21.7 C
Nairobi
mercoledì, Gennaio 8, 2025

Cecilia Sala va liberata subito lo dicono anche i soloni che volevano tenere Julian Assange in galera

Speciale per Africa ExPress Fabrizio Casinelli* 8 gennaio 2025 L’arresto...

Terremoto in Etiopia: Natale ortodosso magro per migliaia di sfollati

Africa ExPress 5 gennaio 2025 Migliaia di residenti sono...
Home Blog Page 27

L’ONU denuncia: “Civili massacrati nella Repubblica Centrafricana”

Speciale per Africa-ExPress
Cornelia I. Toelgyes
20 aprile 2024

Nella travagliata Repubblica Centrafricana si continua a morire, spesso per il solo fatto di essere nel posto sbagliato al momento sbagliato. La Missione delle Nazioni Unite in Centrafrica (Minusca) ha denunciato mercoledì scorso che nel giro di soli 12 giorni sono state brutalmente ammazzati 30 civili.

Mercenari russi in Centrafrica

La guerra civile è iniziata nel 2013, ma la sua intensità è notevolmente diminuita dopo il 2018, e si è trasformata gradualmente in scontri sparsi e sporadici. Da un lato sono sempre attivi movimenti armati ribelli e dall’altro, l’esercito, insieme ai russi del Gruppo Wagner e alcune milizie di autodifesa che fungono da ausiliari.

MINUSCA, istituita nel 2014 e attualmente presente nel Paese con 14mila uomini, in un comunicato ha condannato fermamente le uccisioni dei civili morti in diversi attacchi, avvenuti tra il 2 e il 14 aprile 2024, in diverse zone del Paese.

All’inizio del mese il quotidiano online centrafricano CNC (Corbeau News Centrafique) aveva denunciato l’assalto e il saccheggio ad un centro di Medici Senza Frontiere (MSF) a Bowaye (nord-ovest della ex colonia francese). Un gruppo di mercenari si trovava in quella zona per catturare un ex deputato di Nana Bakassa, Floran Kema, oggi leader di un nuovo gruppo armato, Front de défense de la liberté (Fronte di Difesa della Libertà). Durante gli scontri tra il gruppo ribelle e i mercenari, un russo è morto, mentre un altro è rimasto gravemente ferito, ma, secondo CNC, sarebbe riuscito a scappare per cercare rinforzi. A tutta risposta, accecati dalla rabbia per la sconfitta subita, sono arrivati altri contractor, in sella a cinque moto e hanno incendiato e vandalizzato parecchie case di Bowaye. La popolazione, disperata, è scappata, nascondendosi nella boscaglia.

MSF ha denunciato il saccheggio del centro solo in questi giorni, sottolineando di non conoscere gli autori del vile gesto e chiedendo a tutte le parti in causa di proteggere i centri sanitari, in quanto non dovrebbero mai essere obiettivo di assalti.

La cooperazione tra Mosca e Bangui inizia alla fine del 2017, con la visita di Faustin Archange Touadéra  in Russia, dove aveva incontrato il ministro degli esteri di Putin, Sergueï Lavrov. Da allora i due governi hanno iniziato una stretta collaborazione: Mosca gode di licenze per lo sfruttamento minerario, in cambio mette a disposizione equipaggiamento industriale, materiale per l’agricoltura, mercenari e altro.

Intanto i russi si sono opposti contro l’arrivo dei loro colleghi americani della la società statunitense, Bancroft Global Development, presente anche in Somalia. Le autorità centrafricane avevano preso contatti con la società alla fine dello scorso anno. I paramilitari di Washington dovrebbero addestrare le truppe centrafricane. Al momento tutto tace. Non è chiaro se e quando dovrebbero prendere servizio a Bangui gli uomini di Bancroft.

Manifestazione a Bangui contro Bancroft organizzata dai mercenari Wagner

Sta di fatto che l’eventuale arrivo degli americani ha scatenato la rabbia dei russi, che hanno organizzato manifestazioni e marce sia nella capitale sia a Ndélé, nel Bamingui-Bangoran (parte centrosettentrionale del Paese) contro la società Bancroft.

Recentemente le autorità centrafricane hanno sottoscritto anche accordi con la Serbia. Alla fine di marzo il presidente, Faustin-Archange Touadéra, si è recato in Serbia per una visita di Stato, dove ha incontrato il suo omologo, Aleksandar Vucic, per rafforzare i rapporti bilaterali. In tale occasione sono stati siglati accordi in vari settori (Difesa, estrazione mineraria e quant’altro).

Mentre mercoledì scorso Touadéra è stato ricevuto da Emmanuel Macron a Parigi. Si tratta della seconda visita in sei mesi. Le relazioni dei due governi si erano ridotte ai minimi termini dopo l’avvicinamento di Bangui a Mosca. Ora i due capi di Stato stanno cercando di ricucire i rapporti.

A seguito dell’ incontro del 13 settembre 2023, la Francia e la Repubblica Centrafricana hanno adottato una “tabella di marcia” per stabilire un “partenariato costruttivo” tra i due Paesi.

Centrafrica: Il barcone poco prima del naufragio

Comunque in Centrafrica continua la disperazione della gente. Ieri un gravissimo incidente sul fiume M’poko, a sud-est della capitale, ha provocato la morte di oltre 60 persone. Secondo una prima ricostruzione dei fatti, un natante si è letteralmente spaccato in due poche dopo aver levato l’ancora. La barca, lunga 20 metri e larga 3, trasportava oltre 300 persone, tra queste molte donne e bambini. Un carico eccesivo sarebbe all’origine del naufragio, che si è consumato in una zona dove le acque del fiume sono molto profonde. Oltre ai morti già accertati, molti altri risultano ancora dispersi, decine e decine i feriti. In assenza di mezzi di salvataggio moderni, i naufraghi sono stati soccorsi da semplice piroghe.

Cornelia I. Toelgyes      
corneliacit@hotmail.it
X: @cotoelgyes
©RIPRODUZIONE RISERVATA

“The Intercept” denuncia il decalogo del “New York Times” da usare per Israele e Gaza

Da La Voce di New York
Eric Salerno
19 aprile 2024

Sempre più spesso, nel bene e nel male, i fatti di oggi riportano alla memoria episodi in qualche modo simili del passato. “All the News That’s Fit to Print”: sette parole in inglese, probabilmente le più famose del giornalismo, le vedevo tutti i giorni sulla prima pagina, in alto accanto alla testata, sulla copia del New York Times che mio padre portava a casa nel Bronx quando tornava dopo un’intensa giornata di lavoro a Manhattan.

Dal febbraio 1897, il motto non si è più mosso dalla prima pagina del quotidiano e da anni, come scrisse qualche anno fa un docente universitario americano, “è ammirato come una dichiarazione di intenti senza tempo, è stato interpretato come un ‘grido di guerra’ per l’onestà del giornalismo e preso in giro come pretenzioso, esagerato e incredibilmente vago.”

Giubbotto Press a Gaza
Credit: ANSA

Crescendo e imboccando il mestiere del giornalista cercavo di adeguare il mio comportamento alle interpretazioni positive di quelle sette parole anche mentre vedevo sempre di più che spesso, troppo spesso, le nostre interpretazioni dei fatti non corrispondevano necessariamente alla realtà.

E, soprattutto, il giornale newyorkese, come la maggioranza dei quotidiani del mondo, non sempre si interessava dei fatti che valeva la pena raccontare e non sempre quelli che raccontava valeva la pena leggere.

Il bambino-ragazzo innamorato di un mestiere era cresciuto. Ed erano cresciuti anche i termini, gli aggettivi, le parole usate per descrivere fatti e persone. Come quando – piccola cosa forse – il mio primo direttore mi criticò quando scrisse la storia di un “vecchio ammazzato e trovato per strada”. “Non si dice vecchio – disse – la parola giusta e che non offende nessuno è: anziano”.

Molti giornali hanno a disposizione dei redattori un dizionario-decalogo con le parole da usare e quelle bandite perché scorrette o disturbanti. L’altro giorno, un noto gruppo di lavoro statunitense formato da giornalisti indipendenti, The Interceptha denunciato una specie di decalogo interno del NY Times che impone ai suoi dipendenti di usare alcune parole e altre no, di raccontare alcune verità e altre no.

Il motto di The Intercept è forse presuntuoso ma chiaro: “Indaghiamo su individui e istituzioni potenti per esporre la corruzione e l’ingiustizia. Vediamo il giornalismo come uno strumento di azione civica. Siamo qui per cambiare il mondo, non solo per descriverlo”.

 

Vale la pena leggere alcuni passaggi della loro denuncia: “Il New York Times ha incaricato i giornalisti che coprono la guerra di Israele sulla Striscia di Gaza di limitare l’uso dei termini genocidio e pulizia etnica e di evitare di usare la frase territorio occupato quando si descrive la terra palestinese. […] Il memorandum istruisce anche i giornalisti a non usare la parola Palestina tranne in casi molto rari e a evitare la formula campi profughi per descrivere le aree di Gaza storicamente abitate da palestinesi sfollati espulsi da altre parti della Palestina durante le precedenti guerre israelo-arabe. […]

“Mentre il documento è presentato come uno schema per mantenere principi giornalistici obiettivi nel riferire sulla guerra di Gaza, diversi membri dello staff del Times hanno detto a The Intercept che alcuni dei suoi contenuti mostrano prove della deferenza del giornale per le narrazioni israeliane. […] Distribuita per la prima volta ai giornalisti del Times a novembre, la guida – che ha raccolto e ampliato le direttive del passato sul conflitto israelo-palestinese – è stata regolarmente aggiornata nei mesi successivi […]”.

“Fornire indicazioni come questa per garantire accuratezza, coerenza e sfumature nel modo in cui copriamo le notizie è una pratica standard”, ha detto Charlie Stadtlander, un portavoce del Times. “Vogliamo garantire che le nostre scelte linguistiche siano sensibili, attuali e chiare per il nostro pubblico”.

A gennaio, The Intercept ha pubblicato un’analisi della copertura del New York Times, del Washington Post e del Los Angeles Times della guerra dal 7 ottobre al 24 novembre, prima che fosse pubblicata la nuova guida. “L’analisi ha mostrato che i giornali riservavano termini come massacro orribile quasi esclusivamente per i civili israeliani uccisi dai palestinesi, non per i civili palestinesi uccisi negli attacchi israeliani. La parola macello – ricorda Intercept – era stato usato 22 volte per raccontare quello che era stato compiuto da Hamas, ma solo una volta per descrivere i 15 mila palestinesi uccisi fino ad allora negli attacchi israeliani”.

“Nei casi di descrizione del territorio occupato e dello status dei rifugiati a Gaza – insiste Intercept, – le linee guida del Times sono in contrasto con le norme stabilite dalle Nazioni Unite e dal diritto internazionale umanitario. Sul termine Palestina – un nome ampiamente usato sia per il territorio che per lo Stato riconosciuto dalle Nazioni Unite – la nota del Times contiene istruzioni: “Non usare in date, testo o titoli, tranne in casi molto rari come quando l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha elevato la Palestina a uno Stato osservatore non membro o riferimenti alla Palestina storica”.

Linee guide chiaramente in linea con la politica e, direi, l’ideologia di Benjamin Netanyahu e della maggioranza dei ministri che fanno parte della coalizione di governo.

Eric Salerno
eric2sal@yahoo.com
X: @africexp

Vuoi contattare Africa ExPress? Manda un messaggio WhatsApp con il tuo nome e la tua regione (o Paese) di residenza al numero +39 345 211 73 43 e ti richiameremo. Specifica se vuoi essere iscritto alla Mailing List di Africa Express per ricevere gratuitamente via whatsapp

Le organizzazioni umanitarie si schierano contro la vendita di armi a Israele

 

Speciale per Africa ExPress
Federica Iezzi
18 Aprile 2024

Più di 250 organizzazioni della società civile in tutto il mondo hanno aderito all’appello, rivolto a tutti gli Stati membri delle Nazioni Unite, affinché si cessi di alimentare il trasferimento di armi al governo israeliano.

La scorsa settimana gli uffici legali di otto Organizzazioni Non Governative francesi (ASER – Action Sécurité Ethique Républicaines, Attac, FTCR – Fédération des Tunisiens pour une Citoyenneté des deux Rives, AFPS – Association France Palestine Solidarité, AMF – Association des Marocains de France, CRLDHT – Comité pour le Respect des Libertés et des Droits de l’Homme en Tunisie, Union Syndicale Solidaires, Amnesty International France) hanno rispettivamente depositato, tre procedimenti sommari, dinanzi al Tribunale amministrativo di Parigi, relativi alle autorizzazioni di esportazioni di armi dalle autorità francesi verso Israele.

I tre distinti approcci giuridici mirano a garantire il rispetto degli impegni internazionali della Francia. L’azione portata avanti mira ad ottenere la sospensione delle licenze di esportazione di materiale bellico per le categorie ML5 (attrezzature antincendio) e ML15 (equipaggiamento militare per la ripresa di immagini) con destinazione Israele.

Esiste infatti il rischio evidente che le armi esportate vengano utilizzate per commettere crimini contro la popolazione civile nella Striscia di Gaza occupata. In tal modo, la Francia viola le norme internazionali, in particolare il Trattato sul commercio delle armi (2013) e le norme comuni dell’Unione Europea per il controllo delle esportazioni di tecnologia e attrezzature militari (2008), e rischia di diventare complice di violazioni del diritto internazionale – compresi crimini di guerra.

Il Trattato sul commercio delle armi proibisce qualsiasi trasferimento di armi se lo Stato esportatore è a conoscenza, al momento dell’autorizzazione, che tali armi potrebbero essere utilizzate per commettere genocidi, crimini contro l’umanità, gravi violazioni delle Convenzioni di Ginevra, attacchi diretti contro civili o beni di natura civile e dunque protetti come tali, o altri crimini di guerra, come definito dagli accordi internazionali.

Sono già stati avviati contenziosi in Danimarca e nei Paesi Bassi. Oxfam Danimarca, Amnesty International Danimarca, Mellemfolkeligt Samvirke (ActionAid Denmark) e l’organizzazione palestinese per i diritti umani Al-Haq hanno intentato una causa alla polizia nazionale danese e al ministero degli affari esteri, per fermare le esportazioni di armi verso Israele. A febbraio, la Corte olandese ha ordinato l’interruzione della fornitura di parti di caccia F35 a Israele.

A febbraio, il Belgio ha annunciato la sospensione temporanea di due licenze di esportazione di polvere da sparo verso Israele.

In Italia, è stata solo sospesa la concessione di nuove autorizzazioni all’esportazione di armamenti. Non sono stati invece adottati provvedimenti di sospensione o revoca delle esportazioni, verso Israele, autorizzate prima dello scorso ottobre.

Spagna e Canada hanno temporaneamente e parzialmente sospeso i trasferimenti di armi verso lo stato israeliano.

Di fronte al rischio plausibile di genocidio a Gaza, denunciato dalla Corte internazionale di giustizia, tutti gli Stati parti della Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio (1948) hanno l’obbligo di impedire e di astenersi dal contribuire alla realizzazione di atti di genocidio.

All’inizio del mese, il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite ha approvato una risoluzione (A/HRC/55/L.30) per cessare la vendita, il trasferimento e il dirottamento di armi, munizioni e altro equipaggiamento militare verso Israele.

Federica Iezzi
federicaiezzi@hotmail.it
Twitter @federicaiezzi
©️ RIPRODUZIONE RISERVATA

Vuoi contattare Africa ExPress? Manda un messaggio WhatsApp con il tuo nome e la tua regione (o Paese) di residenza al numero +39 345 211 73 43 e ti richiameremo. Specifica se vuoi essere iscritto alla Mailing List di Africa Express per ricevere gratuitamente via whatsapp le news del nostro quotidiano online.

Truppe sudafricane lasciano il Mozambico per fine missione anti jihadista: sono finiti i fondi

Speciale per Africa ExPress
Sandro Pintus
18 aprile 2024

La Missione militare in Mozambico contro i jihadisti (SAMIM) della Comunità di sviluppo dell’Africa meridionale (SADC), iniziata nel giugno 2021 termina a luglio 2024. Ma da diverse settimane gli otto Paesi SADC che ne fanno parte stanno lentamente lasciando l’ex colonia portoghese.

Botswana e Sudafrica già partiti

Dopo i soldati del Botswana partiti i primi di aprile, anche le truppe sudafricane hanno lasciato il Mozambico. Il 15 aprile i 1.500 militari dell’esercito sudafricano (South African National Defence Force – SANDF) sono partiti. Rappresentavano la maggioranza dei soldati inviati dal SADC ed erano intervenuti con l’Operazione Vikela.

fanteria militari sudafricani
Militari sudafricani in Mozambico

Gli altri sei sono Angola, Repubblica Democratica del Congo (RDC), Lesotho, Malawi, Tanzania e Zambia, lasceranno il Paese entro la metà di luglio. Questi sei si sono occupati soprattutto della logistica.

Il compito della Missione SAMIM era liberare Cabo Delgado, estremo nord del Mozambico, dal terrorismo jihadista. Nel mirino c’è il gruppo Al Sunnah wa-Jammà oggi affiliato all’Isis e indicato nella lista nera USA come IS-Mozambico. Dall’ottobre 2017 terrorizza il nord di Cabo Delgado e ha causato 5.252 morti, di cui 2.366 civili, e circa un milione di sfollati.

SADC ha finito i soldi…

La conferma del termine della missione SAMIM è stata data a marzo dalla ministra mozambicana degli Esteri, Veronica Macamo, mentre era in visita a Lusaka, in Zambia. “La missione SAMIM sta affrontando alcuni problemi finanziari. – scrive l’ong Cabo Ligado -. Anche noi dobbiamo occuparci delle nostre truppe e avremmo difficoltà a pagare per il SAMIM. I nostri Paesi non riescono a raccogliere il denaro necessario”.

…e il Ruanda aumenta le truppe

La Rwanda Defence Force, da giugno 2021 in Mozambico, grazie ad un accordo bilaterale Maputo-Kigali, rimane a Cabo Delgado e aumenta le truppe. Oltre ai 2.500 militari e poliziotti dovrebbero aggiungersi altri 1.500 soldati.

Il generale di brigata Patrick Karuretwa, ha dichiarato al giornale sudafricano News24 che il Ruanda aumenterà il numero dei suoi soldati. “Saranno più mobili in modo da poter coprire aree più ampie. Inoltre addestreremo i soldati mozambicani per occupare i luoghi in cui erano stanziate le forze SAMIM”.

jihadisti Chai Basi Isis-Mozambico
Chai, campi base Isis-Mozambico (Courtesy GoogleMaps)

I jihadisti sconfitti?

Con il termine della Missione SAMIM sembrerebbe che il compito anti-jihadista sia stato risolto. Purtroppo non è così. È stato sicuramente ridimensionato ma, con l’annuncio della fine missione, si sono intensificati gli attacchi jihadisti.

Basi con bambini e donne prigionieri

Cabo Ligado ha ricevuto segnalazioni di tre campi di insorti nell’area di Chai, sulla statale N380 che collega sud e nord di Cabo Delgado. Si trovano a metà strada tra il capoluogo, Pemba, e Palma, città dei cantieri dei giacimenti di gas TotalEnergie e ExxonMobil. Chai è una zona boscosa e impervia difficile da sgomberare.

Testimoni confermano che nelle basi jihadiste si coltivava mais, arachidi, fagioli e manioca. Fonti locali, informano che sono prigionieri donne, bambini, anziani e disabili che probabilmente faranno da schiavi e scudi umani.

La sharia nelle zone occupate

Al-Naba, voce del sedicente Stato islamico, in modo roboante, ha elogiato IS-Mozambico per i danni e il dolore causati alla gente. “I cavalieri della Wilayah del Mozambico hanno allontanato i cristiani e i loro eserciti e difeso la Sharia”

A causa delle azioni di IS-Mozambico dall’8 febbraio al 3 marzo, più di 99.000 persone nei distretti di Chiúre, Macomia e Mecufi, sono scappate. In tutta l’area, in quel periodo hanno contribuito a incrementare il numero degli sfollati fino a 112.000.

Da fonti locali Cabo Ligado ha avuto i dettagli. A Mucojo e nei villaggi vicini i jihadisti incoraggiano la preghiera regolare, controllano taglio dei capelli, lunghezza dei pantaloni e vietano alcol e tabacco.

Sandro Pintus
sandro.p@catpress.com

X (ex Twitter):
@sand_pin
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Vuoi contattare Africa ExPress? Manda un messaggio WhatsApp con il tuo nome e la tua regione (o Paese) di residenza al numero +39 345 211 73 43 e ti richiameremo. Specifica se vuoi essere iscritto alla Mailing List di Africa Express per ricevere gratuitamente via whatsapp
le news del nostro quotidiano online.

Jihadisti all’attacco in Mozambico: undici cristiani trucidati in base al nome

Ucciso il jihadista più ricercato del Mozambico, decapitato il gruppo terrorista

Mozambico, ancora attacchi jihadisti e l’esercito fa i conti con l’ubriachezza molesta

ESCLUSIVA/Video shock in Mozambico: militari SADC bruciano corpi dei nemici uccisi

 

Un medico militare israeliano accusa: “Palestinesi torturati in una nostra base militare”

 

Speciale per Africa ExPress
Alessandra Fava
17 aprile 2024

“Siamo complici della violazione di una legge del nostro Paese e peggio per me, in quanto medico, della violazione del mio giuramento ai pazienti, chiunque siano, come ho giurato quando mi sono laureato in medicina 20 anni fa”. Ha fatto rumore la lettera di un dottore impegnato nell’infermeria di una base militare che detiene palestinesi accusati di aver preso parte agli attacchi del 7 ottobre.

Civili della Striscia di Gaza arrestati da militari israeliani

Già il 28 marzo il New York Times dedica un lungo articolo alla base militare di Sde Teiman a una ventina di chilometri da Gaza scrivendo che non si sa neppure quanti sono i prigionieri palestinesi e in quali condizioni sono detenuti.

Il 4 aprile il quotidiano Haaretz pubblica la notizia di una lettera scritta da questo medico interno al campo militare, indirizzata al ministero della Difesa e a quello della Sanità. Nella missiva il medico scrive che alla fine di marzo nell’infermeria della base militare sono state amputate le gambe a due detenuti a causa delle “ferite da manette”, che i prigionieri non vengono portati in bagno ma che sono tenuti legati e immobili per giorni, senza neppure poter andare nella toilette”.

La base, immediatamente ribattezzata l’”Abu Ghraib israeliana”, è stata creata subito dopo il massacro di Hamas il 7 ottobre proprio per interrogare presunti terroristi. Secondo l’Emendamento n. 4 alla Incarceration of Unlawful Combattants Law n. 5762 del 2002, passato il 18 dicembre 2023 alla Knesset, gli innocenti dovevano essere rimandati a Gaza e i colpevoli in carceri israeliane (come successo a 849 gazawi). Ma sopratutto i ai detenuti devono essere assicurate buone condizioni igieniche, letti per dormire e alimentazione. Previste anche due ore di ginnastica all’aperto al giorno.

Detenuti a Sde Teiman


Il Comitato pubblico contro le torture, stoptorture.org.il, con sede a Tel Aviv, già a febbraio 2023 aveva chiesto la fine dell’applicazione dell’emendamento (che sarebbe scaduto a marzo 2024). Secondo stoptorture dal 7 ottobre erano stati fermati almeno 2 mila palestinesi, tra gawawi e cittadini della Cisgiordania, ma le condizioni detentive e di difesa legale anche a Sde Teiman si erano drasticamente ridotte a causa dell’emendamento n. 4: prima di questa norma la detenzione poteva durare un massimo di 96 ore, dopo la sua promulgazione si può arrivare a 45 giorni.

Prima il processo doveva svolgersi entro 14 giorni, dopo il limite è stato portato a 75 giorni e anche in videocall. Prima il detenuto entro 10 giorni poteva incontrare l’avvocato o almeno entro 21 giorni per espressa richiesta di un magistrato, mentre ora si è passati da 75 giorni a 180 giorni.

 


Dalle informazioni di fonte militare, nella base restano legati mani e piedi tra i 600 e gli 800 gazawi sospettati di aver partecipato agli attacchi del 7 ottobre. Secondo il medico, i fermati nell’infermeria vengono tenuti con gli arti bloccati e continuamente bendati. In una sola settimana perdono parecchio peso. Anche l’alimentazione è scarsa: il medico riferisce che i prigionieri vengono nutriti con delle cannucce e con cibi sprovvisti delle  calorie necessarie. Il sanitario denuncia anche la morte di detenuti a causa di operazioni addominali eseguite da medici non specializzati in chirurgia e con l’assistenza di infermieri appena diplomati.

Detenuti nella prigione israeliana di Sde Teiman

L’IDF, Israel Defence Forces (Forze armate israeliane), hanno risposto che la lettera parla delle condizioni nell’infermeria, che i fermati comunque hanno quanto necessario e che se non possono andare in bagno vengono forniti di pannoloni.

Già all’inizio dell’anno, il medico aveva informato il ministero della Sanità delle pessime condizioni all’interno della base ma solo a febbraio c’è stata la visita in un comitato etico ministeriale. Dopo l’eco creata dalla lettera, il Ministero ha risposto che nella base ci sono le condizioni previste per legge e secondo le disposizioni internazionali e che ci sono ispezioni ministeriali costanti.

Secondo una fonte trovata da Haaretz molto è dovuto all’uso di manette in plastica, in seguito sostituite da quelle in metallo. Un detenuto a causa delle ferite da plastica ha subito l’amputazione di una mano.

Alessandra Fava
alessandrafava2015@libero.it
©️ RIPRODUZIONE RISERVATA

Vuoi contattare Africa ExPress? Manda un messaggio WhatsApp con il tuo nome e la tua regione (o Paese) di residenza al numero +39 345 211 73 43 e ti richiameremo. Specifica se vuoi essere iscritto alla Mailing List di Africa Express per ricevere gratuitamente via whatsapp le news del nostro quotidiano online.

Etiopia e Kenya si spartiscono il podio alla 128a maratona di Boston

Dal Nostro Corrispondente Sportivo
Costantino Muscau
16 aprile 2024

Sisay Lemma cominciò a correre a 17 anni, scalzo. In uno sperduto villaggio dell’Oromia, Stato centrale dell’Etiopia, spostarsi velocemente a piedi nudi non era un modo di imitare i leggendari Abebe Bikila e Kenenisa Bekele. Era una necessità. Né lui né la sua famiglia avevano i soldi per comprargli un paio di scarpe. Comunque, per lui, o con le scarpe o senza scarpe, faceva poca differenza: “Nessun problema – disse tempo fa – cambiava solo lo stile di corsa”.

L’etiope Sisay Lemma vince la 128esima maratona di Boston

E in effetti, ora che di anni ne ha 33, Sisay Lemma, è il quarto maratoneta più veloce della storia, da quando dal 3 dicembre scorso quando a Valencia sui 42,195 km segnò il tempo eccezionale di 2h01’48”. E da ieri, lunedì 15 aprile, è il vincitore straordinario della Maratona di Boston numero 128. Che gli ha fruttato 150 mila dollari. Ma questo successo per lui ha anche il dolcissimo sapore della rivincita: ha posto fine, in quella che è la seconda major stagionale dopo quella di Tokyo e una delle sei massime competizioni mondiali, al dominio quinquennale dei runner di Nairobi.

Non solo: ieri mattina (pomeriggio italiano) nella città del Massachusetts l’etiope ha messo in fila tutti gli altri 23 concorrenti della serie élite con una cavalcata solitaria di 30 chilometri. Fermando i cronometri a 2:06.17i.

In particolare, si è lasciato alle spalle il favorito numero 1, il keniano Evans Chebet, 35 anni, vincitore della gara nel 2022 e nel 2023, che mirava a una storica tripletta nella maratona più antica del mondo (prima edizione nel 1897). La gara per tradizione si corre il terzo lunedì del mese di aprile, in coincidenza con il Patriot’s Day, l’anniversario dell’inizio della Rivoluzione degli Usa che cominciò il 19 aprile 1775, con l’attacco delle truppe britanniche vicino a Boston.

Quest’anno la prestigiosa competizione è stata un dominio etiope: al secondo posto si è piazzato, 41 secondi dopo,  infatti il suo connazionale Mohamed Esa, brillante 23enne, autore di un incredibile recupero nel rettilineo finale, staccando Chebet e negandogli, appunto, l’ambitissimo tris sul traguardo di Boylston Street, dove nel 2013 un attentato uccise tre spettatori e ne ferì centinaia.

La keniana Hellen Obiri conquista per la seconda volta il podio femminile della maratona di Boston

Al dominio etiope, il Kenya ha replicato, e alla grande, con le sue donne. Nella maratona femminile, infatti, Hellen Obiri, 34 anni, ha concesso il bis, dopo la vittoria della scorsa stagione (150 mila dollari anche per lei). La kenyana è fuggita negli ultimi 5km insieme alla connazionale Sharon Lokedi, 30 anni, giunta seconda al traguardo dopo essere stata “trafitta” da uno scatto micidiale di Hellen a mille metri dalla fine. Uno sprint che ha stroncato anche l’altra coriacea, immarcescibile connazionale, già bi-campionessa del mondo, Edna Kiplagat, di ben 44 anni!

Maratona di Boston alla 128esima edizione

Degna risposta del podio targato Kenya a quello di Addis Abeba. Una sfida che rivedremo presto a Londra e in estate alle Olimpiadi di Parigi.

Intanto a proposito di (mezza) maratona, da Pechino giunge una notizia imbarazzante che coinvolge etiopi e keniani, su un filmato diventato virale sui social media mandarini.

Gli organizzatori della gara hanno riferito di essere al lavoro per fare chiarezza su un video in cui tre corridori africani sembrano rallentare il passo a ridosso del traguardo per consentire la vittoria della star cinese He Jie, 25 anni, medaglia d’oro della maratona dei Giochi Asiatici del 2023. La clip della gara svoltasi di domenica ha mostrato i keniani Robert Keter, 35 anni, e Willy Mnangat, l’etiope Dejene Hailu, 21 anni, e il corridore di casa He Jie, poche decine di metri dal traguardo.

I tre corridori africani si sono raggruppati, rallentando, sembra, di proposito, mentre uno di loro ha allungato il braccio verso l’esterno come per segnalare agli altri due di rimanere indietro e di permettere a He di effettuare il sorpasso e di tagliare il traguardo con secondo di vantaggio: per la cronaca 1:03:44 contro 1:03:45 dei secondi sui 21, 0975 km.. L’Ufficio sportivo di Pechino e l’organizzatore dell’evento, il Beijing Sports Competition Management and International Exchange Center, hanno riferito che sono state avviate indagini sulla vicenda e che i cui risultati saranno diffusi il prima possibile.

Qualcuno ha fatto notare che i quattro atleti hanno come sponsor la stessa ditta cinese di scarpette….

Costantino Muscau
muskost@gmail.com
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Vuoi contattare Africa ExPress? Manda un messaggio WhatsApp con il tuo nome e la tua regione (o Paese) di residenza al numero +39 345 211 73 43 e ti richiameremo. Specifica se vuoi essere iscritto alla Mailing List di Africa Express per ricevere gratuitamente via whatsapp

La vittoria dei kenioti alla maratona di Boston unisce persino i due nemici politici: il presidente Ruto e Odinga

Un’onda nera invade la 126° maratona di Boston: gli atleti di Kenya e Etiopia conquistano tutti i primi posti

Sudan, la guerra compie un anno, nessuno spiraglio di pace: sul terreno morte, fame e macerie

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
14 aprile 2024

E’ passato un anno dall’inizio della guerra in Sudan, un conflitto che ha causato una devastante crisi umanitaria e ha riportato alla luce tensioni etniche e politiche esistenti da tempo.

Guerra in Sudan

Finora tutti tentativi di mediazione per fermare le ostilità tra i due generali, Mohamed Hamdan Dagalo “Hemetti”, leader delle Rapid Support Forces (RSF), gli ex janjaweed, e il de facto presidente e capo dell’esercito, Abdel Fattah Abdelrahman al-Burhan, sono falliti. E a nulla sono valsi i continui appelli da parte delle Organizzazioni internazionali per venire in aiuto alla popolazione, che è costretta ad assistere inerme alla distruzione del proprio Paese.

Eppure le organizzazioni per la difesa dei diritti umani e quelle impegnate nell’assistenza umanitaria continuano a lanciare appelli per un cessate il fuoco alle due fazioni in lotta. Ma inutilmente. Si continua a combattere e a spargere sangue.

In dodici mesi di lotta per il potere sono morte quasi 16 mila persone – cifra certamente sottostimata per la difficoltà di raccogliere dati accurati e in tempo reale  – mentre gli sfollati sono oltre 9 milioni. I profughi, coloro che hanno cercato protezione nei Paesi confinanti, sono circa 1.500.000. Secondo le Nazioni Unite, il Sudan è oggi il Paese con il numero di sfollati più elevato al mondo e ben oltre la metà dei 45 milioni di abitanti del Paese soffre di grave insicurezza alimentare.

Sudanesi in fuga

Il sistema sanitario del Sudan è al collasso; difficile controllare persino l’espandersi di malattie come il morbillo e il colera. Le agenzie umanitarie hanno affermato che l’esercito limita l’accesso agli aiuti umanitari e che quel poco che riesce a passare è a rischio di saccheggio nelle aree controllate dagli uomini di Hemetti.

E proprio in questi giorni Martin Griffiths, sottosegretario generale delle Nazioni Unite per gli Affari umanitari, ha invitato la comunità internazionale ad “assumersi le proprie responsabilità” dopo un anno di conflitto devastante. “Come ho già detto, appena tre mesi dopo l’inizio del conflitto, il mondo non può ignorare l’eco dolorosa della storia. Ma in qualche modo abbiamo dimenticato l’indimenticabile. E le conseguenze di questo oblio sono imperdonabili”, ha sottolineato Griffith’s in un suo lungo comunicato.

Domani Parigi ospiterà un doppio evento incentrato sia sulla situazione politica del Sudan, sia su quello umanitario. La conferenza è stata organizzata in collaborazione con Francia, Germania e Unione Europea. Al meeting saranno presenti anche rappresentanti dei governi dei Paesi vicini, leader civili sudanesi e organizzazioni umanitarie internazionali, ma nessuna rappresentanza delle due parti in conflitto.

Il ministero degli Esteri di Khartoum si è opposto alla conferenza di Parigi e in un comunicato ha sottolineato di essere stupito perché sia stata organizzato un tale evento su una questione che riguarda il Sudan, senza consultazione o coordinamento con il governo del Paese e senza la sua partecipazione.

Dopo l’inizio dei combattimenti scoppiati il 15 aprile 2023 nella capitale del Sudan, la guerra si è estesa nel Darfur e in diverse altre zone, tra queste il Kordofan, il Nilo Blu e Merowe, città settentrionale vicina all’Egitto e al Nilo, dove si trovano importanti miniere d’oro e un aeroporto militare.

La guerra ha spinto il Darfur, già in ginocchio da conflitti mai risolti, in una posizione ancora più vulnerabile. Lì, le tribù arabe e non arabe, come i Masalit, hanno combattuto per le scarse risorse di terre e acqua per oltre 20 anni. Ora gli scontri hanno assunto una dimensione etnica.

Un sempre crescente numero di testimonianze e documenti ha paragonato gli attacchi attuali a una pulizia etnica, aggressioni perpetrate da milizie arabe insieme a membri delle RSF. Ovviamente i responsabili hanno negato tutte le accuse.

Come Africa ExPress ha documentato in diversi articoli, le RFS sono supportate oltre che dai mercenari russi di Wagner (ora African Corps) anche dagli Emirati Arabi Uniti e da Haftar (Libia).

Cargo proveniente dagli Emirati Arabi Uniti

Gli attori stranieri sono coinvolti nell’invio di armi in Sudan. Il New York Times, in un suo articolo del del 29 settembre scorso, ha affermato che gli Emirati Arabi Uniti stanno fornendo armi e assistenza sanitaria alle RSF da una base in Ciad.

E, giacchè la parte orientale della ex colonia italiana è controllata dall’Esercito nazionale libico (LNA) di Khalifa Haftar, i cui comandanti hanno stretti legami con le RSF e altri gruppi armati del Darfur, arrivano rifornimenti anche da lì. I consulenti delle Nazioni Unite, in un recente rapporto hanno identificato la Libia come fornitrice di armi, carburante e autovetture agli ex janjaweed. Mentre dall’autunno dello scorso anno forze speciali ucraine combattono accanto ai militari dell’esercito di al-Burhan.

Cornelia I. Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
X: @cotoelgyes
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Vuoi contattare Africa ExPress? Manda un messaggio WhatsApp con il tuo nome e la tua regione (o Paese) di residenza al numero +39 345 211 73 43 e ti richiameremo. Specifica se vuoi essere iscritto alla Mailing List di Africa Express per ricevere gratuitamente via whatsapp le news del nostro quotidiano online

Ucraina ed Emirati intervengono in Sudan e la pace si allontana

Sudan: bloccati i convogli umanitari alla frontiera con il Ciad, milioni di sudanesi rischiano di morire di fame

A fianco dei golpisti i mercenari russi della Wagner cui Hemetti ha concesso di sfruttare le miniere d’oro del Sudan

 

 

 

Via gli occidentali: arrivato in Niger il primo contingente russo, ma i jihadisti non mollano

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
12 aprile 2024

Vladimir Putin ha mantenuto le sue promesse. Verso fine marzo, durante un lungo colloquio telefonico con il suo omologo nigerino, Abdourahamane Tchiani, a capo della giunta militare di transizione e di fatto presidente del Niger, i due si erano accordati in dettaglio sulla cooperazione in svariati campi, compresa quella miliare.

Aereo russo atterra a Niamey con istruttori e equipaggiamento militare

Detto e fatto, due giorni fa sono atterrati all’aeroporto di Niamey con un enorme Ilyushin  bianco e rosso, bandiera russa, un centinaio di militari. Non è chiaro se si tratta di soldati della Difesa di Mosca o di mercenari dell’Africa corps (corpo militare che ha sostituito Wagner).

Ovviamente l’arrivo dei primi uomini di Putin è stato ben documentato, filmato, fotografato dai media russi e un reporter ha commentato il “grande evento” con queste parole: “Questo significa che la Russia torna in Africa”. Omettendo però che gli uomini di Mosca sono presenti da tempo in diversi Paesi del continente: dalla Libia al Sudan, in Mali, Bukina Faso, in Centrafrica e via dicendo, in cambio del controllo di miniere e altro.

Se le agenzie moscovite hanno praticamente ripreso in diretta atterraggio dell’Ilyushin Il-76, Niamey non ha avuto tanta fretta. L’emittente di Stato nigerino ha comunicato l’arrivo dei russi solamente 24 ore dopo. In tale occasione sono stati ripresi dalla TV nazionale due uomini in uniforme provenienti dalla Russia, il viso protetto da un fazzoletto per non poter essere identificati. Uno di loro ha dichiarato di trovarsi nel Paese per sviluppare la cooperazione militare tra il Niger e la Russia e “per addestrare l’esercito e aiutarlo a utilizzare l’equipaggiamento militare appena arrivato”.

Due russi in uniforme alla TV di Stato del Niger

Non è stato rivelato alcun dettaglio per quanto riguarda le attrezzature, a parte la fornitura e l’installazione di un sistema antiaereo di ultima generazione.

Nessuna sorpresa per l’arrivo a Niamey degli uomini inviati da Putin: i governi putschisti di Mali e Burkina Faso, con i quali il Niger ha formato l’Alleanza degli Stati del Sahel (AES), hanno rafforzato da tempo la cooperazione con la Federazione russa e i tre Stati sono da tempo zona privilegiata per la penetrazione di Mosca in Africa.

I tre Paesi del Sahel subiscono da anni continui attacchi da parte dei jihadisti e i tre golpisti avevano promesso che sotto il loro regime la situazione sarebbe migliorata. Finora le incursioni dei terroristi non sono cessate e sono soprattutto i civili a pagarne il prezzo più alto. A causa della crescente insicurezza sono chiuse oltre 2.000 scuole e, secondo l’UNICEF, milioni di piccoli soffrono anche di malnutrizione grave. In alcune zone è estremamente difficile far arrivare convogli con aiuti umanitari. A gennaio OCHA (Ufficio della Nazioni Unite per gli Affari Umanitari) ha fatto sapere che nel Sahel centrale una persona su cinque (circa 17 milioni) necessita di assistenza umanitaria.

Qualche mese fa i tre Paesi dell’AES hanno abbandonato ECOWAS (Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale). Il Niger, prima di accogliere i russi, ha rotto anche con i suoi partner occidentali. Dapprima con la Francia, che ha dovuto riportare a casa i suoi soldati e anche l’ambasciatore di Parigi è stato dichiarato persona non grata.

Poi è stata la volta degli Stati Uniti. Il 16 marzo la giunta di Niamey ha annunciato che la presenza degli americani è illegale ,  mettendo fine “con effetto immediato” all’accordo di cooperazione militare firmato con Washington nel 2012. Ora gli USA devono chiudere la base di Agadez, dove stazionano droni e 1.100 militari, principalmente per missioni di intelligence e sorveglianza.

Niger,Agadez: Air Base 201

A novembre, Niamey ha posto fine anche alla sua principale cooperazione con l’Unione Europea (UE), abrogando la legge del 2015 sul traffico di migranti. Allora l’UE aveva adottato provvedimenti per assistere e sostenere le autorità nigerine, sia quelle del governo centrale che quelle locali, per sviluppare politiche, tecniche e procedure per gestire e combattere il traffico dell’immigrazione irregolare.

Al momento nel Paese si trovano ancora un centinaio di soldati tedeschi, con il compito di addestrare le forze speciali. Anche circa 300 militari italiani sono ancora nell’ex colonia francese, nell’ambito della Missione bilaterale di supporto nella Repubblica del Niger (MISIN).

Cornelia Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
X: @cotoelgyes
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Vuoi contattare Africa ExPress? Manda un messaggio WhatsApp con il tuo nome e la tua regione (o Paese) di residenza al numero +39 345 211 73 43 e ti richiameremo. Specifica se vuoi essere iscritto alla Mailing List di Africa Express per ricevere gratuitamente via whatsapp le news del nostro quotidiano online.

Altri articoli su Niger e Sahel li trovate QUI

Giornalismo e guerra: lunedì 15 aprile anteprima del film “Civil War”

0

L’associazione Lombarda dei Giornalisti e il Cinema Anteo vi invitano alla proiezione in anteprima del film “Civil War”, nelle sale cinematrografiche di CityLife, piazza Tre Torri a Milano. Seguirà un dibattito cui parteciperanno due giornalisti veterani dell’informazione in zone di guerra: Massimo Alberizzi, ex Corriere della Sera, e Giovanni Porzio, ex Panorama. 

Guerre o conflitti, disastri o grandi eventi sociali e sportivi, rivoluzioni politiche e “appuntamenti con la storia”: gli inviati e i reporter rappresentano da sempre – e ancora oggi – i testimoni sul campo di quanto accade. Loro sono i nostri occhi e le nostre orecchie: grazie ai loro racconti, alle immagini che raccolgono, alle parole che ci trasmettono possiamo conoscere e capire quanto accade in aree pericolose e in luoghi a migliaia di chilometri di distanza da noi.

Il film “Civil War” che lunedì 15 aprile alle 19.30 sarà proiettato in anteprima a Milano al Cinema Anteo Citylife, racconta proprio le vicende di un gruppo di reporter impegnati a testimoniare quanto accade in uno scenario apocalittico negli Stati Uniti. In un’America sull’orlo del collasso, attraverso terre desolate e città distrutte dall’esplosione di una guerra civile, un gruppo di reporter, infatti, intraprendere un viaggio in condizioni estreme, mettendo a rischio le proprie vite per raccontare la verità.

L’anteprima del film scritto e diretto da Alex Garland – un’esclusiva per l’Italia di Leone Film Group in collaborazione con Rai Cinema e distribuito da 01 Distribution – sarà l’occasione anche per discutere e sentire storie e momenti di vita dalla viva voce di due inviati e reporter italiani che per anni hanno lavorato in scenari di conflitto. I giornalisti Massimo Alberizzi e Giovanni Porzio, al termine della proiezione di Civil War discuteranno infatti della vita da reporter. Parleranno delle condizioni e delle situazioni reali che l’impegno della testimonianza diretta sul campo comportano.

Le prime impressioni su Civil War di Alex Garland sono molto forti

Grazie alla collaborazione tra Anteo e Associazione Lombarda Giornalisti, i soci iscritti alla ALG possibile partecipare all’anteprima del film con un’agevolazione sul prezzo del biglietto. Il tutto accreditandosi a questo indirizzo https://citylife.spaziocinema.18tickets.it/film/23096

con codice promozionale ALGMI

#milano #lombardia #cinemaanteo #giornalisti #giornalismo #reporter #CivilWar #Film #RaiCinema #massimoalberizzi #giovanniporzio

L’apparato propagandistico israeliano confessa: “Moderati i resoconti critici e rafforzata la nostra narrativa”

Da La Voce di New York
Eric Salerno
11 aprile 2024

La guerra è guerra. Guerra e onestà sono due elementi che non sono mai stati concordanti; quasi sempre il netto contrario. Tre dei figli e tre nipoti del leader politico di Hamas, Ismail Haniyeh sono stati assassinati ieri con un ordigno israeliano mentre salivano su una vettura nel centro di Gaza City. Guerra? Vendetta? Israele sostiene che erano tutti “diretti a compiere un atto terroristico”. Una specie, scusate il sarcasmo, di gita in famiglia.

Giornalisti riprendono dall’alto di un edificio danneggiato; è l’ ospedale al-Salam a Khan Yunis, distrutto il 7 aprile 2024 (Foto di AFP) – Credit: Ansa

Parlare di giustizia e onestà in piena guerra serve a poco soprattutto dopo che sono stati uccisi più di trentatré mila palestinesi, in buona parte civili e bambini, da quando i militanti di Hamas e della Jihad islamica sei mesi fa attaccarono le pacifiche comunità ebraiche in Israele lungo il confine con la striscia di Gaza.

L’affermazione di fonti israeliane, secondo cui dopo la morte dei parenti di Haniyeh, lui “probabilmente” non sarà più disponibile a negoziare lo scambio di ostaggi-prigionieri fa sorridere. Da giornalista avrei sorriso anche io se non fosse per il fatto che già ridevo dopo aver letto, appena prima, il comunicato della “Direzione nazionale della diplomazia pubblica” israeliana che ha presentato, con orgoglio “la sua attività sulla scena internazionale dopo sei mesi di guerra”.

Promuovere la legittimità della politica

“Fin dalle prime ore della guerra, il Direttorato Nazionale della Diplomazia Pubblica, presso l’Ufficio del Primo Ministro, ha condotto una campagna globale di diplomazia pubblica di portata senza precedenti – leggo e sottolineo – al fine di promuovere la legittimità della politica e degli sforzi israeliani sul campo di battaglia”.

Non voglio fare paragoni, ma l’organizzazione – o quanto meno come viene presentata dalle autorità israeliane – fa venire in mente storie di cui leggevo da ragazzo soprattutto perché ai giornalisti, approdati a Tel Aviv, è stato concesso raccontare quello che vedevano in Israele e lungo il confine con Gaza ma non potevano osservare, se non a distanza,  quello che succedeva nella “striscia”, devastata da mesi di bombardamenti quasi costanti, se non accompagnati (e per poco tempo) dalle truppe israeliane. Il termine embedded era diventato famoso ai tempi dell’assalto americano all’Iraq di Saddam Hussein. Un’altra guerra dove devastazione e overkill avevano raggiunto livelli incomprensibili. E dove il risultato finale della guerra al leader iracheno ha lasciato morti, feriti e una nazione a dir poco spezzettata e in disordine.

“Tra le agenzie che partecipano al centro di comando – si legge nel comunicato israeliano – ci sono i servizi di sicurezza, l’IDF, la polizia israeliana e organismi governativi tra cui il Ministero degli Affari Esteri, il Ministero per gli Affari della Diaspora, l’Agenzia pubblicitaria governativa e l’Ufficio stampa governativo. Di seguito una sintesi dei servizi forniti alla comunità internazionale: fin dalle prime ore della guerra, il Direttorato Nazionale della Diplomazia Pubblica, presso l’Ufficio del Primo Ministro, ha condotto una campagna globale di diplomazia pubblica di portata senza precedenti al fine di promuovere la legittimità della politica e degli sforzi israeliani sul campo di battaglia”.

Avviate e promosse centinaia di storie

E ancora: “Attraverso il lavoro di portavoce e di diplomazia pubblica con i principali mezzi di stampa e radiotelevisivi di tutto il mondo, la Direzione nazionale della diplomazia pubblica ha contribuito ad avviare e promuovere centinaia di storie per – interessante questo passaggio – rafforzare la narrativa israeliana, moderare i resoconti critici, rispondere agli eventi di cronaca e generare unintensa attività favorire lequilibrio nella copertura”.

“La copertura globale degli eventi della guerra – viene raccontato con orgoglio – è stata di una portata senza precedenti. Oltre 4.000 giornalisti da tutto il mondo sono venuti in Israele per seguire la guerra, trasformandola così nell’evento mediatico più seguito dalla fondazione dello Stato…I giornalisti hanno partecipato a tour nel sud e nel nord, hanno visitato il sito del festival NOVA e hanno ricevuto briefing strategici e di zona da ufficiali dell’IDF, agenti di polizia, volontari ZAKA, capi di consiglio locale e testimoni del massacro…Nell’ambito degli sforzi di diplomazia pubblica sulla scena internazionale, la Direzione nazionale della diplomazia pubblica – in collaborazione con il portavoce dell’IDF – ha lanciato il sito web “Massacro di Hamas del 7 ottobre” che ha mostrato al mondo alcuni dei crimini di Hamas contro l’umanità, con fotografie e videoclip…Il sito ha avuto 43 milioni di visite nei primi tre giorni”.

Una assistenza quasi perfetta se non fosse per il fatto che molto del materiale giornalistico presentato ai giornalisti veniva scelto o preparato in modo da portare avanti una narrativa ben precisa che voleva giustificare la ferocia dell’azione militare israeliana – morti, feriti, Gaza trasformata in una terra praticamente inabitabile – come risposta al indubbiamente feroce attacco dei militanti palestinese.

Bloccata trasmissione tv spagnola

Lo sforzo dell’apparato propagandistico israeliano non è riuscito a trasformare la narrativa o a moderare le critiche che sono piombate, mai come prima, sul governo israeliano. E ieri, un episodio minore, ha influito negativamente sugli sforzi dell’apparato propagandistico. La corrispondente di Tve (rete televisiva spagnola) in Israele, Almudena Ariza, ha dovuto interrompere il collegamento in diretta con il Telegiornale 1 da Gerusalemme quando un uomo si è piazzato davanti alla telecamera e non le ha permesso di continuare la cronaca.

“Non lasciano lavorare, mi dispiace molto. Dobbiamo interrompere”, ha spiegato Ariza mentre un uomo vestito di nero, probabilmente un ebreo ortodosso, le faceva segno di spostarsi. “Non è la polizia, è un cittadino comune”, ha precisato mentre era in collegamento e cercava di spiegargli – in inglese – che stava solo facendo il suo lavoro e chiedeva di lasciarla continuare. L’ingresso in scena di altre persone ha messo fine al collegamento e Tve ha spiegato sul suo account X: “La pressione su Netanyahu aumenta e aumentano anche le difficoltà nell’informare da Gerusalemme, come è successo alla nostra corrispondente, interrotta da vari cittadini durante una connessione in diretta”.

Eric Salerno
eric2sal@yahoo.com
X: @africexp

Vuoi contattare Africa ExPress? Manda un messaggio WhatsApp con il tuo nome e la tua regione (o Paese) di residenza al numero +39 345 211 73 43 e ti richiameremo. Specifica se vuoi essere iscritto alla Mailing List di Africa Express per ricevere gratuitamente via whatsapp
https://www.africa-express.info/2024/02/17/un-nuovo-esodo-biblico-in-egitto-nasce-lennesimo-campo-profughi-per-gli-sfollati-di-gaza/