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Antisionismo e antisemitismo: una dolosa confusione aberrante che inganna

EDITORIALE
Eric Salerno
9 maggio 2024

L’altro giorno nella email ho trovato questa segnalazione del New York Times: “Gli attivisti studenteschi filo-palestinesi, che hanno allestito accampamenti nei campus di tutto il Paese, affermano che il loro movimento è anti-sionista ma non antisemita.” E subito sotto: “Juan Arredondo per il New York Times: Non è una distinzione accettata da tutti”. Ancora prima di avere il tempo di leggere l’articolo è arrivata una dichiarazione del premier israeliano Netanyahu: “Un’indagine della Corte Penale Internazionale su Israele sarebbe puro antisemitismo”. E ancora: “La Corte istituita per prevenire atrocità come l’Olocausto nazista contro gli ebrei ora prende di mira l’unico Stato degli ebrei”.

Benjami Netanyahu, primo ministro israeliano

E’ arrivato il momento di tentare di fare chiarezza sulle parole, sul loro uso e sulle strumentalizzazioni che s’è ne fanno. Ebrei, giudei, sionisti, semiti, israeliani sono quelle che più si sentono pronunciare da quando, il 7 ottobre, c’è stato l’assalto dei militanti dell’organizzazione palestinese Hamas alle comunità israeliane lungo il confine con la striscia di Gaza.

Sono parole ricorrenti da anni, in molti casi da secoli. Ci interessa soprattutto il periodo che parte dalla fondazione dello Stato di Israele, che Netanyahu ma anche altri leader israeliani considerano e definiscono lo “stato ebraico”, anche se, va ricordato, il venti percento della sua popolazione è formato da non ebrei.

Teoricamente si potrebbe chiamare “stato semita” ma non sarebbe la stessa cosa: gli ebrei ma anche gli arabi, musulmani e non sono, tutti semiti. Per questo, se vogliamo essere precisi, anti-semitismo è un termine che coinvolge sia gli ebrei che gli arabi.

Sono anni che Benjamin Netanyahu porta avanti una campagna molto articolata per convincere il mondo che ogni critica al Israele, soprattutto ai suoi comportamenti nei confronti degli arabi che vivono a Gerusalemme Est e nei territori occupati della Cisgiordania, equivale ad anti-semitismo. Sostiene – e sostengono molte delle organizzazioni ebraiche in Italia e non solo – che non ci sarebbe distinzione tra l’antisemitismo, (chiamato anche giudeofobia; antigiudaismo e antiebraismo) che è il pregiudizio, la paura o l’odio verso gli ebrei e l’antisionismo che esprime la negazione della legittimità dello Stato di Israele. Un miscuglio di termini errati che vogliono far diventare reato qualsivoglia critica allo stato di Israele.

Verso la fine del secolo scorso, quando per la prima volta Netanyahu ascese alla carica di primo ministro di Israele riunì i responsabili dell’hasbara – l’apparato propagandistico del ministero degli Esteri – e spiegò loro come il primo obiettivo del governo israeliano era convincere il mondo che ogni critica a Israele – “allo Stato ebraico”, “allo Stato degli ebrei” – era una forma di anti-semitismo. Negli stessi anni – 1998  – fu fondata quella che sarebbe stata la base dell’IHRA, la International Holocaust Remembrance Alliance.

Secondo la sua dichiarazione fondante, firmata anche dall’Italia, è necessario sostenere la “terribile verità dell’Olocausto contro coloro che la negano” e di preservare la memoria dell’Olocausto come “pietra di paragone nella nostra comprensione della capacità umana per il bene e il male”. “La comunità internazionale – è scritto – condivide la solenne responsabilità di lottare” contro “il genocidio, la pulizia etnica, il razzismo, l’antisemitismo e la xenofobia“.

Non abbiamo assistito a molte lotte della comunità internazionale contro questi fenomeni ancora in atto ma nel 2016, in una riunione a Budapest si volle chiarire cosa poteva essere considerato antisemitismo nel mondo di oggi.

Queste alcune delle considerazioni scritte nel documento ma parzialmente o totalmente contestate:
– Accusare i cittadini ebrei di essere più fedeli a Israele, o alle presunte priorità degli ebrei nel mondo, che agli interessi delle proprie nazioni.
– Negare al popolo ebraico il diritto all’autodeterminazione, ad esempio affermando che l’esistenza di uno Stato di Israele è uno sforzo razzista.
– Applicando doppi standard richiedendogli un comportamento non previsto o richiesto da qualsiasi altra nazione democratica.
– Utilizzare i simboli e le immagini associate all’antisemitismo classico (ad es. ebrei che uccidono Gesù) per caratterizzare Israele o gli israeliani.
– Facendo paragoni tra la politica israeliana contemporanea e quella dei nazisti.
– Ritenere gli ebrei collettivamente responsabili delle azioni dello stato di Israele.”

Qualche anno fa – cinque se ricordo bene – Peter Beinart, professore di giornalismo, scrittore e attivista politico, ebreo in molto cose osservante, figlio di immigrati ebrei dal Sud Africa (suo nonno materno era russo e sua nonna materna, sefardita, egiziana), volle affrontare con un lungo intervento il “mito che anti-sionismo è antisemitismo”.

Peter Beinart

“La tesi secondo cui l’antisionismo è intrinsecamente antisemita – scrisse in un articolo ripreso recentemente da un giornale inglese – si fonda su tre pilastri. La prima è che opporsi al sionismo è antisemita perché nega agli ebrei ciò di cui gode ogni altro popolo: uno Stato proprio”.

“L’idea che tutti gli altri popoli possano cercare e difendere il proprio diritto all’autodeterminazione ma gli ebrei non possono – ha dichiarato Chuck Schumer nel 2017 – è antisemitismo”.

Come ha affermato l’anno scorso David Harris, capo dell’American Jewish Committee: “Negare al popolo ebraico, tra tutti i popoli della terra, il diritto all’autodeterminazione è sicuramente discriminatorio”.

“Tutti i popoli della terra? – si chiede Beinart -. I curdi non hanno un proprio Stato. Né lo hanno i baschi, i catalani, gli scozzesi, i kashmiri, i tibetani, gli abkhazi, gli osseti, i lombardi, gli igbo, gli oromo, gli uiguri, i tamil, i quebecchesi, né decine di altri popoli che hanno creato movimenti nazionalisti per cercare l’autodeterminazione ma non sono riusciti a raggiungerla”.

“Eppure quasi nessuno suggerisce che opporsi a uno Stato curdo o catalano ti renda un bigotto anti-curdo o anti-catalano. È ampiamente riconosciuto che gli Stati basati sul nazionalismo etnico – stati creati per rappresentare e proteggere un particolare gruppo etnico – non sono l’unico modo legittimo per garantire l’ordine pubblico e la libertà individuale. A volte è meglio promuovere il nazionalismo civico, un nazionalismo costruito attorno ai confini piuttosto che al patrimonio: rendere l’identità spagnola più inclusiva dei catalani o l’identità irachena più inclusiva dei curdi, piuttosto che spartire quegli stati multietnici.”

Coloni israeliani, in Cisgiordania occupano terreni di proprietà polestinese

L’assalto di Hamas alle comunità israeliane ebraiche lungo il confine con Gaza e soprattutto la risposta israeliana ha visto (e continua a generare) parole di odio nei confronti delle comunità ebrei e palestinesi. E in questa situazione il termine anti-semitismo sarebbe perfetto soprattutto se pronunciato da chi, in giro per il mondo, disprezza gli arabi quanto disprezza gli ebrei.

Ragioniamo, con Beinart, sul termine anti-sionisti e anche su stato-coloniale. “Forse – scrive – non è bigotto opporsi alla richiesta di uno stato da parte di un popolo. Ma è bigotto togliere quella statualità una volta raggiunta”.

“Una cosa è sostenere, nella controversa corte dei ‘what-if’ storici, che Israele non doveva nascere – ha affermato l’editorialista del New York Times Bret Stephens. Tuttavia -Israele è ora la patria di quasi 9 milioni di cittadini, con un’identità che è distintamente e orgogliosamente israeliana quanto gli olandesi sono olandesi o i danesi danesi. L’antisionismo propone niente di meno che l’eliminazione di quell’identità e l’espropriazione politica di coloro che la apprezzano”.

“Ma non è bigotto – aggiunge sempre Beinart – cercare di trasformare uno Stato basato sul nazionalismo etnico in uno stato basato sul nazionalismo civico, in cui nessun gruppo etnico gode di privilegi speciali”.

Fino a quando non sarà terminata, o chiarita, la posizione dei coloni ebrei in Cisgiordania e a Gerusalemme Est, e fino a quando i palestinesi non saranno liberi sulla loro terra, la parola apartheid è considerata da molti un termine valido per definire lo Stato di Israele.

Eric Salerno
eric2sal@yahoo.com
X: @africexp

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Alla coppa della Confederazione africana tira e molla fra Algeria e Marocco per una maglietta

Dal Nostro Corrispondente Sportivo
Costantino Muscau
8 Maggio 2024

Nell’Italia del XIII secolo è ambientata la guerra fra modenesi e bolognesi per una secchia rapita. Nel nord Africa odierno succede che una squadra marocchina e una algerina arrivino ai ferri corti per una maglietta calcistica.

Maglietta del Berkhane (Marocco) con Sahara Ocidentale

In realtà, senza toccare le vette tragicomiche narrate dal poeta Tassoni nel poema di liceale memoria, il conflitto pallonaro magrebino nasconde una tensione diplomatica abbastanza seria. Partiamo dalla fine di aprile, stadio municipale di Berkane, città di 110 mila abitanti del Marocco nordorientale, celebre anche per i suoi agrumeti.

I giocatori della società calcistica della massima serie, “RS (Renaissance sportive) Berkane”, esultano. Hanno vinto senza aver tirato un solo calcio al pallone e vanno dritti a disputare la finale, il 12 maggio prossimo, della Coppa della Confederazione africana, una competizione annuale per squadre di club organizzata dalla CAF (Confederazione africana di football).

Questo perché i loro avversari, gli algerini dell’USM Alger, (Unione Sportiva della Medina di Algeri), detentori della Coppa, si sono rifiutati di giocare la semifinale. E quindi la CAF, che ha sede al Cairo, ha assegnato alla “Rs Berkane” la vittoria a tavolino per 3-0.

A che cosa è legato questo gran rifiuto algerino? Al fatto che sulla casacca degli atleti marocchini compariva anche il Sahara occidentale.

È noto che da decenni questa estesa ex colonia spagnola è al centro di una controversia tra il Regno del Marocco e il Fronte Polisario.

Essa è controllata per quasi l’80 per cento dal Marocco, ma rivendicata dagli indipendentisti del Polisario, appoggiati dall’Algeria. E non solo: anche l’Iran, la Corea del Nord, la Siria e altri Paesi sostengono la richiesta di autonomia, mentre Stati Uniti, Israele, Spagna, Francia, Arabia Saudita, Emirati Arabi e molte altre nazioni riconoscono la sovranità marocchina. Nel 2021 l’Algeria è arrivata a rompere le relazioni diplomatiche col suo grande rivale regionale.

Il conflitto, ora, dal terreno diplomatico si è trasferito sul campo da gioco. Il 21 aprile, domenica, ad Algeri si era svolta la prima parte di questa commedia poco comica e abbastanza seria, in occasione della partita di andata: i giocatori di casa non avevano voluto accettare il confronto pedatorio con marocchini. Sono stati, quindi, puniti con il 3-0. Il 28 aprile nell’incontro di ritorno a Berkane, stessa scena. E il 3 maggio identico verdetto della Caf (sempre 3-0).

Alla vigilia della (non) disfida del 21 aprile, per la verità, c’era stato un prologo controverso. Due giorni prima, infatti, nell’aeroporto Houari Boumediene, i doganieri algerini avevano sequestrato le magliette arancione dei calciatori del “Berkane”, appena sbarcati dal volo che li aveva portati da Oujda.

Solita motivazione: il Paese del re Mohammed VI era effigiato nella sua completezza, ovvero con il Sahara. I marocchini avevano protestato per quello che consideravano un abuso. Il presidente della Federazione di calcio algerina, Wafi Sadi, ha cercato una mediazione dichiarandosi disposto a fornire “nuovi indumenti e di alta qualità”, purchè privi della carta geografica del loro Paese! Niente da fare: i berkanesi si erano rifiutati di modificare la loro divisa. Quando si dice attaccamento alla maglia…E i loro rivali rossoneri hanno proseguito nella loro protesta proprio contro quell’attaccamento. Una questione di bandiera.

 

La CAF, oltretutto, aveva ribadito che il “RS Berkane” indossava quella maglietta fin dall’inizio del torneo.

CAF: i marocchini del Berkhane vincono a tavolino la semifinale. Gli algerini si rifiutano di scendere in campo

Conclusione: il “Berkane” in finale, il 12 maggio, affronterà il club egiziano “Zamalek” nella partita d’andata. Proprio quegli avversari da cui sono stati battuti nel 2019 (ma si sono rifatti conquistando il trofeo nel 2020 e 2022). Il match di ritorno è previsto al Cairo, il 19 maggio, una settimana dopo.

Salvo imprevisti: L’USM Alger ha fatto ricorso in appello davanti al Tribunale amministrativo dello sport. Il primo ricorso è stato rigettato e ora pare addirittura che rischi ulteriori sanzioni.

Costantino Muscau
muskost@gmail.com
© RIPRODUZIONE RISERVATA

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SAHARA OCCIDENTALE: ALTRI ARTICOLI LI TROVATE QUI

In Sudan rischio ecatombe per fame e l’ONU lancia l’allarme: gli aiuti non riescono a arrivare

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
7 maggio 2024

Nei giorni scorsi il Programma Alimentare Mondiale delle Nazioni Unite (PAM), ha lanciato un nuovo allarme: “Il tempo sta per scadere. In Darfur siamo vicini alla carestia. L’intensificarsi degli scontri a El Fasher, capoluogo del Darfur settentrionale, e gli infiniti problemi burocratici, imposti dalle autorità sudanesi a Port Sudan, ostacolano gli operatori umanitari che non riescono a portare gli aiuti alimentari nella regione”.

Rischio carestia nel Darfur settentrionale

Michael Dunford, direttore regionale del PAM per l’Africa orientale, ha chiesto accesso illimitato per portare aiuti e assistenza alle famiglie in grave difficoltà che devono lottare giornalmente per la propria sopravvivenza a causa delle incessanti violenze. Dunford ha sollecitato le autorità sudanesi ad autorizzare l’utilizzo del valico di frontiera di Adre (tra Ciad e Sudan) e di poter attraversare le linee dei fronti da Port Sudan verso il centro del Paese.

Anche UNICEF ha spiegato che i civili di El Fasher e dell’intera regione del Darfur stanno già affrontando seri problemi alimentari. A causa dell’escalation delle violenze nell’area del capoluogo sono stati bloccati i convogli di aiuti provenienti dal valico di frontiera di Tine (tra Ciad e Sudan), un corridoio umanitario che è stato aperto a marzo e che passa attraverso il capoluogo del Darfur settentrionale.

Radio Dabanga (emittente che trasmette dall’Olanda) ha fatto sapere che il nord e il nord-est di El Fasher sono già sotto assedio da parte delle Rapid Support Forces, capitanate da Mohamed Hamdan Dagalo “Hemetti”, che da un anno sono in guerra contro le forze armate sudanesi (SAF) del de facto presidente e capo dell’esercito, Abdel Fattah Abdelrahman al-Burhan. L’occupazione delle RSF ha peggiorato drasticamente la già grave situazione, dovuta anche a una nuova impennata dei prezzi, carenza di cibo e di forniture medico-sanitarie. E la settimana scorsa altri due centri medici hanno dovuto chiudere i battenti.

Già alla fine del mese di aprile l’ONU aveva lanciato l’allarme su un possibile attacco da parte delle RFS contro El-Fasher e sulle devastanti conseguenze per la popolazione.

Se i paramilitari dovessero prendere il pieno controllo di El Fasher, si accenderebbero anche le lotte tra le tribù arabe che sostengono la RSF e quella Zaghawa. Infatti, Minni Minawi, leader della fazione MM del Movimento di Liberazione Sudanese, e Gibril Ibrahim, leader del Movimento per la Giustizia e l’Uguaglianza, si sono schierati con l’esercito. Entrambi appartengono alla tribù non araba degli Zaghawa.

Guerra, violenze, malattie, fame non si arrestano in Sudan, dove da quasi 13 mesi si consuma un sanguinoso conflitto tra i due generali. Pochi giorni fa sono stati uccisi due autisti del Comitato Internazionale della Croce Rossa (CICR) e altri tre dipendenti sono rimasti feriti in un attacco di uomini armati nel Darfur meridionale.

Durante i 13 mesi di guerra sono state uccise oltre 16.000 persone,  cifra certamente sottostimata per la difficoltà di raccogliere dati accurati e in tempo reale, mentre gli sfollati sono oltre 9 milioni. I profughi, coloro che hanno cercato protezione nei Paesi confinanti, sono circa 1.700.000. Secondo le Nazioni Unite, il Sudan è oggi il Paese con il numero di sfollati più elevato al mondo e ben oltre la metà dei 45 milioni di abitanti del Paese soffre di grave insicurezza alimentare.

Secondo gli osservatori, accanto alle parti in conflitto combattono anche numerosi gruppi mercenari di altri Paesi o come per esempio, le forze speciali ucraine che supportano l’esercito sudanese, o i contractor russi di Wagner accanto alle RSF.

Sudan: forze speciali ucraine catturano mercenari di Wagner

Recentemente i paramilitari di Hemetti hanno accusato il TPLF (Fronte popolare di liberazione del Tigray) di lottare insieme alle forze armate sudanesi, guidate da al-Burhan. Il presidente a interim delle autorità di Makallé,  Getachew Reda, ha rispedito al mittente tali insinuazioni.

Secondo le RSF esistono però “prove documentate” che forze del Tigray stanno combattendo a fianco dei soldati di SAF.

Durante il sanguinoso conflitto del 2020-2022 nel nord dell’Etiopia, migliaia di etiopi provenienti dal Tigray hanno  cercato protezione nel vicino Sudan. E centinaia di ex caschi blu dell’ONU, originari della regione settentrionale etiopica in fiamme, hanno cercato asilo nell’ex protettorato anglo-egiziano, temendo di essere perseguitati qualora fossero tornati in patria.

Durante la guerra in Tigray, le autorità di Addis hanno ripetutamente affermato che l’esercito sudanese armava, ospitava e addestrava le forze del TDF (Tigray Defense Forces), fatto che Khartoum ha sempre negato.

Cornelia I.Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
X: @cotoelgyes

© RIPRODUZIONE RISERVATA

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SUDAN: ALTRI ARTCILI LI TROVATE QUI

 

Smotrich, ministro delle finanze israeliano, invoca la “Soluzione finale” per la Striscia di Gaza

Speciale per Africa ExPress
Alessandra Fava
6 maggio 2024

I tedeschi del Reich la chiamavano “Soluzione finale”. Fa parecchio effetto il fatto che un  ministro israeliano usi un’espressione molto simile riferendosi a 2,3 milioni di palestinesi che ancora vivono nella Striscia di Gaza. Non sembra passi molta diversità tra la “Soluzione finale” nazista e l’espressione “Annientamento totale”, usata per la Striscia di Gaza, dal Ministro delle finanze israeliano Bezalel Smotrich, membro del Gabinetto di sicurezza e quindi del gruppo ristretto che sta decidendo le sorti della guerra mediorientale.

Insomma la volontà del ministro è quella di eliminare completamente i palestinesi dalla Striscia. Non sono mancate le proteste dei commentatori: Haaretz ha scritto in un fondo che le frasi di Smotrich rischiano di aggiungere materiale per il processo internazionale per crimini di guerra. Associazioni statunitensi hanno chiesto al presidente Biden di riconsiderare il suo appoggio al governo israeliano.


Il Ministro di estrema destra non è nuovo ad attacchi settari contro gli arabi. Questa volta ha rilasciato le dichiarazioni in una festa per la fine della Pasqua ebraica a casa di un rabbino legato al movimento Garuin Torani (in israeliano Nuclei della Torah) che invita i suoi adepti ad abitare in aree miste ebree e arabe all’interno di Israele per intimidire gli arabo-israeliani.

“Non ci sono vie di mezzo – ha detto precisamente il ministro parlando della guerra in corso nella Striscia –. Per le città di Rafah, Deir al-Balah e Nuseirat annientamento totale” e ha quindi citato un pezzo della Bibbia sui nemici al comando di Amalek sconfitti dal popolo ebraico. Parlando quindi delle trattative per il rilascio degli ostaggi e la tregua, Smotrich ha rincarato la dose: “Si negozia con qualcuno che avrebbe dovuto cessare la sua esistenza molto tempo fa”.

Quindi ha concluso che finita l’operazione a Gaza con lo sdradicamento di Hamas, verrà il momento di indebolire il fronte nord di Hezbollah e che chiunque attacca gli ebrei “come in passato sarà distrutto, distrutto, distrutto”. Smotrich sta anche ricattando il premier Netanyhau, del cui governo fa parte, visto che alcuni giorni fa ha detto che se non si attacca Rafah, l’esecutivo ha finito il suo compito e può anche cadere.



Le sue parole hanno avuto parecchia eco sui giornali israeliani e zero in quelli europei ed italiani. “In un Paese normale cinque minuti dopo dichiarazioni simili di un ministro in carica, il premier avrebbe convocato una conferenza stampa, costretto il ministro alle dimissioni e dichiarato pubblicamente che gente simile non ha posto nel proprio governo  – ha scritto in un fondo della redazione il quotidiano Haaretz –. Ma nell’Israele di Netanyhau a fronte di un leader che invoca il genocidio, non c’è un membro del governo che si alza e dice ‘ne abbiamo abbastanza, o loro o noi’”.

“Devono ricordarsi di cosa successe ad Amalek*” aveva detto a novembre Netanyhu. E sempre lo scorso autunno Ganz aveva parlato di “cancellare Gaza”. Frasi finite nel processo intentato dal Sudafrica presso la Corte penale internazionale.

Alessandra Fava
alessandrafava2015@libero.it
©️ RIPRODUZIONE RISERVATA

*Amelek era il capo degli amalechiti, un tribù preislamica  che attaccò gli ebrei ritornati in Palestina dall’Egitto dove erano tenuti in schiavitù

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Qui i nostri ultimi articoli sulla guerra a Gaza

 

Economia e finanza possono agire contro il genocidio a Gaza

Speciale per Africa ExPress
Federica Iezzi
3 Maggio 2024

A seguito di una causa intentata dal Sudafrica contro Israele, la Corte Internazionale di Giustizia, lo scorso dicembre, ha stabilito che esiste un “rischio reale e imminente” che Israele stia commettendo un genocidio contro i palestinesi sulla Striscia di Gaza.

Le implicazioni dell’ordinanza sono chiare per Israele, ma quali sono quelle per le multinazionali che intrattengono legami commerciali con Israele e per i Paesi in cui tali società hanno sede?

Striscia di Gaza [photo credit Al-Jazeera]
L’articolo 1 della Convenzione sul genocidio (1948) impone, agli Stati parte, il dovere di “impiegare tutti i mezzi ragionevolmente a disposizione” per prevenire e punire il crimine di genocidio. Ma cosa significa in pratica?

Come già affermato nella sentenza sul caso Bosnia-Erzegovina contro Serbia e Montenegro (2007), un fattore chiave nel determinare ciò che uno Stato deve fare è la sua “capacità di influenzare efficacemente le azioni di chi potrebbe commettere un genocidio”.

La forza e la profondità dei legami che uno Stato terzo ha con Israele, oggi, aiuta a determinare la capacità stessa di impedire atti di genocidio. Dunque, l’articolo 1 stabilisce un obbligo di sforzo, non di risultato.

Nel caso Bosnia-Erzegovina contro Serbia e Montenegro, la Corte Internazionale di Giustizia decretò che l’obbligo di prevenire il genocidio sorge “nell’istante in cui uno Stato viene a conoscenza dell’esistenza di un grave rischio di esecuzione di un genocidio”. Ecco che l’ordinanza della Corte Internazionale di Giustizia, attiva così l’obbligo per gli Stati terzi di intraprendere azioni preventive a Gaza.

E allora, come possono gli Stati terzi prevenire il genocidio, usando le loro relazioni commerciali ed economiche?

Come primo punto, attraverso il disinvestimento da società complici delle violazioni del Diritto Internazionale Umanitario da parte di Israele.

Ne è un esempio la Elbit Systems, il più grande produttore privato di armi in Israele e uno dei maggiori appaltatori della difesa israeliana. Dal lontano 2007, organizzazioni per la difesa dei diritti umani invitano gli Stati a sospendere i contratti con la Elbit Systems e a disinvestire i fondi pubblici dalla società, con sede ad Haifa.

Per rispettare l’articolo 1 della Convenzione sul genocidio, gli Stati devono adottare misure efficaci per impedire alle aziende, domiciliate nella loro giurisdizione, di essere coinvolte in atti di genocidio a Gaza e sanzionarle se lo fanno. Inoltre, i Principi guida delle Nazioni Unite su imprese e diritti umani forniscono ulteriori indicazioni su come uno Stato d’origine – il Paese in cui è domiciliata un’azienda – può adempiere a questo dovere.

E ancora, nelle relazioni commerciali, ogni Stato fornisce quadri giuridici e istituzionali per la cooperazione economica con altre entità. I Paesi che intrattengono rapporti commerciali con Israele devono considerare queste relazioni come un mezzo ragionevolmente disponibile per prevenire il genocidio.

L’Unione Europea è il principale partner commerciale di Israele attraverso un flusso bidirezionale di beni, servizi e investimenti diretti. Questi legami possono essere efficacemente sfruttati per influenzare la condotta di Israele a Gaza. Le sanzioni economiche, compresi gli embarghi commerciali, sono strumenti chiave con cui gli Stati possono esercitare pressioni su partner commerciali e conseguentemente influenzare il comportamento di uno Stato.

Ne è un chiaro esempio la risposta ai crimini di guerra perpetrati dalla Russia in Ucraina. Dal marzo 2014, l’Unione Europea ha progressivamente imposto sanzioni alla Russia, progettate per indebolire la base economica del Paese, privandola di tecnologie e mercati critici e riducendo significativamente la sua capacità finanziaria.

In che modo le aziende potrebbero essere responsabili di complicità nel genocidio? La complicità aziendale negli atti di genocidio viene equiparata ad una relazione di “favoreggiamento”, dove il favoreggiamento si riferisce alla fornitura di sostegno fisico o materiale all’attore che commette un crimine internazionale.

Secondo l’organizzazione Oil Change International, le principali compagnie petrolifere, tra cui BP (British Petroleum), Chevron, ExxonMobil, Shell, Eni e TotalEnergies, sono coinvolte – attraverso le loro quote di proprietà o operazioni – nella fornitura di carburante a Israele.

Veicoli e carburante costituiscono una catena di approvvigionamento essenziale per le attività dell’aeronautica militare, delle forze di terra e della marina israeliane volte ad assediare e attaccare i palestinesi, che godono di uno status di protezione speciale ai sensi del Diritto Internazionale Umanitario, in tutta la Striscia di Gaza.

Altro esempio è il sistema di intelligenza artificiale Lavender, utilizzato da Israele per la campagna di bombardamento automatizzata in aree densamente popolate della Striscia di Gaza. La tecnologia fornita dalla società israeliana Corsight, per il riconoscimento facciale, è gestita direttamente dall’unità di intelligence militare israeliana 8200, autrice di Lavender.

E veniamo alle popolari piattaforme di social media come TikTok, Instagram, X, Facebook, WhatsApp e Telegram. Queste vengono utilizzate sia dai civili che dal personale militare israeliano per diffondere contenuti che potrebbero plausibilmente incitare al genocidio, alla disumanizzazione e alla violenza.

Il divieto del genocidio è una norma di ius cogens – un principio di diritto internazionale consuetudinario – così fondamentale per i valori della comunità internazionale, da non poter essere derogato da nessuna delle parti.

Se in un momento di lucidità, è stato necessario adottare la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (1948), si è indirettamente riconosciuto che se non incontrano ostacoli, gli Stati, le Nazioni e i popoli, possono diventare indifferenti all’umanità e, quindi, pericolosi e criminali.

Federica Iezzi
federicaiezzi@hotmail.it
Twitter @federicaiezzi
©️ RIPRODUZIONE RISERVATA

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Ergastolo per dieci chili di avorio: le contraddizioni della giustizia in Uganda

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Speciale per Africa ExPress
Sandro Pintus
5 maggio 2024

Pascal Ochiba, 63 anni, ugandese, è un contrabbandiere di parti di animali. Nel gennaio 2022 è stato “beccato” con pezzi di avorio che pesavano 9,55 kg. Secondo la Wildlife Justice Commission la merce sequestrata valeva 350 euro/kg (dati 2020).

Per l’accusa Ochiba non faceva parte di un gruppo di criminalità organizzata ma la giudice, Gladys Kamasanyu, capo del Tribunale della fauna selvatica dell’Uganda ha emesso una sentenza pesantissima: ergastolo.

Ci viene da pensare che con questo tipo di piccolo contrabbando individuale avrebbe fatto campare la famiglia per diverso tempo. La giudice ha voluto una condanna esemplare: la pena massima prevista dalla legge ugandese.

Una sentenza poco ragionevole

Del caso ne ha scritto su Environmental Investigation Agency (EIA) Shamini Jayanathan, avvocata britannica e direttore di Arcturus Consultancy Ltd. Lo scopo del lungo commento era sottolineare la mancanza di coerenza nelle sentenze.

Secondo Jayanathan, “…senza principi guida che obblighino i tribunali ad applicare criteri oggettivi e ragionevoli, l’effetto deterrente di tali sentenze è limitato”. Questione che in Kenya hanno risolto. Infatti, la condanna a vita in un carcere ugandese per una decina di chili di avorio è una sentenza poco ragionevole

Il caso dell’uccisione del gorilla Rafiki

In Uganda però – e parliamo dello stesso sistema giuridico – c’è stato un altro caso: l’uccisione del gorilla Rafiki, (parola che vuol dire “amico”, in lingua swahili, ndr) uno dei più noti gorilla di montagna.

Un bracconiere, Felix Byamukama, ha confessato di aver ucciso una piccola antilope e un facocero. Attaccato dal gorilla, l’ha ucciso con la sua lancia per difendersi. Un tribunale ugandese, il 30 luglio 2020, lo ha condannato a 11 anni di prigione.

Il regalo dell’avvocato

Ma Pascal Ochiba è stato fortunato. Blair Michael Ntambi, avvocato dello studio legale KTA Advocates di Kampala, ha offerto i suoi servizi gratuitamente. Ha scoperto che Gladys Kamasanyu, giudice del processo, è fondatrice dell’ong Help African Animals-Speak Out For Them (Aiuto agli animali africani-Parliamo per loro). Un chiaro conflitto di interessi.

Una giusta sentenza

Ntambi ha verificato che il suo cliente non era stato rappresentato bene al processo e che la sentenza stessa era manifestamente dura ed eccessiva. Ha quindi presentato appello che è stato accolto ed è stato discusso presso l’Alta Corte di Kampala il 13 marzo 2024. L’accusa aveva chiesto 15 anni ma dopo una trattativa la difesa ha ottenuto 6 anni e mezzo.

“Purtroppo non siamo riusciti a stabilire una giurisprudenza sulla questione della parzialità giudiziaria – ha dichiarato Ntambi dopo la sentenza -. Questo ci ha spinto a occuparci di questo caso pro bono. Rimaniamo impegnati a sostenere un solido quadro giuridico che disciplini il giusto processo in Uganda”.

Giustizia giusta è fatta. Pascal Ochiba e famiglia ringraziano.

Sandro Pintus
sandro.p@catpress.com

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I russi entrano nella base americana a Niamey

Africa ExPress
Niamey, 4 maggio 2024

Il 16 marzo il governo golpista di Niamey ha chiesto agli Stati Uniti di ritirare le proprie truppe dal Paese africano. Così Washington ha cominciato a sgombrare.

Alcuni militari americani si trovano nella Air Base 101, situata nelle immediate vicinanze dell’aeroporto Diori Hamani di Niamey, dove ieri si sono installati in un hub diverso anche soldati russi, arrivati a metà aprile in Niger. Fino alla loro cacciata, nel campo erano presenti anche le truppe francesi.

Niger, Niamey Air Base 101

A poca distanza, all’interno dell’aerodromo, c’è anche il campo dei soldati italiani, presenti nel Paese nell’ambito della Missione bilaterale di supporto alla Repubblica del Niger (MISIN). Fino alla realizzazione di proprie infrastrutture, inaugurate nel maggio 2023 all’interno dell’aeroporto di Niamey, i nostri militari sono stati ospitati nella Air Base 101.
Anche se separate ci sono truppe italiane, statunitensi e russe. Tutti sotto lo stesso cielo rovente del Sahel.

Il segretario alla Difesa statunitense, Lloyd Austin, ha minimizzato qualsiasi rischio per le truppe americane o la possibilità che i russi si avvicinino alle attrezzature militari americane.

Il 17 aprile scorso, il vice segretario di Stato americano, Kurt Campbell, e il primo ministro nigerino Ali Mahaman Lamine Zeine si sono incontrati nella capitale americana e, secondo quanto riportato, Washington si è impegnato a iniziare a pianificare un ritiro “ordinato e responsabile” delle proprie truppe dal Paese. Ma, con la mossa dei golpisti di invitare i russi alla Air Base 101, dove si trovano anche i militari USA, sembra che le autorità nigerine vogliano mettere fretta agli americani di lasciare il Paese.

Attualmente il contingente USA presente in Niger conta un migliaio di uomini, alcuni si trovano nella Air Base 101, situata vicino all’aeroporto della capitale, ma la maggior parte delle truppe è dislocata ancora vicino a Agadez, nella Air Base 201, la cui costruzione è costata più di 100 milioni di dollari. La base, che dista quasi 1000 chilometri dalla capitale, è stata progettata per l’utilizzo di voli di sorveglianza con e senza equipaggio e altre operazioni. Ma dal golpe militare dello scorso anno, è praticamente inattiva, la maggior parte dei droni, che un tempo monitoravano le attività jihadiste nei Paesi africani instabili, sono stati messi negli hangar.

Il portavoce del Pentagono, Pat Ryder il 24 aprile ha fatto sapere che sono iniziati i colloqui con le autorità nigerine per il ritiro delle truppe USA. Secondo diversi analisti potrebbero passare diversi mesi prima di consegnare la Air Base 201 alle autorità locali, ci vorrà del tempo per evacuare in sicurezza uomini e attrezzature.

Come i putschisti dei vicini Mali e Burkina Faso, anche il Niger ha cacciato le truppe francesi dopo il golpe.

Bandiera del Niger e Russia a Niamey

I tre Paesi si sono ora rivolti alla Russia per ottenerne sostegno: all’inizio del mese Mosca ha confermato l’invio di istruttori, di un sistema di difesa aerea e di altri equipaggiamenti bellici al Niger, nell’ambito di una cooperazione in svariati campi, compresa quella militare. E pochi giorni dopo aver notificato a Washington di smobilitare la base, sono arrivati i soldati russi con il loro equipaggiamento.

La giunta militare di transizione nigerina vede la collaborazione con Mosca come l’inizio di una nuova era e sembra che molti giovani approvino le scelte dei golpisti, anche se la loro vita è diventata più difficile e precaria a causa dei tagli degli aiuti internazionali dopo il golpe dello scorso anno. “I russi stanno consegnando armi ai nostri fratelli in Mali e Burkina Faso, ed è questo che vogliamo: un partner affidabile che ci rispetti!”, sono i commenti di alcuni partecipanti alle manifestazioni anti-francesi dello scorso anno.

Una delegazione russa ricevuta dalle autorità in Niger

In un’intervista rilasciata a al Jazeera, Ibrahim Yahaya, vicedirettore del Progetto Sahel dell’International Crisis Group (una ONG fondata nel 1995, che si occupa di prevenire i conflitti e di definire politiche per costruire un mondo più pacifico), sostiene che le potenze occidentali in un certo senso sono riuscite a intromettersi negli affari locali. “Ma questa giunta vuole mettere fine a tutto questo e vuole affermare la propria sovranità”, ha sottolineato Yahaya.

Fino a meno di un anno fa il Paese era governato da Mohamed Bazoum, un ex insegnante, eletto nel 2021, l’ultimo amico dell’Occidente nel Sahel. Bazoum, è ancora nelle mani dei putschisti in quanto si è sempre rifiutato di presentare le sue dimissioni. L’ex presidente aveva lasciato basi a Francia, Stati Uniti e, in misura minore, a Italia e Germania. La presenza di militari stranieri, volte a frenare il terrorismo dei gruppi jihadisti nella regione del Sahel e per rafforzare l’addestramento delle forze armate nigerine.

Nonostante i suoi sforzi di introdurre riforme, come la promozione dell’istruzione delle ragazze, il regime di Bazoum è stato spesso criticato per corruzione e repressione. Infatti aveva vietato le proteste nel 2022, iniziate per l’aumento del carburante, poi sfociate in un sentimento anti-francese.

Mohamed Bazoum, ex presidente del Niger

Dopo aver mandato via i militari francesi alla fine di dicembre, la giunta al potere ha dichiarato di voler rinegoziare gli accordi militari con i governi le cui forze sono ancora presenti nel Paese.

A dicembre dello scorso anno il ministro della Difesa di Berlino, Boris Pistorius, si è recato a Niamey. Finora non è chiaro se i militari tedeschi (meno di cento), con il compito di addestrare le forze speciali, resteranno in Niger. Durante la visita di Pistorius si è parlato anche dell’eventualità di mantenere la base aerea tedesca a Niamey, inaugurata nel 2018 da Ursula van der Leyen, allora ministro della Difesa di Berlino.

La nostra Missione è presente in Niger con circa 300 militari. All’inizio di marzo Francesco Paolo Figliuolo, Comandante Operativo di Vertice Interforze (COVI) e l’Ambasciatore Riccardo Guariglia sono stati ricevuti dai vertici delle autorità militari di transizione a Niamey. Mentre alla fine dello stesso mese Giovanni Caravelli ,direttore dell’Agenzia Informazioni e Sicurezza Esterna (AISE), ha incontrato il presidente del regime di transizione, Abdourahmane Tchiani, che ha elogiato l’operato dei nostri soldati nel Paese.

Il generale Paolo Figliuolo in visita alla base di MISIN

Recentemente il governo italiano ha deliberato il nuovo finanziamento per la missione MISIN (Niger). L’11 aprile il comandante del Comando operativo di vertice interforze (COVI), Francesco Paolo Figliuolo, in audizione davanti alle commissioni Esteri e Difesa di Camera e Senato ha spiegato che “prosegue l’impegno della Difesa nel Sahel, dove lo sforzo operativo è focalizzato principalmente sul Niger. L’Italia ha una posizione di interlocutore privilegiato nel Paese, che continua ad essere il crocevia di tutti i flussi migratori sia dal Sahel sia dal Corno d’Africa”.

Secondo Figliuolo è di importanza primaria consolidare la presenza italiana con la missione MISIN e ha precisato: “Complessivamente nel Sahel prevediamo di impiegare un contingente massimo di quasi 800 unità, un’unità navale e fino a 6 assetti tra aerei e elicotteri”.

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La Germania all’assalto del Sahel: si comincia con una grande base in Niger

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Iran: il regime aumenta la repressione dopo l’attacco israeliano

Speciale per Africa ExPress
Francesca Canino
3 maggio 2024

In guerra contro il mondo e in guerra contro il loro stesso popolo. Accade in un Iran, devastato da circa mezzo secolo dal regime degli ayatollah e trasformato oggi in un teatro di scontri e violenze. Difficile dimenticare le donne scese in piazza a protestare un paio di anni fa intonando “Bella ciao” e liberando i capelli dal velo imposto dal fanatismo islamico. Impossibile dimenticare l’uccisione di numerose donne ribelli e la repressione subita per cercare la libertà.

In Iran la libertà è una chimera e i diritti umani sono stati calpestati dal regime teocratico che governa il Paese con metodi repressivi e sanguinari, intensificati ora a causa della possibilità di una guerra con Israele. La popolazione iraniana mostra preoccupazione per l’eventualità, sempre più prossima, di un conflitto. Difatti, in seguito all’attacco che Israele ha sferrato all’Iran nello scorso aprile, la guerra “sotterranea” tra i due Paesi rischia di diventare una guerra totale.

La reazione iraniana non si è fatta attendere e ha suscitato il solito blaterare internazionale schierato senza dubbi dalla parte di Israele. Ma non è solo questo che deve impensierire, considerati i problemi del popolo iraniano, acuiti dal malessere sociale ed economico che decenni di repressione hanno, purtroppo, generato. A peggiorare le condizioni sono stati gli attriti tra Iran e Israele, che hanno avuto forti ripercussioni sui prezzi.

Nel Paese islamico, inoltre, dilaga anche la corruzione che allarma governanti e governati, memori della crisi del pane e dell’acqua degli anni scorsi. E per impedire rivolte come quelle scoppiate dopo l’uccisione di Masha Amini (la giovane arrestata e uccisa mentre era sotto custodia della “polizia morale” iraniana perché il suo velo non copriva tutti i capelli), il regime ha aumentato la repressione interna.

La paura a Teheran si fonda sulla possibilità che i cittadini possano approfittare dei “venti di guerra” per destabilizzare il regime. In molti vedono l’attacco israeliano come l’evento “salvifico” che spazzerà via la Repubblica Islamica, un paradosso noto, tuttavia, al governo che, forse proprio per questo motivo ha aumentato gli atti repressivi nelle strade e tra i giornalisti e i dissidenti.

Le notizie e le immagini che ci giungono da Teheran sono allarmanti: la violenza ricade in particolare sulle donne che non osservano la legge sull’hijab, come si può vedere in un video inviato ad Africa Express.

Una donna viene buttata a terra da un gruppo di uomini e tenuta per i capelli, strattonata, picchiata, la sua vita è messa in pericolo perché viene spinta sulla carreggiata percorsa dalle auto. La donna cerca di liberarsi, ma le legano le mani dietro la schiena. E probabilmente sarà stata condotta nelle temibili carceri iraniane o uccisa.

Una scena inquietante, ma molto frequente da quando le donne sono insorte per conquistare la libertà a costo di perdere la vita o subire violenze inaudite. L’obiettivo è sconfiggere il regime dittatoriale che ha portato allo stremo milioni di persone.

La storia recente dell’Iran è ricolma di libertà negate, di un governo che controlla e schiaccia i cittadini con la forza delle armi e con la crisi economica, sociale e sanitaria che ha impoverito la popolazione rendendola spesso priva di scrupoli. È difficile, infatti, per il popolo capire perché ancora la polizia obbedisce ciecamente ai governanti, senza pensare che quando uccide o picchia i manifestanti questi sono suoi connazionali, suoi simili.

Francesca Canino
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Piogge torrenziali e alluvioni: violenta crisi umanitaria in Kenya

Africa ExPress
1° maggio 2024

L’Africa orientale è nella morsa di El Nino e ha portato inondazioni diffuse, sommergendo intere aree, tra questi Kenya e Tanzania, lasciando dietro di sé una scia di distruzione. Milioni di persone sono sfollate, centinaia i morti e dispersi.

“Ieri in alcuni quartieri di Nairobi un tiepido sole ha fatto capolino per qualche ora. Adesso il cielo si sta oscurando nuovamente. Nuvole nere, cariche di pioggia si stanno avvicinando. Vivo in Kenya da oltre 10 anni e non ho mai visto nulla di simile”, ha raccontato la nostra stringer alla redazione di Africa ExPress.

Un quartiere di Nairobi allagato

Le forti piogge e le inondazioni incessanti, alimentate da El Nino, hanno fatto precipitare l’Africa orientale in una crisi umanitaria. Dal Kenya, e più a sud in Tanzania, molte comunità hanno dovuto affrontare l’impatto devastante  delle acque che ha portato distruzione in molte zone.

Anche a Nairobi, la capitale del Kenya, alcuni quartieri sono allagati. Una altro stringer di Africa ExPress ci ha raccontato: “Molta gente si rifiuta di lasciare gli slums anche se sono ridotti a fiumi di fango per paura di perdere anche i pochi pezzi che restano della propria baracca. Ogni shock ambientale ed economico devasta ancora di più chi è già in situazioni di grande vulnerabilità. Oggi è morto anche un bambino di polmonite nel Nairobi Children Rescue Centre”. Infine ha aggiunto: “Ora stiamo organizzando una raccolta fondi e beni di prima necessità per la gente delle baraccopoli”.

Già venerdì le autorità del Kenya hanno avvertito che le piogge hanno riempito le dighe idroelettriche fino alla loro capacità, minacciando così un massiccio straripamento a valle.

Lunedì si era sparsa voce del crollo della vecchi diga di Kijabe, vicino alla città di Mai Mahiu, nella Rift Valley, a circa 100 km a nord-ovest di Nairobi, portando con se fango, alberi sradicati e rocce.

L’Autorità per la gestione delle risorse idriche (Warma) hanno poi dichiarato nella giornata di ieri che la massa devastatrice non era dovuta al cedimento della diga ma all’acqua e ai detriti che sono tracimati da un canale nella contea di Kiambu. L’ondata è arrivata fino a Naivasha.

Comunque l’enorme massa d’acqua  ha distrutto almeno 100 abitazioni, uccidendo oltre 50 persone. Molte altre sono date per disperse e un centinaio sono state ricoverate negli ospedali vicini. Il presidente William Ruto ha ordinato alle forze armate di dispiegare personale per aiutare a trovare i dispersi.

La furia delle acque in Kenya

Rigathi Gachagua, vicepresidente del Kenya, nel porgere le condoglianze alle persone colpite, ha aggiunto: “I danni sono devastanti e hanno innescato un’enorme crisi umanitaria. Le forti piogge di queste ultime settimane hanno lasciato scie di morte e distruzione e costretto la gente alla fuga. La furia della natura è incommensurabile”.

Il capo di Stato, William Ruto, ieri mattina ha convocato una riunione straordinaria del Gabinetto. Sono siete deliberate misure aggiuntive volte a mitigare gli effetti del disastro causato dalle piogge torrenziali e per salvaguardare la vita, le proprietà e i mezzi di sussistenza della popolazione. I residenti nelle vicinanze delle zone a rischio – come corsi d’acqua, dighe e terreni soggetti a frane e/o smottamenti sono stati invitati a lasciare tali zone entro 48 ore. Chi dovesse rifiutarsi sarà trasferito forzatamente. Il Governo ha identificato in parte aree del Paese spazi pubblici, dove le persone colpite riceveranno un rifugio temporaneo. Saranno poi aiutate con generi alimentari e beni di prima necessità.

Il Segretario di Gabinetto per i Trasporti, Kipchumba Murkomen, ha inviato il personale del National Youth Service (NYS) sul luogo della tragedia di Maai Mahiu. parteciperanno alla missione di ricerca e salvataggio. Murkomen ha poi rivelato al “The Star”, uno dei maggiori quotidiani del Kenya, che dall’inizio delle forti piogge sono morte 300 persone.

La Croce Rossa del Kenya sta cercando di salvare un gruppo di turisti intrappolati nei campi di Narok, a 215 km da Nairobi.

Kenya Red Cross: salvataggio turisti

La furia delle acque ha devastato anche molte strade e parecchie scuole sono inagibili. Domenica è stato inondato anche un sottopassaggio stradale dell’aeroporto internazionale di Nairobi, ma i voli non hanno subito interruzioni, ha fatto sapere la Kenya Airports Authority.

Le gravi piogge hanno colpito anche altre zone della regione. In Burundi quasi 100.000 persone sono state sfollate, mentre almeno 155 sono morte in Tanzania e diverse migliaia sono rimaste senza casa.

Inondazioni in Burundi

El Nino, un modello climatico naturale associato all’aumento delle temperature in tutto il mondo, ha portato piogge eccessivamente intense che hanno colpito la regione dell’Africa orientale. A marzo, l’Organizzazione meteorologica mondiale delle Nazioni Unite ha dichiarato che El Nino 2023-24 è stato uno dei cinque più forti mai registrati.

E il 29 aprile i più alti funzionari delle Nazioni Unite hanno chiesto un’azione rapida per combattere gli eventi climatici estremi di El Niño che attualmente stanno devastando l’Africa meridionale e altre regioni con inondazioni e siccità.

Reena Ghelani, assistente del segretario generale dell’ONU per le crisi climatiche e per la risposta a El Niño/La Niña, ha evidenziato che attualmente circa 40-50 milioni di persone sono colpite da questa emergenza in ben 16 Paesi.

Purtroppo i meteorologi non sono ottimisti: hanno indicato una probabilità compresa tra il 60 e l’80 per cento che fenomeni simili si possano manifestare nel corso dell’anno, portando più pioggia in alcune regioni e siccità in altre

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Un parallelo tra Ruanda e Palestina: cosa ha fatto e cosa sta facendo la stampa internazionale?

EDITORIALE
Federica Iezzi
30 aprile 2024

Dal Ruanda alla Palestina, da un genocidio all’altro, quali responsabilità hanno gli Stati occidentali?

In quanto ex potenze coloniali, Belgio e Francia, sono state coinvolte nella catena di rivalità interetniche in Ruanda. Contrariamente a tante smentite, come quella del rapporto d’informazione parlamentare francese Quilès-Jospin del 1998, è ormai accertato che, lungi dal proteggere i civili ruandesi, l’Opération Turquoise ha permesso di esfiltrare le forze genocidarie Hutu  nella Repubblica Democratica del Congo.

Striscia di Gaza [photo credit United Nation]
Il rammarico del presidente francese, Emmanuel Macron, arriva proprio mentre continuano indisturbate le vendite di armi a Israele, che da mesi conduce una guerra di sterminio del popolo palestinese nella Striscia di Gaza.

Ma come mantenere la credibilità quando le principali democrazie liberali del mondo sono complici di crimini internazionali?

Quello che sta succedendo a Gaza è chiarificatore. Ciò che doveva essere nascosto è stato portato alla luce. Ciò che doveva essere oscurato è stato nettamente messo a fuoco. Si parla di una violazione della legge che corre velocemente, prima che la mente abbia il tempo di assorbire e soppesare la gravità e la portata del crimine.

Questa volta, l’errore dell’Occidente è difficile da mascherare, e il nemico è così irrisorio – poche migliaia di combattenti all’interno di una “prigione” assediata per anni – che l’asimmetria è ardua da ignorare.

Per eliminare domande e riflessioni, le élite occidentali hanno dovuto lavorare duramente su due aspetti. Hanno cercato di persuadere l’opinione pubblica che gli atti di cui sono complici non sono così gravi come sembrano. E poi che il male perpetrato dal nemico è così eccezionale, così inconcepibile da giustificare una catastrofica risposta.

Questo è esattamente il ruolo svolto dai media occidentali, in un’inquadratura perversa, che purtroppo non è nuova.

Come hanno affrontato i media il fatto che più di due milioni di palestinesi a Gaza stanno gradualmente morendo di fame a causa del blocco degli aiuti umanitari, azione che evidentemente non ha alcuno scopo militare evidente, se non quello di infliggere una vendetta selvaggia sui civili palestinesi?

Piuttosto che parlare di una politica dichiarata di Israele, ecco cosa racconta la stampa internazionale: i combattenti di Hamas sopravvivranno a bambini, malati e anziani in qualsiasi guerra di logoramento in stile medievale, che neghi a Gaza cibo, acqua e farmaci.

Se ad imporre la fame sulla Striscia di Gaza non è Israele, l’impotenza dell’Occidente è assolutamente sottostimata. Ma l’Occidente non è impotente. Sta consentendo un realistico crimine contro l’umanità, rifiutandosi di esercitare il proprio potere per condannare Israele.

Nel frattempo, la stampa liberale occidentale ha abilmente assistito Washington nelle sue varie deviazioni dai crimini di guerra imputati allo stato israeliano, non ultimo sul veto diplomatico che gli Stati Uniti esercitano regolarmente per tutelare Israele, riciclando le accuse verso i palestinesi.

Colte di sorpresa dall’attacco di Hamas, lo scorso ottobre, le forze di difesa israeliane hanno lanciato furiosamente munizioni da carri armati e missili Hellfire, incenerendo indiscriminatamente combattenti di Hamas e prigionieri israeliani. La lunga fila di auto bruciate, distrutte e accatastate, come simbolo visivo del sadismo di Hamas, è infatti la prova, nel migliore dei casi, dell’incompetenza di Israele e, nel peggiore, della sua ferocia.

Da quella data, sono esplosi online discorsi disumanizzanti profondamente inquietanti, retorica genocida e incitamento alla violenza contro il popolo palestinese, da parte di funzionari e personaggi pubblici israeliani [https://law4palestine.org/wp-content/uploads/2024/02/Final-Jan.-26-Statements-DB.pdf].

Ma l’arma peggiore è stata la cospirazione del silenzio. Se c’è qualcosa che si è rivelato sistematico, sono le gravi carenze nella copertura, da parte dei media occidentali, di un plausibile genocidio in corso a Gaza. Le mani dei media sono state fondamentali per rendere possibile la collusione.

Per tutte le piattaforme web, i Principi guida delle Nazioni Unite su imprese e diritti umani chiariscono che le aziende dovrebbero rispettare i diritti umani, identificare e mitigare i danni e porre rimedio agli abusi ovunque operino. Sia attraverso l’azione che per omissione, i social media hanno il record di alimentare conflitti, come nei casi del Myanmar e dell’Etiopia.

Nonostante le atrocità senza precedenti sulla Striscia di Gaza, nessuna delle piattaforme di social media – tra cui Facebook, Instagram, YouTube, X e TikTok, o app di messaggistica come WhatsApp e Telegram – ha condotto e comunicato pubblicamente i propri sforzi per mitigare i rischi derivanti da questo massacro. Invece, ognuna di queste piattaforme è carica di propaganda di guerra, discorsi disumanizzanti, dichiarazioni di genocidio, inviti espliciti alla violenza, discorsi di odio razzista e celebrazioni di crimini di guerra.

Meta, sul podio tra tutte le altre piattaforme nel censurare le voci palestinesi, è pienamente consapevole dell’eccessiva moderazione dei contenuti legati alla Palestina.
Ma il problema qui va oltre la semplice moderazione dei contenuti. Valutare l’illegalità di un contenuto e il modo in cui può facilitare o contribuire alla perpetrazione di crimini è solo una dimensione della comprensione del ruolo svolto dalle piattaforme nei conflitti armati, in cui le asimmetrie di potere sono pronunciate e dannose.

Federica Iezzi
federicaiezzi@hotmail.it
Twitter @federicaiezzi
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