del Washington Post, Wolfgang Achtner. L’ex deputato del partito ambientalista dei Verdi ha svolto un ruolo di spicco nel denunciare quello che è diventato uno grosso scandalo in Italia.
I fatti, dimostrano che l’agonia della Somalia trova le sue radici anche nella diffusa corruzione nel nostro Paese. Nel corso degli anni ’80, infatti, politici e uomini d’affari italiani hanno utilizzato la Somalia come terreno di gioco per enormi progetti economico-finanziari che poco hanno fatto per aiutare la popolazione africana. Anzi, hanno effettivamente danneggiato la ex colonia.
“La realtà del cinico ruolo dell’Italia in Somalia – scrive Achtner in suo articolo di quegli anni – è evidente dai documenti resi disponibili al Parlamento dal ministero degli Affari Esteri italiano. Essi mostrano che l’Italia (presidente del Consiglio è Bettino Craxi, ndr) ha sponsorizzato 114 progetti in Somalia tra il 1981 e il 1990, spendendo oltre un miliardo di dollari. Con poche eccezioni (come un programma di vaccinazione realizzato da organizzazioni non governative), le iniziative italiane erano assurde e sprecone”.
Roma che cerca attivamente di consolidare la sua presenza e influenza in Africa, dà il via al coinvolgimento italiano nella missione internazionale che inizia nel dicembre del 1992. Soldati della Marina, dell’Aeronautica e paracadutisti della Folgore, ritornano sul suolo somalo dopo la fine della II Guerra Mondiale.
Proprio i paracadutisti della Folgore hanno il battesimo del fuoco il 2 luglio del 1993 a Mogadiscio. I parà si scontrano duramente con i miliziani dell’Alleanza Nazionale Somala, il clan di uno dei signori della guerra, il generale Mohamed Farah Aidid.
I nostri soldati durante un rastrellamento nella zona del al cosiddetto “Checkpoint Pasta”, un posto di blocco nei pressi di un pastificio della Barilla dismesso, vengono attaccati dai miliziani
La missione internazionale nel maggio 1993 era passata sotto l’egida dell’ONU e aveva preso il nome di UNOSOM (United Nation Operation in Somalia)
Durante l’operazione internazionale, dal 1992 al 1994, gli americani, in Somalia come nel 1991 nel Golfo, usano una grossa quantità di armamento all’uranio impoverito per cui il 14 ottobre 1993 l’Headquarters Department of the Army-Office of the Surgeon General emana le linee guida relative all’esposizione al DU. Il documento precisa in maniera chiara che l’esposizione dei soldati all’uranio impoverito, sia attraverso l’inalazione sia per ingestione, provoca un possibile incremento del rischio di sviluppare il cancro.
Ma già nel 1984, la NATO aveva emesso direttive dettagliate a tutti gli Stati membri in merito ai militari esposti all’UI. Direttive che il nostro governo fa finta di ignorare.
In una lettera pubblicata su Embedded Agency, l’avvocato Giuseppe Frate descrive la drammatica testimonianza del maresciallo Marco Diana dei Granatieri di Sardegna, a Mogadiscio per l’Operazione Ibis: “I missili lanciati dai loro elicotteri – racconta Diana – sollevavano enormi nuvole di polvere bianca. Quella polvere ci avvolgeva e noi la respiravamo. E ridevamo degli americani che poi scendevano sul campo avviluppati in tute che li facevano sembrare dei marziani. Ridevamo e non sapevamo che stavamo respirando un veleno che ci uccideva. Loro non avevano un lembo di pelle scoperta, noi eravamo in pantaloncini corti e a petto nudo. I nostri comandanti, quando andavamo a chiedere spiegazioni, definivano il loro abbigliamento “americanate”.
Il fuoco amico, che poi tanto amico non è (e neppure tanto fuoco perché è un killer invisibile) colpisce Marco Diana. L’esposizione agli effetti del munizionamento all’Uranio Impoverito gli causa un tumore al sistema linfatico.
Dopo l’imboscata al Checkpoint Pasta, ai militari italiani viene ordinato di non attraversare più il centro di Mogadiscio ma di girare intorno alla città, per raggiungere altri posti di controllo. Il nuovo percorso, però, passa per un’area che gli americani utilizzano per esercitarsi con le armi all’UI. “Ogni volta che passavamo per di là – riferisce il granatiere – la pelle si ricopriva di polverina bianca. Bruciava come se avessimo il corpo colpito da migliaia di punture di spilli. Non passava nemmeno dopo aver fatto la doccia”.
Non solo. Al suo rientro in Italia, Diana presta servizio al poligono di Capo Teulada in Sardegna, dove le truppe alleate si esercitano con armamento Depleted Uranium che hanno in dotazione. L’effetto del DU è lo stesso che nei teatri di guerra.
Marco Diana muore l’8 ottobre 2020 a causa dell’Uranio Impoverito, dopo anni di sofferenze e di lotta contro lo Stato, che aveva servito con onore. Il governo lo risarcisce ma non gli riconosce la causa di servizio per il nesso di causalità tra la sua patologia e l’esposizione all’UI, che è quello che Diana voleva, non per sé: “Non è una lotta personale – è la frase che lo ha sempre contraddistinto – ma è quella di tutti i servitori dello Stato che si sono ammalati nell’assolvere il loro dovere”.
Falco Accame, l’ammiraglio che era stato eletto in parlamento, aveva commentato così la sentenza del 17 dicembre 2008 del Tribunale di Firenze Sezione II Civile, che ha definito storica: “Il parere del Consulente Tecnico, così come evidenziato dalla sentenza, rileva che la malattia manifestata dal militare (Gianbattista Marica, ndr) e meglio identificata come linfoma di Hodgkin, sia inequivocabilmente causalmente legata all’esposizione del soggetto all’Uranio Impoverito”.
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Speciale per Africa ExPress Sandro Pintus 11 marzo 2024
Si chiamava Luca Falcon, di Verona, è morto in Angola a Soyo, 500 km a nord della capitale. Domenica 3 marzo, verso le 13.00 con la sua moto si è scontrato frontalmente con un camion sulla strada per Luanda.
Incidente a causa della malaria?
Luca è morto sul colpo. La moto, completamente distrutta, è la testimonianza visibile del violento scontro.
Non si conoscono ancora le dinamiche dell’incidente. Ma ci chiediamo se potrebbe essere stato un malore visto che durante il viaggio aveva preso la malaria.
Portava protesi ai bambini amputati
Il giovane era in Africa con la sua moto per portare protesi a bambini mutilati a causa delle guerre. Per questa ragione, con la moglie Giulia Trabucco, aveva fondato l’ong Karma on the Road.
La decisione di creare l’associazione non governativa è venuta dopo un incidente del 2016 nel quale Luca ha perso la gamba sinistra. Era stato investito da un’auto mentre in moto tornava a casa dal lavoro.
Il motociclista era stato un anno fermo a letto, due anni in fisioterapia e aveva subito quaranta interventi chirurgici. Nel 2019 secondo i medici era meglio l’amputazione dell’arto e al giovane era stata messa una protesi.
Luca era riuscito a trasformare la sua menomazione in una nuova forma di energia: dare ad altri la speranza di una vita normale. Lui ce l’aveva fatta.
Riciclare le gambe protesiche
Dopo l’incidente la coppia aveva un sogno, che sta realizzando. Voleva dare un’altra opportunità a bambini – e adulti – che avevano perso un arto a causa delle guerre.
Riciclare le gambe protesiche che altrimenti sarebbero finite in discarica. Un progetto geniale per aiutare persone amputate dell’Africa sub-sahariana. L’obiettivo è far loro avere una vita con maggiore indipendenza.
Una delle attività principali diKarma on the Road è il recupero delle protesi di arti usate e non più utilizzate. Ritirano gratuitamente protesi usate da donare che vengono spedite all’ong britannica Legs4Africa loro partner. I dispositivi poi arrivano nei vari centri riabilitativi dell’Africa subsahariana.
Messaggero di speranza
Il motociclista, nel suo giro in Africa, stava portando un messaggio di speranza ai bambini amputati e alle loro famiglie. Partito il 4 febbraio utilizzava la pagina Facebook dell’associazione come diario di viaggio per tenere informati gli amici e i fan.
Luca e Giulia, insieme, in moto nel grande continente avevano già percorso 9.000 km tra Marocco, Mauritania, Senegal, Gambia e Guinea e avevano lasciato la moto in Ghana. Luca, da solo, era andato a riprendere il mezzo per arrivare fino in Sudafrica.
“Raggiungerò il Sudafrica, o morirò provandoci”, aveva detto a Giulia. Dal Ghana era passato in Benin e Nigeria. Poi tra il Camerun il Congo-B si era sentito male, gli era stata diagnosticata la malaria.
In Angola il destino, purtroppo, l’ha fermato. “Continueremo la sua opera” ha confermato Giulia.
Sentite condoglianze a Giulia da tutta le redazione di Africa ExPress
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Speciale per Africa ExPress Cornelia I. Toelgyes
9 marzo 2024
Questa settimana la Nigeria è stata segnata da una scia di sequestri di massa come non si vedeva dal 2021.
In un campo per sfollati nei presso di Gamboru Ngala, una cittadina nel Borno State, nel nord-est della ex-colonia britannica, sono stati rapiti per lo più donne e bambini, mentre cercavano legna per cucinare. Sono tutti sfollati, scappati dalle violenze dei sanguinari Boko Haram, che dal 2009 hanno causato la morte di decine di migliaia di persone . A tutt’oggi ancora oltre 2 milioni non hanno fatto ritorno nelle loro case a causa degli attacchi e delle violenze dei terroristi.
Il rapimento, secondo la testimonianza di alcune donne che sono riuscite a scappare dalla furia dei miliziani Boko Haram, è avvenuto domenica, ma la notizia è trapelata solamente mercoledì scorso. Gamboru Ngala si trova in un’area remota, sulle rive del lago Ciad, dove i jihadisti hanno distrutto le antenne di telefonia mobile e altre infrastrutture di telecomunicazione. I residenti locali a volte attraversano la frontiera con il vicino Camerun per poter telefonare.
Non è ancora chiaro quante persone siano state rapite. Secondo Mohamed Malick Fall, coordinatore residente delle Nazioni Unite, potrebbero essere oltre 200. Le autorità del Borno State hanno spiegato di aver inviato una squadra nel luogo dove è avvenuto il rapimento, ma non hanno rilasciato altri dettagli. E solo pochi giorni fa il governo del Borno aveva affermato che il 95 per cento dei miliziani di Boko Haram sarebbero ormai morti o si sarebbero arresi.
Chissà se gli sfollati sequestrati dai terroristi potranno riabbracciare i loro cari o se saranno costretti a restare schiavi di Boko Haram come è successo a molte ragazze rapite a Chibok nel lontano aprile 2014. Molte di loro mancano ancora oggi all’appello.
Giovedì scorso è stato perpetrato il secondo sequestro di massa di questa settimana. Ma stavolta i responsabili sono uomini armati che hanno fatto irruzione in una scuola a Kuriga nel Kaduna state, rapendo oltre 300 alunni tra i 7 e i 15 anni. Alcuni sono stati poi rilasciati, altri sono riusciti a scappare, ma a tutt’oggi mancano all’appello ben 286 studenti. Finora nessuno ha rivendicato il rapimento. Un 14enne, colpito da un proiettile, sparato dai criminali, è morto in ospedale a causa delle gravi ferite riportate.
Bola Tinubu, attuale presidente della Nigeria, eletto poco più di un anno fa, ha detto di aver sguinzagliato le forze armate e squadre di intelligence alla ricerca dei piccoli. Ha promesso che i responsabili saranno consegnati alla giustizia.
E sabato mattina l’ennesimo déjà vu: in una scuola a Gada, nel Sokoto state, una quindicina di studenti – potrebbero essere anche molti di più – e quattro donne sono stati sequestrati da un gruppo di uomini armati.
E’ il terzo rapimento di massa in una settimana. Che fare? Negoziare con i rapitori, bombardare o pagare un riscatto.
Il rapimento per riscatto in Nigeria rappresenta un’attività a basso rischio e alta remunerazione. Le persone rapite dalle bande criminali vengono solitamente liberate dopo la consegna del denaro e raramente i responsabili vengono arrestati, nonostante sia illegale pagare per la liberazione di un ostaggio.
Da quando il presidente Bola Tinubu è salito al potere nel maggio scorso, sono state rapite più di 4.700 persone, secondo i consulenti di SBM Intelligence (società di consulenza strategica e di raccolta di informazioni di mercato/sicurezza focalizzata sull’Africa).
Tinubu, durante la campagna elettorale aveva promesso di risolvere quanto prima lo stato di insicurezza, che da anni affligge molte zone della ex colonia britannica. Anche Muhammadu Buhari, dello stesso partito di Tinubu, All Progressives Congress (APC), appena salito al potere nel 2015, aveva dichiarato che in 6 mesi avrebbe sconfitto i terroristi Boko Haram.
I sequestri sono diventati un’impresa lucrativa per chi è spinto dalla disperazione economica a procurarsi denaro. Oltre ai riscatti in moneta, in passato le bande hanno chiesto anche generi alimentari, motociclette e persino benzina in cambio del rilascio degli ostaggi.
A gennaio l’inflazione ha raggiunto quasi il 30 percento dopo le riforme economiche introdotte da Tinubo. I nigeriani sono allo stremo, schiacciati dal costo della vita.
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Da qualche tempo si sono moltiplicate le incursioni notturne di ladri di ossa umane nei cimiteri di Freetown, capitale della Sierre Leone.
Secondo un funzionario delle autorità di Freetown che ha voluto mantenere l’anonimato, pare che i resti umani vengano utilizzati come materia prima per il kush, una droga che si dice imiti gli effetti della cannabis.
Il consiglio comunale, in un breve comunicato, ha detto di essere scosso per la violazione di tombe e della manipolazione di salme per rimuovere le loro ossa.
Per prevenire altri furti di resti umani, è stata imposta la chiusura dei cimiteri dalle 19.00, sia per il pubblico, sia per coloro che lavorano all’interno del camposanto. E durante le ore notturne agenti armati della polizia presiederanno i sepolcreti per punire coloro che disobbediranno alle nuove disposizioni. La municipalità ha inoltre chiesto la collaborazione dei cittadini residenti nelle vicinanze dei cimiteri perché comunichiamo alle forze dell’ordine qualsiasi movimento sospetto.
Finora non è stato precisato quanti agenti saranno dislocati e quanti camposanti della capitale sono stati interessati da furti di resti umani.
I media locali e i social network riportano che ossa frantumate vengono utilizzate per produrre il kush. Una nuova droga che da alcuni anni ha invaso il Paese. Si tratta di una miscela di varie sostanze chimiche, ma la sua composizione precisa non è ancora stata documentata scientificamente.
Anche per quanto riguarda le ossa umane macinate, non c’è una risposta definitiva sul fatto che siano presenti o meno nella droga, sulla provenienza di tali resti umani o sul motivo per cui potrebbero essere incorporate nello stupefacente. Alcuni sostengono che siano i tombaroli a fornire le ossa, ma non ci sono prove dirette.
La nuova droga, tagliata di routine con una serie di additivi tra cui l’acetone, l’oppioide tramadolo e la formalina, una sostanza chimica tossica, comunemente usata per conservare i corpi negli obitori, il kush è potente e pericolosamente imprevedibile. Agisce come antidepressivo, offre sollievo dallo stress della difficile vita quotidiana, ma a caro prezzo. I consumatori riferiscono che lo sballo è spesso accompagnato da una sensazione martellante alla testa e al collo. Ma con il tempo questa droga causa anche problemi al fegato, ai reni e alle vie respiratorie, e quasi tutti giovani consumatori di kush hanno raccontato che parecchi loro amici hanno perso la vita.
Lo stupefacente è facilmente accessibile e a basso costo, e si è dimostrata irresistibile per una generazione di giovani disoccupati della Sierra Leone che cercano una via di fuga da una vita di povertà estrema. Ma è estremamente pericoloso. Ogni settimana causa la morte di parecchi giovani a Freetown. Il sistema sanitario del Paese è estremamente fragile e non dispone di sufficienti fondi per attuare reali percorsi di recupero per i tossicodipendenti.
Il governo del Paese non dispone di dati precisi sul numero di persone che fanno uso di questa droga. Molti funzionari statali, come Ibrahim Kargbo, vicedirettore ad interim dell’Agenzia per l’applicazione della legge sulle droghe, sono molto preoccupati. Kargno ha affermato che la situazione è molto seria e sta peggiorando di mese in mese.
“È una crisi gravissima – afferma Kargbo-. Sono nato e cresciuto a Freetown e non ho mai visto nulla di simile prima d’ora. È davvero opprimente”, ha sottolineato.
Il kush è stato segnalato anche in Guinea e in Liberia, Paesi che condividono confini terrestri porosi con la Sierra Leone, facilitando così il traffico dello stupefacente.
“La situazione in Liberia potrebbe essere peggio che in Sierra Leone, ma non abbiamo dati e analisi”, ha dichiarato Feyi Ogunade, ricercatore nigeriano dell’Institute for Security Studies, che sta preparando un rapporto sulla diffusione del kush: “Sospetto che presto si diffonderà in altri Paesi della regione, se i governi non intervengono. Mi sembra però improbabile che ciò accada. In sostanza, si sta facendo molto poco”.
Malgrado le sue ricchezze del sottosuolo, la Sierra Leone è ancora oggi uno tra i Paesi più poveri al mondo e la piaga della corruzione, presente su tutti livelli, impedisce investimenti e sviluppo; inoltre, la già debole economia soffre ancora oggi della terribile guerra civile (1991-2002), costata la vita a oltre 120 mila persone.
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Speciale per Africa ExPress Sandro Pintus 7 marzo 2024
I femminicidi registrati a livello mondiale, nel 2022, sono stati 89.000. Di questi, 48.800 in ambito familiare e l’Africa, con 20.000 uccisioni di genere, purtroppo, è capolista di questa terribile classifica. Seguono Asia (18.400), Americhe (7.900), Europa (2.300) e Oceania (200).
Il rapporto ONU
Lo dice il secondo report, riferito al 2022, “Gender-related killings of women and girls” (Uccisioni di donne e ragazze legate al genere). È un’indagine dell’Agenzia ONU sulla droga e il crimine (UNODC) e da UN Women.
Il pericolo è a casa
La casa, luogo che dovrebbe essere deputato alla protezione della famiglia, si dimostra invece l’ambiente più pericoloso. Il report AUNODC/UN Women ci dà l’ennesima conferma.
Dei quasi novantamila femminicidi, il 55 per cento sono omicidi di donne o ragazze nelle pareti domestiche. Una media di 133 al giorno e l’assassino è il marito, l’ex coniuge o una persona della famiglia (padre, madre, fratello, zio).
I ventimila femminicidi africani
Kenya, Camerun, Somalia, Nigeria e Sudafrica sono i Paesi africani dove è stato registrato il numero più alto di omicidi di donne e ragazze uccise intenzionalmente.
Ma le 20 mila vittime solo la punta dell’iceberg perché c’è difficoltà nella raccolta di dati sulla violenza di genere. Specialmente nelle classi più povere la violenza contro le donne è considerata quasi “normalità” e spesso è tabù.
Pandemia e femminicidi
La pandemia di Covid-19 ha aumentato le violenze e i femminicidi. Secondo la Healthcare Assistance Kenya (HAK), nel Paese africano, durante il lockdown è aumentata la violenza domestica contro le donne e le ragazze.
Nelle prime due settimane è cresciuta del 300 per cento. La causa è anche l’ambiente familiare povero e ristretto dove le famiglie erano costrette a vivere. L’HAK ha istituito un numero verde dove possono rivolgersi le donne vittime di violenza.
La “soluzione” della nonna
L’indagine ONU conferma che in Sudafrica, negli ultimi anni, c’è stato un drastico un aumento di femminicidi. Alla fine del 2019 era di 9,0 vittime per 100.000 donne e, alla fine del 2022, è salito a 12,7 vittime per 100.000.
La BBC ha trasmesso un servizio sulla violenza alle donne in Sudafrica, a Soweto. In una riunione di uomini sulla violenza di genere uno di loro ha “scherzato” tra le risate dei presenti.
“Nella cultura africana picchiare la moglie è come una iniziazione – ha affermato -. Il neo marito, con una cintura, picchia la sposa. In questo modo ottieni il rispetto. Se non lo fai la donna non ti rispetta”.
Un altro ha risposto: “Mia nonna mi ha sempre detto che la soluzione è picchiare la moglie ma senza ucciderla. Devi fare i modo che sia disciplinata e perché lo diventi la devi picchiare”.
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Non bastano le atrocità, le violenze causate dagli scontri incessanti dei gruppi armati nell’est della Repubblica Democratica del Congo. Continuano a mietere morte anche antiche credenze popolari, difficili da estirpare.
Secondo quanto riferito da testimoni, domenica scorsa, alcuni residenti di un villaggio situato nella provincia del Sud Kivu (nell’est del Paese), hanno brutalmente ammazzato due donne, accusate di stregoneria. Le signore sono state trascinate fuori dalle loro abitazioni, poi sono state lapidate e in seguito alcuni giovani hanno bruciato i loro corpi.
Le due vittime – una delle quali era moglie di un pastore di una chiesa protestante – sono state accusate di essere all’origine della sparizione di alcuni abitanti del villaggio. Pare che le signore avessero già ricevuto minacce di morte nelle ultime settimane.
Mabiswa Selemani Jean de Dieu, amministratore di Uvira, città nella provincia del Sud Kivu, ha detto di aver allertato le autorità giudiziarie per il criminale atto. Mentre Kelvin Bwija, membro della società civile congolese, ha sottolineato che si tratta di una “pratica retrograda”.
Nell’est della ex colonia belga tali crimini non sono fatti isolati. Nel 2023, l’associazione delle donne dei media AFEM/Sud-Kivu ha denunciato l’assassinio di almeno 33 donne, per lo più anziane, accusate di stregoneria. I terribili fatti sono accaduti a Bukavu e in alcuni villaggi del Sud Kivu. Per sottrarsi alla morte, altre signore sono state costrette a nascondersi.
Anche i continui attacchi dei gruppi armati nel martoriato est della Repubblica Democratica del Congo non conoscono sosta. Ieri sono divampati nuovi combattimenti tra miliziani del gruppo M23 che, secondo l’ONU, è sostenuto dal vicino Ruanda, e le forze armate congolesi.
Dall’alba di lunedì sono scoppiati violenti scontri in alcuni villaggi nel territorio di Rutshuru, a un centinaio di chilometri da Goma (Nord Kivu), città sulla riva settentrionale del Lago Kivu, a poca distanza da Gisenyi in Ruanda.
Molti abitanti di due villaggi, Mabenga e Nyanzale, sono stati costretti a fuggire e a rifugiarsi in zone di difficile accesso, senza quasi alcuna assistenza umanitaria.
Le truppe di SADC (Comunità di sviluppo dell’Africa australe), presenti nel Congo-K da metà febbraio, non sono operative nella zona dove sono avvenuti gli scontri lunedì scorso. Per ora non è dato sapere quanti militari di SADC sono già presenti nel Paese. Sta di fatto che il 29 febbraio, appena arrivati, due soldati delle truppe di Pretoria sono morti, dopo che due blindati sono stati colpiti da bombe vicino a Goma.
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La nave da carico Rubymar, di proprietà britannica, ma battente bandiera del Belize, Stato dell’America centrale, è affondata nel Mar Rosso, dopo essere stata danneggiata da un attacco missilistico delle milizie Houthi sostenute dall’Iran. E CENTCOM (Commando Centrale USA) ha avvertito che il fertilizzante trasportato dalla nave è una bomba ecologica.
L’imbarcazione aveva lasciato gli Emirati Arabi Uniti ed era diretta verso il porto bulgaro di Varna. Fortunatamente l’equipaggio è riuscito a abbandonare la nave e a mettersi in salvo.
Il natante è stato colpito da un missile balistico antinave lo scorso 18 febbraio. Ha poi imbarcato acqua per diversi giorni, infine è affondato sabato scorso. Ora, in base a quanto affermato da CENTCOM (Commando Centrale USA), il carico di 21mila tonnellate di fertilizzanti a base di fosfato di ammonio, rischia di inquinare il Mar Rosso, una delle rotte marine più frequentate.
La Rubymar, dopo essere stata affondata dalle milizie yemenite, sta mettendo a repentaglio l’approvvigionamento idrico per milioni di persone, la lucrosa industria della pesca e rischia di distruggere una delle più grandi barriere coralline del mondo. Non solo, anche l’impatto sottomarino potrebbe rappresentare un rischio per altre navi che transitano su queste trafficate rotte.
Già prima di inabissarsi, la fuoruscita di carburante dall’imbarcazione ha provocate una marea nera di 30 chilometri. L’Arabia Saudita ha la più grande rete di impianti di desalinizzazione al mondo. Intere città, come Gedda, sono costrette a far affidamento a tali strutture che attingono acqua dal Mar Rosso per la quasi totalità dell’acqua potabile. Il petrolio può danneggiare e bloccare i sistemi di conversione dell’acqua salata.
Si tratta della prima imbarcazione completamente distrutta dal gruppo armato yemenita, che ha giurato di attaccare le navi in quel tratto di mare a causa della catastrofica guerra di Israele a Gaza.
Ian Ralby, fondatore della società di sicurezza marittima I.R. Consilium, ha spiegato che le caratteristiche naturali del Mar Rosso sono uniche. Il tratto di mare ha un andamento circolare, che funziona essenzialmente come una gigantesca laguna.”Ciò che si riversa nel Mar Rosso, rimane nel Mar Rosso”, ha dichiarato Ralby.
Sabato sera il cacciatorpediniere Caio Duilio della Marina italiana ha abbattuto un drone Houthi.
Secondo quanto riferito, l’UAV, (acronimo inglese per unmanned aerial vehicle) cioè il velivolo senza pilota, che si stava dirigendo verso la nave italiana, aveva caratteristiche simili a quelle utilizzate in precedenti attacchi.
Schierata a febbraio, la nave della Marina italiana è l’ammiraglia dell’operazione europea ASPIDES, sotto la guida del contrammiraglio Stefano Costantino.
Si tratta del primo attacco diretto a un natante italiano da parte degli Houthi, che finora avevano compiuto raid solo contro navi statunitensi e britanniche.
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Speciale per Africa ExPress Sandro Pintus 4 marzo 2024
Oltre al gas naturale liquido (GNL-LNG), al Mozambico interessa produrre – e vendere – anche l’idrogeno verde, nuovo business energetico a emissioni zero.
L’obiettivo dell’ex colonia portoghese è collocarsi tra i leader nella produzione di idrogeno pulito nell’Africa meridionale entro il 2030. Il Paese dell’Africa meridionale ha un grande potenziale. Lo dice un documento sulla (ETS) scovato dall’agenzia portoghese LUSA.
Idrogeno a prezzi competitivi
“Il Mozambico ha abbondanti risorse idroelettriche, di gas naturale, solari ed eoliche, che possono supportare la produzione di tutti i tipi di idrogeno. In particolare l’idrogeno verde”, si legge nel documento -.
Un punto che il Mozambico evidenzia è il costo relativamente basso per accedere all’energia generata da fonti rinnovabili. Un vantaggio che rende l’idrogeno verde prodotto a un prezzo più competitivo sui mercati internazionali.
Secondo Maputo la maggior parte dell’idrogeno sarà per l’esportazione. Entro la fine del 2024, con analisi approfondite, intende preparare un piano globale per la produzione del combustibile a zero emissioni.
Settantatre miliardi di euro
Il ministero mozambicano delle Risorse minerarie, lo scorso 27 novembre, ha annunciato investimenti per un valore di 73 miliardi di euro (80mld di USD). Saranno stanziati per la ETS che sarà attuata entro il 2050.
In attesa del 2050 il governo mozambicano, tra il 2024 e il 2030, vuole ampliare le sue risorse idroelettriche. Intende aumentare a 3,5 gigawatt la capacità della diga di Mphanda Nkuwa – in costruzione sullo Zambesi – nella provincia di Tete, nord-ovest del Paese.
Video istituzionale del progetto della diga Mphanda Nkuwa suk fiume Zambesi
(Courtesy Repubblica de Moçambique, Ministerio dos Recursos minerais e Energia)
Ma intende anche potenziare l’energia solare ed eolica; espandere la rete elettrica nazionale; costruire parchi industriali verdi e corridoi abilitati da energia pulita affidabile e conveniente.
Progetto ambizioso o propaganda elettorale?
Un progetto ambizioso che a molti sembra più propaganda elettorale visto che il 9 ottobre 2024 ci saranno le elezioni presidenziali. E l’attuale presidente, Filipe Nyusi, che non può presentarsi per il terzo mandato, non ha ancora deciso il futuro candidato alla presidenza del partito Frelimo, al potere dal 1975.
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