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Gambia: la maggioranza del Parlamento chiede revoca della legge contro la mutilazione genitale femminile

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
23 marzo 2024

Nel 2015, l’ex dittatore del Gambia, Yahya Jammeh, aveva abolito le Mutilazoni Genitali Femminili (MGF). Purtroppo da quando la legge è entrata in vigore solamente due casi sono stati perseguitati penalmente.

Gambia: a rischio revoca legge contro l’infibulazione

Il 18 marzo scorso, la stragrande maggioranza dei parlamentari (54 su 58 deputati) del Gambia, una enclave anglofona all’interno del Senegal francofono, ha votato a favore di un progetto di legge che prevede il ripristino delle Mutilazioni Genitali Femminili. Un testo in tal senso è stato inviato a una commissione della Camera, che dovrà pronunciarsi sulla questione prima del voto finale, previsto fra tre mesi.

Il deputato Almameh Gibba, presentando il testo ai suoi colleghi, ha sottolineato: “Il disegno di legge mira a preservare i principi religiosi e a salvaguardare le norme e i valori culturali”.

Mentre veniva presentato il progetto di legge in Parlamento, nella capitale Banjul si è svolta una piccola manifestazione di militanti pro infibulazione.

Per gli attivisti e difensori dei diritti umani del Paese a maggioranza musulmana, rappresenta un pericoloso precedente per la salvaguardia dei diritti delle donne gambiane e hanno chieste una massiccia mobilitazione sia a Banjul che all’estero. Se la circoncisione femminile dovesse essere nuovamente autorizzata per legge, significherebbe tornare indietro di anni e danneggerebbe il duro lavoro svolto finora. Tale procedura viene spesso eseguita su bambine sotto i cinque anni con l’ovvia finalità di controllare la loro sessualità ma rischia di ledere fortemente la salute fisica e psichica delle piccole che vi vengono sottoposte.

Secondo un’antica tradizione che risale ai tempi dei faraoni, quella che viene chiamata anche “circoncisione femminile”, riguarda la rimozione, in toto o in parte, della parte esterna dei genitali delle donne. In alcuni casi comporta il taglio del clitoride e la cucitura delle grandi labbra.

Di solito vengono eseguite da una donna specializzata in MGF con una lama e senza anestetico. Sebbene sia internazionalmente riconosciuta come violazione dei diritti umani, si calcola che siano circa 68 milioni le ragazze in tutto il mondo che rischiano di subire questa atrocità entro il 2030.

A dispetto di quanto molti credono, non è una regola musulmana, tant’è vero che in Arabia Saudita, il Paese culla dell’islam, non viene per nulla praticata. E’ diffusa invece in Egitto e nella fascia dell’Africa sub sahariana, anche tra le comunità cristiane o animiste. Sono le madri che la impongono alle figlie e viene praticata tra l’infanzia e i 15 anni di età.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha precisato che le complicazioni immediate includono ritenzione di urina, ulcerazioni genitali, emorragie, tetano o setticemia, e, una donna sottoposta a MGF, può soffrire di problemi urinari e vaginali a lungo termine, tessuto cicatriziale e cheloidi. Inoltre, è a maggior rischio di complicazioni durante il parto.

Mentre per le Nazioni Unite tali pratiche riflettono una radicata disuguaglianza tra i sessi e costituiscono una forma di discriminazione nei confronti delle donne.

Cornelia I. Toelgyes
corenliacit@hotmail.it
X: @cotoelgyes

© RIPRODUZIONE RISERVATA

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Da Londra al Kenya con una bimba da sottoporre a mutilazione genitale: condannata a 7 anni in Inghilterra

Dossier Gaza/3b – “Tra incudine e martello”. Le news inaccurate nell’articolo del NYT sugli stupri di massa

Questa la seconda puntata della traduzione dell’inchiesta della rivista online
The Intercept che smonta l’articolo del NEW YORK TIMES
del 28 dicembre scorso sugli stupri di Hamas a Gaza,
a firma di Jeffrey Gettleman, Anat Schwartz e Adam Sella.
L’articolo originale è qui:
 
https://theintercept.com/2024/02/28/new-york-times-anat-schwartz-october-7/?utm_medium=email&utm_source=The%20Intercept%20Newsletter

Da The Intercept
28 febbraio 2024

Dopo le rivelazioni sulla recente attività della Schwartz sui social media, il suo nome non è più apparso sul giornale e non ha partecipato alle riunioni di redazione. Il giornale ha dichiarato che è in corso una verifica dei suoi “mi piace” sui social media. Quei “mi piace” sono violazioni inaccettabili della nostra politica aziendale”, ha dichiarato un portavoce del Times.

Lo scandalo più grande potrebbe essere il reportage stesso, il processo che gli ha permesso di essere stampato e l’impatto che ha avuto sulla vita di migliaia di palestinesi la cui morte è stata giustificata dalla presunta violenza sessuale sistematica orchestrata da Hamas che il giornale ha affermato di aver rivelato.

Un altro reporter frustrato del Times, che ha lavorato anche come redattore, ha dichiarato: “Molta attenzione sarà comprensibilmente e giustamente rivolta a Schwartz, ma questa è chiaramente una decisione editoriale sbagliata che mina tutto il grande lavoro instancabilmente svolto quotidianamente in tutto il giornale – sia legato che completamente estraneo alla guerra – in grado di sfidare i nostri lettori e di soddisfare i nostri standard”.

L’intervista podcast di Channel 12 alla Schwartz, che The Intercept ha tradotto dall’ebraico, apre una finestra sul processo di giornalismo della controversa storia e suggerisce che il compito del New York Times fosse quello di sostenere una narrazione predeterminata.

In risposta alle domande di The Intercept sull’intervista in podcast della Schwartz, un portavoce del New York Times ha fatto marcia indietro rispetto alla perentoria affermazione dell’articolo a dimostrazione che Hamas ha usato come arma la violenza sessuale. Il portavoce ha affermato in modo più morbido che “potrebbe esserci stato un uso sistematico della violenza sessuale”.

Il direttore del Times International, Phil Pan, ha dichiarato in un comunicato di essere a favore del lavoro. “La signora Schwartz ha fatto parte di un rigoroso processo di redazione e di reporting – ha affermato -. Ha dato un contributo prezioso e non abbiamo riscontrato alcuna prova di pregiudizio nel suo lavoro. Rimaniamo fiduciosi nell’accuratezza del nostro reportage e sosteniamo l’indagine del team. Ma come abbiamo detto, i suoi “mi piace” a post offensivi e d’opinione sui social media, precedenti al suo lavoro con noi, sono inaccettabili”.

Dopo la pubblicazione di questa storia, la Schwartz, che non ha risposto a una richiesta di commento, ha twittato per ringraziare il Times per “il sostegno alle storie importanti che abbiamo pubblicato”. Ha aggiunto poi: “I recenti attacchi contro di me non mi scoraggeranno dal continuare il mio lavoro”. In merito alla sua attività sui social media, la Schwartz ha dichiarato: “Capisco perché le persone che non mi conoscono si siano sentite offese dai “mi piace” involontari che ho messo il 7 ottobre e me ne scuso”. Almeno tre dei suoi “mi piace” sono stati oggetto di un’indagine pubblica.

Nell’intervista, la Schwartz descrive i suoi sforzi per ottenere conferma dagli ospedali israeliani, dai centri di crisi per gli stupri, dalle strutture per il recupero dei traumi e dalle linee telefoniche per le violenze sessuali in Israele, ma non è riuscita a ottenere una sola conferma da nessuno di loro.

“Le è stato detto che non c’erano state denunce di aggressioni sessuali – ha ammesso il portavoce del Times dopo che The Intercept ha portato all’attenzione del giornale l’episodio del podcast di Channel 12 –. Questo però è stato solo il primo episodio di violenza sessuale. Ed era solo il primo passo della sua ricerca. L’autrice ha descritto poi la raccolta delle prove, delle testimonianze e dei dati finali che dimostrano che potrebbe esserci stato un uso sistematico della violenza sessuale”, ha affermato il portavoce. “L’autrice ha descritto in dettaglio le fasi della sua ricerca e sottolinea i rigorosi standard del Times per corroborare le prove, e gli incontri con i giornalisti e i redattori per discutere le domande più spinose e riflettere criticamente sulla storia”.

La questione non è mai stata se il 7 ottobre si siano verificati singoli atti di violenza sessuale. Gli stupri non sono rari in guerra, e ci sono state anche diverse centinaia di civili che si sono riversati in Israele da Gaza quel giorno in una “seconda ondata”, contribuendo e partecipando al caos e alla violenza. La questione centrale è se il New York Times abbia presentato prove solide a sostegno della sua affermazione secondo cui ci sarebbero stati nuovi dettagli “che dimostrano che gli attacchi contro le donne non sono stati eventi isolati ma parte di un più ampio schema di violenza di genere il 7 ottobre”, un’affermazione contenuta nel titolo, che Hamas ha deliberatamente usato la violenza sessuale come arma di guerra.

Assalto Hamas 7 ottobre 2023

Schwartz ha iniziato il suo lavoro sulla violenza del 7 ottobre dove ci si aspetterebbe, chiedendo informazioni alle strutture chiamate “Room 4” in 11 ospedali israeliani che esaminano e curano le potenziali vittime di violenza sessuale, incluso lo stupro. Per prima cosa le ha chiamate tutte e le hanno detto: “No, non è stata ricevuta alcuna denuncia di violenza sessuale”, come ha ricordato l’autrice nell’intervista in podcast. “Ho avuto molti colloqui che non hanno portato a nulla. Ad esempio, andavo in tutti i tipi di ospedali psichiatrici, mi sedevo di fronte al personale, tutti completamente impegnati nella missione e nessuno aveva incontrato una vittima di violenza sessuale”.

Il passo successivo è stato quello di chiamare il responsabile della linea diretta per le aggressioni sessuali nel sud di Israele, che si è rivelato altrettanto infruttuoso. Il responsabile le ha raccontato che non c’erano segnalazioni di violenza sessuale. La donna ha descritto la telefonata come una “folle conversazione approfondita” in cui ha chiesto casi specifici. “Qualcuno l’ha chiamata? Ha sentito qualcosa?”, ha ricordato chiedendo poi: “Com’è possibile che non l’abbiate fatto?”.

The Intercept
Dossier Gaza/3b – Continua

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Dossier Gaza/3a – “Tra incudine e martello”: la storia del racconto del New York Times sugli stupri di massa

Rape and violence against women: even the New York Times falls into the propaganda trap

Sudafrica: arresto per i militari con doppia cittadinanza che si uniscono a Israele

 

Speciale per Africa ExPress
Federica Iezzi
20 Marzo 2024

Il messaggio del Sudafrica è stato inequivocabile: coloro che hanno la doppia cittadinanza sudafricana-israeliana e che attualmente combattono nelle Forze di Difesa Israeliane, contro la Palestina, saranno perseguiti e arrestati e avranno l’immediata revoca della cittadinanza sudafricana.

Naledi Pandor, Ministro delle relazioni internazionali e della cooperazione in Sudafrica, indossa una kefiah lo “straccio” palestinese

A scandirlo a chiare lettere è stata Naledi Pandor, ministro delle relazioni internazionali e della cooperazione in Sudafrica, dal 2019, e membro del Parlamento per l’African National Congress, dal 1994, in uno dei meeting del partito politico a Pretoria. [https://www.youtube.com/watch?v=87fyilgnwng]

Continua ad approfondirsi dunque la spaccatura tra le due nazioni, iniziata con il procedimento avviato dal Sudafrica contro lo Stato di Israele, presso la Corte Internazionale di Giustizia, per atti di genocidio contro i palestinesi della Striscia di Gaza, e proseguita con la completa sospensione dei rapporti diplomatici bilaterali.

Già lo scorso dicembre, il ministero degli Esteri sudafricano aveva avvertito i suoi cittadini, residenti permanenti in Israele, che se, senza permesso di Pretoria, si fossero uniti all’esercito israeliano per combattere sulla Striscia di Gaza o nei Territori Palestinesi Occupati, avrebbero potuto essere perseguiti. Lo stretto monitoraggio di questi cittadini, da parte delle autorità sudafricane, si motiva nel fatto che l’arruolamento nelle Forze di Difesa Israeliane può potenzialmente contribuire alla violazione del Diritto Internazionale Umanitario e alla commissione di ulteriori crimini di guerra, rendendoli quindi esplicitamente perseguibili in Sudafrica.

La legge sulla cittadinanza sudafricana (Act 88/1995) prevede che chiunque la abbia ottenuta per naturalizzazione, se dovesse esercitare la propria attività sotto la bandiera di un altro Paese in una guerra che il Sudafrica non sostiene, gli verrà revocata la nazionalità.

E’ evidente che la storia tra Sudafrica e Palestina non inizia lo scorso 7 ottobre. Per anni il governo sudafricano ha paragonato le politiche di Israele, contro i palestinesi a Gaza, in Cisgiordania e a Gerusalemme Est, al trattamento riservato ai non-bianchi in Sudafrica, durante l’era dell’apartheid, quando erano in vigore segregazione razziale forzata e oppressione.

Ma a quando risale il legame di Pretoria con il popolo palestinese? Il Sudafrica aveva espresso solidarietà alla Palestina già negli anni ’50 e ’60, così come avevano scelto molte nazioni africane, colonie europee fino all’inizio degli anni ’60. L’Organizzazione per la Liberazione della Palestina ha collaborato con numerosi movimenti rivoluzionari africani, nel sostegno reciproco alla lotta anticoloniale.

La narrativa palestinese, con repressione, crudeltà, brutalità della polizia israeliana, restrizioni ai movimenti, arresti, detenzioni arbitrarie, coloni illegali, evoca esperienze della storia di discriminazione e oppressione del Sudafrica.

Il regime di apartheid in Sudafrica, guidato dal Partito Nazionale, aveva uno stretto rapporto con Tel Aviv. Negli anni ’70, il governo israeliano, guidato dal primo ministro Yitzhak Rabin, strinse forti legami con il regime nazionalista di estrema destra sudafricano. L’allora ministro della difesa israeliano, Shimon Peres, ha avuto un ruolo determinante nella creazione di un’alleanza che ha contribuito a mantenere a galla l’apartheid.

Vale fortemente la pena ricordare che alla lotta del Sudafrica contro l’apartheid, hanno attivamente partecipato migliaia di ebrei, sopravvissuti all’olocausto o discendenti delle vittime dell’olocausto.

La voce di Cyril Ramaphosa, presidente sudafricano, sigilla in Parlamento il sostegno alla lotta del popolo palestinese “Non è semplicemente un prodotto della storia. È un rifiuto di accettare che a un popolo venga continuamente negato il diritto all’autodeterminazione, in violazione del diritto internazionale”.

E il popolo sudafricano risponde attivamente con decine di movimenti internazionali per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni, che mirano ad aumentare la pressione economica e politica su Israele, con l’obiettivo di porre fine all’occupazione della Palestina.

Federica Iezzi
federicaiezzi@hotmail.it
Twitter @federicaiezzi
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Dossier Gaza/3a – “Tra incudine e martello”: la storia del racconto del New York Times sugli stupri di massa

Pubblichiamo la traduzione dell’inchiesta della rivista online
The Intercept che smonta l’articolo del NEW YORK TIMES
del 28 febbraio scorso sugli stupri di Hamas a Gaza,
a firma di Jeffrey Gettleman, Anat Schwartz e Adam Sella.
L’articolo originale è qui:
https://theintercept.com/2024/02/28/new-york-times-anat-schwartz-october-7/?utm_medium=email&utm_source=The%20Intercept%20Newsletter

Da The Intercept
28 febbraio 2024

Anat Schwartz aveva un problema. La regista israeliana ed ex ufficiale dei servizi segreti dell’aeronautica era stata incaricata dal New York Times di collaborare con il nipote del suo partner, Adam Sella, e con il veterano, Jeffrey Gettleman, reporter del Times, a un’inchiesta sulla violenza sessuale perpetrata da Hamas il 7 ottobre, che avrebbe potuto ridisegnare il modo in cui il mondo intendeva la guerra in corso nella Striscia di Gaza.

Anat Schwartz, regista israeliana ed ex ufficiale servizi

A novembre, stava montando l’opposizione globale contro la campagna militare di Israele, che aveva già ucciso migliaia di bambini, donne e anziani. Sul suo feed di social media, che il Times ha dichiarato di stare rivedendo, la Schwartz ha messo un like sotto un tweet che incoraggiava Israele a “trasformare la Striscia in un mattatoio”. “Violare qualsiasi norma, sulla strada della vittoria – si leggeva nel post -. Quelli che abbiamo di fronte sono animali umani che non esitano a violare regole minime”.

Il New York Times, tuttavia, ha regole e norme severe. La Schwartz non aveva alcuna esperienza precedente in giornalismo. Il suo collega Gettleman le ha spiegato le basi, ha confessato la Schwartz in un’intervista podcast del 3 gennaio, prodotta dall’israeliano Channel 12 e condotta in ebraico.

Gettleman, ha sostenuto di essersi preoccupato di “ottenere almeno due fonti per ogni dettaglio inserito nell’articolo e di fare un controllo incrociato delle informazioni. Abbiamo prove forensi? Abbiamo prove visive? Oltre a dire al nostro lettore “questo è successo”, “cosa possiamo dire?” “Possiamo dire cosa è successo a chi?”.

La Schwartz ha raccontato che inizialmente era riluttante ad accettare l’incarico perché non voleva guardare le immagini di potenziali aggressioni e perché non aveva le competenze necessarie per condurre un’indagine del genere. “Le vittime di violenza sessuale sono donne che hanno vissuto un’esperienza [drammatica], e quindi venire a sedersi di fronte a una donna del genere…. Chi sono io, comunque? Non ho alcuna qualifica”.

Attacco Hamas 7 ottobre 2023

Ciononostante, ha iniziato a lavorare con Gettleman sulla storia, come ha spiegato nell’intervista in podcast. Gettleman, reporter vincitore del Premio Pulitzer, è un corrispondente internazionale e, quando viene inviato in un ufficio, lavora con assistenti e freelance per le storie. In questo caso, secondo diverse fonti della redazione che hanno familiarità con il processo, Schwartz e Sella hanno fatto la maggior parte del reportage sul campo, mentre Gettleman si è concentrato sull’inquadratura e sulla scrittura.

Il rapporto che ne è scaturito, pubblicato a fine dicembre, era intitolato “Urla senza parole”: How Hamas Weaponized Sexual Violence on Oct. 7″. Fu una notizia bomba e galvanizzò lo sforzo bellico israeliano in un momento in cui anche alcuni alleati di Israele esprimevano preoccupazione per l’uccisione su larga scala di civili a Gaza.

All’interno della redazione, l’articolo è stato accolto con elogi dai leader editoriali ma con scetticismo da altri giornalisti del Times. Il podcast di punta del giornale, “The Daily”, ha tentato di trasformare l’articolo in un episodio, ma non è riuscito a superare il controllo dei fatti, come ha riportato The Intercept. (In una dichiarazione ricevuta dopo la pubblicazione, un portavoce del Times ha commentato: “Nessun episodio del Daily è stato eliminato a causa di errori di fact checking”).

Il timore dei collaboratori del Times che hanno criticato la copertura di Gaza da parte del giornale è che la Schwartz diventi un capro espiatorio per quello che è un fallimento molto più profondo. Può nutrire animosità verso i palestinesi, non avere esperienza di giornalismo investigativo e sentire pressioni contrastanti tra l’essere una sostenitrice dello sforzo bellico di Israele e una giornalista del Times, ma la Schwartz non ha incaricato se stessa e Sella di raccontare una delle storie più importanti della guerra. Sono stati i vertici del New York Times a farlo.

Schwartz lo ha dichiarato in un’intervista alla Radio dell’Esercito israeliano il 31 dicembre. Il New York Times ha chiesto: “Facciamo un’inchiesta sulle violenze sessuali, e poi sono stati loro a dovermi convincere”, ha spiegato Schwartz. Il suo ospite l’ha interrotta: “È stata una proposta del New York Times, l’intera faccenda?” “Inequivocabilmente. Inequivocabilmente. Ovviamente. Ovviamente – ha spiegato -. Il giornale ci ha sostenuto al 200 per cento e ci ha dato il tempo, il denaro, le risorse per approfondire l’inchiesta quanto necessario”.

Poco dopo lo scoppio della guerra, alcuni redattori e reporter si sono lamentati perché le norme del Times impedivano loro di riferirsi ad Hamas come “terroristi”. La motivazione dell’ufficio standard, diretto per 14 anni da Philip Corbett, è stata a lungo che Hamas era l’amministratore de facto di un territorio specifico, piuttosto che un gruppo terroristico senza Stato. L’uccisione deliberata di civili, si sosteneva, non era sufficiente per etichettare un gruppo come terrorista, in quanto tale etichetta poteva essere applicata in modo piuttosto ampio.

Corbett, dopo il 7 ottobre, ha difeso la politica fino allora applicata dalle pressioni, secondo fonti della redazione, ma ha perso. Il 19 ottobre, a nome del direttore esecutivo Joe Kahn, è stata inviata una email in cui si diceva che Corbett aveva chiesto di ritirarsi dalla sua posizione. “Dopo 14 anni in cui ha incarnato gli standard del Times, Phil Corbett ci ha detto che vorrebbe fare un passo indietro e lasciare che qualcun altro assuma il ruolo di guida in questo sforzo cruciale”, ha spiegato la direzione del giornale.

Tre fonti della redazione hanno spiegato che la mossa era legata alle pressioni subite per ammorbidire la copertura e rivolgerla a favore di Israele. Uno dei post sui social media che erano piaciuti a Schwartz e che hanno scatenato la revisione del Times, sosteneva che, ai fini della propaganda israeliana, Hamas dovesse essere sempre paragonato allo Stato Islamico. Un portavoce del Times ha dichiarato a The Intercept: “La vostra affermazione su Phil Corbett è assolutamente falsa”. E, in una dichiarazione ricevuta dopo la pubblicazione: “Phil aveva chiesto di cambiare ruolo prima ancora che Joe Kahn diventasse direttore esecutivo nel giugno 2022. E non aveva assolutamente nulla a che fare con una disputa sulla copertura”.

The Intercept
Dossier Gaza/3a – Continua

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Dossier Gaza/1 – La guerra si combatte tra tanta propaganda e poca informazione

Dossier Gaza/2 – La montatura mediatica degli stupri di Hamas nei kibutz ha giustificato 30 mila morti

Stupri e violenze sulle donne: anche il New York Times cade nella trappola della propaganda

Rape and violence against women: even the New York Times falls into the propaganda trap

Dossier Gaza/2 – La montatura mediatica degli stupri di Hamas nei kibutz ha giustificato 30 mila morti

Speciale per Africa ExPress
Alessandra Fava
18 Marzo 2024

Israele non potrà utilizzare in nessun tribunale internazionale le proprie accuse di violenze sessuali contro Hamas, perché l’inchiesta è risultata una macchinazione ad arte dei servizi e dell’esercito israeliano. E’ stata così smontata anche l’inchiesta pubblicata dal New York Times a gennaio con incredibile risonanza mediatica. Africa ExPress aveva già espresso dubbi sull’indagine.

Striscia di Gaza: quasi 30 mila morti

Intanto con il pretesto di rincorrere terroristi assassini e violentatori seriali, sono state uccise 30 mila persone a Gaza, la maggior parte donne e bambini e due milioni di persone sono allo stremo e alla fame. Secondo un’ispezione dell’Organizzazione mondiale della salute in due ospedali di Gaza (al-Awada e Kamal Adwan) a marzo sono morti diversi bambini di fame nel Nord di Gaza. Mentre l’Occidente tace ed è complice, sui canali social il genocidio palestinese è diffuso in mondovisione con aggiornamenti quotidiani e non solo in lingua araba.

Ma ai media internazionali Gaza resta preclusa da Israele per ragioni di sicurezza. Da ottobre è entrata, e clandestinamente, solo una giornalista della CNN con medici qatarioti per alcune ore. Altri reporter sono entrati embedded, cioè al seguito e scortati dalle truppe israeliane.

Dimissioni del portavoce IDF

La tv israeliana Channel 14 due settimane fa ha dato la notizia delle dimissioni del portavoce dell’IDF (Israel Defence Forces, l’esercito israeliano), Daniel Hagari, del suo omologo responsabile per i media esteri, il tenente colonnello Richard Hecht, e di due altri ufficiali.

Ufficialmente la rinuncia all’incarico sarebbe dovuta a scelte “professionali e personali”. Ma viene il sospetto che siano legate alla madre della propaganda: quella volta ad accusare di violenze sessuali di massa e violenze su bambini i militanti di Hamas, responsabili del raccapricciante assalto ai kibutz del 7 ottobre terminato – grazie anche all’intervento dell’esercito israeliano – con 1.200 morti.

Le prime accuse

Sui giornali dello Stato ebraico le prime accuse di violenze sessuali di massa e stupri etnici nei confronti dei militanti di Hamas sono apparse lo scorso novembre. Nei vari articoli non sono mai state riportate testimonianze delle vittime sopravvissute. Sono state invece citate solamente una serie di narrazioni da parte di terzi.

Molti giornali israeliani per mesi hanno battuto titoli a pagina intera su minacce e paure di stupro anche durante la prigionia delle rapite/liberate. Leggendo poi gli articoli si poteva constatare che non c’era alcuna prova e le brutalità non si erano verificate. Israele ha deciso di cavalcare l’onda e calcare la mano sulle violenze sessuali anche con discorsi ufficiali dei propri portavoce presso le Nazioni Unite. E poi ancora accuse sugli stupri sono state lanciate dal premier Benjamin Nethanyahu, parole riprese perfino dal presidente degli Usa Joe Biden. Alla fine anche una montatura diventa certezza.

Attacco Hamas 7 ottobre 2023

Un crescendo rossiniano culminato con alcuni articoli che hanno avuto risonanza a livello globale come quello pubblicato dal New York Times il 28 dicembre dal titolo “‘Screams Without Words’: How Hamas Weaponized Sexual Violence on Oct. 7”. Il pezzo a firma di Jeffrey Gettleman, Anat Schwartz, Adam Sella, è stato ripreso da tutta la stampa occidentale ma Africa ExPress da subito ne aveva messo in dubbio l’accuratezza e l’analisi delle fonti.

Buchi nell’inchiesta

I giornalisti della testata americana hanno chiesto chiarezza per difendere la credibilità del loro giornale, anche perché è apparso chiaro che le fonti non fossero state verificate a dovere. C’erano parecchi buchi nell’inchiesta e nessun testimone civile o vittima.

A smontare definitivamente la tesi è stato ora un attivista su Twitter/X che ha rivelato una serie di like imbarazzanti, su Gaza e la morte ai palestinesi, fatti dalla Schwartz, prima dell’assunzione presso la prestigiosa testata americana. Quindi si è scoperto che la giornalista è stata impiegata dal quotidiano dopo il 7 ottobre per collaborare all’inchiesta con Gettleman e Sella proprio sugli stupri, ma in realtà ha fatto parte dell’intelligence dell’aviazione militare ed è lei l’autrice di tutti i rapporti pubblicati sulla violenze alle donne e i bambini bruciati (a volte nei forni di casa, secondo una delle narrazioni ad opera anche di suprematisti volontari dell’associazione Zaka).

Secondo un’inchiesta di Intercept nei mesi tra ottobre e dicembre alcuni capiredattori del NYT sono stati anche mobbizzati perchè cercavano di essere neutrali rispetto alla guerra tra Hamas e Israele. E così una volta che sono stati messi da parte i rompiscatole, finalmente la testata ha cambiato la narrativa su Hamas, cominciando a chiamare i militanti dell’organizzazione “terroristi” e stabilendo il parallelo Hamas/ Stato islamico.

https://theintercept.com/2024/02/28/new-york-times-anat-schwartz-october-7/

Insomma avevamo ragione noi di Africa ExPress. Ed anche Blumenthal aveva ragione.

Diamanti africani

Per altro Africa ExPress, in un articolo del 17 gennaio aveva collegato anche la vicenda dello sfruttamento dei diamanti africani nella Repubblica Democratica del Congo con figure poco trasparenti, come il miliardario israeliano Dan Gertler, legato ai partiti suprematisti di destra. Qualche giorno dopo tale vicenda è stata pure ripresa dai giornali americani.



Mehdi Raza Hasan (nato nel luglio 1979) è un giornalista britannico-americano di origine indiana , commentatore politico, editorialista, autore e cofondatore del media Zeteo. Dal febbraio 2024, lavora al The Guardian come editorialista.



Anche grazie alla propaganda martellante e continua, l’opinione pubblica israeliana resta massicciamente a favore della guerra: secondo il Peace Index dell’Università di Tel Aviv l’87 per cento degli ebrei israeliani (tre quarti degli israeliani) pensa che 30 mila morti palestinesi sia una cifra giustificabile; la metà ritiene che Israele stia usando una risposta militare proporzionata e il 43 per cento pensa che si potrebbe fare di più. Una più recente ricerca dell’Indice di democrazia in Israele sostiene che tre quarti degli israeliani pensino che ora sia necessario attaccare Rafah. Quindi di fatto pur criticando il premier Netanyhau e spesso invocando dimissioni, la popolazione è totalmente a favore dell’operato del governo. 

Alessandra Fava
alessandrafava2015@libero.it
©️ RIPRODUZIONE RISERVATA

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Dossier Gaza/1 – La guerra si combatte tra tanta propaganda e poca informazione

Stupri e violenze sulle donne: anche il New York Times cade nella trappola della propaganda

Rape and violence against women: even the New York Times falls into the propaganda trap

Diamonds drenched in blood: Unmasking Israel’s role in the Congolese crisis

 

The Story Behind the New York Times October 7 Exposé

 

La giunta golpista del Niger dà il benservito agli americani: revoca della cooperazione militare

Africa ExPress
18 marzo 2024

Il regime militare di transizione del Niger ha revocato con effetto immediato la cooperazione militare con gli Stati Uniti, stipulata tra le parti nel 2012. Le autorità di Niamey hanno poi sottolineato che la presenza dei soldati americani è illegale.

Niger,Agadez: Air Base 201

A tutt’oggi Washington ha oltre mille uomini alla Air Base 201 vicino a Agadez, definita dal dipartimento di Difesa USA come “Il più grande progetto di costruzione della storia dell’Aeronautica militare USA”. E’ costata 110 milioni di dollari e la concessione accordata dalle autorità di Niamey dovrebbe scadere proprio nel 2024. Attualmente la base americana in Niger è praticamente inattiva, la maggior parte dei droni, che un tempo monitoravano le attività jihadiste nei Paesi africani instabili, sono stati messi negli hangar.

Il colonnello Amadou Abdramane, in una dichiarazione trasmessa dalla TV di Stato sabato sera, ha detto che l’accordo con gli USA è “ingiusto” e, secondo lui, “è stato imposto unilateralmente attraverso una semplice nota verbale del 6 luglio 2012”. Ha poi aggiunto: “L’arrivo della delegazione americana non ha rispettato le consuetudini diplomatiche”.

Amadou Abdramane, portavoce della giunta militare del Niger

Dunque qualcosa stava già bollendo in pentola la scorsa settimana, quando una delegazione di Washington, capeggiata da Molly Phee, Assistente del Segretario di Stato per gli Affari Africani, accompagnata da Celeste Wallander, alto funzionaro del Pentagono, e del comandante di AFRICOM (comando a capo delle operazioni americane in Africa), Michael Langley, si è vista rifiutare l’udienza con Abdourahamane Tchani, presidente della giunta militare di transizione e di fatto capo di Stato del Niger.

Poco dopo il golpe militare dello scorso luglio, Niamey aveva ordinato a Parigi di ritirare le proprie truppe entro il 31 dicembre 2023, ma già a ottobre la Francia ha iniziato a trasferire personale e materiale in Ciad. Ora gli americani rischiano la stessa sorte dei francesi, che hanno dovuto lasciare il Paese in quattro e quattr’otto.

In seguito al putsch, gli USA, e i loro partner europei hanno interrotto la cooperazione con il Niger, che nell’ultimo decennio era diventato uno dei maggiori beneficiari di assistenza alla sicurezza e di aiuti allo sviluppo in Africa.

La delegazione americana si era recata a Niamey per tentare di riaprire un dialogo con il regime militare di transizione sia per quanto riguarda il ritorno all’ordine costituzionale (il presidente destituito Mohamed Bazoum è a tutt’oggi agli arresti domiciliari), sia per mantenere la cooperazione.

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Dossier Gaza/1 – La guerra si combatte tra tanta propaganda e poca informazione

EDITORIALE
Massimo A. Alberizzi
17 marzo 2024

Il 25 marzo 1995 l’allora presidente americano Bill Clinton in visita a Kigali, la capitale ruandese, presentò pubbliche scuse per il mancato intervento per proteggere i civili durante il genocidio in Ruanda. Clinton disse più o meno: “La comunità internazionale, insieme agli Stati africani, deve farsi carico della sua parte di responsabilità per questa tragedia. Non abbiamo agito abbastanza velocemente dopo che sono iniziati i massacri. Non avremmo dovuto permettere che i campi profughi diventassero rifugi per gli assassini. Non abbiamo chiamato subito questi crimini con il loro nome: genocidio. Ma non possiamo cambiare il passato”.

Bill Clinton in Ruanda nel 1995

Già, anche perché, agli inizi della carneficina nell’aprile 1994, i funzionari dell’amministrazione americana avevano ricevuto l’ordine di non parlare di genocidio, ma al massimo di dire che “potrebbero essersi verificati atti di genocidio”. Eppure, nell’aprile 1994, nei rapporti interni il governo USA (come rivelato dal New York Times) aveva più volte parlato di genocidio. Ma fino al giugno successivo, cioè alla fine della mattanza, non ha usato questa parola disumana.

Il genocidio in Ruanda

Anche in occasione del genocidio in Ruanda per settimane la comunità internazionale di era arrovellata con interminabili discussioni sull’opportunità di intervenire per bloccare la carneficina. Discussioni spesso incentrate su cavilli giuridici, volti a nascondere interessi inconfessabili di questo o quel Paese, economici e/o politici.

In Palestina sta accadendo la stessa cosa. La mattanza è sotto gli occhi di tutti, eppure con sottigliezze sofistiche la comunità internazionale si rifiuta di definire i massacri con il nome più appropriato: genocidio.

La scienza della propaganda

Discutere accampando cavilli se il massacro che si sta consumando a Gaza sia un genocidio, una nuova shoa, una carneficina, uno sterminio o un macello diventa un esercizio tra filosofi ma non ha alcuna incidenza sulla realtà: la gente sta morendo a grappoli e non credo che a un moribondo palestinese interessi molto sapere se è vittima di un genocidio o di un massacro.

A noi giornalisti invece dovrebbe interessare svelare le menzogne che ormai sono diventate a pieno titolo un’arma di guerra. La propaganda già dai tempi dei romani viene utilizzata dai combattenti (e in generale dalla politica!) per cercare di vincere battaglie e conflitti. Ma il nazismo (e segnatamente il suo ministro della propaganda Joseph Goebbels) l’ha fatta diventare una scienza.

Fake news e notizie autentiche

Nella guerra di Gaza siamo bombardati da notizie da una parte e dall’altra e devo confessare che non è facile districarsi tra frottole e informazioni autentiche. Uno degli insegnamenti della propaganda del Terzo Reich spiegava come fare diventare una bugia verità: “Se racconti una menzogna enorme e continui a ripeterla, prima o poi il popolo ci crederà.”

Questo principio è stato applicato alla perfezione dallo Stato ebraico. Infatti, nell’immaginario collettivo è diventa verità l’assioma: “Israele è l’unica democrazia del Medio Oriente, perché si vota, c’è una stampa libera e una pubblica opinione”.

Legge fondamentale

Volutamente ci si “scorda” di aggiungere che questi “privilegi” democratici sono riservati solo a una parte della popolazione, quella cui Dio ha riservato un posto più elevato nella storia e che ha diritto all’autodeterminazione (come spiega all’articolo 1, il punto B della Legge Fondamentale, cioè la Costituzione, del Paese mediorientale).

1 — Basic Principles

  1. The land of Israel is the historical homeland of the Jewish people, in which the State of Israel was established.
  2. The State of Israel is the national home of the Jewish people, in which it fulfills its natural, cultural, religious, and historical right to self-determination.
  3. The right to exercise national self-determination in the State of Israel is unique to the Jewish people.

Qui tradotto in italiano:

1 – Principi fondamentali

  1. La Terra d’Israele è la patria storica del popolo ebraico, nella quale è stato fondato lo Stato d’Israele.
  2. Lo Stato di Israele è la patria nazionale del popolo ebraico, in cui esso realizza il suo diritto naturale, culturale, religioso e storico all’autodeterminazione.
  3. Il diritto di esercitare l’autodeterminazione nazionale nello Stato di Israele è riservato (unico in inglese) al popolo ebraico.

Basare uno Stato su questi presupposti razziali è piuttosto illiberale e anche antidemocratico.

Anche durante il regime razzista sudafricano le elezioni erano libere, si potevano creare partiti ed esistevano giornali che criticavano apertamente il regime. Ma i “privilegi” democratici erano riservati solo ad una parte della popolazione, quella bianca. Nessuno, dunque, si è mai sognato di definire quella sudafricana una democrazia dell’Africa meridionale.

Un detenuto palestinese mostra ferite ai polsi dopo il suo rilascio a Gaza

Ma c’è qualcosa d’altro di più subdolo che colpisce l’opinione pubblica l’identificazione dell’antisionismo con l’antisemitismo. Una simmetria che viene ripetuta come un mantra: “Chi critica lo Stato di Israele odia gli ebrei, è complice del nazismo ed è antisemita.”

Goebbels scriveva: “La verità è il nemico mortale della menzogna e quindi la verità è il più grande nemico dello Stato.”  La verità è che il sionismo, comunque lo si può intendere è una dottrina politica che può essere condivisa o disapprovata. L’antisemitismo è invece un sentimento di odio irrazionale direi quasi selvaggio verso gli ebrei. Criticare il sionismo diventa automaticamente una manifestazione di antisemitismo. Come se chi condanna il nazismo fosse inconsapevolmente antitedesco o il fascismo anti-italiano.

Simmetria irresponsabile

E’ una simmetria irresponsabile perché provoca irrimediabilmente una reazione antisemita. Per fortuna non tutti gli ebrei sono sionisti e quindi questo dimostrerebbe come l’equazione “sionismo uguale ebraismo” sia profondamente sbagliata. Anzi pericolosa perché genera irresponsabili e sconsiderati sentimenti antisemiti.

Guerra Israele-Gaza: Secondo il ministro degli esteri britannico, il rapporto della BBC sul raid all’ospedale Nasser è “assai inquietante”

 

Il problema è che sono molti – e non solo ebrei – che continuano a difendere acriticamente lo Stato d’Israele e la sua discutibile politica. Chiudendo un occhio, e spesso entrambi, davanti ai massacri che vengono perpetrati da Israele nella Striscia di Gaza. Questo atteggiamento “filo israeliano a tutti i costi” trova sempre una scusante alla politica sionista e provoca danni profondi allo stesso Stato di Israele e soprattutto alla pace nella regione.

Spesso è accaduto che le scusanti addotte siano ridicole e palesemente false come quando qualche giorno fa i soltati israeliani hanno sparato addosso alla folla contro un gruppo di persome in fila per ricevere gli aiuti. Si sono ammazzati da soli calpestati nella calca. A nulla sono valse le testimonianze e le immagini dei morti e feriti colpiti dai proiettili.

La propaganda israeliana raccolta da molti quotidiani, specie italiani, hanno scritto imperturbabili che i palestinesi sono morti per colpa loro.

Ogni volta che si contesta ad Israele qualcosa arriva immediata una giustificazione che ribalta le responsabilità: “L’ospedale che avete bombardato era pieno di malati”. “Sì, ma nei sotterranei si nascondeva una base di Hamas”. “Avete ucciso migliaia di civili inermi.” “Colpa di Hamas che li usava come scudi umani”. ”Avete colpito e distrutto interi quartieri; ammazzato donne e bambini”. “Gli avevano avvisati di andare via”.

Negare l’evidenza

Negare, negare, negare sempre anche l’evidenza, insegnava Goebbels. E la sua dottrina ha fatto proseliti.

Perfino David Ben Gurion, considerato il padre dello Stato di Israele di domandava: “Ci sono stati l’anti-semitismo, i nazisti, Hitler, Auschwitz, ma loro [gli arabi] in queste tragedie cosa c’entravano? Essi vedono una sola cosa: siamo venuti e abbiamo rubato il loro Paese. Perché dovrebbero accettarlo?”

E Primo Levi il grande narratore della shoa aveva ammonito: ““Ognuno è ebeo di qualcuno… oggi i palestinesi sono gli ebrei di Israele.”

L’osservatore e analista politico americano Richard Cohen ha descritto bene la situazione giocando con le parole: “Il più grande errore  che Israele possa compiere è dimenticare che Israele stesso è un errore . È un errore onesto, un errore frutto di buone intenzioni. Un errore per il quale nessuno è colpevole ma l’idea di creare una nazione di ebrei europei in un’area di arabi musulmani (e di alcuni cristiano) ha prodotto un secolo di guerra e terrorismo della specie che stiamo ora osservando.”

Molti palestinesi sono stati arrestati nel nord della Striscia di Gaza mentre cercavano riparo, c’è scritto in un rapporto dell’ONU

Al contrario Benjamin Netanyahu ribadisce che l’occupazione israeliana di territori non suoi è permanente e proclama: “Gerusalemme è la capitale di Israele e non sarà mai divisa; rimarrà la capitale dello Stato di Israele, la capitale del popolo ebraico per i secoli dei secoli”. Una affermazione pesante che appare più una dichiarazione di guerra e non una proposta di pace.

Immaginario collettivo

Ma nell’immaginario collettivo resta stampato il concetto radicale che viene ripetuto. E’ Hamas che non vuole la pace e Israele è costretto continuare la guerra.

Eppure, Ben Gurion aveva ammonito “I villaggi ebraici sono stati costruiti al posto di quelli arabi. Voi non li conoscete neanche i nomi, e io non vi biasimo perché i libri di geografia non esistono più. Non soltanto non esistono i libri, ma neanche i villaggi arabi non ci sono più. Nahlal è sorto al posto di Mahlul, il kibbutz di Gvat al posto di Jibta; il kibbutz Sarid al posto di Huneifis; e Kefar Yehushua al posto di Tal al-Shuman. Non c’è un solo posto in questo Paese che non avesse prima una popolazione araba.”



Israel Gaza: Checking Israel’s claim to have killed 10,000 Hamas fighters (BBC)



Ecco perché il ruolo dei media diventa cruciale in questa guerra ed ecco perché Israele non ha alcuna intenzione di fare entrare i giornalisti nella Striscia. Un comportamento in stridente contrasto con il mantra secondo cui il Paese ebraico è l’unica democrazia della regione e che il genicidio in atto a Gaza non è tale perché non è provata una volontà di cancellare una razza, una religione e/o un’etnia. Distinzioni nominalistiche che non cancellano la disumanità dei massacri sistematici in atto a Gaza.

Massimo A. Alberizzi
massimo.alberizzi@gmail.com
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Niger, flop della delegazione USA che non viene ricevuta dal presidente della giunta militare

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
15 marzo 2024

Una delegazione statunitense, capeggiata da Molly Phee, Assistente del Segretario di Stato per gli Affari Africani, accompagnata da Celeste Wallander, alto funzionaro del Pentagono, e del comandante di AFRICOM (comando a capo delle operazioni americane in Africa), Michael Langley, ha incontrato il primo ministro del governo del Niger, Ali Mahamane Lamime Zeine. Secondo quanto riferito da Télé Sahel, ai colloqui erano presenti anche diversi membri del governo e del Conseil national pour la sauvegarde de la patrie (CNSP, regime militare).

Abdourahamane Tchani, capo della giunta militare di transizione in Niger

La signora Phee è già venuta a Niamey tre mesi fa, ma questa volta ha chiesto di incontrare anche Abdourahamane Tchani, presidente della giunta militare di transizione e di fatto capo di Stato della ex colonia francese.

L’incontro con Tchani era previsto per mercoledì, 13 marzo, ma non ha avuto luogo. Gli americani hanno prolungato il loro soggiorno nella capitale nigerina di un altro giorno, con la speranza di essere ricevuti dal presidente. Attesa risultata inutile. La presidenza nigerina non ha fornito nessuna spiegazione per l’annullamento dell’udienza.

Delegazione USA a Niamey con il primo ministro nigerino, Ali Mahamane Lamime Zeine.

Obiettivo della visita in Niger, secondo una nota del dipartimento di Stato, era quello di proseguire i colloqui con le nuove autorità e discutere di partnership nei settori della sicurezza e dello sviluppo. Va ricordato che Washington ha sospeso la cooperazione con il governo militare nigerino subito dopo il colpo di Stato, ma a tutt’oggi gli USA hanno ancora un migliaio di soldati in una base per droni a Agadez, a 500 miglia a nord ovest della capitale Niamey.

Con il nome in codice Air Base 201, è stata definita dal dipartimento di Difesa USA come “il più grande progetto di costruzione della storia dell’Aeronautica militare USA”. E’ costata 110 milioni di dollari e la concessione accordata dalle autorità di Niamey dovrebbe scadere proprio nel 2024.

Dopo il golpe militare, come gli USA, anche i loro partner europei hanno interrotto la cooperazione con il Paese, che nell’ultimo decennio era diventato uno dei maggiori beneficiari di assistenza alla sicurezza e di aiuti allo sviluppo in Africa.

Ora la Air Base 201 è praticamente inattiva, la maggior parte dei droni, che un tempo monitoravano le attività jihadiste nei Paesi africani instabili, sono stati messi a terra. Ma l’amministrazione Biden vorrebbe riprendere le operazioni nella regione che risulta essere uno dei centri globali di attività terroristica.

Agadez, Niger, US Air base 201

A causa del colpo di Stato dello scorso luglio, gli Stati Uniti sono tenuti per legge a sospendere le operazioni di sicurezza e gli aiuti allo sviluppo in Niger, e non possono riprenderli completamente finché non viene ripristinata la democrazia, ma Mohamed Bazoum, l’ex presidente nigerino è a tutt’oggi agli arresti domiciliari.

La giunta ha adottato una linea dura contro la Francia, ex potenza coloniale, costringendola al ritiro delle sue truppe, in loco da quasi un decennio, ma non ha preteso un ritiro analogo alle forze americane.

Recentemente diversi Paesi europei hanno comunque espresso l’intenzione di essere disposti a normalizzare le relazioni con la giunta.

Anche i funzionari americani hanno proposto di ripristinare la cooperazione in materia di sicurezza con il governo nigerino, ma sarà necessario un delicato lavoro sul piano diplomatico,

Sta  di fatto che le autorità militari stanno cercando di cooperare con la Russia, pur mantenendo ancora una cauta distanza dai tentacoli di Mosca, a differenza del Mali e del Burkina Faso, partner del Niger nell’Alleanza degli Stati del Sahel (AES).

Cornelia I. Toelgyes
corneliacit@hotmil.it
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L’America mostra i muscoli in Niger con una nuova mastodontica base militare

Arrivano i russi in Niger e si presentano con un nuovo corpo di mercenari

 

 

Haiti nel caos e la forza di polizia del Kenya bloccata da cavilli non arriva

 

Speciale per Africa ExPress
Federica Iezzi
14 Marzo 2024

Firmato a inizio mese un accordo tra Kenya e Haiti per l’invio di agenti di polizia kenyani sull’isola caraibica ormai in mano alla violenza delle bande armate interne.

Di fronte alle richieste sempre più pressanti del governo haitiano e delle Nazioni Unite, nel luglio 2023, il Kenya ha accettato di guidare una missione di Sostegno alla Sicurezza Multinazionale (MSS – Multinational Security Support), composta da 2.500 agenti, a partire dal primo trimestre del 2024. Offerta accolta favorevolmente dagli Stati Uniti e da altri Paesi che avevano escluso l’invio di proprie forze sul campo.

Il capo di stato keniano, William Ruto, e il primo ministro haitiano, Ariel Henry, appena dimissionario, avevano discusso i passi per consentire l’accelerazione della missione, in un incontro a Nairobi. Ma la firma del documento non legalizza il dispiegamento della polizia keniana.

Infatti, non è ancora chiaro se questo accordo sia contrario alla decisione di un tribunale keniano che aveva dichiarato illegale l’invio di agenti di polizia a Haiti. Causa portata avanti dal politico e avvocato dell’opposizione Ekuru Aukot. Il parlamento aveva convalidato il dispiegamento delle forze di polizia, prima che fosse bloccato, alla fine dello scorso gennaio, con un’ingiunzione provvisoria da parte di un tribunale di Nairobi.

Dunque l’invio di truppe a Haiti era stato congelato dopo che l’Alta Corte aveva stabilito che Nairobi non avrebbe potuto schierarsi in assenza di uno strumento bilaterale. Il caso ora spetta alla Corte d’Appello che potrà o meno revocare la decisione dell’Alta Corte. Di fronte alle critiche, Ruto aveva descritto l’impresa keniana in linea con la sua lunga esperienza di contributo alle missioni di mantenimento della pace all’estero.

Alla fine dello scorso febbraio cinque Paesi, tra cui il Benin, che si è impegnato a inviare 1.500 uomini, hanno notificato alle Nazioni Unite la loro partecipazione alla missione. Altri Stati che hanno confermato la volontà di partecipare a MSS sono  Bahamas, Bangladesh, Barbados e Chad – ha dichiarato il portavoce del segretario generale dell’ONU, Stéphane Dujarric.

Intanto Aukot ha annunciato che presenterà una causa per oltraggio alla Corte, per la decisione incostituzionale dell’invio di truppe keniane a Haiti.

Il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, ha insistito sull’importanza di raggiungere una soluzione politica ad Haiti. L’obiettivo è quello di ripristinare un sistema di sicurezza che possa porre fine al dominio delle bande armate e alla crescente criminalità che sta distruggendo il Paese.

Dal 2016 a Haiti non si tengono elezioni e la presidenza resta vacante. Un collegio presidenziale indipendente transitorio a larga base, con la nomina di un premier ad interim, avrà potere fino al voto. E’ quanto appena discusso a Kingston, in Giamaica, in una riunione d’emergenza con oggetto Haiti, convocata dalla conferenza dei capi di governo della Comunità dei Caraibi (CARICOM – Caribbean Community and Common Market), a cui ha presieduto il segretario di Stato americano Antony J. Blinken.

Gli scontri a fuoco tra bande criminali nella capitale haitiana sono continui e pesanti. Le stesse gang hanno preso il controllo di intere zone del Paese. Dichiarato lo stato di emergenza e ripristinato il coprifuoco.

A Port-au-Prince le bande hanno eretto barricate per impedire alle forze di sicurezza di invadere il loro territorio, mentre le loro roccaforti nelle vaste baraccopoli della città sono ancora in gran parte bloccate. Scuole e attività commerciali sono chiuse. Almeno 15.000 persone sono state costrette a lasciare le proprie abitazioni.

Federica Iezzi
federicaiezzi@hotmail.it
Twitter @federicaiezzi
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Cambiamenti climatici devastano l’Africa: un fulmine uccide 4 persone durante un ciclone in Mozambico

Speciale per Africa ExPress
Sandro Pintus
13 marzo 2024

Alle 5.00 del 12 marzo la tempesta tropicale Filipo è entrata pesantemente nell’area di Vilankulo, nella provincia di Inhambane, nel centro del Paese. Venti a 110 km orari e piogge fino a 250 mm hanno portato distruzione di villaggi e alluvioni.

Ciclone tropicale Filipo
Percorso del ciclone tropicale Filipo (Courtesy ZoomEarth)

Quattro morti

Filipo ha però annunciato la sua pericolosa e invadente presenza a suon di fulmini. Uno di questi ha colpito sette persone uccidendone quattro mentre e altre sono rimaste ferite.

Il centro della tempesta tropicale di 60.000 kmq, (un’area più vasta di Lombardia e Piemonte), si sposta verso sud. Toccherà la capitale, Maputo, e il vicino Eswatini nelle prime ore di oggi 13 marzo. Le previsioni meteo dicono che Filipo attraverserà il centro sud del Mozambico per circa 500 km con una profondità di 350 km all’interno. Poi lascerà la costa per dirigersi a sud-est, verso l’oceano Indiano.

Canale del Mozambico troppo caldo

Filipo è nato lo scorso 4 marzo nel centro del Canale del Mozambico, con acque ormai troppo calde. Nel momento in cui scriviamo la temperatura del Canale arriva anche a 30°C, una ulteriore conferma che il cambiamento del clima è reale e pericoloso soprattutto per Mozambico e Madagascar.

Filipo canale del Mozambico con 30°C
Canale del Mozambico con temperatura di 30°C (Courtesy ZoomEarth)

Fino al 10 marzo Filipo ha svolazzato per il sud del Canale come “disturbo tropicale” per 1.850 km per diventare “grave tempesta tropicale”. Vilankulos e dintorni le aree più colpite e alluvionate, con case scoperchiate e distrutte e linee elettriche e telefoniche fuori uso.

In un comunicato Electricidade de Moçambique (EDM) informa che quasi 100.000 utenti sono rimasti senza energia elettrica nelle aree dove è passato Filipe. Le condizioni meteorologiche e l’inaccessibilità di alcune località sono stati i maggiori ostacoli per il ripristino della fornitura di energia elettrica.

L’Istituto mozambicano per la gestione e la riduzione del rischio di disastri (INGD) calcola che oltre 500.000 persone potrebbero essere colpite da inondazioni e forti venti. Lasciato il Mozambico, il ciclone entro sabato 16 marzo, dopo altri 3.500 km dovrebbe spegnersi senza toccare altre terre emerse nel sud dell’oceano Indiano.

Mozambico sempre più colpito

Il Mozambico è uno dei Paesi più colpiti da eventi meteo estremi. Cicloni e tempeste tropicali sono diventati, negli ultimi dieci anni più numerosi e violenti. Tra questi ricordiamo Idal che nel 2019 ha seminato oltre 1.000 morti; Eloisa, nel 2021 ha colpito 250.000 persone; e Freddy che nel 2023 ha lasciato 400 cadaveri.

(Ultimo aggiornamento: 13 marzo alle 15.28)

Sandro Pintus
sandro.p@catpress.com

X (ex Twitter):
@sand_pin
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