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Un parallelo tra Ruanda e Palestina: cosa ha fatto e cosa sta facendo la stampa internazionale?

EDITORIALE
Federica Iezzi
30 aprile 2024

Dal Ruanda alla Palestina, da un genocidio all’altro, quali responsabilità hanno gli Stati occidentali?

In quanto ex potenze coloniali, Belgio e Francia, sono state coinvolte nella catena di rivalità interetniche in Ruanda. Contrariamente a tante smentite, come quella del rapporto d’informazione parlamentare francese Quilès-Jospin del 1998, è ormai accertato che, lungi dal proteggere i civili ruandesi, l’Opération Turquoise ha permesso di esfiltrare le forze genocidarie Hutu  nella Repubblica Democratica del Congo.

Striscia di Gaza [photo credit United Nation]
Il rammarico del presidente francese, Emmanuel Macron, arriva proprio mentre continuano indisturbate le vendite di armi a Israele, che da mesi conduce una guerra di sterminio del popolo palestinese nella Striscia di Gaza.

Ma come mantenere la credibilità quando le principali democrazie liberali del mondo sono complici di crimini internazionali?

Quello che sta succedendo a Gaza è chiarificatore. Ciò che doveva essere nascosto è stato portato alla luce. Ciò che doveva essere oscurato è stato nettamente messo a fuoco. Si parla di una violazione della legge che corre velocemente, prima che la mente abbia il tempo di assorbire e soppesare la gravità e la portata del crimine.

Questa volta, l’errore dell’Occidente è difficile da mascherare, e il nemico è così irrisorio – poche migliaia di combattenti all’interno di una “prigione” assediata per anni – che l’asimmetria è ardua da ignorare.

Per eliminare domande e riflessioni, le élite occidentali hanno dovuto lavorare duramente su due aspetti. Hanno cercato di persuadere l’opinione pubblica che gli atti di cui sono complici non sono così gravi come sembrano. E poi che il male perpetrato dal nemico è così eccezionale, così inconcepibile da giustificare una catastrofica risposta.

Questo è esattamente il ruolo svolto dai media occidentali, in un’inquadratura perversa, che purtroppo non è nuova.

Come hanno affrontato i media il fatto che più di due milioni di palestinesi a Gaza stanno gradualmente morendo di fame a causa del blocco degli aiuti umanitari, azione che evidentemente non ha alcuno scopo militare evidente, se non quello di infliggere una vendetta selvaggia sui civili palestinesi?

Piuttosto che parlare di una politica dichiarata di Israele, ecco cosa racconta la stampa internazionale: i combattenti di Hamas sopravvivranno a bambini, malati e anziani in qualsiasi guerra di logoramento in stile medievale, che neghi a Gaza cibo, acqua e farmaci.

Se ad imporre la fame sulla Striscia di Gaza non è Israele, l’impotenza dell’Occidente è assolutamente sottostimata. Ma l’Occidente non è impotente. Sta consentendo un realistico crimine contro l’umanità, rifiutandosi di esercitare il proprio potere per condannare Israele.

Nel frattempo, la stampa liberale occidentale ha abilmente assistito Washington nelle sue varie deviazioni dai crimini di guerra imputati allo stato israeliano, non ultimo sul veto diplomatico che gli Stati Uniti esercitano regolarmente per tutelare Israele, riciclando le accuse verso i palestinesi.

Colte di sorpresa dall’attacco di Hamas, lo scorso ottobre, le forze di difesa israeliane hanno lanciato furiosamente munizioni da carri armati e missili Hellfire, incenerendo indiscriminatamente combattenti di Hamas e prigionieri israeliani. La lunga fila di auto bruciate, distrutte e accatastate, come simbolo visivo del sadismo di Hamas, è infatti la prova, nel migliore dei casi, dell’incompetenza di Israele e, nel peggiore, della sua ferocia.

Da quella data, sono esplosi online discorsi disumanizzanti profondamente inquietanti, retorica genocida e incitamento alla violenza contro il popolo palestinese, da parte di funzionari e personaggi pubblici israeliani [https://law4palestine.org/wp-content/uploads/2024/02/Final-Jan.-26-Statements-DB.pdf].

Ma l’arma peggiore è stata la cospirazione del silenzio. Se c’è qualcosa che si è rivelato sistematico, sono le gravi carenze nella copertura, da parte dei media occidentali, di un plausibile genocidio in corso a Gaza. Le mani dei media sono state fondamentali per rendere possibile la collusione.

Per tutte le piattaforme web, i Principi guida delle Nazioni Unite su imprese e diritti umani chiariscono che le aziende dovrebbero rispettare i diritti umani, identificare e mitigare i danni e porre rimedio agli abusi ovunque operino. Sia attraverso l’azione che per omissione, i social media hanno il record di alimentare conflitti, come nei casi del Myanmar e dell’Etiopia.

Nonostante le atrocità senza precedenti sulla Striscia di Gaza, nessuna delle piattaforme di social media – tra cui Facebook, Instagram, YouTube, X e TikTok, o app di messaggistica come WhatsApp e Telegram – ha condotto e comunicato pubblicamente i propri sforzi per mitigare i rischi derivanti da questo massacro. Invece, ognuna di queste piattaforme è carica di propaganda di guerra, discorsi disumanizzanti, dichiarazioni di genocidio, inviti espliciti alla violenza, discorsi di odio razzista e celebrazioni di crimini di guerra.

Meta, sul podio tra tutte le altre piattaforme nel censurare le voci palestinesi, è pienamente consapevole dell’eccessiva moderazione dei contenuti legati alla Palestina.
Ma il problema qui va oltre la semplice moderazione dei contenuti. Valutare l’illegalità di un contenuto e il modo in cui può facilitare o contribuire alla perpetrazione di crimini è solo una dimensione della comprensione del ruolo svolto dalle piattaforme nei conflitti armati, in cui le asimmetrie di potere sono pronunciate e dannose.

Federica Iezzi
federicaiezzi@hotmail.it
Twitter @federicaiezzi
©️ RIPRODUZIONE RISERVATA

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Forze armate della Nigeria alle prossime guerre con i caccia “leggeri” dell’italiana Leonardo SpA

Speciale per Africa ExPress
Antonio Mazzeo
29 aprile 2024

Sarà consegnato entro la fine del 2024 il primo lotto di sei velivoli M-346FA ordinati lo scorso anno dal ministero della difesa nigeriano. La commessa con la holding industriale-militare italiana prevede la fornitura complessiva di 24 velivoli e la loro manutenzione per 25 anni.

M-346FA prodotti da Leonardo SpA per l’aeronautica militare nigeriana

Leonardo potrà utilizzare le infrastrutture di supporto tecnico-logistico in Nigeria per i servizi a supporto di altri clienti militari dell’Africa occidentale. Le autorità di Abuja e i manager di Leonardo potrebbero pure ampliare l’accordo di cooperazione alla realizzazione di corsi di addestramento dei piloti dei caccia e di formazione per il personale tecnico destinato alla manutenzione dei velivoli.

Gli M-346FA sono in via di realizzazione in Italia: i velivoli sono una versione modificata del caccia-addestratore avanzato M-346 del tipo “light combat”, con capacità multiruolo per missioni di supporto aereo avanzato, anche in aree urbane, e interdizione sul campo di battaglia e ricognizione tattica.

Lunghi 11 metri e mezzo e con un’apertura alare di 10,14 metri, gli M-346FA possono volare a una velocità massima di 1.865 Km/h, a una quota operativa di 13.715 metri. “Gli aerei conservano tutte le caratteristiche addestrative del trainer e, attraverso l’integrazione di equipaggiamenti e sensori di ultima generazione, diventano efficaci velivoli operativi da attacco leggero”, spiegano i progettisti di Leonardo.

I caccia per l’aeronautica militare nigeriana saranno equipaggiati con il radar a scansione meccanica multi-mode Grifo. M-346 sviluppato dalla stessa Leonardo e con il sistema di “difesa passiva” DASS. Ignoti i sistemi d’arma che saranno impiegati dagli M-346FA; secondo la scheda tecnica fornita dai progettisti, i velivoli “possono adottare diverse tipologie di armamenti e carichi esterni, tra cui munizionamenti aria-aria e aria-superficie (anche a guida IR. Radar e/o laser/GPS), pod cannone, da ricognizione e di designazione bersagli”. La capacità di carico è superiore alle due tonnellate ed i sistemi bellici saranno integrati con i visori interattivi “Helmet Mounted Display” posti sul casco dei piloti.

Fino ad oggi Leonardo ha venduto 122 velivoli M-346 nella versione da addestramento alle forze armate di Italia, Israele, Polonia, Singapore e Qatar; quattro M-346FA multiruolo sono stati ordinati invece dal Turkmenistan.

Il sito specializzato Defense News ritiene probabile che i caccia destinati alla Nigeria saranno armati con i cannoni da 20mm 20M621 prodotti dall’azienda francese Nexter o, in alternativa, con i cannoni da 12,7mm del gruppo belga FN Herstal. Per Ares Difesa la lista degli armamenti utilizzabili dagli M-346FA è ancora più ampia e devastante: dalle bombe a guida laser GBU-12 e 16 Paveway II, Lizard 4 e Teber (250 lb) LGB, alle bombe a guida GPS JDAM GBU-38 e 32 nonché Lizard 2 a guida GPS/LGB e GBU-49. Altri carichi di munizionamento avanzato prevedono le Small Diameter Bomb (SDB) e Spice (250 lb), i missili aria-suolo “Brimstone” e i missili aria-aria AIM-9L/M e IRIS-T.

Secondo lo Stato maggiore dell’aeronautica militare della Nigeria, la conferma della consegna dei primi sei caccia multiruolo è giunta in occasione della recente visita nel Paese africano del vicepresidente del settore vendite di Leonardo SpA, Claudio Sabatino. Quest’ultimo ha incontrato il 17 aprile il Capo di Stato Maggiore Hasan Abubakar presso il quartier generale della Nigerian Air Force (NAF). “L’acquisto dei 24 caccia M-346 fighter segna un passo significativo nel processo avviato dall’Aeronautica nigeriana per modernizzare la flotta e rafforzare la propria capacità operativa”, ha dichiarato al termine dell’incontro il generale Abubakar.

Claudio Sabatino, vicepresidente del settore vendite di Leonardo SpA e il generale Hasan Abubakar, capo di Stato maggiore della Nigeria

A fine novembre 2023 sono stati consegnati al 115th Special Operations Group dell’Aeronautica Militare di stanza a Port Harcourt due elicotteri d’attacco T-129 “Atak” prodotti dalla Turkish Aerospace Industries; altri quattro velivoli dovrebbero giungere in Nigeria entro la fine dell’estate 2024.

Gli elicotteri da combattimento avanzato T- sono costruiti in Turchia su licenza dell’azienda italo-britannica AgustaWestland, interamente controllata dal gruppo italiano Leonardo. Nel 2007 AgustaWestland e Turkish Aerospace Industries hanno firmato un memorandum che prevede lo sviluppo, l’integrazione, l’assemblaggio degli elicotteri in Turchia, demandando invece la produzione dei sistemi di acquisizione obiettivi, navigazione, comunicazione, computer e guerra elettronica agli stabilimenti del gruppo italiano di Vergiate (Varese).

I T-129 “Atak” sono elicotteri bimotore di oltre 5 tonnellate, molto simili all’A129 “Mangusta” in possesso dell’esercito italiano. Attualmente sono impiegati dalle forze armate turche per sferrare sanguinosi attacchi contro villaggi e postazioni delle milizie kurde nel Kurdistan turco, siriano e irakeno.

I primi due velivoli consegnati alle forze armate nigeriane sono pienamente operativi dal 6 febbraio 2024. Secondo la società costruttrice turca essi sono equipaggiati con un cannone da 20mm ma possono essere armati anche con razzi, missili anti-tank UMTAS, missili a guida laser CIRIT e missili aria-aria Stinger. “Sono certo che le nuove piattaforme assisteranno in modo significativo l’Aeronautica Militare nel rispondere alle sfide della sicurezza, sia in campo nazionale che nella regione dell’Africa occidentale”, ha commentato il vicepresidente della Nigeria, Kashim Shettima, in occasione della consegna degli elicotteri da guerra.

Oltre ai caccia di Leonardo e agli elicotteri di TAI/Agusta, l’aeronautica militare nigeriana avrebbe ordinato nei mesi scorsi anche 12 elicotteri multiruolo Leonardo A109 “Trekker”, due aerei da trasporto leggero Beechcraft King Air 360, 4 velivoli leggeri da sorveglianza Diamond DA-62 e tre droni cinesi Wing Loong II. “Lo scorso anno la NAF ha dichiarato di aver utilizzato effettivamente i nuovi assetti in combattimento per sconfiggere terroristi e insorgenti”, ricorda Defence News. “I successi nei campi di battaglia contro Boko Haram ed altri gruppi terroristi sono stati attribuiti ai nuovi aerei acquistati come i JF-17 Thunder ed A-29 Super Tucano e ai velivoli senza pilota”.

Antonio Mazzeo
amazzeo61@gmail.com
©️RIPRODUZIONE RISERVATA

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Lotta ai migranti: l’Italia non è più sola, in Ciad sbarcate truppe ungheresi e il governo vuol cacciare i militari USA

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
28 aprile 2024

E’ giallo sui militari arrivati ieri in Ciad. Nessuna conferma che si tratti di mercenari russi. Secondo l’autorevole stringer di Africa Express gli uomini in divisa arrivati ieri all’aeroporto di N’Djamena – come scritto dal giornale online Tchad One su X (l’ex Twitter) – sarebbero non militari russi ma ungheresi. Ma finora mancano ancora le conferme ufficiali. Gli ungheresi dovrebbero controllare le rotte dei migranti e bloccare la strada che attraverso la Libia porta al Mediterraneo.

Va sottolineato che la ex colonia francese ospita decine di migliaia di profughi, per lo più provenienti da Sudan, dove da oltre un anno imperversa un sanguinoso conflitto tra l’esercito di Khartoum e le forze paramilitari delle RFS (Rapid Support Forces).

La missione fortemente voluta dal presidente ungherese, Victor Orban, da sempre contrario alle politiche sui migranti dell’Unione Europea, sarebbe già dovuta partire alla fine dello scorso anno. Ma, secondo alcuni media internazionali, ci sarebbero stati problemi di reclutamento dei militari. Non sono stati resi noti ulteriori dettagli. Ma qualcosa era nell’aria e si mormora che siano in arrivo anche mercenari russi della Africa Corps (la ex Wagner)

Come Mali, Niger e Burkina Faso, anche il Ciad, finora l’ultimo alleato dell’occidente nel Sahel, ha allacciato nuovi rapporti con la Russia. Alla fine di gennaio, l’attuale presidente a interim, Mahamat Idriss Déby, che ha preso il posto del padre dopo la sua morte nell’aprile 2021, si è recato a Mosca, dove ha incontrato il suo omonimo Vladimir Putin.

Il presidente nigerino a interim, Mahamat Idriss Déby, a sinistra e il presidente russo, Vladimir Putin

Secondo i media nigerini e russi, Putin avrebbe accolto il suo omologo della ex colonia francese in modo molto caloroso. Alla fine dei dialoghi, i due capi di Stato hanno affermato che cercheranno di sviluppare i rapporti bilaterali in svariati settori, come l’agricoltura e quello minerario. Putin ha inoltre affermato di seguire da vicino i problemi relativi alla sicurezza in tutta la regione e in Sudan.

E proprio pochi giorni prima dell’arrivo di altri militari stranieri, il Ciad ha chiesto a Washington di riposizionare le proprie truppe.

Il generale Idriss Amine Ahmed, capo di Stato maggiore dell’aeronautica, in una lettera indirizzata al ministro della Difesa ciadiano, ha chiesto di “interrompere immediatamente le attività americane” nella base aerea di Koseï, vicino a N’Djamena, in quanto non avrebbero fornito i documenti che giustifichino la loro presenza lì.

Ma sia gli USA, sia il Ciad hanno minimizzato la questione. Nel Paese si trovano un centinaio di soldati americani delle forze speciali per supportare le operazioni antiterroriste nel Sahel e nella regione del Lago Ciad.

Istruttori americani addestrano truppe ciadiane

Durante una conferenza stampa del 25 aprile, Pete Nguyen, portavoce del Pentagono, ha spiegato: “Il Comando USA per l’Africa sta organizzando il riposizionamento di una parte delle forze statunitensi in Ciad, alcune delle quali sono già in partenza”. Washington ha poi sottolineato che si tratta di misure temporanee che fanno parte della revisione in corso per quanto concerne la cooperazione in materia di sicurezza, che riprenderà dopo le elezioni presidenziali del 6 maggio.

Secondo il New York Times, la partenza verso la Germania, dove ha sede AFRICOM, di 75 militari USA dovrebbe avvenire tra il 27 aprile e il 1° maggio.

La stampa americana è ottimista. La cooperazione potrebbe riprendere a condizione che le parti trovino un terreno comune che porti a un nuovo accordo sul testo che regola la presenza delle truppe USA sul territorio ciadiano. Va ricordato che a tutt’oggi ci sono ancora 1.000 soldati francesi, impegnati nella lotta contro i jihadisti del Sahel.

Vedremo cosa succederà dopo le elezioni, in lizza anche l’uscente presidente a interim Mahamat Idriss Déby. E in un breve articolo di Malijet, quotidiano online maliano, Andrei Maslov, direttore della Scuola superiore di Economia dell’università nazionale di ricerca russa, ha affermato: “Nonostante i tentativi dell’Occidente di mettere un muro tra Mosca e N’Djamena, i leader del Ciad sono pronti a sviluppare la cooperazione con la Russia. La visita del presidente ciadiano a Mosca a gennaio lo rivela: le parti hanno discusso un’ampia gamma di questioni, comprese quelle economiche”.

Cornelia Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
X: @cotoelgyes
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Libertà di stampa in Lesotho: giornalista minacciato di morte per inchiesta esplosiva sulla corruzione

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Speciale per Africa ExPress
Sandro Pintus
29 aprile 2024

In Lesotho, piccolo reame africano, enclave nel territorio sudafricano, un giornalista è stato minacciato di morte e due giornali rischiano di chiudere. Il motivo? Ha svelato la corruzione e gli è partita anche una querela temeraria, attività ben conosciuta e odiata anche in Italia.

I giornali sono il Lesotho Times e il Lesotho Tribune e il giornalista si chiama Phafane Nkotsi, direttore e proprietario delle due testate.

Lesotho Tribune
Home page del Lesotho Tribune (Courtesy Lesotho Tribune)

Un’indagine esplosiva

Il Lesotho Tribune, tra gennaio e febbraio scorsi, ha pubblicato due delle otto puntate di un’indagine giornalistica esplosiva. Un dossier sulla corruzione al Fondo pensionistico dei dipendenti pubblici del Lesotho.

Secondo il giornale ne è responsabile il Mergence Investment Managers, con sedi in Sudafrica, Namibia e Lesotho, che dal 2011 ha acquisito il Fondo pensioni. Lesotho Tribune afferma che il regista è Semoli Mokhanoi, entrato in Mergence nel 2017 come stratega degli investimenti regionali.

Mergence Investment ha presentato un’istanza urgente all’Alta corte del Lesotho chiedendo di oscurare gli articoli e proibire al Lesotho Tribune la pubblicazione degli altri sei. L’istanza è stata respinta dal tribunale in difesa della libertà di espressione.

Lesotho Phafane Nkotsi
Phafane Nkotsi, direttore del Lesotho Times e del Lesotho Tribune (Courtesy Lesotho Tribune)

Querela temeraria e minacce di morte

Scoperchiato il pentolone della corruzione la Mergence Investment, tenta l’impossibile per fermare lo scandalo. L’arma è la querela temeraria. La Società di investimento, il 7 febbraio scorso, ha iniziato una causa per diffamazione in cui chiede 10 milioni di loti (497.000 euro).

Nel frattempo Phafane Nkotsi è stato vittima di molestie, intimidazioni e minacce. Il 17 aprile 2024, i giornalisti del Lesotho Tribune hanno trovato sulle scrivanie della redazione tre biglietti.

“Stai lontano dai problemi del Fondo pensioni se tieni ancora alla pace in casa tua NJ Phafane – c’era scritto -. La tua bella [con il nome della moglie] sta facendo un lavoro straordinario su di te”.

mappa Lesotho RSF2023
Mappa del Lesotho di Reporters Sans Frontieres 2023 (Courtesy RSF)

Secondo Reporters sans Frontieres (RSF), nel 2023, il Lesotho risulta al 67° posto su 180 Paesi nella classifica della libertà di stampa. Nel 2022 era all’88°. Nonostante il miglioramento, del “Regno del Cielo” – così viene chiamato il Paese dell’altopiano – “la libertà di stampa è fragile. Gli abusi contro i giornalisti non sono rari e i media mancano di indipendenza”, documenta RSF.

Amnesty: condannare pubblicamente le minacce

“Le autorità del Lesotho devono condannare pubblicamente le molestie, le intimidazioni, le minacce e gli attacchi contro Phafane Nkotsi, il Lesotho Tribune e altri giornalisti. Devono garantire che tutti i giornalisti possano lavorare senza timore di rappresaglie”, ha dichiarato Tigere Chagutah, direttore di Amnesty International per l’Africa orientale e meridionale.

Sandro Pintus
sandro.p@catpress.com

X (ex Twitter):
@sand_pin
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Trentuno minatori del Lesotho uccisi dal metano in una miniera d’oro sudafricana dismessa

Due piccoli Stati africani in vetta alla triste classifica mondiale dei suicidi

Lesotho: accusato di omicidio il premier diserta il tribunale e fugge in Sudafrica

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La giunta militare del Burkina Faso non accetta critiche: BBC e Voice of America sospesi per due settimane

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
26 aprile 2024

Il regime militare burkinabé ha sospeso per due settimane le emittenti della BBC e Voice of America, perché le due stazioni radio internazionali hanno trasmesso un rapporto di Human Rights Watch che accusa l’esercito di abusi contro i civili.

Nella serata di ieri il CSC (Conseil Supérieur de la Communication, il Consiglio Superiore per la Comunicazione) ha notificato alle due stazioni radio internazionali il blocco per la diffusione dei loro programmi, nonché la ritrasmissione dell’articolo di Human Rights Watch e sospeso l’accesso ai siti web e alle piattaforme digitali di BBC, VOA e HRW.

Testo del CSC

Nel suo rapporto di giovedì scorso, HRW ha accusato l’esercito di Ouagadougou di aver “giustiziato il 25 febbraio scorso almeno 223 civili”, tra questi anche 56 bambini, in due attacchi nel nord del Paese.

L’organizzazione ha definito la carneficina come “tra i peggiori abusi dell’esercito” avvenuti nel Paese in quasi un decennio. Dopo due mesi dal massacro, i fatti sono venuti alla luce perché HRW ha raccolto pazientemente le testimonianze di 14 sopravvissuti, quella di organizzazioni internazionali e della società civile, nonché grazie alle analisi di foto e video.

A Nodin e Soro, due villaggi situati a una ventina di chilometri dal confine con il Mali, assediati – come molti altri – dai jihadisti del Gruppo di sostegno dell’Islam e dei musulmani (JNIM), i soldati hanno ordinato alle persone di lasciare le loro case per poi riunirle in tre gruppi – uomini, donne e bambini. Subito dopo i militari dell’esercito hanno iniziato a sparare a bruciapelo, uccidendo chi era ancora vivo, secondo le testimonianze dei sopravvissuti raccolte dall’organizzazione per i diritti umani. Sono stati presi di mira anche “individui in fuga”.

Massacro di 237 civili in Burkina Faso

JNIM è stato fondato nel marzo 2017, guidato da Iyad Ag-Ghali, vecchia figura indipendentista touareg, diventato capo jihadista e fondatore di Ansar Dine, in italiano: ausiliari della religione (islamica). Il “consorzio” comprende diverse sigle, oltre a Ansar Dine, Katiba Macina, sono presenti anche AQMI (al Qaeda nel Magreb Islamico), Al-Mourabitoun.

Quando un centinaio di militari dell’esercito burkinabé sono arrivati a Soro, dopo aver ammazzato molti residenti di Nodin, una signora di 32 anni, che è stata ferita alle gambe, ha raccontato: “Ci hanno chiesto perché non li avessimo avvertiti dell’arrivo dei terroristi”. Poi la donna ha sottolineato: “I militari si sono dati la risposta da soli: ‘Anche voi siete dei jihadisti’”, hanno detto i soldati. “Infine – ha precisato la 32enne – hanno iniziato a spararci addosso e chi è sopravvissuto è stato tirato fuori da un mucchio di cadaveri”.

Non si esclude che i massacri siano una rappresaglia dell’esercito, che ha accusato gli abitanti di aiutare i miliziani dei gruppi jihadisti.

Ibrahim Traoré, salito al potere in Burkina Faso con un colpo di Stato nel settembre 2022, aveva dichiarato di aver preso in mano la situazione per ristabilire la sicurezza nelle zone sfuggite al controllo del governo centrale. Ma anche con il regime della giunta militare la situazione non è migliorata. Attacchi e violenze continuano a inasprirsi e più di un terzo del Paese è controllato da gruppi jihadisti.

Gruppi internazionali e per i diritti umani, tra questi l’Unione Europea e le Nazioni Unite, hanno accusato il Burkina Faso di gravi violazioni dei diritti umani nella lotta contro l’insurrezione jihadista, come uccisioni indiscriminate e sparizioni forzate di civili.

La giunta militare non lascia spazio a chi critica il loro operato. Settimana scorsa ha dato il benservito a tre diplomatici francesi, costringendoli a lasciare il Paese nel giro di 48 ore, con l’accusa di attività sovversiva.

I tre hanno semplicemente svolto un classico lavoro diplomatico, incontrando organizzazioni della società civile, influencer, uomini d’affari e dirigenti d’azienda. Secondo RFI, sono stati organizzati anche incontri con alcuni media burkinabé, che, secondo una fonte, non sono in linea con la giunta, proprio come le organizzazioni della società civile.

Ibrahim Traoré, presidente del governo di transizione militare in Burkina Faso

Il ministero degli Esteri francese, tramite il vice-portavoce, Christophe Lemoine, ha negato tutte le accuse rivolte ai diplomatici dalle autorità di Ougadougou. Anzi, ha sottolineato che il ministero apprezza la professionalità e l’impegno dei loro funzionari.

E mentre continuano attacchi e uccisioni nel Burkina Faso, la Costa d’Avorio ha fatto sapere di voler rimandare a casa 55.000 rifugiati burkinabé che si trovano nel nord del Paese. Un annuncio in tal senso è stato fatto durante una riunione con il Consiglio di sicurezza nazionale e il corpo diplomatico il 24 aprile 2024, ma ha suscitato qualche perplessità da parte di alcuni operatori umanitari.

In linea di massima, il rimpatrio dovrebbe riguardare coloro che desiderano tornare a casa. Dalla fine di luglio, alcuni dei rifugiati identificati e registrati presso le autorità e l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) vengono ospitati in due siti: Niornigue e Timalah, nelle regioni di Tchologo e Boukani. Queste due aree possono ospitare fino a 12.000 persone, ma sono saturi. La maggior parte si trova attualmente da famiglie in villaggi vicini al confine.

Cornelia I. Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
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Fotocredit: Serge Daniel

Weekend di fuoco in Burkina Faso: terroristi sterminano indistintamente cristiani e musulmani

Epidemia di vaiolo delle scimmie esplode in Congo Brazzaville

Africa ExPress
25 aprile 2024

La Repubblica del Congo ha denunciato un’epidemia di mpox, il vaiolo delle scimmie. Da gennaio a oggi sono stati registrati 59 casi, 19 di questi sono stati confermati dal laboratorio nazionale della Sanità pubblica. L’infezione si è diffusa in cinque dipartimenti, tra questi anche nella capitale Brazzaville. Il ministro della Sanità, Gilbert Mokoki, ha rassicurato la popolazione che al momento attuale nessun paziente colpito dal virus è morto.

Mokoki ha chiesto ai congolesi massima prudenza: evitare contatti con casi sospetti affetti dal virus, mantenere la dovuta distanza dagli animali e di evitare assolutamente di maneggiare la carne di selvaggina a mani nude.

I primi casi dell’infezione sono stati accertati già a metà marzo. In tale occasione il ministero della Sanità aveva sottolineato che la patologia può essere trasmessa anche per via sessuale, fatto reso noto per la prima volta dall’OMS lo scorso anno. Allora nella vicina Repubblica Democratica del Congo si erano verificati casi confermati di mpox causati da rapporti sessuali.

Nell’uomo l’mpox inizia con sintomi aspecifici (febbre, mal di testa, brividi, astenia, ingrandimento di linfonodi e dolori muscolari). Entro tre giorni compare un’eruzione cutanea che interessa dapprima il viso, per poi diffondersi a altre parti del corpo, mani e piedi compresi.

La maggior parte delle persone infette guarisce senza cura. Il trattamento è generalmente sintomatico e di supporto. Alle persone che presentano una malattia severa o con una compromissione del sistema immunitario può essere prescritto un antivirale noto come tecovirimat (TPOXX). La mortalità è bassa (3-10 per cento), a seconda del ceppo virale.

I virus dell’mpox e del vaiolo sono geneticamente molto simili. Pertanto, i vaccini contro il vaiolo di prima e seconda generazione somministrati in Svizzera fino al 1972 sono considerati ancora parzialmente efficaci  contro questa patologia.

Un prodotto immunizzante di terza generazione, MVA-BN (in Europa conosciuto con il nome commerciale Imvanex), – anch’esso sviluppato contro il vaiolo umano – viene prodotto in Danimarca dall’azienda Bavarian Nordic. Tale vaccino è costituito da virus vivi attenuati che non sono in grado di moltiplicarsi e quindi di causare la malattia.

Nel 2022 l’Organizzazione della Sanità (OMS) ha cambiato il nome del vaiolo delle scimmie in mpox, per evitare stigmatizzazioni e razzismo associati al nome.

Il virus della sindrome appartiene alla stessa famiglia del vaiolo, ma ha una minore trasmissibilità e la malattia è meno grave. Il microrganismo è stato identificato per la prima volta nelle scimmie in un laboratorio danese nel 1958 e, secondo l’OMS, individuato nel 1970 nell’uomo nella Repubblica Democratica del Congo. Si tratta di un’infezione zoonotica (trasmessa dagli animali all’uomo). La malattia può anche diffondersi da uomo a uomo. Può essere trasmessa attraverso il contatto con fluidi corporei, lesioni sulla pelle o sulle superfici mucose interne, come la bocca o la gola, goccioline respiratorie e oggetti contaminati.

Africa ExPress
X: @africexp
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Fame e guerra spingono gli etiopi alla fuga: nuovo naufragio a largo di Gibuti

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
23 aprile 2024

Nuovo naufragio a largo di Gibuti. Secondo l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM), i morti sarebbero almeno 16, altri 28 sono i dispersi. L’imbarcazione trasportava 77 persone e le operazioni di ricerca e soccorso sono ancora in atto.

Nuovo naufragio a largo di Gibuti

Si tratta del secondo naufragio nella zona nel giro di due settimane. L’8 aprile sono morti 38 migranti, tra loro anche un bambino. La cosiddetta “rotta orientale”, utilizzata da chi fugge dal Corno d’Africa per raggiungere l’Arabia Saudita, è considerata dall’OIM “una delle rotte migratorie più pericolose e complesse dell’Africa e del mondo”. Giacché oltre alla traversata via mare, chi è in cerca di un pezzo di pane e fugge da guerre e oppressione, è costretto a attraversare lo Yemen, devastato dalla guerra.

Prima di raggiungere Obock, sulla costa meridionale del Gibuti, da dove partono molte imbarcazioni alla volta dello Yemen, i migranti devono attraversare lande deserte, impervie, e caldissime e non di rado vengono rinvenuti resti umani nella regione del lago Assal, nella regione abitata degli Afar, che si trova a 155 metri sotto il livello del mare e rappresenta il punto più basso del continente africano. Muoiono di stenti, fame e sete. Altri annegano, appunto, durante la traversata.

Il lago salato Assal a oltre 100 metri sotto il livello del mare

Secondo OIM, nel 2023 sono morte quasi 700 persone lungo la rotta occidentale. Ma potrebbero essere ben di più, visto che non di rado le tragedie passano inosservate. Gli etiopi rappresentano il 79 per cento dei circa 100.000 migranti arrivati in Yemen nel 2023, mentre gli altri sono per lo più somali. La maggior parte dei fuggiaschi hanno detto di essere partiti per problemi economici, altri, invece, per conflitti, violenze o disastri climatici in Etiopia.

Si continua a partire, eppure il governo etiopico ha iniziato il rimpatrio dei propri concittadini proprio dall’Arabia Saudita. Il 12 aprile sono arrivati i primi 842 ad Addis Abeba. Secondo quanto riferito dal ministero degli Esteri, il governo di Abiy Ahmed intende riportare a casa nei prossimi 4 mesi oltre 70 mila etiopi, che attualmente si trovano in stato di detenzione, perché privi di documenti. L’annuncio dei rimpatri dei connazionali risale alla fine di marzo di quest’anno e nel comunicato è stato precisato che le spese di rimpatrio comprendono sia i biglietti aerei, sia la permanenza temporanea nei centri di passaggio ad Addis Abeba e anche un po’ di denaro per ricominciare la vita in patria. Secondo i piani del governo, nei prossimi quattro mesi sono previsti 12 voli settimanali da Riyad per riportare a casa gli etiopi privi di documenti.

Aprile 2024: Arrivo dei primi etiopi rimpatriati dall’Arabia Saudita

Nel marzo 2022, Addis Abeba ha raggiunto un accordo con Riyad per rimpatriare oltre 100.000 cittadini, perché diversi  gruppi per la difesa dei diritti umani avevano accusato il regno wahabita di maltrattare i lavoratori stranieri. Infatti in Arabia Saudita vige ancora la kafala, una legge che lega gli stranieri ai loro datori di lavoro e nega loro la possibilità di cambiare impiego senza il consenso del datore stesso. Chi prova a cambiare lavoro o a lasciare il Paese senza permesso, rischia di essere arrestato.

Chissà cosa troveranno nella loro terra d’origine le persone rimpatriate. Nel Paese persiste un clima di tensione. All’inizio di febbraio sono ripresi violenti combattimenti in una delle aree contese tra le regioni del Tigray e dell’Amhara (nel nord). Secondo le Nazioni Unite, sarebbero oltre 50 mila gli sfollati a causa degli scontri armati nelle città di Alamata, Raya Alamata, Zata e Ofla. Dopo alcuni mesi di relativa tranquillità, ad aprile si sono nuovamente intensificate le violenze e lo scorso mercoledì funzionari dell’Amhara hanno accusato combattenti del Tigray di aver invaso alcuni territori, violando totalmente l’accordo di Pretoria siglato nel novembre 2022 dal governo federale etiope e dai leader del Tigray.

Anche nella stessa regione settentrionale la situazione è sempre fragile e tesa; l’accordo di cessate il fuoco ha fermato armi e proiettili, ma a tutt’oggi il trattato non si è trasformato in un vero dialogo per raggiungere una pace duratura. La situazione umanitaria resta drammatica, aggravata da cambiamenti climatici e siccità.

Va sottolineato che nella zona orientale del Tigray, nel distretto di Irob, sono ancora presenti le truppe eritree, che controllano anche la strada che collega Irob Woreda a Adigrat, impedendo di fatto l’arrivo di aiuti umanitari.

Cornelia Toelgyes
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Etiopia: in Tigray si continua a morire di fame, conflitti e rischio default devastano il Paese

Padre Zanotelli accusa: “Vogliono togliere controlli e trasparenza al mercato delle armi”

Speciale per Africa ExPress
Marina Piccone
22 Aprile 2024

“Il nodo centrale è l’eliminazione del controllo del parlamento sulla vendita delle armi. Significa che non avremo più un rapporto ufficiale e puntuale sull’esportazione di armi del nostro Paese”. Alex Zanotelli, missionario comboniano, ispiratore e fondatore di movimenti impegnati nel settore della pace e dei diritti dei popoli, è preoccupato.

Padre Alex Zanotelli

Il disegno di legge di iniziativa governativa, approvato dal Senato il 21 febbraio 2024, modifica pesantemente la legge 185, che regola l’esportazione di materiali d’armamento. La variazione, se sarà ratificata anche dalla Camera, renderà meno incisivi i meccanismi di decisione e controllo, “con gravi conseguenze sulla pace, la sicurezza comune e il rispetto dei diritti umani”, sottolinea padre Alex che, insieme alla Rete Italiana Pace Disarmo e al mondo cattolico, ha lanciato l’allarme.

La Legge n. 185, dal titolo “Nuove norme per il controllo dell’esportazione, importazione e transito di materiali di armamento”, promulgata nel 1990 dopo una grande campagna di mobilitazione della società civile, vieta la vendita di armi a Paesi in guerra o i cui governi sono colpevoli di gravi violazioni dei diritti umani. Si basa sul principio di responsabilità condivisa, secondo il quale non è responsabile solo chi acquista le armi ma anche chi le vende e chi partecipa al processo di autorizzazione, includendo, oltre ai ministeri interessati (Affari Esteri, Difesa, Tesoro, Finanze, ecc.), anche le banche e i cittadini stessi.

Oltre a quello del controllo, un altro dei pilastri fondamentali della legge è quello della trasparenza. “L’articolo 5 stabilisce che il Presidente del Consiglio, ogni anno, deve informare il Parlamento sugli armamenti autorizzati e consegnati nell’anno precedente”, dice il combattivo sacerdote, classe 1938, che da una quindicina di anni, dopo un ventennio in Africa, vive a Napoli, nel rione Sanità. “Un dettaglio di informazioni che ci consentiva anche di sapere quali banche fossero coinvolte nelle transazioni. Un elemento importante che, grazie alle campagne sul comportamento etico degli istituti di credito, ha portato alcuni di questi a non sostenere più trasferimenti di armi verso destinazioni sensibili o il commercio nel suo complesso. Se verrà meno il requisito della trasparenza, la 185 verrà completamente snaturata”.

Secondo le dichiarazioni del governo, le modifiche previste garantirebbero una maggiore sicurezza per l’Italia in un momento di crisi internazionale. “È esattamente il contrario. Facilitare la vendita di armi, che sicuramente finiranno nelle zone più conflittuali del mondo, aumenterà l’insicurezza globale e quindi anche la nostra. Da anni, la lobby dell’industria militare chiede insistentemente di poter liberalizzare il settore. L’obiettivo sia quello di eliminare ogni controllo popolare per avere carta bianca. La maggioranza di Governo ha, infatti, ignorato tutte le nostre richieste di mantenere alta la trasparenza nel comparto. Questa non è democrazia. Già nella situazione attuale la 185 è stata evasa in tutte le maniere, se il Ddl dovesse passare, la situazione peggiorerebbe”.

E basta guardare i dati per rendersene conto. Nel decennio successivo all’approvazione della legge (1990-1999), appena il 3,2 per cento del totale delle esportazioni di armi italiane è finito nelle mani di governi classificati come non liberi da Freedom House. Negli anni 2020-2022, secondo i dati di Sipri (Stockholm International Peace Research Institute), le vendite a Paesi autocratici sono in costante ascesa. L’Italia ha registrato un 72 per cento del totale delle esportazioni italiane di grandi sistemi d’arma, scavalcando la Russia, che arriva al 54 per cento, e che è sempre stata quella che si caratterizzava per i valori più alti di esportazioni verso Paesi non liberi. Seguono la Germania, che ne esporta il 38 per cento, Spagna e Francia, il 30 per cento, l’Olanda, il 21 per cento; l’ultima è la Svezia con il 18 per cento. Nel periodo 2019-2023, inoltre, sempre secondo gli ultimi dati di Sipri, tra i grandi esportatori mondiali di armi l’incremento maggiore nel volume di affari è dell’Italia, con addirittura l’86 per cento in più rispetto al quinquennio precedente. Nella classifica compilata dagli esperti, l’Italia si colloca al sesto posto a livello globale.

Esporto armi dall’Italia

È importante che il dibattito pubblico su questo tema sia quanto più aperto e chiaro possibile. Cosa si può fare?

“Disubbidire”, risponde padre Alex. “La disobbedienza civile è l’unica maniera per impedire che le vendite di armi tornino ad essere circondate da un velo di pericolosa opacità. Bisogna organizzare iniziative di protesta e pressione sul Parlamento, anche a costo di pagare in prima persona. Non c’è altra via secondo me, in questo clima di guerra e con la minaccia di una bomba atomica. Dobbiamo darci tutti da fare per difendere la legge 185”.

Marina Piccone
permarina_p@hotmail.com
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Alla maratona di Londra i re sono gli atleti keniani

Dal Nostro Corrispondente Sportivo
Costantino Muscau
21 aprile 2024

Buckingham Palace sarà pure la residenza ufficiale di sua maestà, Carlo III d’Inghilterra, ma per l’ennesima volta il Palazzo ha dovuto inchinarsi al trionfo, allo strapotere diremmo, dei maratoneti kenyani.

21 aprile 2024, 44esima Maratona di Londra

La 44a edizione della Maratona di Londra è stata dominata da Alexander Mutiso Munyao, 27 anni, fra gli uomini, da Peres Jepchirchir, 31 anni, fra le donne, entrambi provenienti da Nairobi e dintorni.

Dove è la novità, verrebbe da chiedersi, visto che che gli atleti kenyani sono alla 18a vittoria e le loro connazionali alla 16a. Eppure la più lunga prova di corsa dell’atletica leggera (i mitici 42,195 km fissati proprio a Londra in occasione dei Giochi Olimpici del 1908) disputatasi domenica 21 aprile da Greenwich a Buckingham Palace, è stata ricca di clamorose sorprese. Peres Jepchirchir, campionessa olimpica, ha battuto il record mondiale per una gara riservata esclusivamente alle donne con il tempo di 2h16’16”. E con ciò mettendosi in tasca 55 mila dollari, per il primo posto più un bonus di 125 mila verdoni per il record e per il tempo sotto le 2h e 17 minuti.

La kenyana, Peres Jepchirchir, record mondiale alla maratona di Londra

“Mi sento molto gratificata – ha commentato alla BBC la vincitrice – Non mi aspettavo di ottenere il primato mondiale. Però mi ero allenata duramente e ora sono felice di essere a Parigi (alle imminenti Olimpiadi, ndr) per difendere il mio titolo”.

Non solo: la maratoneta ha preceduto la favoritissima della vigilia, Tigist Assefa, 27 anni, etiope, che detiene il tempo più veloce nella maratona mista, atleta mondiale del 2023, e la connazionale Joyciline Jepkosgei, 30 anni, prima qui a Londra nel 2021.

Emozionante anche il successo di Alexander Mutiso Munyao. Dopo un avvincente spalla a spalla, ha staccato il 41enne etiope, Kenenisa Bekele, un mito immarcescibile nella estenuante specialità atletica.

Alexander Mutiso Munyao, kenyano, trionfa alla maratona di Londra

Kenenisa Bekele sognava di conquistare questa maratona per la prima volta, a 20 anni di distanza dalla vittoria olimpica sui 10 mila metri ad Atene. Ha trovato, però, un sorprendente Mutiso Munyao, che solo 2 anni fa aveva esordito sulla lunga distanza con un terzo posto a Valencia e fino a ieri aveva conquistato solo una maratona (Praga, 2023) e un argento a Valencia con un tempo eccellente (2h03’59”).

“Sono estremamente felice – ha dichiarato Alexander sempre alla BBC, –  e spero che anche io faccia parte del Kenyan Olympic Team perché penso di essere capace di ben figurare”. Il giovane, soprattutto, ha voluto dedicare il suo trionfo a Kelvin Kiptum, il 24 enne campione deceduto l’11 febbraio scorso in Kenya in un terribile incidente stradale. “Era un mio caro amico e non potevo non pensare a lui qui sul traguardo dove lui ha vinto lo scorso anno”.

Fra le tante maratone, non importanti come quella di Londra, dove ieri la massa era di oltre 65 mila partecipanti, 1000 italiani) c’è da segnalare, un’altra doppietta kenyana: a Padova. Primo al traguardo, fra i maschi, Timothy Kipchumba e, in campo femminile, Lena Jerotich.

L’Atletica dell’importante Stato dell’Africa orientale però è anche piena di ombre. Nei giorni scorsi sono stati sospesi per doping tre runner molto note (due donne) e nel 2023 squalificati o banditi per sempre altri 27 atleti. Alcuni mesi fa il New York Times aveva scritto: “Dal 2015 quasi 300 atleti del Kenya sono stati puniti per abuso di sostanze proibite, offuscando in tal modo l’immagine della sua potenza sportiva nella corsa”.

Costantino Muscau
muskost@gmail.com
©️ RIPRODUZIONE RISERVATA

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Costa d’Avorio-Kenya: lo sport africano tra esaltazione e disperazione

L’ONU denuncia: “Civili massacrati nella Repubblica Centrafricana”

Speciale per Africa-ExPress
Cornelia I. Toelgyes
20 aprile 2024

Nella travagliata Repubblica Centrafricana si continua a morire, spesso per il solo fatto di essere nel posto sbagliato al momento sbagliato. La Missione delle Nazioni Unite in Centrafrica (Minusca) ha denunciato mercoledì scorso che nel giro di soli 12 giorni sono state brutalmente ammazzati 30 civili.

Mercenari russi in Centrafrica

La guerra civile è iniziata nel 2013, ma la sua intensità è notevolmente diminuita dopo il 2018, e si è trasformata gradualmente in scontri sparsi e sporadici. Da un lato sono sempre attivi movimenti armati ribelli e dall’altro, l’esercito, insieme ai russi del Gruppo Wagner e alcune milizie di autodifesa che fungono da ausiliari.

MINUSCA, istituita nel 2014 e attualmente presente nel Paese con 14mila uomini, in un comunicato ha condannato fermamente le uccisioni dei civili morti in diversi attacchi, avvenuti tra il 2 e il 14 aprile 2024, in diverse zone del Paese.

All’inizio del mese il quotidiano online centrafricano CNC (Corbeau News Centrafique) aveva denunciato l’assalto e il saccheggio ad un centro di Medici Senza Frontiere (MSF) a Bowaye (nord-ovest della ex colonia francese). Un gruppo di mercenari si trovava in quella zona per catturare un ex deputato di Nana Bakassa, Floran Kema, oggi leader di un nuovo gruppo armato, Front de défense de la liberté (Fronte di Difesa della Libertà). Durante gli scontri tra il gruppo ribelle e i mercenari, un russo è morto, mentre un altro è rimasto gravemente ferito, ma, secondo CNC, sarebbe riuscito a scappare per cercare rinforzi. A tutta risposta, accecati dalla rabbia per la sconfitta subita, sono arrivati altri contractor, in sella a cinque moto e hanno incendiato e vandalizzato parecchie case di Bowaye. La popolazione, disperata, è scappata, nascondendosi nella boscaglia.

MSF ha denunciato il saccheggio del centro solo in questi giorni, sottolineando di non conoscere gli autori del vile gesto e chiedendo a tutte le parti in causa di proteggere i centri sanitari, in quanto non dovrebbero mai essere obiettivo di assalti.

La cooperazione tra Mosca e Bangui inizia alla fine del 2017, con la visita di Faustin Archange Touadéra  in Russia, dove aveva incontrato il ministro degli esteri di Putin, Sergueï Lavrov. Da allora i due governi hanno iniziato una stretta collaborazione: Mosca gode di licenze per lo sfruttamento minerario, in cambio mette a disposizione equipaggiamento industriale, materiale per l’agricoltura, mercenari e altro.

Intanto i russi si sono opposti contro l’arrivo dei loro colleghi americani della la società statunitense, Bancroft Global Development, presente anche in Somalia. Le autorità centrafricane avevano preso contatti con la società alla fine dello scorso anno. I paramilitari di Washington dovrebbero addestrare le truppe centrafricane. Al momento tutto tace. Non è chiaro se e quando dovrebbero prendere servizio a Bangui gli uomini di Bancroft.

Manifestazione a Bangui contro Bancroft organizzata dai mercenari Wagner

Sta di fatto che l’eventuale arrivo degli americani ha scatenato la rabbia dei russi, che hanno organizzato manifestazioni e marce sia nella capitale sia a Ndélé, nel Bamingui-Bangoran (parte centrosettentrionale del Paese) contro la società Bancroft.

Recentemente le autorità centrafricane hanno sottoscritto anche accordi con la Serbia. Alla fine di marzo il presidente, Faustin-Archange Touadéra, si è recato in Serbia per una visita di Stato, dove ha incontrato il suo omologo, Aleksandar Vucic, per rafforzare i rapporti bilaterali. In tale occasione sono stati siglati accordi in vari settori (Difesa, estrazione mineraria e quant’altro).

Mentre mercoledì scorso Touadéra è stato ricevuto da Emmanuel Macron a Parigi. Si tratta della seconda visita in sei mesi. Le relazioni dei due governi si erano ridotte ai minimi termini dopo l’avvicinamento di Bangui a Mosca. Ora i due capi di Stato stanno cercando di ricucire i rapporti.

A seguito dell’ incontro del 13 settembre 2023, la Francia e la Repubblica Centrafricana hanno adottato una “tabella di marcia” per stabilire un “partenariato costruttivo” tra i due Paesi.

Centrafrica: Il barcone poco prima del naufragio

Comunque in Centrafrica continua la disperazione della gente. Ieri un gravissimo incidente sul fiume M’poko, a sud-est della capitale, ha provocato la morte di oltre 60 persone. Secondo una prima ricostruzione dei fatti, un natante si è letteralmente spaccato in due poche dopo aver levato l’ancora. La barca, lunga 20 metri e larga 3, trasportava oltre 300 persone, tra queste molte donne e bambini. Un carico eccesivo sarebbe all’origine del naufragio, che si è consumato in una zona dove le acque del fiume sono molto profonde. Oltre ai morti già accertati, molti altri risultano ancora dispersi, decine e decine i feriti. In assenza di mezzi di salvataggio moderni, i naufraghi sono stati soccorsi da semplice piroghe.

Cornelia I. Toelgyes      
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