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L’apparato propagandistico israeliano confessa: “Moderati i resoconti critici e rafforzata la nostra narrativa”

Da La Voce di New York
Eric Salerno
11 aprile 2024

La guerra è guerra. Guerra e onestà sono due elementi che non sono mai stati concordanti; quasi sempre il netto contrario. Tre dei figli e tre nipoti del leader politico di Hamas, Ismail Haniyeh sono stati assassinati ieri con un ordigno israeliano mentre salivano su una vettura nel centro di Gaza City. Guerra? Vendetta? Israele sostiene che erano tutti “diretti a compiere un atto terroristico”. Una specie, scusate il sarcasmo, di gita in famiglia.

Giornalisti riprendono dall’alto di un edificio danneggiato; è l’ ospedale al-Salam a Khan Yunis, distrutto il 7 aprile 2024 (Foto di AFP) – Credit: Ansa

Parlare di giustizia e onestà in piena guerra serve a poco soprattutto dopo che sono stati uccisi più di trentatré mila palestinesi, in buona parte civili e bambini, da quando i militanti di Hamas e della Jihad islamica sei mesi fa attaccarono le pacifiche comunità ebraiche in Israele lungo il confine con la striscia di Gaza.

L’affermazione di fonti israeliane, secondo cui dopo la morte dei parenti di Haniyeh, lui “probabilmente” non sarà più disponibile a negoziare lo scambio di ostaggi-prigionieri fa sorridere. Da giornalista avrei sorriso anche io se non fosse per il fatto che già ridevo dopo aver letto, appena prima, il comunicato della “Direzione nazionale della diplomazia pubblica” israeliana che ha presentato, con orgoglio “la sua attività sulla scena internazionale dopo sei mesi di guerra”.

Promuovere la legittimità della politica

“Fin dalle prime ore della guerra, il Direttorato Nazionale della Diplomazia Pubblica, presso l’Ufficio del Primo Ministro, ha condotto una campagna globale di diplomazia pubblica di portata senza precedenti – leggo e sottolineo – al fine di promuovere la legittimità della politica e degli sforzi israeliani sul campo di battaglia”.

Non voglio fare paragoni, ma l’organizzazione – o quanto meno come viene presentata dalle autorità israeliane – fa venire in mente storie di cui leggevo da ragazzo soprattutto perché ai giornalisti, approdati a Tel Aviv, è stato concesso raccontare quello che vedevano in Israele e lungo il confine con Gaza ma non potevano osservare, se non a distanza,  quello che succedeva nella “striscia”, devastata da mesi di bombardamenti quasi costanti, se non accompagnati (e per poco tempo) dalle truppe israeliane. Il termine embedded era diventato famoso ai tempi dell’assalto americano all’Iraq di Saddam Hussein. Un’altra guerra dove devastazione e overkill avevano raggiunto livelli incomprensibili. E dove il risultato finale della guerra al leader iracheno ha lasciato morti, feriti e una nazione a dir poco spezzettata e in disordine.

“Tra le agenzie che partecipano al centro di comando – si legge nel comunicato israeliano – ci sono i servizi di sicurezza, l’IDF, la polizia israeliana e organismi governativi tra cui il Ministero degli Affari Esteri, il Ministero per gli Affari della Diaspora, l’Agenzia pubblicitaria governativa e l’Ufficio stampa governativo. Di seguito una sintesi dei servizi forniti alla comunità internazionale: fin dalle prime ore della guerra, il Direttorato Nazionale della Diplomazia Pubblica, presso l’Ufficio del Primo Ministro, ha condotto una campagna globale di diplomazia pubblica di portata senza precedenti al fine di promuovere la legittimità della politica e degli sforzi israeliani sul campo di battaglia”.

Avviate e promosse centinaia di storie

E ancora: “Attraverso il lavoro di portavoce e di diplomazia pubblica con i principali mezzi di stampa e radiotelevisivi di tutto il mondo, la Direzione nazionale della diplomazia pubblica ha contribuito ad avviare e promuovere centinaia di storie per – interessante questo passaggio – rafforzare la narrativa israeliana, moderare i resoconti critici, rispondere agli eventi di cronaca e generare unintensa attività favorire lequilibrio nella copertura”.

“La copertura globale degli eventi della guerra – viene raccontato con orgoglio – è stata di una portata senza precedenti. Oltre 4.000 giornalisti da tutto il mondo sono venuti in Israele per seguire la guerra, trasformandola così nell’evento mediatico più seguito dalla fondazione dello Stato…I giornalisti hanno partecipato a tour nel sud e nel nord, hanno visitato il sito del festival NOVA e hanno ricevuto briefing strategici e di zona da ufficiali dell’IDF, agenti di polizia, volontari ZAKA, capi di consiglio locale e testimoni del massacro…Nell’ambito degli sforzi di diplomazia pubblica sulla scena internazionale, la Direzione nazionale della diplomazia pubblica – in collaborazione con il portavoce dell’IDF – ha lanciato il sito web “Massacro di Hamas del 7 ottobre” che ha mostrato al mondo alcuni dei crimini di Hamas contro l’umanità, con fotografie e videoclip…Il sito ha avuto 43 milioni di visite nei primi tre giorni”.

Una assistenza quasi perfetta se non fosse per il fatto che molto del materiale giornalistico presentato ai giornalisti veniva scelto o preparato in modo da portare avanti una narrativa ben precisa che voleva giustificare la ferocia dell’azione militare israeliana – morti, feriti, Gaza trasformata in una terra praticamente inabitabile – come risposta al indubbiamente feroce attacco dei militanti palestinese.

Bloccata trasmissione tv spagnola

Lo sforzo dell’apparato propagandistico israeliano non è riuscito a trasformare la narrativa o a moderare le critiche che sono piombate, mai come prima, sul governo israeliano. E ieri, un episodio minore, ha influito negativamente sugli sforzi dell’apparato propagandistico. La corrispondente di Tve (rete televisiva spagnola) in Israele, Almudena Ariza, ha dovuto interrompere il collegamento in diretta con il Telegiornale 1 da Gerusalemme quando un uomo si è piazzato davanti alla telecamera e non le ha permesso di continuare la cronaca.

“Non lasciano lavorare, mi dispiace molto. Dobbiamo interrompere”, ha spiegato Ariza mentre un uomo vestito di nero, probabilmente un ebreo ortodosso, le faceva segno di spostarsi. “Non è la polizia, è un cittadino comune”, ha precisato mentre era in collegamento e cercava di spiegargli – in inglese – che stava solo facendo il suo lavoro e chiedeva di lasciarla continuare. L’ingresso in scena di altre persone ha messo fine al collegamento e Tve ha spiegato sul suo account X: “La pressione su Netanyahu aumenta e aumentano anche le difficoltà nell’informare da Gerusalemme, come è successo alla nostra corrispondente, interrotta da vari cittadini durante una connessione in diretta”.

Eric Salerno
eric2sal@yahoo.com
X: @africexp

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Dossier Gaza/4b – Miniere e guerra: i rapporti inquietanti che legano Israele al Congo-K

Africa ExPress
Kinshasa, aprile 2024

A margine dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite dello scorso settembre, il presidente della Repubblica Democratica del Congo, Felix Tshisekedi e il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, hanno annunciato che Tel Aviv aprirà un’ambasciata a Kinshasa, mentre l’ex colonia belga trasferirà il proprio corpo diplomatico a Gerusalemme. La legazione israeliana responsabile delle relazioni con il Congo-K si trova a Luanda (Angola).

Felix Tshisekedi, presidente del Congo-K a sinistra e Benjamin Netanyahu, primo ministro israeliano

In poche parole, i due Paesi hanno deciso di migliorare e rafforzare i rapporti reciproci, che comprendono anche investimenti in diversi settori, come la sicurezza, compresa quella informatica, agricoltura e infrastrutture.

Da quando è salito al potere, nel gennaio del 2019, Tshisekedi, ha sempre manifestato molto interesse per Israele, anzi è uno strenuo difensore della causa dello Stato ebraico. E sempre nel 2019 i due governi avevano siglato un accordo di cooperazione in materia di sicurezza, in base al quale Israele si offriva di addestrare ed equipaggiare l’esercito congolese per combattere Allied Democratic Forces (ADF), un gruppo armato di origine ugandese, che dal 1995 opera per lo più nella parte orientale del Congo-K. Il raggruppamento armato ha giurato fedeltà all’ISIS in Africa centrale (ISCAP). Nel 2021 gli Stati Uniti hanno inserito ADF nella lista dei gruppi terroristi.

La guerra di Israele contro Hamas ha avuto anche ripercussioni in Africa. Tantoché il governo di Tel Aviv ha rimpatriato gli istruttori presenti in Congo-K, tra loro anche Raz Cohen, uno dei testimoni dell’inchiesta del NYT sugli stupri di Hamas.

Va sottolineato che il presidente congolese era tra i leader africani che si sono affrettati a sostenere Israele dopo gli attacchi del 7 ottobre.

Dan Gertler, multimiliardario israeliano attivo nel ramo minerario nel Congo-K dal lontano 1997, oltre ad essere in ottime relazioni con l’ex presidente Joseph Kabila ha anche stretti rapporti con il governo di Tel Aviv. Nel 2019, non appena salito al potere Tshisekedi, Yossi Cohen, ex direttore del Mossad, si era recato per ben tre volte a Kinshasa per intercedere a favore del tanto discusso uomo d’affari Gertler, a tutt’oggi sotto sanzione del Tesoro americano per corruzione ad alto livello nella RDC.

Ma le visite di Cohen in uno dei Paesi più corrotti del continente africano hanno sollevato molti interrogativi sull’entità del coinvolgimento del governo israeliano con Gertler nelle sue attività sospette nel settore del controllo dei minerali.

Nel corso degli anni, il nome di Gertler è stato collegato a ripetute accuse di corruzione. Nel maggio 2013, un rapporto pubblicato da Kofi Annan, ex Segretario Generale delle Nazioni Unite, ha rivelato le enormi perdite subite dalla ex colonia belga a causa dei rapporti con le società estere di Gertler, facendo luce per la prima volta sull’entità di questo ingente danno economico.

Poco più di un anno fa in un articolo del The New York Times viene rivelato che il capo di Stato congolese, Felix Tshisekedi, ha inviato lettera al presidente USA, Joe Biden, specificando che “La Repubblica Democratica del Congo non ha più alcuna rimostranza nei confronti di Gertler e del suo gruppo”. E Tshisekedi ha persino chiesto al suo omologo statunitense di far annullate dal Tesoro le sanzioni contro Gertler.

Dan Gertler

Gertler è determinato, vuole a tutti costi che i provvedimenti messi in atto dal Tesoro USA nei suoi confronti vengano abolite quanto prima. E’ persino riuscito a trovare un alleato importante in questa sua crociata: il presidente congolese. Il magnate israeliano, in un accordo siglato nel 2022 con il governo del Congo-K, ha concordato di rendere circa 2 miliardi di dollari di diritti di estrazione mineraria e di trivellazione petrolifera ottenuti negli ultimi due decenni. In cambio, il governo congolese ha accettato di pagare alle società di Gertler 260 milioni di dollari e di aiutarlo a fare pressioni su Washington per ottenere la revoca delle sanzioni. La mossa consentirebbe al Congo di rivendere i diritti minerari a nuovi investitori.

“I termini dell’accordo sono senza precedenti e dovrebbero essere accolti positivamente, anche dai miei detrattori”, ha scritto Gertler in una lettera a una ventina di gruppi per i diritti umani.

Ma gli attivisti di queste organizzazioni non condividono le affermazioni del magnate israeliano. Anzi, ritengono che l’accordo siglato con Kinshasa sia tutt’altro che un buon affare, visto che Gertler ha ancora diritto a decine di miliardi di dollari l’anno, si tratta di royalities derivanti dall’estrazione di rame e cobalto.

Poco più di un anno fa Human Rights Watch (HRW) ha scritto al segretario di Stato Antony Blinken e a Janet Yellen, segretario del Tesoro (lettera co-firmata da diverse organizzazioni congolesi e internazionali per i diritti umani), a proposito di un eventuale alleggerimento delle sanzioni riguardanti Dan Gertler.

Gertler ha sempre negato qualsiasi coinvolgimento in corruzioni, infatti non è mai stato perseguito penalmente.

La società svizzera Glencore è stata condannata a pagare 180 milioni di dollari al governo di Kinshasa per presunti atti di corruzione dal 2008 al 2017, come riportato in un articolo di Africa ExPress del dicembre 2022. Durante tale periodo, Glencore ha lavorato con il miliardario minerario israeliano Dan Gertler.

Estrazione mineraria in Congo-K

Negli ultimi anni il multimiliardario ha intrapreso diverse azioni legali contro attivisti anticorruzione, informatori, giornalisti e gruppi della società civile. Anche due informatori, Gradi Koko Lobanga e Navy Malela, impiegati presso Afriland First Bank di Kinshasa, hanno dovuto affrontare cause legali dopo aver rivelato accuse di riciclaggio di denaro a beneficio di Gertler. In un processo giudiziario profondamente lacunoso nella RDC, entrambi sono stati condannati a morte in contumacia. Non è stata aperta però nessuna indagine per quanto riguarda il presunto riciclaggio di denaro denunciato dai due informatori.

Africa ExPress
X: @africexp
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(2 – fine)

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Gli articoli sul dossier gaza si trovano qui

https://www.africa-express.info/?s=Dossier+Gaza

 

La Glencore accetta di risarcire 180 milioni di dollari per corruzioni commesse in Congo-K

La storia di Marc Rich, fondatore di Glencore: speculazioni e affari con i più sanguinari dittatori della sua epoca

CONGO K/Forte rischio di corruzione. Coinvolta la Glencore (Alcoa). IMF ferma un prestito

Mozambico, scappavano dal colera in una barca da pesca: oltre 100 morti annegati

Speciale per Africa ExPress
Sandro Pintus
9 aprile 2024

Una barca da pesca carica di profughi che scappavano da un’area infettata dal colera è affondata nel Canale del Mozambico. Il bilancio provvisorio, nel momento in cui scriviamo, è di oltre 100 morti e più di 20 dispersi.

La tragedia è avvenuta domenica sera 7 aprile. La barca era partita da Lunga, nella provincia di Nampula nel centro-nord dell’ex colonia portoghese e diretta a Ilha de Moçambique. Una cinquantina di chilometri in linea d’aria ma estremamente pericolosi dal punto di vista meteo.

morti annegati nel naufragio di Nampula
Morti annegati nel naufragio di Nampula (Immagini da X (ex Twitter)

Imbarcazione sovraccarica

Le condizioni meteorologiche, infatti, hanno reso impossibile la traversata, fino alla tragedia. Oltre al pesante affollamento di persone sul piccolo peschereccio il mare era mosso e soffiava un forte vento.

Il peso eccessivo ha fatto capovolgere la barca facendo cadere nelle acque agitate la maggior parte dei passeggeri. Erano soprattutto famiglie con bambini. I soccorritori sono riusciti a salvare solo cinque persone.

“L’imbarcazione era sovraffollata e inadatta a trasportare passeggeri – ha dichiarato Jaime Neto, amministratore di Nampula -.  Per questa ragione è affondata. Tra le vittime ci sono molti bambini”.

Secondo Neto la maggior parte dei passeggeri stava cercando di fuggire dalla terraferma a causa del panico causato dalla disinformazione sul colera.

Trafficanti di esseri umani

Tra guerra contro i jihadisti di Al Sunnah wa-Jammà, cambiamenti climatici con l’aumento di cicloni tropicali e povertà estrema, il Mozambico sta vivendo una situazione sociale e sanitaria molto difficile.

In uno scenario come quello che sta passando il Paese dell’Africa meridionale non mancano i trafficanti di esseri umani che offrono, a caro prezzo, passaggi per fuggire da situazioni di estremo pericolo.

I “boatos”

Le fake news le chiamano “boatos”. Sono informazioni errate, a volte create ad hoc, o passaparola che di bocca in bocca vengono ampliate o esagerate che diventano estremamente pericolose. Spesso causano danni imprevedibili e fughe di massa come in questo triste caso.

morti annegati Vibrio cholerae,
Vibrio cholerae, batterio responsabile del colera visto al microscopio

I 15 mila casi di colera

In Mozambico, da ottobre scorso, sono stati registrati circa 15.000 casi di colera e 32 decessi. La provincia di Nampula, con un terzo dei malati, è una delle aree più colpite.

Le reazioni della politica

“Questo momento dovrebbe essere riconosciuto dalle autorità come l’ennesimo segno di negligenza pubblica e di mancanza di sicurezza”.

Sono le parole di Ossufo Momade, leader della Renamo, secondo partito del Mozambico. Momade chiede che venga proclamato il lutto nazionale per la morte delle (finora, ndr) oltre un centinaio di persone nel naufragio.

Crediti immagini:
Vibrio cholerae, batterio responsabile del colera visto al microscopio
Copyrighted free use, Collegamento

Sandro Pintus
sandro.p@catpress.com

X (ex Twitter):
@sand_pin
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Rwanda 1994 e Gaza 2024: il seme del razzismo germoglia e cresce ancora

Dalla Nostra Inviata Speciale
Federica Iezzi
Larnaca (Cipro), 10 Aprile 2024

Durante il secolo scorso, il flagello dei genocidi è tornato come un’epidemia. Lo sterminio dimenticato dei Moriori, delle Isole Chatham, in Nuova Zelanda, ricorda che decine di popoli, nel corso della storia, sono stati metodicamente cancellati dalle carte geografiche.

Genocidio in Rwanda – Photo credit Médecins Sans Frontières

Si comincia con l’Impero Ottomano che giustiziò 1.200.000 armeni, secondo un piano ideato dalle autorità ed eseguito da migliaia di carnefici civili e militari. Questa natura sistematica lo rende un genocidio indiscutibile. Nel 1975, a Timor Est, 200.000 abitanti furono massacrati dalle forze armate indonesiane.

Nello stesso anno e fino al gennaio 1979, il regime dei Khmer rossi in Cambogia, in nome del fuoco del razzismo sociale, uccise circa due milioni di persone. Poi le orribili pulizie etniche nei Balcani. E il secolo si conclude con un crepuscolo sanguinoso, con la “stagione dei machete”, nel 1994, in Rwanda. Quasi un milione di persone uccise. Uccise mentre le grandi potenze guardavano altrove.

Si potrebbe per un momento pensare che con l’evoluzione della morale e il progresso del diritto, con l’essenza dell’habeas corpus, con la Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo, con le Convenzioni di Ginevra e i Protocolli Aggiuntivi, le pratiche di sterminio sarebbero cessate. E no. Non è successo.

E a Gaza oggi ritorna l’onda sterminatrice. Il conflitto tra Israele e Palestina è iniziato con una terribile ingiustizia, commessa in Palestina, per ripararne un’altra, nata nell’orrore dei campi nazisti.

Sono passati 30 anni dal genocidio in Rwanda. Il percorso di onde e frequenze di Radio Télévision Libre des Mille Collines è ancora vivo nella carne dei sopravvissuti. Come si disegna un genocidio? La radio ha avuto un potere unico, incomparabile e terrificante, perché è stata capace di penetrare, senza alcun controllo, nell’intimità profonda degli individui. 1000 colline, come la chiamavano, era una emittente “trendy”, che aveva fatto della sua libertà di tono con espressioni insidiose, un marchio di fabbrica, da diffondere.

Il linguaggio disumanizzante che fuoriesce da Israele e da alcuni dei suoi sostenitori esteri, non è nuovo. Già sentito in altri tempi e in altri luoghi, ha contribuito a creare un clima in cui hanno avuto vita crimini terribili.

Coloro che hanno guidato e portato avanti il genocidio rwandese, definivano l’omicidio come un atto di autodifesa – se non lo facciamo noi a loro, lo faranno loro a noi.
I tutsi furono degradati a “scarafaggi”. Leader politici, militari e religiosi israeliani hanno in tempi diversi descritto i palestinesi come un “cancro”, come “parassiti”, e hanno chiesto che fossero “annientati”. Generazioni di studenti israeliani sono stati imbevuti dell’idea che gli arabi siano degli intrusi e siano semplicemente tollerati grazie alla beneficenza di Israele.

In Rwanda non c’è stata alcuna mobilitazione per fermare e prevenire ciò che stava accadendo. Ci si è illusi che fosse stata lasciata l’opportunità di imparare dalle atrocità viste. Non è necessaria una laurea in Letterature e Culture Comparate per interpretare segnali e dichiarazioni, nei discorsi mediatici e politici in Israele, che richiamano un uso esplicito della retorica genocida.

Trent’anni dopo, Emmanuel Macron rompe un tabù riconoscendo che la Francia non ha fatto nulla per impedire il genocidio in Rwanda. François Mitterrand, ex presidente francese, all’epoca ha sostenuto consapevolmente il genocidio contro tutsi e hutu moderati e ha offerto rifugio sicuro agli esecutori. La spada di damocle del genocidio rwandese, sospesa sopra le teste dei banyarwanda nella Repubblica Democratica del Congo, sotto forma di minaccia, oggi è reale.

Quale lezione ha lasciato la storia? Dal processo di Norimberga del 1945 l’opinione pubblica reclama la punizione dei colpevoli. Ecco non sfuggire alla giustizia.

Federica Iezzi
federicaiezzi@hotmail.it
Twitter @federicaiezzi
©️ RIPRODUZIONE RISERVATA

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Alla Maratona di Milano il podio è tutto africano

Dal Nostro Corrispondente Sportivo
Costantino Muscau
Milano, 7 aprile 2024

Nel settembre del 2022 a Milano ci fu il primo appuntamento con Africa Day: una due giorni dedicata alla cultura e alla arte africane. Ci si dimenticò dello sport. Eppure dal 3 dicembre 2000 fino a oggi, domenica 7 aprile 2024, ogni anno, quasi senza interruzione, si celebra, nel capoluogo lombardo, un African Day memorabile: quello legato alla maratona.

Maratona di Milano 2024 con oltre 8000 iscritti

Anche oggi il grande evento agonistico ha visto un podio tutto africano, sia per gli uomini, sia per le donne.

Al termine dei 42,195 km maschili, il primo a tagliare il traguardo, all’ombra del DUOMO, è stato Titus Kimutai Kipkosgei, 25 anni, keniano, in 2h7’12”, che ha esibito un paio di vistosissime scarpette color arancione. Lo hanno seguito, distaccati, un altro keniano, Choge Raymond Kipchumba, 26, e l’ugandese Andrew Rotich Kwemoi, 23, vincitore della scorsa edizione – al suo debutto sulla distanza -, stavolta terzo in 2h07:52.

Titus Kimutai Kipkosgei, keniota, vincitore della Milan Marathon 2024

Al femminile ha trionfato l’Etiopia con Tigist Memuye Gebeyahu, 29 anni, in 2h26:32 che preceduto la keniana Sophy Jepchirchir, 30, (2h27:12) e l’altra etiope Fantu Shugi Gelasa (2h30:52), crollata dopo una eccellente partenza.

L’etiope Tigist Memuye Gebeyahu vince la gara femminile della Milano Marathon

Un doppio successo degli atleti africani ha quindi sancito una Milano Marathon baciata dal sole e dal caldo e da un numero record di partecipanti (8545 iscritti) partiti e arrivati sotto lo sguardo benevolo della Madonnina. Che ha assistito non solo a questo primato numerico, ma anche a un altro piccolo miracolo a Milano: per la prima volta ai vincitori Top runner sono stati versati un po’ di denari.

Nella città più ricca d’Italia, dove è stato venduto un palazzo a un miliardo e 300 milioni, lo scorso anno al vincitore della maratona era stata data una cifra simbolica, 750 euro. Un miserabile mancia per un evento che mira a essere iconico e aspira a entrare tra le corse internazionali più importanti. Quest’anno ai vincitori sono stati assegnati 13 mila euro, 6500 ai secondi e 3 mila ai terzi. Somme comunque abbastanza ridicole, se si guarda il numero degli sponsor milanesi e si guarda a quelle che offrono Londra, Boston….

Con premi “piccoli”, i grandi runner latitano. Eppure l’albo d’oro dei dominatori della maratona meneghina è ricco di campioni. A cominciare dal primo trionfatore, nel 2000, Simon Biwott, oggi 54 anni, a Robert Kipkoech Cheruiyot, oggi 45 anni, vincitore a Milano nel 2002 e passato alla storia dell’atletica perché è stato primo al traguardo di Boston (dove si corre domenica prossima) per ben quattro volte!

I keniani, comunque, a Milano meriterebbero l’Ambrogino d’oro: dal 2000 hanno stracciato tutti quasi sempre: la loro catena di successi è stata interrotta solo dal portoghese Helder Ornelas, nel 2005, da due etiopi, Gemechu Birau (2013) e Abidkwar Tura Seifu (2018) e dall’ugandese Andrew Kwemoi nel 2023.

Nell’Africa Day di Milano, non è mancata una nota drammatica Giulio Gallera, 54 anni, ex assessore lombardo al Welfare ed ora consigliere regionale di Forza Italia, ha avuto un collasso al km 41, praticamente a 600 metri dal traguardo, e non è riuscita a concludere la gara. Prontamente soccorso da un assistente, è stato trasportato in ospedale. E dimesso più tardi.

Costantino Muscau
muskost@gmail.com
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Anche alla maratona di Milano dilagano i corridori neri

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“Dov’è papà”, un software di intelligenza artificiale con cui Israele ha sterminato intere famiglie

 

Dalla Nostra Inviata Speciale
Federica Iezzi
Larnaca (Cipro), 6 aprile 2024

Secondo le dichiarazioni di sei ufficiali dell’intelligence israeliana, raccolte in un’esplosiva inchiesta dei canali di informazione di Tel Aviv +972 Magazine e Local Call (Sikha Mekomit, in ebraico), pubblicati da Just Vision, l’esercito israeliano sta utilizzando un programma avanzato di intelligenza artificiale, per guidare gli spietati bombardamenti sulla Striscia di Gaza. Si chiama Lavender.

Striscia di Gaza – Photo credit BBC

Arrivata l’immediata smentita da parte del portavoce militare israeliano, tenente colonnello riservista Peter Lerner, scandendo che le Forze di Difesa Israeliane non hanno designato target umani con un algoritmo di intelligenza artificiale, che viene invece impiegata solo come strumento ausiliario.

“Dov’è papà” è uno dei software di Lavender, sviluppato dall’oscura Unità 8200 – unità militare, delle forze armate israeliane, incaricata dello spionaggio di segnali elettromagnetici ed i elettronici e decrittazione di informazioni e codici cifrati.

“Dov’è papà” ha risolto il collo di bottiglia umano sia per l’individuazione di nuovi obiettivi, sia per il processo decisionale militare che porta a approvazione e successivo abbattimento. La crudeltà del nome spiega esattamente cosa le Forze di Difesa Israeliane intendano per “obiettivi”.

Gaza, bimba sul suo monopatino corre tra le macerie

Formalmente, il sistema Lavender è stato progettato per contrassegnare tutti i sospetti elementi dell’ala militare di Hamas e della Jihad Islamica Palestinese – compresi quelli di basso rango – come potenziali obiettivi di bombardamento. L’esercito israeliano si è affidato quasi completamente a Lavender, che ha individuato fino a 37.000 palestinesi come sospetti militanti. E con essi le loro case. E le loro famiglie.

E’ noto che spesso il sistema contrassegna individui che hanno semplicemente un legame debole con gruppi militanti, o nessun legame. Quanto vicina deve essere una persona ad Hamas per essere considerata, da un freddo, spietato, sterile algoritmo, affiliata all’organizzazione?

Soprattutto durante le prime fasi della guerra, l’élite dell’esercito israeliano diede ampia approvazione agli ufficiali affinché adottassero le liste di uccisione di Lavender, senza alcun obbligo di esaminare e verificare i dati grezzi di intelligence su cui si basavano.

Venivano dedicati solo 20 secondi a ciascun obiettivo prima di puntare il mirino e autorizzare un bombardamento. Per l’uccisione di ogni militante di basso rango era consentito considerare come danno collaterale l’uccisione di 15-20 civili. Nel caso in cui l’obiettivo fosse un alto funzionario di Hamas, con il grado di comandante di battaglione o di brigata, ecco che veniva autorizzata l’uccisione di più di 100 civili. In questo orrore, si rientrava nella definizione di “danni collaterali”.

E’ altrettanto noto che l’esercito israeliano ha preso di mira sistematicamente i presunti militanti mentre si trovavano nelle proprie case – con le proprie famiglie – piuttosto che nel corso di un’attività militare. Agghiacciante è scoprire che spesso l’obiettivo individuale, il soldato del gradino più basso della gerarchia militare, non si trovava nemmeno all’interno della casa colpita, visto che gli ufficiali militari israeliani non verificavano l’informazione in tempo reale. Nel frattempo però lo sterminio della famiglia era compiuto. L’abbattimento dell’edificio, solo per causare distruzione, era compiuto.

Striscia di Gaza – Photo credit The New Yorker

E proprio “Dov’è papà” localizza il presunto militante al rientro a casa dalla sua famiglia, dai suoi figli. Alla distruzione poi ci pensa l’assetto degli armamenti ricevuti da Israele dall’Occidente. In testa Stati Uniti, a seguire Germania e Italia, secondo i dati più recenti pubblicati dallo Stockholm International Peace Research Institute.

Cosa ci si attende da un attacco simile? Ci si attende che provochi morti e feriti fra la popolazione civile, danni ai beni di carattere civile che risultano eccessivi rispetto al vantaggio militare concreto.

Per chiudere il cerchio, si aggiunge l’utilizzo di missili non guidati, invece di bombe di precisione assistite da GPS, capaci di massacrare interi edifici senza alcuna distinzione, né proporzionalità. Ecco, siamo di fronte all’intenzionale derisione del Diritto Internazionale Umanitario.

Le Forze di Difesa Israeliane non sono affatto interessate a demolire l’ala militare di Hamas all’interno di strutture militari o mentre impegnata in un’attività militare. Al contrario, sono interessate a sterminare, senza esitazione, l’intera famiglia di ciascun membro, come prima opzione. Nessun codice morale di condotta. L’intelligenza artificiale di Lavender è stata la scappatoia giusta.

Federica Iezzi
federicaiezzi@hotmail.it
Twitter @federicaiezzi
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Sudafrica, stop ad allevamenti di leoni e rinoceronti in cattività. Allevatori sul piede di guerra

Speciale per Africa ExPress
Sandro Pintus
4 aprile 2024

Il Consiglio dei ministri sudafricano ha detto basta agli allevamenti di leoni e rinoceronti. La settimana scorsa ha approvato la proposta presentata dal ministro dell’Ambiente, Barbara Creecy: chiusura delle strutture per l’allevamento di leoni.

Evidentemente le proteste dell’opinione pubblica interna e internazionale contro gli allevamenti di leoni del Sudafrica hanno avuto effetto. Il governo sudafricano ha deciso di chiudere la lucrosa industria che vende in pezzi il grande felino africano.

Leoni in cattività
Leoni in cattività

No alla caccia al leone in scatola

Vieta anche la caccia al leone in scatola (canned lion hunting) che qualcuno chiama “sport”. Pagando migliaia di dollari era possibile – dopo averlo drogato – “liberare” un leone dentro un recinto senza vie di fuga e fare tiro al bersaglio per portarsi a casa il trofeo.

Gli allevatori di leoni, però non ci stanno: minacciano azioni legali per la chiusura dell’industria. La South African Predator Association (Sapa) si prepara a una prova di forza legale contro le decisioni del governo.

Il presidente della Sapa, Hannes Wessels, non accetta che il governo rifiuti agli allevatori la possibilità di avere una quota di ossa di leone da poter vendere. È infatti una merce preziosissima per i mercati dell’estremo oriente che, polverizzata, è utilizzata per il Tiger-wine, un vino “ricostituente” venduto a 170 euro a bottiglia. Ha quindi messo la questione in mano agli avvocati.

“I miei leoni non si toccano”

Wessels, al quotidiano sudafricano Daily Maverick ha dichiarato, riferendosi al governo: “Sono un allevatore di leoni. Nessuno prende i miei leoni”. Per dare maggiore enfasi alla sua affermazione lo ha detto nella sua lingua, l’afrikaans (“Ek is ‘n leeuboer. Niemand vat my leeus nie”).

Non solo leoni

Un rapporto del ministero dell’Ambiente ha contato 7.838 leoni, 626 tigri e almeno 2.315 altri carnivori in cattività, tra cui ghepardi e serval. Il gruppo di lavoro ministeriale, operativo dal dicembre 2022, ha trovato tra le sbarre anche elefanti e rinoceronti.

Il trattamento riservato al “re della foresta”, ormai ex “sovrano” spodestato dalla dittatura degli allevamenti, ha scandalizzato il mondo occidentale ma non quello asiatico.

Il mercato asiatico

Il mercato del leone in pezzi è un business miliardario nell’estremo oriente e nel Sudest asiatico. I maggiori importatori sono Cina, Vietnam, Laos, Myanmar e Thailandia.

Del leone, come del maiale, nulla va sprecato. L’utilizzo delle parti del grande felino – che ha preso il posto della tigre ormai introvabile – è fondamentale nella medicina tradizionale cinese.

leone in un allevamento
Leone in un allevamento

Chiusura degli allevamenti

Nella conferenza stampa del 3 aprile la ministra Creecy ha indicato la chiusura degli allevamenti in due fasi. La prima prevede il coinvolgimento degli allevatori all’uscita volontaria per studiare insieme a loro i percorsi e le condizioni di chiusura degli allevamenti. La seconda programma l’acquisizione e incenerimento delle scorte di ossa di leone. Questo pare sia il materiale che gli allevatori vorrebbero tenete e poter vendere nei mercati orientali.

Ma è un iter lungo e complesso. Le condizioni sono che, prima che l’iter sia completato, i leoni vengano sterilizzati e che vengano rispettati i principi dell’uscita volontaria. Per salvaguardare i benefici della chiusura volontaria delle aziende durante questo lungo itinerario è vietato incrementare il numero di animali.

Impossibile inserirli nella savana

Dove andranno a finire i 7.838 leoni degli allevamenti? Sicuramente non potranno tornare in natura per il fatto che sono nati e cresciuti in cattività e soprattutto a causa della consanguineità genetica. I leoni sono animali sociali a cui un branco insegna a cacciare e a sopravvivere in sistemi aperti ragione per cui diventa difficile che sopravvivano. Inoltre molti sono in cattive condizioni di salute.

Il governo sudafricano sta valutando la possibilità di contattare i proprietari di leoni. Pagherebbe loro la consegna, l’eutanasia o la sterilizzazione dei 7.838 leoni di loro proprietà. Intende poi acquistare e bruciare i 3.163 scheletri ma potrebbe anche negoziare per lasciarne l’uso agli allevatori.

Inoltre, l’esportazione di animali africani selvatici viene permessa solo in habitat dei Paesi del continente africano.

Si prevede una lunga battaglia a suon di denunce e ricorsi. Un business che in due decenni ha soddisfatto i mercati dell’estremo oriente ma che è diventato controproducente per il turismo sudafricano.

Un rapporto scientifico del 2018 aveva rivelato che, in una decade, l’allevamento dei grandi felini in cattività avrebbe danneggiato il turismo per un valore di 3,6 miliardi di dollari.

Sandro Pintus
sandro.p@catpress.com

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La CIA avvisa gli alleati: “Entro 48 ore l’Iran attaccherà Israele”

 

Dalla Nostra Inviata Speciale
Federica Iezzi
Larnaca (Cipro), 4 aprile 2024

Diventa di giorno in giorno più reale e preoccupante l’estensione di una guerra nella regione mediorientale. Israele appare impegnato con l’Iran in uno scontro ormai aperto, in una guerra all’interno della Striscia di Gaza e in un’escalation significativa in Libano.

Maxar Technologies – Ambasciata e consolato iraniani a Damasco, in Siria, dopo l’attacco israeliano dello scorso 1 aprile

Il recente attacco lanciato da un F-35 israeliano sull’ambasciata iraniana a Damasco ha spalancato il capitolo.

Il bombardamento ha provocato la morte di sette membri del Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica (IRGC – Islamic Revolutionary Guard Corps), tra cui il comandante della forza Quds d’élite – unità specializzata nell’intelligence militare all’estero – in Siria e Libano, il generale di brigata Mohammad Reza Zahedi, e il suo secondo uomo, il generale Mohammed Hadi Haj Rahimi, basilari figure di collegamento tra Iran e miliziani di Hezbollah.

Non tarda ad arrivare la risposta iraniana, per voce dell’intelligence americana. La CIA ha diffuso agli alleati occidentali e a Israele un avviso molto chiara: entro 48 ore l’Iran potrebbe lanciare un’operazione militare contro Israele.

Intanto, già a inizio settimana, l’esercito di occupazione israeliano ha annunciato la mobilitazione di riservisti per rafforzare le formazioni di difesa aerea, a causa dell’accresciuto stato di allerta e come parte di una strategia di maggiore prontezza di risposta ad eventuali attacchi.

“Con l’aiuto di Dio, faremo in modo che i sionisti si pentano del loro crimine di aggressione contro il consolato iraniano a Damasco”, queste le parole, ben scandite in ebraico, indirizzate a Tel Aviv, dell’Imam Sayyid Ali Khamenei, leader supremo dell’Iran.

 

Quello sull’ambasciata iraniana in Siria, non è il primo attacco israeliano contro l’Iran. A fine dicembre, l’esercito israeliano aveva ucciso il generale dell’IRGC, figura chiave e consigliere esperto, Sayyed Razi Mousavi, nel quartiere di Sayyida Zeinab, a sud di Damasco.

Israele concentra da anni la sua attenzione militare su obiettivi iraniani in Siria e Libano, come parte della sua strategia di “campagna tra le guerre” (MABAM – m’aracha bein ha-milchamot, nell’acronimo ebraico), per deprimere e distruggere le minacce emergenti alla sua sicurezza. L’autodifesa preventiva israeliana ha indotto Teheran a sviluppare una deterrenza offensiva per scoraggiare Gerusalemme dal colpire per prima.

Il portavoce delle Forze di Difesa Israeliane, il contrammiraglio Daniel Hagari, ha giustificato l’attacco sostenendo che l’obiettivo non era un’ambasciata, ma una sede militare delle forze Quds. Una ritorsione sotto forma di un attacco iraniano diretto a Israele è improbabile in quanto potrebbe trascinare gli Stati Uniti in una guerra regionale.

Quali sono dunque le opzioni dell’Iran?

E’ probabile che l’Iran utilizzi le sue forze per procura, insieme agli sforzi diplomatici, per isolare Israele. In questo momento di condanna internazionale per la condotta di Israele sulla Striscia di Gaza, Teheran alimenterà i timori internazionali di una guerra regionale più ampia e isolerà ulteriormente il Paese.

Il consolato iraniano a Damasco colpito dall’attacco israeliano (Afp)

L’asse della resistenza guidato dalla rete di milizie filo-iraniane nella regione può essere attivato. È improbabile che reagiscano con attacchi massicci ma piuttosto con una cascata di risposte.

Per contro, la mancanza di un’azione militare diretta crea il rischio di uno smantellamento dell’asse della resistenza, da parte di Israele, con il sostegno diretto e persino con la partecipazione della prossima amministrazione statunitense. Un simile cambiamento potrebbe avere un serio impatto sulle capacità dell’Iran nella regione.

Federica Iezzi
federicaiezzi@hotmail.it
Twitter @federicaiezzi
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Corte costituzionale ugandese respinge la richiesta di annullare la più repressiva legge al mondo contro l’omosessualità

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
4 marzo 2023

La Corte costituzionale ugandese ha respinto la richiesta di annullare o di sospendere la draconiana legge anti LGBTQ (acronimo per persone lesbiche, gay, bisessuali, transgender, queer), considerata una delle più repressive al mondo.

Corte costituzionale ugandese

Battezzata “legge anti-omosessualità 2023”, prevede pene durissime per le persone che hanno rapporti omosessuali e “promuovono” l’omosessualità. Il reato di “omosessualità aggravata” prevede la pena di morte, sentenza che in Uganda non viene però applicata da anni.

La legge è stata approvata nel marzo 2023, poi ripresentata all’inizio di maggio dopo la richiesta del presidente Yoweri Museveni di attenuare alcune parti della prima stesura. Infine è stato praticamente adottato il testo originale senza cambiamenti sensibili. Il capo di Stato a poi promulgato l’atto a fine maggio, fatto che ha scatenato l’indignazione dei Paesi occidentali, delle istituzioni internazionali (ONU, Banca Mondiale) e delle ONG, che ne hanno chiesto l’abrogazione. Gli Stati Uniti hanno imposto anche sanzioni contro il Paese.

In seguito, alcuni attivisti per la protezione dei diritti umani, due professori di diritto dell’università di Makerere, a Kampala, e due parlamentari del partito al potere, National Resistance Movement (NRM), hanno proposto un ricorso alla Corte costituzionale per l’abrogazione della legge anti- omosessualità 2023.

I magistrati della Corte suprema hanno respinto il ricorso. “Ci rifiutiamo di annullare la legge anti-omosessualità 2023 nel suo insieme, né concediamo quindi la sospensione della sua applicazione”, ha dichiarato il giudice Richard Buteera, leggendo la sentenza a nome dei suoi quattro colleghi.

I giudici hanno tuttavia stralciato alcune disposizioni ritenute incompatibili con le convenzioni internazionali, come la punizione dell’omessa denuncia di atti omosessuali.

La nuova legge è ampiamente sostenuta in Uganda, un Paese a maggioranza cristiana conservatrice. E Anita Among, presidente del Parlamento ha definito la sentenza di ieri un “grande successo, che dimostra che tutti i rami del governo – Parlamento, esecutivo e giudiziario –  hanno un obiettivo comune: proteggere l’Uganda da qualsiasi influenza straniera negativa”.

Le severe leggi contro gli omosessuali ancora in vigore in molti Paesi africani, risalgono all’era coloniale. Dai rapporti dei primi missionari approdati in Africa, si apprende che le popolazioni locali erano dedite ad attività sessuali del tutto libere e spregiudicate. Usi e costumi che avevano imbarazzato fortemente il perbenismo europeo.

E proprio con l’ingresso delle religioni cristiane, insieme all’esasperato bigottismo vittoriano, che in Africa che nacque una profonda repulsione per l’omosessualità.

L’Uganda, come molti Paesi africani, ha ereditato dalla potenza coloniale che la governava, il Regno Unito, parecchie norme tra cui quella che punisce l’omosessualità, anche tra persone adulte e consenzienti, come un qualunque reato.

Ancora oggi lo scottante argomento divide la Chiesa anglicana e quella ugandese ha interrotto da anni i rapporti con le consorelle americana e canadese, perché avrebbero violato il patto stipulato durante la conferenza di Lambeth nel 1998, secondo cui: “La Chiesa non può benedire o legittimare unioni di persone dello stesso sesso”.

Intanto però la sentenza emessa dalla Corte Costituzionale è stata fortemente criticata da parte delle Organizzazioni per i diritti umani e anche l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, Volker Türk, ha nuovamente invitato il governo ugandese ad “abrogare in toto” tale legge, che l’anno scorso aveva definito “probabilmente la peggiore del suo genere nel mondo intero”.

E in un messaggio su X (ex Twitter), anche David Cameron, segretario di Stato del Regno Unito per gli Esteri, ha espresso il suo rammarico.

Cornelia I. Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
X: @cotoelgyes

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Dossier Gaza/4a – Israele finanzia la guerra con le miniere del Congo in mano a un sionista, protetto da Netanyahu

Africa ExPress
Kinshasa, aprile 2024

Le ricchezze del sottosuolo della Repubblica Democratica del Congo attraggono molti investitori, pronti a sfruttare le risorse, devastare le bellezze naturali e lasciare nella miseria gran parte della popolazione.

Dan Gertler, multimiliardario israeliano

Uno dei tanti avidi magnati pronti a tutto, è il controverso uomo d’affari israeliano nel settore delle risorse naturali, Dan Gertler, oggi 51enne, apparso nel mercato congolese per la prima volta nel 1997.

Ancora oggi il miliardario è al centro dell’attenzione per le sue molteplici attività poco trasparenti. Nel 2017 l’uomo d’affari israeliano e le sue società vengono sanzionate dal dipartimento del Tesoro americano per corruzione ad alto livello nel Congo-K, in base  al Magnitsky Act (prende il nome dal legale russo anticorruzione Sergei Magnitsky) approvato del Congresso nel 2012.

La norma prevede sanzioni individuali consistenti, in particolare, il congelamento dei beni e il rifiuto del rilascio del visto d’entrata negli Stati Uniti. Nel 2016 la legge viene ampliata con il Global Magnitsky Human Rights Accountability Act, che permette al Governo degli Stati Uniti di sanzionare individui responsabili di gravi violazioni dei diritti umani e atti di corruzione ovunque commessi. Secondo i documenti del Tesoro USA, “si stima che la RDC abbia perso più di 1,36 miliardi di dollari” a causa degli “affari opachi e corrotti” di Gertler.

Ma nel gennaio 2021, durante l’ultima settimana dell’amministrazione Trump, le sanzioni contro il magnate minerario israeliano imposte per presunta corruzione, vengono alleggerite.

All’inizio di marzo dello stesso anno, il Tesoro, sotto il governo Biden, dietro richiesta di diverse organizzazioni (congolesi e internazionali) per la difesa dei diritti umani, annulla l’attenuazione delle sanzioni con la seguente dichiarazione: “L’abrogazione del provvedimento nei confronti di Gertler era incoerente con i forti interessi di politica estera americana nella lotta contro la corruzione nel mondo”, in particolare nella Repubblica Democratica del Congo.

Secondo quanto riportato da Martin Plaut, giornalista ex della BBC, in un suo articolo del 2022, Gertler sarebbe stato aiutato da alcuni degli uomini più potenti del governo di Israele, guidato da Binyamin Netanyahu (2009-2021). La notizia, diffusa da emittenti pubbliche israeliane, nonché dal quotidiano Haaretz, racconta che Yossi Cohen, allora direttore del Mossad, l’agenzia israeliana di spionaggio estero, si è recato tre volte in Congo nel 2019 per intercedere a favore di Gertler presso il presidente Joseph Kabila e il suo successore, Felix Tshisekedi. Gertler ha negato strenuamente di aver commesso qualsiasi illecito, sottolineando di non essere mai stato accusato in nessun tribunale del mondo.

Per capire come Gertler sia riuscito nei suoi intenti, bisogna ritornare indietro nel tempo. Amico di vecchia data dell’ex presidente Joseph Kabila, Gertler è stato più volte accusato di usare i suoi legami per ottenere concessioni minerarie. Gertler, che lo chiama “mon frère” (mio fratello, ndr) è stato uno dei pochi stranieri ad essere invitato al suo matrimonio nel 2009.

Dan Gertler al matrimonio di Jospeh Kabila, ex presidente del Congo-K

Allora, con la Fleurette Group, la sua holding d’investimento in RDC, Gertler controllava diverse concessioni minerarie nel Paese africano e la rivista Forbes lo aveva definito come “Il volto emergente del capitalismo irresponsabile in Africa”.

Nel 1997, la Repubblica Democratica del Congo (all’epoca si chiamava Zaire) era governata  dall’ex dittaore Mobutu Sese Seko, poi cacciato dal leader ribelle, Laurent Désiré Kabila, padre di Joseph. Ma per mettere in atto l’assalto alla capitale Kinshasa, Kabila aveva bisogno di soldi. Di molti soldi. E il giovane Gertler, nipote di Moshe Schnitzer, primo presidente e cofondatore della Borsa dei Diamanti di Israele, riesce a fornirgli 20 milioni di dollari. Una volta salito al potere, il giovane uomo d’affari israeliano sfrutta le sue relazioni con il neo presidente, ottenendo da lui diritti di estrazione mineraria a prezzi preferenziali. In cambio Gertler si impegna a garantire sostegno da parte dei Paesi occidentali al regime di Kabila.

Sito minerario in Congo-K

Dopo l’assassinio di Laurent Désiré Kabila nel 2001, sale al potere il figlio Joseph. E ancora una volta Gertler approfitta dell’inesperienza in campo politico del nuovo leader, allora appena trentenne, per consolidare i propri interessi. Durante il lungo periodo della presidenza di Kabila, Gertler ottiene importanti e sospetti contratti per l’esportazione di diamanti, oro, petrolio, cobalto e altri metalli preziosi.

Africa ExPress
(1 -continua)
X: @africexp
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Dossier Gaza/1 – La guerra si combatte tra tanta propaganda e poca informazione

Dossier Gaza/2 – La montatura mediatica degli stupri di Hamas nei kibutz ha giustificato 30 mila morti

La Striscia è preclusa ai media internazionali per ragioni di sicurezza. Da ottobre è entrata clandestinamente solo per alcune ore, una giornalista della CNN. Altri reporter sono entrati embedded, cioè al seguito e scortati dalle truppe israeliane.

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Dossier Gaza/3a – “Tra incudine e martello”: la storia del racconto del New York Times sugli stupri di massa

Dossier Gaza/3b – “Tra incudine e martello”. Le news inaccurate nell’articolo del NYT sugli stupri di massa

Dossier Gaza/3c – “Tra incudine e martello”. Le notizie smentite dell’articolo del NYT sugli stupri di massa

Dossier Gaza/3d – “Tra incudine e martello”. Incongruenze e contraddizioni di testimone citato dal New York Times

Dossier Gaza/3e – “Tra incudine e martello”. Le pressioni israeliane sugli autori dell’articolo del New York Times