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Tangentopoli genovese: Sansa (opposizione) “Toti dimettiti la Liguria deve avere un futuro”

Speciale per Africa ExPress  
Alessandra Fava
16 maggio 2024

Ferruccio Sansa, consigliere regionale all’opposizione, è stato candidato alla presidenza della Regione nel 2020 con la coalizione di cui fanno parte Pd, Movimento 5Stelle, Linea Condivisa, Europa Verde-Demos-Centro democratico. Al presidente Toti non ha mai risparmiato critiche e ha presentato centinaia di interrogazioni http://iterc.regione.liguria.it/ElePropCons.asp?pagina=21

Bahri Yambu, nave cargo saudita carica di armi ormeggiata nel porto di Genova nel 2019

Sansa è stupito dall’arresto ai domiciliari del presidente della Regione Giovanni Toti?
“Macchè. Sono tre anni e mezzo che dico queste cose e spesso in solitudine completa. Anche la nostra parte politica diceva di lasciar perdere. Ho fatto un centinaio di post su Facebook e decine di interrogazioni. Tutto è nato anche dall’idea che queste forme di finanziamento hanno creato un furto di democrazia in Liguria”.

Nel 2020 lei era lo sfidante di Toti per il centro sinistra. Come ricorda quel periodo oggi sotto la lente della magistratura?
“Per la campagna elettorale io avevo 50 mila euro a disposizione, derivanti soprattutto da soldi messi da me. Mentre Toti, il mio avversario, circa 2 milioni di euro. Quaranta volte tanto e questi erano finanziamenti che provenivano dalle fonti che ora spuntano dall’indagine: porto, grande distribuzione, sanità privata. Questi sono i primi filoni che lo hanno sostenuto, che poi sono quelli legati per lo più a privati, che lui ha favorito una volta vinte le elezioni. In pratica ha aiutato da presidente coloro che hanno finanziato la sua campagna elettorale”.

Manifesto durante la manifestazione dei portuali contro il passaggio di navi cariche di armi di passaggio nel porto di Genova

Claudio Scajola dice oggi che il problema in Italia sono i finanziamenti alla politica, ma dall’inchiesta esce un quadro che va al di là dell’imprenditore con simpatie politiche che appoggia un politico vicino alle sue idee…
“Il problema in Italia è che c’è una zona grigia tra politica e impresa e i rapporti non sono chiari. Non si capisce se alla fine governa la politica o finanziatori della politica e se gli interessi che vengono fatti da chi amministra sono quelli dei cittadini o di coloro che hanno erogato i fondi”.

Con l’aggravamento che dalle carte escono anche voti di scambio con la mafia siciliana, per cui i votanti per Toti, secondo le accuse, avevano una corsia previlegiata per avere le case popolari. Che cosa ne pensa?
“Penso che in una regione come la Liguria, che ha fortissime infiltrazioni mafiose al centro di moltissime indagini degli ultimi anni, sia una follia affidarsi a chi ti offre centinaia di voti”.

Anche a lei hanno offerto qualcosa in campagna elettorale?
“A me non hanno offerto né soldi, né finanziamenti perché non avrei restituito i favori e non mi interessava”.

Ferruccio Sansa

Che cosa succede ora in Regione?
“Toti si deve dimettere. Ieri parlavo con dirigenti della Regione e dicono che in settori chiave come la sanità si rischia il collasso. Non c’è tempo. Una regione come la Liguria non ha tempo. Siamo una regione senza testa e non si può lasciare un vuoto decisionale. E il problema non è solo l’ente regionale ma anche il Comune: il sindaco Marco Bucci che non è indagato, andava a braccetto con tutti gli indagati. Quindi è delegittimato anche il sindaco e ha una responsabilità politica, perché è lui ad aver scelto Signorini per i vertici di Iren (società di servizi che produce e distribuisce tra l’altro energia elettrica, ndr). Vedo che i liguri sono disorientati. Spaesati. Bisogna agire”.

Se si andasse a elezioni, nel centro-sinistra ci sono energie e idee per ripartire?
“Ora bisogna tagliare tutti i ponti con gli ambienti con cui anche in passato il centro sinistra ha avuto a che fare e tentare di costruire una Liguria completamente nuova. Dobbiamo ricostruire un patto con i cittadini tagliando tutti i legami con Spinelli e gli altri”.

Alessandra Fava
alessandrafava2015@libero.it
©️ RIPRODUZIONE RISERVATA
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Genova: e la nave saudita se ne va carica di armi e carri armati

https://x.com/fattoquotidiano/status/1789545438623797486?t=btI2sUngSH2eghhUQpxUzg&s=08

Crimini contro l’umanità: condannato a 20 anni in Svizzera ex ministro del Gambia

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
15 maggio 2024

L’ex ministro degli Interni del Gambia, Ousman Sonko, è stato condannato a 20 anni di galera dal Tribunale Federale di Bellinzona, Svizzera.

L’ex ministro degli Interni del Gambia, Ousman Sonko

Il processo contro Sonko è iniziato i primi di gennaio ed è terminato a marzo di quest’anno. La pubblica accusa aveva sollecitato l’ergastolo per i crimini contro l’umanità commessi dal 2000 al 2016, mentre il suo avvocato difensore, aveva chiesto la piena assoluzione del suo cliente e un risarcimento di quasi un milione di franchi svizzeri.

Sonko è stato ministro degli Interni dal 2006 al 2016, anno in cui era caduto in disgrazia e quindi destituito dall’ex dittatore Yahya Jammeh, al potere dall’ottobre del 1996 a gennaio 2017. Il tiranno ora è in esilio in Guinea Equatoriale. All’inizio del 2000, l’alleato dell’ex despota di Banjul, era comandante del Battaglione delle Guardie di Stato, poi ispettore generale della polizia gambiana, prima di occupare la poltrona di uno dei dicasteri più importanti del piccolo Stato, una enclave del Senegal.

Di per sé il caso Sonko non ha alcun legame diretto con la Svizzera. Tuttavia, la Confederazione, secondo il principio del diritto internazionale, può sempre perseguire crimini contro l’umanità, a condizione che l’autore del reato si trovi sul territorio nazionale e non venga estradato. In questo caso, il Gambia non ha presentato una richiesta di estradizione. Gli investigatori svizzeri sono però stati autorizzati a recarsi in Gambia per raccogliere prove in loco.

Sonko è apparso in Svizzera alla fine del 2016 con passaporto diplomatico, dopo aver tentato invano di essere accolto in Svezia, che lo ha poi deportato in Spagna. E il regno ispanico, a sua volta, gli ha negato il permesso di soggiorno.

Una volta giunto a Berna, Sonko ha inoltrato richiesta di asilo e da prassi è stato portato a Lyss (Canton Berna), in un centro per rifugiati. Poco dopo il suo arrivo, i TG locali  hanno parlato della sua presenza in Svizzera. La ONG Trial International, ha subito sporto denuncia contro Sonko. La Confederazione Elvetica ha poi aperto un’inchiesta nei suoi confronti e così l’ex ministro e ex alleato di Jammeh, da richiedente asilo è diventato imputato e da allora è stato dietro le sbarre in custodia cautelare.

La Corte penale elvetica ha stabilito che gli omicidi, i rapimenti e le torture dell’ex ministro facevano parte di un attacco sistematico ai civili e costituivano quindi crimini contro l’umanità. Ha invece lasciato cadere le accuse di stupro, poiché in questo caso non è stato accertato un attacco contro la popolazione.

Tribunale Penale Federale, Bellinzona, Svizzera

E’ la prima volta che un ex ministro viene condannato in Europa per questi crimini. Inoltre gli anni trascorsi in custodia cautelare saranno dedotti dalla pena. I giudici hanno anche imposto un ordine di espulsione dal territorio svizzero della durata di 12 anni. Il verdetto non è definitivo e può essere impugnato presso la Corte d’appello del Tribunale penale federale.

Benoît Meystre, il consulente legale dell’ONG Trial International, che ha avviato il procedimento, ha dichiarato a AFP: “Ho potuto constatare un grande sollievo da parte dei querelanti per essere stati presenti al processo, per essersi confrontati con Sonko e di aver potuto vedere le sue reazioni mentre testimoniavano. Alcune delle vittime hanno addirittura sottolineato che il loro ruolo svolto nel processo, li sta aiutando a guarire, indipendentemente dal verdetto”.

E infine la ONG ha riportato le parole di una delle vittime di Sanko dopo la lettura del giudizio: “Questa tanto attesa sentenza dimostra che non c’è scampo per coloro che hanno perpetrato crimini contro l’umanità in Gambia. Anche se si tratta persone di alto rango”.

Mentre Reed Brody, avvocato della Commissione Internazionale dei Giuristi, che lavora con le vittime di Jammeh e che ha monitorato il processo, ha specificato: “Il dibattimento in aula darà nuovo impulso per perseguire i crimini più gravi del regime di Yahya Jammeh, sforzi che in Gambia, dopo un lungo ritardo, stanno finalmente prendendo piede”.

Cornelia I. Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
X: @cotoelgyes
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Inizia in Svizzera processo storico contro ex ministro gambiano

Chiede asilo in Svizzera ex ministro gambiano, accusato di violazione dei diritti umani

Regime all’attacco in Tunisia: in 48 ore arrestati due avvocati dissidenti che difendevano gli immigranti subsahariani

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
14 maggio 2024

L’arresto di Sonia Dahmani, legale e opinionista, da sempre molto critica nei confronti del regime del presidente Kaïs Saïed, mentre si trovava all’ordine degli avvocati a Tunisi, non è passato di certo inosservato sabato sera. France 24, emittente francese, ha trasmesso in diretta TV il momento in cui i poliziotti hanno fatto irruzione nell’edificio e fermato la donna.

Il regime tunisino non ha digerito un intervento dell’avvocato e opinionista al canale televisivo Carthage+, andato in onda lo scorso 7 maggio. Non sono state gradite le sue insinuazioni sarcastiche sulla situazione del Paese, in particolare per quanto riguarda i migranti sub-sahariani, la cui presenza non è per nulla gradita in Tunisia.

Proprio per riferire su quelle sue dichiarazioni, la signora Dahmani sarebbe dovuta comparire venerdì scorso davanti a un giudice istruttore, appuntamento che l’avvocato non ha rispettato. Alla stampa ha dichiarato di essersi rifiutata di comparire in tribunale senza conoscere le ragioni della convocazione.

Sonia Dahman, avvocato tunisino arrestato

E proprio a causa della sua assenza, il giudice istruttore, incaricato del caso, ha poi emesso un mandato di arresto sabato scorso. Ieri il giudice ha convalidato la detenzione dell’avvocato, il cui arresto non è sfuggito all’Ordine degli avvocati di Milano e alla Camera penale milanese. I colleghi  italiani hanno espresso piena solidarietà alla signora Dahmani e hanno chiesto alle “istituzioni di adottare ogni iniziativa volta a garantire il pieno e incondizionato esercizio dell’attività difensiva”.

Secondo quanto riportato dai media, Sonia Dahmani è indagata, in particolare, per aver diffuso “false informazioni con l’obiettivo di minare la sicurezza pubblica” e “istigazione all’odio”, ai sensi del decreto legislativo 54 emesso dal presidente Saïed il 13 settembre 2022, volto a combattere false informazioni sulle reti di comunicazione e prevede fino a 5 anni di carcere. Nella notte tra sabato e domenica sono stati fermati altri due opinionisti per le loro dichiarazioni sui media.

Lunedì scorso gli avvocati tunisini hanno scioperato in tutti tribunali del Paese. Secondo quanto riferito da Laroussi Zguir, presidente dell’Ordine della capitale, l’adesione sarebbe stata del cento per cento.

E nella serata di ieri, la polizia ha fatto nuovamente irruzione nell’edificio dell’Ordine degli avvocati e ha arrestato il legale Mehdi Zagrouba. In un comunicato il ministro degli Interni tunisino, ha fatto sapere che è stata aperta un’indagine dalla Procura nei confronti di due avvocati in seguito all’aggressione di un poliziotto a margine della manifestazione degli avvocati a Tunisi.

Un decina di giorni fa le forze dell’ordine hanno smantellato un accampamento davanti all’edificio dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) e mandato centinaia di persone verso i confini del Paese. Tra questi anche donne e bambini. Un’ottantina di persone sono state arrestate.

E, lunedì 6 maggio, durante il Consiglio di sicurezza, Saïed, ha riconosciuto per la prima volta che le autorità tunisine hanno effettuato espulsioni collettive, ammettendo che circa 400 persone sono state mandate alla frontiera orientale. Il tenore di vita in Tunisia è calato drasticamente. L’elevato tasso di disoccupazione, che ha causato la rivoluzione del 2011, resta e si stima che il 17 per cento della popolazione viva sotto la soglia di povertà. Ecco perché molti tunisini cercano di lasciare il Paese. Nel 2023 sono approdati circa 17.000 tunisini nel nostro Paese.

Smantellato campo di migranti davanti all’edificio dell’OIM, Tunisi

Nell’ambito del programma di sostegno alle riforme macroeconomiche (PARME), concordato dall’UE e dalla Tunisia lo scorso dicembre, Bruxelles prosegue il suo impegno erogando un cospicuo sostegno finanziario sotto forma di aiuti al bilancio. Pur di arginare il flusso migratorio, durante la sua ultima visita a Tunisi nel mese di aprile, la presidente del Consiglio dei ministri, Giorgia Meloni, ha portato altri aiuti economici suddivisi in tre accordi e ha promesso il suo sostegno per quanto riguarda l’applicazione del MoU con l’Unione Europea.

Recentemente gli abitanti di Sfax, epicentro delle tensioni tra residenti e fuggitivi, hanno nuovamente protestato contro la presenza dei migranti sub-sahariani, fuggiti da guerre, cambiamenti climatici, fame. “Non vogliamo che distruggano le nostre città”, sono stati alcuni degli slogan durante la manifestazione.

Cornelia I. Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
X: @cotoelgyes
©RIPRODUZIONE RISERVATA

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Ritorna la calma a Sfax dopo violente manifestazioni contro i migranti con un morto tunisino

Morire di fame “il giorno dopo” a Gaza

 

EDITORIALE
Federica Iezzi
14 maggio 2024

E’ incredibilmente sprezzante come la gerarchia tra vittime del terrorismo e vittime della guerra contribuisca a disumanizzare i palestinesi. Israele continua nell’imbarazzante tentativo di normalizzare quello che sembra sempre più essere un massacro deliberato di civili, sulla Striscia di Gaza e in Cisgiordania.

Striscia di Gaza [photo credit UNRWA]
Non è un modo nuovo di condurre una guerra. Netanyahu sta percorrendo scrupolosamente gli stessi passi del presidente russo, Vladimir Putin, e di quello siriano, Bashar al-Assad, prendendo di mira civili e infrastrutture di sostentamento. E pure del dittatore iracheno Saddam Hussein, che deliberatamente gasò la popolazione curda.

Ma torniamo al 2013 a Yarmouk, campo profughi palestinese alla periferia di Damasco, in Siria. Cosa è successo? Il campo assediato dalle forze del regime siriano e dai suoi alleati, causò la morte di migliaia di palestinesi. Per fame. Per guerra.

I tempi della fame

La fame e il cibo hanno i loro tempi, che non corrispondono necessariamente al tempo politico o al tempo economico. Le persone non smettono di morire di fame il giorno in cui vengono firmati gli accordi di pace, né quando finisce un assedio.

Il ruolo svolto da Hafiz al-Assad, padre di Bashar al-Assad, nel massacro del campo profughi palestinese di Tell al-Zaatar – nella zona nordorientale di Beirut, in Libano – commesso dalle milizie fasciste cristiano-maronite nel 1976, ha mostrato molto presto la vera natura del regime siriano, per il quale la “questione palestinese” non è altro che un oggetto di propaganda.

Ed ecco come si svolge il piano di Netanyahu. Il livello di distruzione delle infrastrutture civili a Gaza è direttamente proporzionale all’abbandono nel ricostruire pochi miseri metri quadrati di terreno solido. Nel territorio devastato ricompaiono dunque i campi di tela, che negli anni erano scomparsi.

La maggioranza dei palestinesi oggi costituisce una popolazione senza terra né patria. Il regime israeliano spinge per porre fine allo status di rifugiato “ereditario” dei palestinesi. Con quale conseguenza? I bambini palestinesi apolidi non potranno più godere di questo status e finiranno per essere assimilati nei loro Paesi di esilio. Invece, per i palestinesi lo status di rifugiato è la prova tangibile di un’ingiustizia storica.

Miopia della guerra

Alla luce della miopia della guerra, si continua a cercare una soluzione nel futuro e non nel presente. L’argomento fu particolarmente vivace per gli intellettuali ebrei, che discussero del futuro già nei primi mesi dall’inizio della seconda guerra mondiale. Sfuggiva, però, un dettaglio determinante: se “il giorno dopo” le minoranze etniche sarebbero continuate ad esistere.

Così come la questione della fame decise il futuro dell’Europa nel dopoguerra, parlare di fame a Gaza, oggi, ci impone di riconoscere il fatto che Israele gestisce la carestia nei territori palestinesi da quasi due decenni.

Per comprendere la fame come forza politica internazionale è stato necessario rendere la ricerca sulla fame una scienza che non sia uno strumento al servizio della diplomazia ma un’alternativa ad essa. Qualcosa che oltrepassa i confini e modella la mappa del mondo più velocemente degli accordi diplomatici.

Dunque, la preoccupazione per il “giorno dopo” dovrebbe essere arginata e dovrebbe partire una realistica discussione con la consapevolezza che il momento attuale a Gaza è un momento di fame. È un periodo dalle caratteristiche uniche che rimodella la politica dello spazio.

Dall’inizio dell’assedio sulla Striscia di Gaza nel 2007, il cibo è diventato uno strumento centrale con cui lo Stato israeliano penetra nella vita dei palestinesi. Le centinaia di camion che portano generi di prima necessità in un’area chiusa, il controllo sulla possibilità di obbligare a mangiare un alimento piuttosto che un altro, fanno parte del metodo con cui Israele gestisce la popolazione palestinese a Gaza.

Sovranità nutrizionale

I camion colmi di cibo, che arrivano trionfanti a Gaza, sono solo l’immagine speculare di tutti gli alimenti che non provengono dalla terra palestinese. Gaza non ha quasi alcuna possibilità di sovranità nutrizionale e questo è uno dei meccanismi per il quale non ha quasi alcuna possibilità di sovranità politica.

Il risultato agli occhi della Comunità Internazionale è che Gaza è nutrita. Questo fenomeno ha una lunga storia globale. La nutrizione crea lealtà. Secondo questo paradigma, le popolazioni affamate saranno fedeli a coloro che le nutrono e non ad una entità ideologica nazionale. Il cibo è garanzia di obbedienza, e meno “docile” è una popolazione, maggiore è la necessità di gestire il cibo.

Nella storia moderna del cibo, la nutrizione è una parte essenziale del controllo coloniale. Negare i beni di prima necessità a una popolazione civile, al fine di esercitare pressione su elementi militari o politici, è evidentemente contrario al Diritto Internazionale Umanitario.

Calorie minime

Ma Israele ha calcolato scientificamente le calorie minime, necessarie per raggiungere la soglia umanitaria, e le ha tradotte in numero di camion di generi alimentari che entrano a Gaza ogni giorno. L’obiettivo è mantenere Gaza affamata ma non affamarla. Ecco che la politica viscida di Netanyahu parla il linguaggio del diritto internazionale, legittimando il feroce assedio.

Peccato che le calorie sono la più grande frode nell’alimentazione moderna. Il valore energetico di un cibo non ha alcun significato dal punto di vista nutrizionale. A Yarmouk, durante l’occupazione siriana, le donne che non riuscivano ad allattare, utilizzavano latte mescolato allo zucchero. Caloricamente una bomba. Nutrizionalmente inadeguato. I neonati che morivano di fame non venivano, quindi, considerati affamati perché raggiungevano il limite calorico minimo stabilito dalla legge.

E allora, quando la fame è troppo fame? Una persona che può camminare ma non può correre? Una donna che può concepire ma non può allattare? Cento sacchi di riso, mille? Il conteggio delle calorie a Gaza fa parte del concetto che esiste un modo scientifico, giustificato e sostenibile per morire di fame, espropriare e occupare. Ma anche questo, non è altro che un concetto fallito.

Federica Iezzi
federicaiezzi@hotmail.it
Twitter @federicaiezzi
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Il Sudafrica ammonisce Israele: “Contro la repressione la violenza è lecita”

Qui ci sono alcuni degli articoli che abbiamo scritto sulla guerra a Gaza

Il Sudafrica ammonisce Israele: “Contro la repressione la violenza è lecita”

Dalla Nostra Corrispondente
Elena Gazzano
Città del Capo 13 maggio 2024

Sulle strade polverose di Gaza e tra i campi profughi della Cisgiordania, la resistenza palestinese contro l’oppressione israeliana sta bruciando viva. Nell’epicentro di questa lotta epocale, tra il 10 e il 12 Maggio, lo spirito ribelle di Johannesburg ha unito in un convegno senza precedenti, un’assemblea di anime unite da un unico grido: libertà per la Palestina, ora e per sempre.

Testimoni oculari, leader visionari, attivisti indomabili presenti all’incontro, hanno tessuto un mosaico di sofferenza e resilienza, lanciando un appello globale all’azione e alla solidarietà. È stato un fine settimana di fuoco e passione, un ruggito di protesta che ha risvegliato le coscienze sopite di un mondo troppo spesso indifferente.

La conferenza non è stata solo un’arena di discussioni e di parole. È stata una pietra miliare nella saga del popolo palestinese, un grido di sfida lanciato contro le catene dell’oppressione marchiate Occidente. “Non accetteremo compromessi sulla nostra libertà – hanno tuonato i partecipanti, le loro voci cariche di fermezza e determinazione – Se l’Occidente vuole giocare a suon di legge internazionale allora è ciò che faremo”.

Emergono le testimonianze di coloro che vivono l’inferno quotidiano dell’occupazione. Mohammed Alkaisi, con la sua voce intrisa di rabbia e dolore, dipinge un quadro crudele di una realtà sospesa tra il caos e l’ingiustizia. “Israele non ha confini con la nostra terra – sussurra con voce carica di amarezza -. Mentre noi dobbiamo affrontare i checkpoint solo per andare fare la spesa”. È una narrazione di sopraffazione che si insinua nell’anima, un grido di protesta che spezza il silenzio.

E poi ci sono le storie dei raid notturni, delle incursioni brutali che sconvolgono la quiete dei campi profughi. L’esercito israeliano, con il suo arsenale di morte e distruzione, si abbatte senza pietà su una popolazione disarmata e indifesa. Ma dietro a questa violenza c’è una logica distorta: i campi profughi della Cisgiordania sono diventati un terreno di addestramento per i soldati che poi saranno spediti a Gaza, pronti a seminare morte e terrore.

E mentre le testimonianze si intrecciano, emerge la voce di Steven Friedman, un accademico e attivista dal cuore di ferro che ha lottato contro l’apartheid in Sud Africa. Con un tono di sfida e disincanto, Friedman denuncia le analogie tra le due forme di oppressione, smascherando il mito del sionismo come baluardo del popolo ebraico “L’affermazione che il sionismo è una forma estrema di identità ebraica, disposta a distruggere i palestinesi pur di affermarsi, è non solo sbagliata ma anche ridicola, infatti ai primi sionisti gli ebrei non stavano nemmeno tanto simpatici, e il loro scopo era quello di creare per loro uno Stato dove potessero essere offensivi e avari, senza disturbare le altre nazioni europee”.

Con un altra carica Friedman aggiunge: “Ogni volta che un sionista punta il dito contro coloro che sostengono una Palestina libera, urlando antisemita, mostra un’indole razzista. Perché i semiti sono tutti quei popoli che parlano una lingua del ceppo semitico”. È una dichiarazione audace, che scuote le fondamenta della nostra comprensione.

Ma la conferenza non è stata solo un momento di denuncia e di protesta. È stata anche un’ode alla solidarietà globale, un richiamo alla coscienza universale di fronte all’ingiustizia. In un grido di battaglia, Nareem Jeena ha esortato gli attivisti a non temere la violenza quando la non-violenza si rivela vana, citando l’esempio di Mandela e del suo MK.

“Mandela è stato condannato all’ergastolo perché aveva creato l’MK, l’ala armata del suo partito. Una cosa che dovrebbe fare aprire gli occhi a tutti noi attivisti: nel caso in cui non esiste un’alternativa all’uso di violenza, si può e si deve usare la violenza. Lo so: queste sono parole forti, ma quando siamo silenziati e picchiati dalla polizia durante pacifiche manifestazioni di protesta, non c’è più tempo per la mitezza. Dopo aver represso le proteste con la violenza, l’Occidente ha perso ogni diritto di impartire lezioni di morale e diritti umani ad altri Paesi”.

E infine, c’è la dichiarazione finale del convegno: un inno alla libertà, un grido di protesta che risuona nell’eco “Free Palestine from the river to the sea”  (Palestina libera dal fiume sl mare, ndr). Testimoniando il genocidio continuo e la repressione perpetuata da Israele, la dichiarazione denuncia il sostegno occidentale alla violenza e all’apartheid. Si sostiene il Movimento Globale Anti-Apartheid per la Palestina, esortando alla fine del genocidio, al ritiro delle forze israeliane e al completo smantellamento del progetto coloniale. L’obiettivo è isolare Israele attraverso il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni, fino al raggiungimento della completa liberazione palestinese.

Ma in questi tre giorni non sono solo le voci di Johannesburg a far eco nella comunità internazionale; ce n’è stata anche un’altra che si è levata con fermezza. la Corte Internazionale di Giustizia (ICJ), la massima istanza giudiziaria delle Nazioni Unite, venerdì ha annunciato che il Sudafrica ha presentato una nuova richiesta per sollecitare il ritiro di Israele da Rafah, come parte di misure di emergenza aggiuntive in risposta alla guerra a Gaza. E domenica sera, Egitto e Libia hanno dichiarato il loro sostegno al caso del Sudafrica contro Israele, citando le crescenti violazioni israeliane .

Resta una domanda urgente: se il diritto internazionale viene violato, considerato senza rispetto e abusato senza che ciò comporti alcuna responsabilità e conseguenza per i rei, chi sarà la prossima vittima nell’elenco della coppia USA-Israele?

Elena Gazzano
elenagazzano6@gmail.com
https://www.instagram.com/elena.gazzano/
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Tangentopoli genovese: Toti, Signorini, Spinelli & il porto dove passano le armi

Speciale per Africa ExPress  
Alessandra Fava
11 maggio 2024

Il Porto di Genova è sempre stato il regno del più forte. In passato chi faceva lo smargiasso otteneva di più, chi stringeva alleanze sbagliate spesso veniva tradito dai suoi presunti amici e gli spariva la concessione sulle aree demaniali o falliva miseramente. Si sono succeduti tanti imprenditori, molti hanno preso la strada per altri porti italiani minori.

Non che il porto di Genova sia così stretto: tra le banchine prima della Lanterna, quelle del cosidetto porto di Sampierdarena e poi il porto container di Voltri, per non contare le banchine di Fincantieri utilizzate e quelle praticamente inutilizzate della vecchia acciaieria di Cornigliano parliamo di oltre 7 milioni di metri quadri e oltre 22 chilometri di banchine. Ma di fatto ogni metro quadro è stato oggetto di battaglie, liti, sgambetti degli imprenditori e l’Autorità portuale di mezzo, a volte nemica, a volte amica.

AfricaExpress si è occupata a varie riprese del porto di Genova sopratutto in merito al traffico di armi dirette verso le guerre di mezzo pianeta, comprese quelle africane. I commerci sono stati spesso stoppati dalle proteste dei lavoratori portuali e di associazioni genovesi pacifiste e i carichi di carri armati e altro materiale bellico.

Carri armati stoccati nelle stiva di un cargo fermato nel porto di Genova

Stretta tra la terra e il mare, Genova vive ancora del suo porto e il suo porto fa gola. I presidenti dell’Autorità portuale nel sontuoso palazzo di San Giorgio a ridosso dell’area del Porto antico ristrutturata da Renzo Piano, sono sempre stati piazzati da qualcuno, prima erano legati a qualche partito. Ora il gioco si è fatto più sottile e il past presidente ora indagato Paolo Emilio Signorini sfoderava Banca d’Italia nel suo curriculum e amicizie a destra.

Chi ha cercato di riportare un po’ di logica e di giustizia in passato l’ha pagata cara. Un presidente integerrimo Giovanni Novi, broker marittimo di scuola londinese, aveva deciso di verificare la reddititività delle aree nei tempi in cui un armatore spiaggiava navi piena di rifiuti tossici e radioattivi sulla costa italiana e nel fondo del mare, protetto dai servizi segreti. Va a vedere che magari chi ha più molo lo sfrutta di meno e bisogna rivedere le concessioni di qualcuno. I terminalisti hanno subito levato gli scudi, Novi è finito indagato per un finanziamento alla Compagnia unica dei camalli, è stato prosciolto dopo anni ma intanto aveva dato le dimissioni e si era tolto dai piedi. Problema risolto.

Il porto di Genova

Quello che sta emergendo dalle carte dell’inchiesta che ha portato il presidente della Regione Giovanni Toti ai domiciliari e l’ex presidente dell’Autorità Paolo Emilio Signorini, oggi AD di Iren (la società di servizi elettrici teleriscaldamento e altro, ndr), ai domiciliari, per un totale di 40 misure, però è diverso dal passato. Dalla giungla in cui regna il più forte, siamo passati al pagamento cash di mazzette al movimento politico di Giovanni Toti, presidente in carica della Regione Liguria e alle accuse di voto di scambio con la mafia in cambio di case popolari in occasione delle elezioni 2020. Che sembra una cosa ben diversa.

Qualcuno in Bankitalia deve avere visto eccessivi versamenti diretti a Cambiamo, il movimento politico di Toti, e fatto una bella denuncia che i magistrati non hanno potuto ignorare visto che intanto hanno ascolto per un paio di anni i discorsi del presidente e degli altri nelle intercettazioni.

Intanto qualcuno ha lucrato una concessione trentennale, mica male per un ultra ottantenne. Signorini infatti ha favorito in ogni modo un terminalista, Aldo Spinelli, facendogli anche occupare coi suoi container aree non destinate a lui, o meglio che non gli erano state date in concessione e infatti sono indagati anche alcuni dipendenti dell’Autorità.

Spinelli è un deus ex machina da tempo. Nato poverissimo, nella profonda Valpolcevera, ha iniziato la sua carriera coi camion e il trasporto di terra, è riusciuto a fare affari vendendo la collina degli Erzelli a monte dell’areoporto e intanto è approdato al porto di Genova come terminalista, boicottando in ogni modo l’eventuale utilizzo della ferrovia portuale (per altro minata anche dal fatto che la società del ferro portuale è anche diversa da quella nazionale). Insomma è uno che sa navigare. Paga i suoi dipendenti cash per gli straordinari quando c’è da svuotare una nave ed è abituato a usare i suoi soldi per comprarsi favori e amicizie ed è famoso per le sue giocate nei casinò di mezzo mondo.

Il Porto di Genova - moli a Sampierdarena - foto shippingitaly.it
Il Porto di Genova – moli a Sampierdarena – foto shippingitaly.it

Ma anche qui nell’inchiesta c’è dell’altro. Perchè una sessantina di notti nell’hotel più lussuoso di Montecarlo annesso al casinò per il presidente dell’Autorità portuale, sfociati nel voto di una concessione trentennale (30 anni) non sembrano una cosa normale. Naturalmente c’è il trash della vita quotidiana con borsette, gioielli, massaggi, estetica per lei. Fiches al casinò, spiagge private, cocktail e massaggi in camera per lui (sempre Signorini). La summa del lusso pacchiano del Principato, come se lo immagina chi non può permetterselo. Ma Spinelli pagava tutto. Anche le fiches che poi Signorini si rintascava senza giocarle.

Di mezzo però ci sono anche le riparazioni navali che dal Porto antico di Piano vanno verso Levante fino alla vecchia Fiera. Sono centinaia di imprese schiacciate anche qui in poca terra e di mezzo lo Yacht Club, la Lega Navale e un paio di circoli di pesca e cannottaggio che non se ne vogliono andare, anche se qui dovrebbe nascere il Bluprint, su disegno di Renzo Piano alla città. Tra queste la più grande è la Amico&Co che secondo i magistrati genovesi e spezzini avrebbe pagato 30 mila euro al movimento di Toti in cambio di una concessione fino al 2060.

La potente macchina comunicativa della Regione con trasferte di famiglie intere insieme al Presidente anche in Estremo Oriente a spese del contribuente e in parte di un imprenditore, senza il presidente indagato e le sue dichiarazioni non sa che fare. “Domani, il Presidente interim con delega all’agricoltura e al marketing territoriale (nome omesso ndr.) parteciperà etc etc”, si legge oggi. I comunicati si sono fatti decisamente più stringati.

Alessandra Fava
alessandrafava2015@libero.it
(1 – continua)
©️ RIPRODUZIONE RISERVATA

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Israele espelle 12 contadini del Malawi accusati di aver abbandonato il lavoro: “Eravamo sottopagati”

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
10 maggio 2024

Lo scorso novembre il governo del Malawi ha inviato i primi 221 lavoratori in Israele, che è a corto di mano d’opera nelle aziende agricole. L’accordo di cooperazione era stato negoziato tra i due Paesi. Dopo l’inizio del conflitto con Hamas, il permesso di soggiorno è stato revocato a tutti i palestinesi. E una settimana fa il governo di Benjamin Netanyhau ha espulso 12 malawiani nel loro Paese di origine: sono stati accusati di non aver rispettato le clausole del contratto di lavoro e di aver lasciato la loro occupazione nei campi.

Malawiani in un’azienda agricola in Israele

I 12 provenienti dal Malawi, sono stati arrestati insieme a un’altra trentina di lavoratori stranieri. Le forze dell’ordine li hanno pizzicati a Tel Aviv mentre operavano in un panificio: non erano soddisfatti delle condizioni di lavoro nel settore agricolo. Un giovane ha raccontato ai reporter della BBC che alcuni suoi concittadini impiegati nella coltivazione sono sottopagati.

I proprietari delle grandi fattorie spesso non versano ai dipendenti il salario minimo, che in Israele corrisponde a 32 shekels (6,82 dollari) all’ora. “Molti di noi ricevono solamente da 18 a 20 shekels (4,82 – 5,32 dollari), eppure gran parte dei lavoratori ha firmato un contratto che prevede il versamento di 1.500 dollari mensili”, ha precisato il giovane.

Il governo di Lilongwe ha confermato il rimpatrio dei propri connazionali. Il Ministro dell’Informazione e della Digitalizzazione del Malawi, Moses Kunkuyu, ha puntualizzato che secondo l’ambasciata del Malawi a Tel Aviv i lavoratori avevano visti e contratti validi per lavorare in specifiche fattorie del settore agricolo israeliano.”Tuttavia, poiché non sono state rispettate alcune clausole stabilite dagli accordi, hanno abbandonato il loro impiego e si sono trasferiti in una panetteria”.

E Michael Lotem, ambasciatore israeliano in Malawi ha sottolineato il perché del pugno di ferro: “Chiunque viola i termini del visto sarà espulso”.

La rappresentanza diplomatica del Malawi in Israele è stata inaugurata il 18 aprile scorso a Tel Aviv in presenza del ministro degli Esteri del governo di Lilongwe, Nancy Tembo, del suo omologo dello Stato ebraico, Israel Katz, e del ministro degli Interni Moshe Arbel.

Durante la breve cerimonia è stato siglato anche un Memorandum of Understanding circa l’impiego temporaneo di 3.000 lavoratori malawiani nel settore agricolo in Israele.

Tel Aviv: Cerimonia d’apertura Ambasciata Malawi aprile 2024. A sinistra, ministro degli Esteri israeliano, Israel Katz e Nancy Tembo, a capo della diplomazia di Lilongwe

Durante la sua permanenza nel Paese mediorientale, la signora Tembo ha incontrato anche alcuni familiari di ostaggi ancora nelle mani di Hamas e ha promesso il sostegno del proprio Paese per il loro rilascio.

Alla fine dello scorso anno Israele ha versato un contributo di 60 milioni di dollari al Malawi per sostenere la ripresa economica del Paese. Altri 57,6 milioni di dollari sono stati concessi dalla Banca mondiale a fine aprile per far fronte all’attuale crisi alimentare che il Paese sta attraversando a causa delle condizioni di El Niño nella regione dell’Africa meridionale .

Il Malawi è il Paese più densamente popolato  di quell’area geografica. Conta venti milioni e mezzo di abitanti e oltre il settanta percento vive nelle zone rurali. Ex colonia britannica, ha ottenuto la piena indipendenza nel 1964, ma resta uno tra i Paesi più poveri dell’Africa. Secondo i dati della Banca Mondiale, con l’aumento dell’insicurezza alimentare, dovuta sia agli alti prezzi dei prodotti sia alla carenza di cibo a causa della prevista diminuzione della produzione agricola, per quest’anno si prevede un peggioramento delle condizioni di vita. La percentuale di persone che vivono al di sotto della soglia di povertà che equivale a 2,15 dollari al giorno, aumenterà leggermente. Nel 2024 raggiungerà il 72 per cento della popolazione.

L’aspettativa di vita è ancor bassa e si attesta a poco più di 65 anni e la principale causa di morte è l’infezione da HIV/AIDS.

Le ricchezze del Paese sono in mano a un’élite ristretta e la corruzione della classe politica è proverbiale. Il presidente Lazarus Chakwera, eletto dalle fila dell’opposizione, cerca di combattere con ogni mezzo disonestà e immoralità.

Solo poco più dell’12 per cento della popolazione del Paese è collegata a una linea di corrente elettrica (il 45 per cento nelle città e nelle aeree rurali solamente il 5 per cento), dunque in molti luoghi con il calar del sole cessano tutte le attività.

Cornelia I. Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
X: @cotoelgyes

©RIPRODUZIONE RISERVATA

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Al governo del Malawi servono dollari e manda i suoi contadini a lavorare in Israele

Malawi: niente sprechi, vietato viaggiare all’estero per ministri e presidente

Il presidente del Malawi silura il suo vice, colto con le mani nel sacco nell’inchiesta contro la corruzione

Egitto, azienda vicina al presidente guadagna 2 milioni di dollari al giorno per far uscire i palestinesi da Rafah

Speciale per Africa ExPress
Sandro Pintus
10 maggio 2024

Cinquemila dollari (4.650 euro) per ogni adulto e 2.500 (2.324 euro) per i bambini sotto i 16 anni per uscire da Rafah. È quanto rivela il giornale finanziato dal Qatar, Middle East Eye (MEE), con sede in UK in un’indagine pubblicata la settimana scorsa.

Rafah prezzario Hala
Prezzario Hala per uscire da Rafah (Courtesy SkyNews)

Sfruttamento malvagio

Una famiglia palestinese con genitori, 4 bambini e due nonni, per scappare dai bombardamenti israeliani, dovrebbe avere almeno 30.000 USD (27.900 euro). Un palestinese che con la sua famiglia ha lasciato Gaza per l’Egitto ha descritto il sistema come uno “sfruttamento malvagio”.

“Con il denaro chiesto alla mia famiglia per salvarci dai bombardamenti israeliani avremmo dovuto costruirci la casa”. Lo ha raccontato un altro padre di famiglia in fuga dalla Striscia a Radio Canada International. “Ho dovuto chiedere aiuto ai miei parenti in USA. Hanno fatto una campagna di crowdfunding online per trovare i soldi”.

La linea di demarcazione è il 7 ottobre scorso con l’attacco di Hamas a Israele. Prima di quella data il costo dell’attraversamento del valico di Rafah era 350 dollari (325 euro).

Il monopolio dei trasporti

Certo, ora con la guerra tutto è cambiato ma l’indagine di MEE ha svelato il motivo del pesante rincaro: monopolio del servizio con la complicità dell’Egitto. L’azienda Hala Consulting and Tourism Services, ha il monopolio della fornitura di servizi di trasferimento al valico di Rafah.

Hala, di proprietà di Ibrahim al-Organi, leader tribale del Sinai e Rafah, ha il trasporto dell’unica uscita di Gaza non confinante con Israele. Gli altri valichi che confinano con Israele sono tutti chiusi. Per i palestinesi, Rafah è l’unica via di fuga.

Valico di Rafah
Mappa con il Valico di Rafah (Courtesy GoogleMaps)

Due milioni di dollari al giorno

Dalla lista online dei viaggiatori pubblicata da Hala nel mese di aprile hanno attraversato il confine con la “lista VIP” 10.136 adulti e 2.910 bambini. Secondo l’analisi di MEE, l’importo pagato ammonterebbe a 58 milioni di dollari (54 milioni di euro) con una media quotidiana di 2 milioni di dollari (1,86 milioni di euro).

Ovviamente l’Egitto ha contestato le accuse di trarre profitto dalla miseria dei palestinesi. Sameh Shoukry, ministro degli Esteri egiziano, ha negato che il suo governo abbia consentito le tariffe applicate da Hala.

 “Il governo sta già esaminando la questione e prenderà provvedimenti nei confronti di chiunque sia stato coinvolto in tali attività”, ha dichiarato in un’intervista a SkyNews.

Presa di posizione anche di Human Right Watch (HRW) attraverso Amr Magdy: “L’Egitto dovrebbe indagare su queste pratiche della compagnia Hala. Dovrebbe garantire che le persone possano viaggiare attraverso un sistema trasparente e rispettoso dei diritti umani. Non si dovrebbe trarre vantaggio in denaro da questa situazione”.

Richieste tangenti alle ONG internazionali

Anche una ONG internazionale ha dovuto pagare 5.000 dollari per far passare il camion di aiuti a Gaza. Era una “tassa di gestione” richiesta da una società affiliata a Sons of Sinai (Figli del Sinai), azienda di Organi.

Rafah Campo profughi di Deir al Balah-Gaza
Campo profughi di Deir al Balah a Gaza

Corruzione e interessi dello Stato egiziano

Il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi, nel gennaio 2022, ha nominato Organi membro dell’Autorità per lo sviluppo del Sinai. Considerato la figura tribale e imprenditoriale più influente della penisola, Ibrahim al-Organi è un alleato del presidente e dei militari egiziani.

Secondo il sito qatarino alcune società di Organi sono in parte di proprietà dei Servizi di sicurezza egiziani. “…Hanno persino chiesto tangenti per consentire l’ingresso di aiuti a Gaza e l’uscita di persone dall’enclave…”.

Prima della pubblicazione dell’indagine Middle East Eye ha chiesto un commento sia al Gruppo Organi che al Servizio informazioni dello Stato egiziano. Nessuna risposta è pervenuta in redazione.

Il giornalista e scrittore, Mohannad Sabry, è anche esperto di sicurezza del Sinai. Accusa l’Egitto: “Non è sorprendente che lo Stato egiziano non stia facendo nulla per impedire a Organi di approfittare della disperazione dei palestinesi. Organi è una copertura per le imprese statali e militari e per le loro politiche in Egitto – ha dichiarato a MEE -. È un ingranaggio di questa macchina oscura e corrotta che opera impunemente”.

La brutale e spietata legge della domanda e dell’offerta in tempo di guerra fa aumentare gli sciacalli. A spese degli ultimi.

Sandro Pintus
sandro.p@catpress.com

X (ex Twitter):
@sand_pin
© RIPRODUZIONE RISERVATA

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Smotrich, ministro delle finanze israeliano, invoca la “Soluzione finale” per la Striscia di Gaza

Gaza: strage di giornalisti e foto reporter dal 7 ottobre al 29 gennaio

Un nuovo esodo biblico: in Egitto nasce l’ennesimo campo profughi per i palestinesi sfollati di Gaza

Per capire la Striscia di Gaza: come ha fatto Hamas a crescere e rafforzarsi così

Antisionismo e antisemitismo: una dolosa confusione aberrante che inganna

 

Antisionismo e antisemitismo: una dolosa confusione aberrante che inganna

EDITORIALE
Eric Salerno
9 maggio 2024

L’altro giorno nella email ho trovato questa segnalazione del New York Times: “Gli attivisti studenteschi filo-palestinesi, che hanno allestito accampamenti nei campus di tutto il Paese, affermano che il loro movimento è anti-sionista ma non antisemita.” E subito sotto: “Juan Arredondo per il New York Times: Non è una distinzione accettata da tutti”. Ancora prima di avere il tempo di leggere l’articolo è arrivata una dichiarazione del premier israeliano Netanyahu: “Un’indagine della Corte Penale Internazionale su Israele sarebbe puro antisemitismo”. E ancora: “La Corte istituita per prevenire atrocità come l’Olocausto nazista contro gli ebrei ora prende di mira l’unico Stato degli ebrei”.

Benjami Netanyahu, primo ministro israeliano

E’ arrivato il momento di tentare di fare chiarezza sulle parole, sul loro uso e sulle strumentalizzazioni che s’è ne fanno. Ebrei, giudei, sionisti, semiti, israeliani sono quelle che più si sentono pronunciare da quando, il 7 ottobre, c’è stato l’assalto dei militanti dell’organizzazione palestinese Hamas alle comunità israeliane lungo il confine con la striscia di Gaza.

Sono parole ricorrenti da anni, in molti casi da secoli. Ci interessa soprattutto il periodo che parte dalla fondazione dello Stato di Israele, che Netanyahu ma anche altri leader israeliani considerano e definiscono lo “stato ebraico”, anche se, va ricordato, il venti percento della sua popolazione è formato da non ebrei.

Teoricamente si potrebbe chiamare “stato semita” ma non sarebbe la stessa cosa: gli ebrei ma anche gli arabi, musulmani e non sono, tutti semiti. Per questo, se vogliamo essere precisi, anti-semitismo è un termine che coinvolge sia gli ebrei che gli arabi.

Sono anni che Benjamin Netanyahu porta avanti una campagna molto articolata per convincere il mondo che ogni critica al Israele, soprattutto ai suoi comportamenti nei confronti degli arabi che vivono a Gerusalemme Est e nei territori occupati della Cisgiordania, equivale ad anti-semitismo. Sostiene – e sostengono molte delle organizzazioni ebraiche in Italia e non solo – che non ci sarebbe distinzione tra l’antisemitismo, (chiamato anche giudeofobia; antigiudaismo e antiebraismo) che è il pregiudizio, la paura o l’odio verso gli ebrei e l’antisionismo che esprime la negazione della legittimità dello Stato di Israele. Un miscuglio di termini errati che vogliono far diventare reato qualsivoglia critica allo stato di Israele.

Verso la fine del secolo scorso, quando per la prima volta Netanyahu ascese alla carica di primo ministro di Israele riunì i responsabili dell’hasbara – l’apparato propagandistico del ministero degli Esteri – e spiegò loro come il primo obiettivo del governo israeliano era convincere il mondo che ogni critica a Israele – “allo Stato ebraico”, “allo Stato degli ebrei” – era una forma di anti-semitismo. Negli stessi anni – 1998  – fu fondata quella che sarebbe stata la base dell’IHRA, la International Holocaust Remembrance Alliance.

Secondo la sua dichiarazione fondante, firmata anche dall’Italia, è necessario sostenere la “terribile verità dell’Olocausto contro coloro che la negano” e di preservare la memoria dell’Olocausto come “pietra di paragone nella nostra comprensione della capacità umana per il bene e il male”. “La comunità internazionale – è scritto – condivide la solenne responsabilità di lottare” contro “il genocidio, la pulizia etnica, il razzismo, l’antisemitismo e la xenofobia“.

Non abbiamo assistito a molte lotte della comunità internazionale contro questi fenomeni ancora in atto ma nel 2016, in una riunione a Budapest si volle chiarire cosa poteva essere considerato antisemitismo nel mondo di oggi.

Queste alcune delle considerazioni scritte nel documento ma parzialmente o totalmente contestate:
– Accusare i cittadini ebrei di essere più fedeli a Israele, o alle presunte priorità degli ebrei nel mondo, che agli interessi delle proprie nazioni.
– Negare al popolo ebraico il diritto all’autodeterminazione, ad esempio affermando che l’esistenza di uno Stato di Israele è uno sforzo razzista.
– Applicando doppi standard richiedendogli un comportamento non previsto o richiesto da qualsiasi altra nazione democratica.
– Utilizzare i simboli e le immagini associate all’antisemitismo classico (ad es. ebrei che uccidono Gesù) per caratterizzare Israele o gli israeliani.
– Facendo paragoni tra la politica israeliana contemporanea e quella dei nazisti.
– Ritenere gli ebrei collettivamente responsabili delle azioni dello stato di Israele.”

Qualche anno fa – cinque se ricordo bene – Peter Beinart, professore di giornalismo, scrittore e attivista politico, ebreo in molto cose osservante, figlio di immigrati ebrei dal Sud Africa (suo nonno materno era russo e sua nonna materna, sefardita, egiziana), volle affrontare con un lungo intervento il “mito che anti-sionismo è antisemitismo”.

Peter Beinart

“La tesi secondo cui l’antisionismo è intrinsecamente antisemita – scrisse in un articolo ripreso recentemente da un giornale inglese – si fonda su tre pilastri. La prima è che opporsi al sionismo è antisemita perché nega agli ebrei ciò di cui gode ogni altro popolo: uno Stato proprio”.

“L’idea che tutti gli altri popoli possano cercare e difendere il proprio diritto all’autodeterminazione ma gli ebrei non possono – ha dichiarato Chuck Schumer nel 2017 – è antisemitismo”.

Come ha affermato l’anno scorso David Harris, capo dell’American Jewish Committee: “Negare al popolo ebraico, tra tutti i popoli della terra, il diritto all’autodeterminazione è sicuramente discriminatorio”.

“Tutti i popoli della terra? – si chiede Beinart -. I curdi non hanno un proprio Stato. Né lo hanno i baschi, i catalani, gli scozzesi, i kashmiri, i tibetani, gli abkhazi, gli osseti, i lombardi, gli igbo, gli oromo, gli uiguri, i tamil, i quebecchesi, né decine di altri popoli che hanno creato movimenti nazionalisti per cercare l’autodeterminazione ma non sono riusciti a raggiungerla”.

“Eppure quasi nessuno suggerisce che opporsi a uno Stato curdo o catalano ti renda un bigotto anti-curdo o anti-catalano. È ampiamente riconosciuto che gli Stati basati sul nazionalismo etnico – stati creati per rappresentare e proteggere un particolare gruppo etnico – non sono l’unico modo legittimo per garantire l’ordine pubblico e la libertà individuale. A volte è meglio promuovere il nazionalismo civico, un nazionalismo costruito attorno ai confini piuttosto che al patrimonio: rendere l’identità spagnola più inclusiva dei catalani o l’identità irachena più inclusiva dei curdi, piuttosto che spartire quegli stati multietnici.”

Coloni israeliani, in Cisgiordania occupano terreni di proprietà polestinese

L’assalto di Hamas alle comunità israeliane ebraiche lungo il confine con Gaza e soprattutto la risposta israeliana ha visto (e continua a generare) parole di odio nei confronti delle comunità ebrei e palestinesi. E in questa situazione il termine anti-semitismo sarebbe perfetto soprattutto se pronunciato da chi, in giro per il mondo, disprezza gli arabi quanto disprezza gli ebrei.

Ragioniamo, con Beinart, sul termine anti-sionisti e anche su stato-coloniale. “Forse – scrive – non è bigotto opporsi alla richiesta di uno stato da parte di un popolo. Ma è bigotto togliere quella statualità una volta raggiunta”.

“Una cosa è sostenere, nella controversa corte dei ‘what-if’ storici, che Israele non doveva nascere – ha affermato l’editorialista del New York Times Bret Stephens. Tuttavia -Israele è ora la patria di quasi 9 milioni di cittadini, con un’identità che è distintamente e orgogliosamente israeliana quanto gli olandesi sono olandesi o i danesi danesi. L’antisionismo propone niente di meno che l’eliminazione di quell’identità e l’espropriazione politica di coloro che la apprezzano”.

“Ma non è bigotto – aggiunge sempre Beinart – cercare di trasformare uno Stato basato sul nazionalismo etnico in uno stato basato sul nazionalismo civico, in cui nessun gruppo etnico gode di privilegi speciali”.

Fino a quando non sarà terminata, o chiarita, la posizione dei coloni ebrei in Cisgiordania e a Gerusalemme Est, e fino a quando i palestinesi non saranno liberi sulla loro terra, la parola apartheid è considerata da molti un termine valido per definire lo Stato di Israele.

Eric Salerno
eric2sal@yahoo.com
X: @africexp

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Alla coppa della Confederazione africana tira e molla fra Algeria e Marocco per una maglietta

Dal Nostro Corrispondente Sportivo
Costantino Muscau
8 Maggio 2024

Nell’Italia del XIII secolo è ambientata la guerra fra modenesi e bolognesi per una secchia rapita. Nel nord Africa odierno succede che una squadra marocchina e una algerina arrivino ai ferri corti per una maglietta calcistica.

Maglietta del Berkhane (Marocco) con Sahara Ocidentale

In realtà, senza toccare le vette tragicomiche narrate dal poeta Tassoni nel poema di liceale memoria, il conflitto pallonaro magrebino nasconde una tensione diplomatica abbastanza seria. Partiamo dalla fine di aprile, stadio municipale di Berkane, città di 110 mila abitanti del Marocco nordorientale, celebre anche per i suoi agrumeti.

I giocatori della società calcistica della massima serie, “RS (Renaissance sportive) Berkane”, esultano. Hanno vinto senza aver tirato un solo calcio al pallone e vanno dritti a disputare la finale, il 12 maggio prossimo, della Coppa della Confederazione africana, una competizione annuale per squadre di club organizzata dalla CAF (Confederazione africana di football).

Questo perché i loro avversari, gli algerini dell’USM Alger, (Unione Sportiva della Medina di Algeri), detentori della Coppa, si sono rifiutati di giocare la semifinale. E quindi la CAF, che ha sede al Cairo, ha assegnato alla “Rs Berkane” la vittoria a tavolino per 3-0.

A che cosa è legato questo gran rifiuto algerino? Al fatto che sulla casacca degli atleti marocchini compariva anche il Sahara occidentale.

È noto che da decenni questa estesa ex colonia spagnola è al centro di una controversia tra il Regno del Marocco e il Fronte Polisario.

Essa è controllata per quasi l’80 per cento dal Marocco, ma rivendicata dagli indipendentisti del Polisario, appoggiati dall’Algeria. E non solo: anche l’Iran, la Corea del Nord, la Siria e altri Paesi sostengono la richiesta di autonomia, mentre Stati Uniti, Israele, Spagna, Francia, Arabia Saudita, Emirati Arabi e molte altre nazioni riconoscono la sovranità marocchina. Nel 2021 l’Algeria è arrivata a rompere le relazioni diplomatiche col suo grande rivale regionale.

Il conflitto, ora, dal terreno diplomatico si è trasferito sul campo da gioco. Il 21 aprile, domenica, ad Algeri si era svolta la prima parte di questa commedia poco comica e abbastanza seria, in occasione della partita di andata: i giocatori di casa non avevano voluto accettare il confronto pedatorio con marocchini. Sono stati, quindi, puniti con il 3-0. Il 28 aprile nell’incontro di ritorno a Berkane, stessa scena. E il 3 maggio identico verdetto della Caf (sempre 3-0).

Alla vigilia della (non) disfida del 21 aprile, per la verità, c’era stato un prologo controverso. Due giorni prima, infatti, nell’aeroporto Houari Boumediene, i doganieri algerini avevano sequestrato le magliette arancione dei calciatori del “Berkane”, appena sbarcati dal volo che li aveva portati da Oujda.

Solita motivazione: il Paese del re Mohammed VI era effigiato nella sua completezza, ovvero con il Sahara. I marocchini avevano protestato per quello che consideravano un abuso. Il presidente della Federazione di calcio algerina, Wafi Sadi, ha cercato una mediazione dichiarandosi disposto a fornire “nuovi indumenti e di alta qualità”, purchè privi della carta geografica del loro Paese! Niente da fare: i berkanesi si erano rifiutati di modificare la loro divisa. Quando si dice attaccamento alla maglia…E i loro rivali rossoneri hanno proseguito nella loro protesta proprio contro quell’attaccamento. Una questione di bandiera.

 

La CAF, oltretutto, aveva ribadito che il “RS Berkane” indossava quella maglietta fin dall’inizio del torneo.

CAF: i marocchini del Berkhane vincono a tavolino la semifinale. Gli algerini si rifiutano di scendere in campo

Conclusione: il “Berkane” in finale, il 12 maggio, affronterà il club egiziano “Zamalek” nella partita d’andata. Proprio quegli avversari da cui sono stati battuti nel 2019 (ma si sono rifatti conquistando il trofeo nel 2020 e 2022). Il match di ritorno è previsto al Cairo, il 19 maggio, una settimana dopo.

Salvo imprevisti: L’USM Alger ha fatto ricorso in appello davanti al Tribunale amministrativo dello sport. Il primo ricorso è stato rigettato e ora pare addirittura che rischi ulteriori sanzioni.

Costantino Muscau
muskost@gmail.com
© RIPRODUZIONE RISERVATA

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