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Corte Penale Internazionale: sbagliato paragonare i mandati di arresto ai leader di Israele e di Hamas

 

Speciale per Africa ExPress
Federica Iezzi
21 Maggio 2024
(1 – continua)

“Questo è il modo in cui stiamo dimostrando, concretamente, che la vita di tutti gli esseri umani ha lo stesso valore”. E’ così che si conclude la dichiarazione del procuratore della Corte Penale Internazionale, Karim A.A. Khan KC, in merito all’indagine sui crimini consumati nell’inumana guerra tra Israele e Palestina [https://www.icc-cpi.int/news/statement-icc-prosecutor-karim-aa-khan-kc-applications-arrest-warrants-situation-state].

Striscia di Gaza [photo credit Al-Jazeera]
Nessun doppio standard, dunque. Fine dei giochi politici e dei tentativi di protezione politica. Solo giustizia.

Richiesti mandati di arresto per il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, il ministro della difesa israeliano, Yoav Gallant, il leader di Hamas, Yahya Sinwar, il comandante delle Brigate al-Qassam (braccio armato di Hamas a Gaza), Mohammed Diab Ibrahim al-Masri, e il leader politico di Hamas, Ismail Haniyeh.

L’accusa al vaglio della Camera Preliminare è per crimini di guerra e contro l’umanità. Perché alla Corte penale dell’Aja? Perché esistono fondati motivi per ritenere che gli accusati abbiano commesso un crimine di competenza del tribunale.

Se la Corte Penale Internazionale approverà la richiesta del procuratore e con essa i mandati di arresto, allora 124 Stati saranno obbligati ad arrestare e consegnare alla giustizia gli accusati, qualora dovessero entrare nel loro territorio.

A differenza del caso ucraino, la Procura ha scelto di rendere pubblica la richiesta, piuttosto che aspettare l’approvazione dei mandati di arresto. Altro passo insolito è stato quello di riunire il gruppo di esperti esterni per affermare la decisione. Il panel esterno comprende: i giudici Adrian Fulford e Theodor Meron, gli avvocati Amal Clooney (moglie di George Clooney), Danny Friedman e Helena Kennedy, il consulente legale Elizabeth Wilmshurst, i professori universitari Marko Milanovic e Sandesh Sivakumaran.

La commissione esamina da mesi azioni militari, dichiarazioni, comunicazioni e ha fortemente sottolineato come le ragioni del conflitto devono essere separate dalla condotta delle ostilità.

Ci sono prove evidenti che sia Hamas che Israele abbiano commesso crimini internazionali. Non vi è alcuna argomentazione sull’equivalenza nelle accuse, come prontamente denunciato da Israele. L’indagine è su condotte criminali separate.

Veniamo ora alle accuse. Per i leader di Hamas, le accuse si concentrano sui fatti del 7 ottobre e includono crimini di guerra e crimini contro l’umanità, parte diretta di un attacco diffuso e sistematico contro civili israeliani. Le accuse contro i leader israeliani si concentrano, invece, sul metodico attacco alla popolazione civile della Striscia di Gaza e sull’uso della fame come metodo di guerra contro l’intera popolazione palestinese.

Il termine genocidio non è ancora incluso. E non sorprende questo conservazionismo. Si parla infatti di persecuzione come crimine contro l’umanità. Vero che si tratta di un reato contro un gruppo umano ben identificato, ma il termine “persecuzione” non include l’intento di distruggere.

Non da ultimo, è bene ricordare che il conflitto armato in corso non è solo tra due entità nazionali, nella fattispecie Palestina e Israele, ma è parallelamente anche tra Israele e Hamas, tra l’altro colpendo direttamente una popolazione – quella di Gaza – rigorosamente protetta dal Diritto Internazionale Umanitario, in quanto rifugiata (IV Convenzione di Ginevra, 1949). Precisazione non irrilevante in quanto tesa a confermare la statualità palestinese e comunque a eliminare ogni dubbio, nel caso in cui Israele sostenesse la linea che si tratti di territori interni.

L’impatto politico delle accuse a Israele sarà significativo. Per esempio la vendita di armi al Paese sarà irrealizzabile per gli Stati firmatari del Trattato sul commercio delle armi (2013).

Sarà anche interessante vedere l’effetto delle potenziali accuse a Israele sul caso avviato dal Sudafrica, presso la Corte Internazionale di Giustizia, per atti di genocidio contro i palestinesi della Striscia di Gaza. Semplificando la Corte Internazionale di Giustizia si occupa di Stati, mentre la Corte Penale Internazionale, di individui.

L’obiettivo rimane lo stesso, cioè quello di ribadire con forza che, in tutti i contesti, ai principi del Diritto Internazionale Umanitario nessuno può derogare.

Federica Iezzi
federicaiezzi@hotmail.it
Twitter @federicaiezzi
(1- continua)
©️ RIPRODUZIONE RISERVATA

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Qui ci sono alcuni degli articoli pubblicati sulla guerra in Palestina

Assalto della guerriglia a Cabinda: gli indipendentisti uccidono un drappello di dodici militari angolani

Speciale per Africa ExPress
Sandro Pintus
21 maggio 2024

Gli indipendentisti del  Fronte di liberazione dell’enclave di Cabinda (FLEC-FAC) tornano ad attaccare. Attraverso un comunicato inviato all’Agenzia portoghese LUSA, hanno annunciato la morte di 12 militari angolani mentre altri quattro sono stati feriti gravemente. Nessuna conferma è stata data dal governo di Luanda.

Cabinda FAC, braccio armato del FLEC
Cabinda, militanti del FAC, braccio armato del FLEC

Agguato nella notte

L’operazione di guerriglia, portata avanti da una unità del comando delle operazioni speciali delle Forze armate di Cabinda (FAC) è del 14 maggio. Le FAC riferiscono che l’agguato è iniziato alle 3.20 di mattina. “Gli scontri con i soldati angolani sono avvenuti nella regione del Belize, nel villaggio di Tundu Maselese, al confine con la Repubblica Democratica del Congo (Congo-K).

Accuse di stupri

Nel comunicato la FLEC-FAC fa pesanti accuse alle FAA. “I soldati delle Forze armate angolane hanno violentato donne sotto la minaccia delle armi – scrivono gli indipendentisti -. Hanno picchiato uomini che cercavano di difendere le loro mogli e figlie”. Le violenze sono successe nel villaggio di Mbaka-Nkosi, nella foresta di Maiombe, vicino al confine con il Congo-K.

Il Fronte di liberazione accusa Luanda anche di “molteplici violazioni e attacchi ai diritti umani e al diritto umanitario a Cabinda”. Incolpa il presidente angolano, João Lourenço, di selvaggia repressione in corso a Cabinda sulla popolazione dell’enclave.

Mappa di Cabinda
Mappa di Cabinda

Appello a ONU e all’Unione Europea

Gli indipendentisti fanno appello alle Nazioni Unite e all’Unione Europea affinché intervengano “contro la repressione e le violazioni di Luanda e per la libera espressione della popolazione di Cabinda”

Zona di guerra

È il secondo attacco in 10 giorni. Segue quello della notte del 5 maggio contro un mezzo militare delle FAA nell’area di Miconje, nella regione del Belize. Nell’agguato sono morti tre militari angolani e due lavoratori brasiliani della società mineraria Lufo.

Il comunicato FAC dell’operazione di guerriglia è stato ricevuto da Voz da America sabato 6 maggio firmato dal tenente generale João Cruz Mavinga Lúcifer.  Né Luanda né il governo brasiliano hanno confermato il bilancio delle vittime.

“Tutte le notizie sulla presunta pacificazione di Cabinda, diffuse dal governo angolano, sono menzogne politiche. Mettono a rischio la vita di ogni incauto straniero nell’interno e nelle città – si legge -. Cabinda è zona di guerra”

FAA esercitazioni Cabinda 2022
Esercitazioni delle Forze armate angolane a Cabinda nel 2022

Cinquemila soldati di Luanda sul campo

Secondo gli indipendentisti FLEC-FAC oltre 5.000 soldati FAA sono presenti nelle foreste di Maiombe e lungo il confine tra Angola e Congo-K. È un’operazione congiunta delle Forze Armate dell’Angola e della Repubblica Democratica del Congo per combattere i rispettivi guerriglieri.

Indipendenza e petrolio

Cabinda, è un’enclave di 700 mila abitanti più piccola dell’Umbria tra Congo-K e Congo-B. Dista un centinaio di km in linea d’aria dall’Angola ma circa 350 km attraversando il Congo-Brazzaville in auto.

L’indipendenza di Cabinda è sempre stata complicata. Le ultime decisioni politiche internazionali dopo l’indipendenza dell’Angola, nel 1975, sono quelle ONU e dell’Organizzazione dell’Unità Africana (OUA).

L’Assemblea Generale ONU indicava l’Angola come comprendente l’exclave di Cabinda. L’OUA, al contrario nel 1964, menzionò in maniera distinta l’Angola e Cabinda.

Luanda ha preso per buona la decisione ONU agglomerando Cabinda e non ha alcuna intenzione di concederne l’indipendenza. L’exclave è infatti la gallina dalle uova d’oro: il 60 per cento del petrolio angolano è di Cabinda. Tra le multinazionali petrolifere che operano c’è anche l’italiana ENI. È una provincia angolana che galleggia sul petrolio e produce quotidianamente 700 mila barili di petrolio greggio.

Una materia prima alla quale Luanda non ha alcuna intenzione di rinunciare.

Sandro Pintus
sandro.p@catpress.com

X (ex Twitter):
@sand_pin
© RIPRODUZIONE RISERVATA

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Riprende la guerriglia a Cabinda: il FLEC attacca, morti e feriti tra l’esercito angolano

Muore il presidente Raisi e in un teatro iraniano va in scena un opera buffa di Dario Fo

dal quotidiano Tehran Times
Teheran, 20 maggio 2024

L’opera teatrale “Tutti i ladri non sono ladri” sarà rappresentata alla Farabi Hall della città di Sowme’eh Sara, nella provincia di Gilan in Iran, dal 20 al 24 maggio.

Mahan Naeimi ha diretto lo spettacolo basato su un dramma comico del drammaturgo italiano Dario Fo intitolato “Il ladro virtuoso” (noto anche come “Non tutti i ladri vengono per nuocere”).

Ali Akhavan, Sogand Khan-Zolfi, Bahman Azad, Maryam Dashti, Mahgol Sadat Sahrghi e Misagh Naeimi fanno parte del cast di questa commedia di 75 minuti.

La storia dell’atto unico racconta di un ladro che entra in casa del vicesindaco, mentre il vicesindaco torna a casa con la sua amante segreta Julia e il ladro si nasconde in un orologio a pendolo.

Una veduta di Sowme’eh Sara, Iran

Dario Fo (1926-2016) è stato un drammaturgo, attore, comico, cantante, regista teatrale, scenografo, cantautore, pittore, attivista politico della sinistra italiana e vincitore del Premio Nobel per la letteratura nel 1997.

Dario Fo

Nel suo tempo, è stato probabilmente il drammaturgo contemporaneo più rappresentato nel teatro mondiale. Gran parte della sua opera drammatica dipende dall’improvvisazione e comprende il recupero di forme illegittime di teatro, come quelle dei giullari e dei suonatori ambulanti medievali e, più notoriamente, l’antico stile italiano della commedia dell’arte.

Le sue opere sono state tradotte in 30 lingue e rappresentate in tutto il mondo, tra cui Argentina, Bulgaria, Canada, Cile, India, Paesi Bassi, Polonia, Romania, Sudafrica, Corea del Sud, Spagna, Sri Lanka, Svezia, Regno Unito, Stati Uniti e Iran.

Il suo lavoro degli anni ’60, ’70 e ’80 è costellato di critiche ad assassinii, corruzione, crimine organizzato, razzismo, teologia cattolica e guerra. Nel corso degli anni Novanta e Duemila, si è dedicato alla parodia di Forza Italia e del suo leader Silvio Berlusconi, mentre negli anni 2010 ha preso di mira le banche nel contesto della crisi del debito sovrano europeo.

Sempre negli anni 2010, è diventato il principale ideologo del Movimento Cinque Stelle, il partito anti establishment guidato da Beppe Grillo, spesso chiamato dai suoi membri “il Maestro”.

Il conferimento del Premio Nobel per la letteratura nel 1997 ha segnato il “riconoscimento internazionale di Fo come figura di spicco del teatro mondiale del Novecento”. L’Accademia di Svezia ha elogiato Fo come scrittore “che emula i giullari del Medioevo nel flagellare l’autorità e sostenere la dignità degli oppressi”.

Tehran Times

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Cade l’elicottero: a bordo il presidente iraniano Ebrahim Raisi

Sventato golpe a Kinshasa: tra i presunti autori anche cittadini americani

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
19 maggio 2024

Colpi di fucile hanno svegliato prima dell’alba di domenica gli abitanti del quartiere residenziale “La Gombe” di Kinshasa, dove vivono anche molti ambasciatori.

Kinshasa, Congo-k: sventato golpe

Una ventina di uomini armati in tuta militare si sono scontrati con le guardie di Vital Kamehre, vice primo ministro, capo del dicastero dell’Economia candidato alla presidenza dell’Assemblea nazionale, che abita ugualmente nel quartiere. “Due agenti di polizia e uno degli aggressori sono morti durante l’attacco. Kamehere e la sua famiglia sono sani e salvi”, ha riportato sul suo account X (ex Twitter), il portavoce del ministro, Michel Moto Muhima. La casa del ministro dista solo due chilometri dal Palais de la Nation, ufficio del presidente Felix Tshisekedi.

Alcuni uomini in divisa sono riusciti a penetrare nel Palais de la Nation, strettamente sorvegliato e protetto dalla guardia repubblicana. Gli aggressori, secondo quanto riportato da alcuni media, avrebbero poi tolto la bandiera congolese nel cortile del palazzo e issato quella dello Zaire, vecchio nome della RDC dal 27 ottobre 1971 al 17 maggio 1997, sotto il regime di Mobutu Sese Seko.

Il portavoce delle forze armate congolesi, Sylvain Ekenge

Le Forze armate congolesi hanno confermato la notizia di Moto Muhima e Sylvain Ekenge, portavoce dell’esercito congolese, ha dichiarato alla televisione di Stato che si è trattato di un tentativo di golpe, stroncato sul nascere dalle forze armate e di sicurezza.

Durante le aggressioni di questa mattina, una granata, proveniente da Kinshasa ha raggiunto accidentalmente Brazzaville, capitale della vicina Repubblica del Congo. Le autorità hanno assicurato che si è trattato di un incidente isolato.

Secondo l’esercito, il gruppo di persone che ha organizzato il fallito colpo di Stato è formato per lo più da stranieri o cittadini congolesi residenti all’estero e alcuni dei sospettati hanno passaporti statunitensi e canadesi.

Christian Malanga, presunto autore del colpo di Stato

Una fonte vicina al ministero della Difesa ha confermato che i sospetti si sono concentrati sul 41enne Christian Malanga, ex ufficiale e uomo d’affari entrato in politica circa dieci anni fa, ucciso questa mattina, quando ha tentato di entrare nel Palais de la Nation insieme ad alcuni suoi seguaci. Viveva negli Stati Uniti e sosteneva il ritorno di un nuovo Zaire. Secondo alcuni media locali, Malanga aveva detto in una diretta video, circondato da uomini armati in divisa: “Felix, sei fuori. Stiamo venendo a prenderti”, riferendosi al presidente Felix Tshisekedi.

Il braccio destro e partner in affari di Malanga, Benjamin Zalman-Polun del Maryland, di nazionalità statunitense, è stato arrestato, insieme a tutti gli altri partecipanti, una ventina di persone. Pare che in manette sia finito anche figlio ventenne dell’ideatore dello sventato golpe.

L’americano Benjamin Zalman-Polun, a sinistra, indicato come braccio destro di Christian Malanga (courtesy Politico)

L’ambasciatore USA a Kinshasa, Lucy Tamlyn, ha promesso la massima collaborazione con le autorità congolesi per quanto concerne l’inchiesta sui cittadini americani implicati in atti criminali.

Cornelia I. Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
X: @cotoelgyes

© RIPRODUZIONE RISERVATA

 

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Cade l’elicottero: a bordo il presidente iraniano Ebrahim Raisi

Speciale per Africa ExPress
Farian Sabahi*
19 maggio 2024

Continuano le ricerche nella foresta di Dizmar, un parco naturale protetto nei pressi della cittadina di Varzaghan, nella regione iraniana dell’Azerbaigian orientale. È qui che si sarebbe schiantato l’elicottero con a bordo il Presidente della Repubblica islamica Ebrahim Raisi, l’ultraconservatore in carica dal 2021 e candidato alla successione del leader supremo Ali Khamenei. Il parco di Dizmar è un’area montuosa, di difficile accesso per i soccorritori, per le otto ambulanze e per l’elisoccorso anche a causa del maltempo e della nebbia intensa.

Nella mattina di domenica 19 maggio il presidente iraniano era arrivato in aereo dalla capitale Teheran a Tabriz (Iran nordoccidentale) e aveva poi proseguito in elicottero fino al confine con la repubblica indipendente dell’Azerbaigian per inaugurare la diga di Qiz Qalasi, una delle tre costruite in collaborazione tra Teheran e Baku sul corso del fiume Arasse, confine naturale tra i due Stati. La diga rafforzerà la cooperazione tra i due Paesi e gestirà due miliardi di metri cubi di acqua all’anno, fornendo acqua alle province iraniane di Ardebil e dell’Azerbaigian Orientale.

il presidente iraniano Raisi

Dopo l’inaugurazione della diga con il suo omologo azerbaigiano Aliyev, il presidente iraniano è ripartito alla volta di Tabriz, dove avrebbe avuto un altro incontro pubblico in un impianto petrolifero. Sul suo elicottero viaggiavano anche il ministro degli Esteri Amir Abdollahian, il governatore della provincia e il leader religioso della zona. Gli altri due elicotteri sono atterrati alla base senza problemi.

A far insospettire circa gli eventi sono state le agenzie di stampa iraniane, che in prima battuta hanno scritto di un “atterraggio brusco” e precisato che il presidente sarebbe poi “ripartito in automobile”. A distanza di qualche ora, la verità è venuta a galla: si è trattato di ben altro, e il leader supremo Ali Khamenei ha espresso preoccupazione per l’elicottero scomparso in un incontro pubblico. Lo riporta Al Jazeera. “Speriamo che Dio riporti l’onorevole presidente e i suoi compagni tra le braccia della nazione – ha detto – Tutti devono pregare per la salute di questo gruppo di dipendenti pubblici. La nazione iraniana non deve essere preoccupata, non ci saranno interruzioni nel lavoro del Paese”.

Fonti israeliane hanno data per certa la morte di Raisi, ma le ricerche continuano. A ricoprire le funzioni di presidente ad interim sarebbe il suo vice Mohammad Mokhber, che in queste ore si è spostato dalla capitale Teheran a Tabriz. Dopo cinquanta giorni, gli iraniani dovrebbero andare alle urne, per eleggere il nuovo Presidente della Repubblica islamica dell’Iran. Nel frattempo, le autorità iraniane hanno invitato la popolazione a pregare.

In merito alle cause, la prima ipotesi è quella dell’incidente motivato da problemi nei pezzi di ricambio a causa delle sanzioni internazionali. Pare però che l’elicottero non fosse un Bell 212, e nemmeno un Bell 412 di produzione statunitense (acquistati al tempo dello scià, oppure prodotti su licenza da Agusta, e utilizzati generalmente dai VIP iraniani).

Sembra si tratti infatti di un Mi 171, ovvero di una versione più aggiornata dell’elicottero russo Mi-17. L’esercito iraniano ne ha in dotazione una ventina e ne esiste, appunto, anche una versione destinata ai VIP. Come per gli aerei di linea di produzione russa, anche in questo caso la percezione degli iraniani è che si tratti di prodotti a rischio, decisamente meno affidabili di quelli occidentali.

Una seconda ipotesi è che si sia trattato di un attentato israeliano, proprio nel momento in cui l’Iran sta portando avanti colloqui bilaterali, indiretti, con Washington grazie alla mediazione dell’Oman.

Se fosse un attentato israeliano, potrebbe trattarsi di un drone oppure di un missile. Inoltre, non è da escludere che si sia trattato di un’operazione congiunta, da parte di Israele e dell’opposizione iraniana. Forse anche con lo zampino della repubblica indipendente dell’Azerbaigian, da sempre alleato di Israele tant’è che Tel Aviv aveva armato Baku nella guerra contro l’Armenia per il Nagorno Karabakh.

Farian Sabahi*
farian.sabahi@gmail.com
© RIPRODUZIONE RISERVATA

*l’italo-iraniana Farian Sabahi vanta un Ph.D. alla SOAS (School of Oriental and African Studies) di Londra, è Ricercatrice senior in Storia contemporanea, insegna all’Università dell’Insubria (Como e Varese) è delegata per gli affari istituzionali e diplomatici presso il Dipartimento di Scienza Umane e dell’Innovazione per il Territorio.

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https://www.ilsole24ore.com/art/perche-israele-ha-armato-l-azerbaigian-contro-l-armenia-e-cosa-c-entra-l-iran-AFdtsD7

Yemen: pericolo houthi, Washington ordina e l’Italia obbedisce

Il Sudafrica si prepara alle elezioni nella profonda disillusione: il cambiamento è un miraggio lontano

Dalla Nostra Corrispondente
Elena Gazzano
Città del Capo, 18 maggio 2024

Nel cuore pulsante di Città del Capo, lontano dalle sfavillanti luci di Waterfront e dalla ricchezza pettinata di Camps Bay, esiste un mondo ignorato e dimenticato. Un mondo fatto di vicoli ricoperti da spazzatura e di baracche fatiscenti, dove la disperazione e lo spirito indomabile della sopravvivenza si intrecciano in un quadro di dolore e stanchezza. Questo mondo è Imizamo Yethu, un insediamento informale che racconta una storia di abbandono e tradimento.

Insediamento informale Imizamo Yethu, Sudafrica

Le strade dell’insediamento non conoscono il lusso, solo il rigore dell’esistenza quotidiana. Spiega una donna, seduta su una sedia sgangherata fuori dalla sua baracca: “Nulla è cambiato, solo il nome è diverso: ora non più apartheid, ma un’apartheid democratico”. Le sue parole sono spiazzanti, sussurrate a denti stretti, ma purtroppo richiudono il sentimento prevalente che si srotola tra i vicoli della baraccopoli.

Trent’anni sono passati dall’avvento della democrazia in Sudafrica, ma per questa gente il cambiamento è un miraggio lontano, qualcosa di cui parlano solo i politici durante le elezioni.

Sinfonia di discontento

E’ una sinfonia di discontento quella che viene ripetuta durate la fila per assaporare un barbeque spettacolare. “Siamo stanchi di votare, è sempre la stessa storia”, confessa una giovane madre rivelando una disillusione profonda. In questa comunità, votare è diventato un rituale vuoto, un atto privo di significato in un mare di bugie e tradimenti.

Le speranze e i desideri degli abitanti di questo insediamento sono semplici ma profondi. “Il governo dovrebbe dare priorità alla sicurezza dei cittadini e lavorare per migliorare le condizioni di vita dei bambini,” sottolinea un altro intervistato con un semplice richiamo alla dignità umana di base.

Imizamo Yethu

La disuguaglianza e le promesse non mantenute qui si toccano con mano. “Guarda questo lato della strada: solo baracche. Ora, sposta lo sguardo sull’altro lato: case bianche aggrappate alle pendici della montagna. Osserva cosa c’è di fronte a casa mia, la loro spazzatura. Vengono qui a scaricarla per non rovinare i loro vialetti, si lamenta un giovane.

“I bianchi non hanno nemmeno il coraggio di entrare nella nostra zona, se non al volante delle loro macchine e protetti da guanti e mascherine chirurgiche”, la sua voce carica di una rabbia riflette la crudele realtà delle disuguaglianze.

Promesse infrante

“I miei genitori hanno votato fin dalla mia nascita. Nessun cambiamento”. Le generazioni si susseguono, ma il ciclo di promesse infrante rimane intatto. Per coloro la cui vita è definita dalla lotta incessante, l’urna elettorale è un crudo promemoria dell’abisso che separa le promesse dalla realtà.

E poi riecheggia una voce baritonale: “Sembra che io sia qualcuno che continuerà a votare? No. Li vedi questi, sono quattro cessi per venti persone, peccato che solo due funzionino”. Qui, all’ombra di disuguaglianze imponenti, le elezioni sono solo un’illusione di democrazia in una terra dove il potere è nelle mani di pochi e la maggioranza continua a lottare per sopravvivere.

Nel regno della politica, la menzogna è sovrana. “Tutti promettono, promettono, promettono. Ma agiscono sulle loro promesse?” Questa è la domanda che rimbomba tra le strade di Imizamo Yethu, dove le linee tra speranza e disperazione si confondono e le promesse non mantenute si stagliano imponenti sull’orizzonte.

Il mito di Mandela

Il mito di Mandela, una volta un faro di speranza per un Sudafrica appena nato dalla cenere dell’apartheid, ora appare sbiadito, un’ombra pallida di fronte alla realtà crudele della vita quotidiana. “Noi non siamo governati. Se hai notato quando sei arrivata, c’è un cartello che dice ‘benvenuti nella Repubblica di Imizamo Yethu’. Significa semplicemente che non siamo in Sudafrica. Siamo controllati, non governati.” Questo sentimento di abbandono e tradimento è tangibile nelle strade sporche e tra le baracche fatiscenti. La gente è stanca di essere ignorata, stanca di vedere le loro speranze calpestate da politici indifferenti e corrotti.

Imizamo Yethu diventa così il simbolo di una nazione spezzata, dove la retorica dei politici si scontra con la cruda realtà della vita quotidiana. Il Sudafrica è intrappolato in una crisi di leadership e fiducia, il futuro è avvolto da incertezza, ma una cosa è chiara: il tempo per il cambiamento è scaduto, e le voci delle persone dimenticate devono rimbombare nelle orecchie degli indifferenti.

Voglia primordiale

Attraversando Imizamo Yethu, si incontrano non solo povertà e disperazione, ma anche una voglia primordiale di sfidare ingiustizia e disuguaglianza. Ironicamente, “Imizamo Yethu” significa “il nostro comune sforzo“, un nome che suona quasi beffardo in una realtà dove gli sforzi comuni sembrano essere ignorati da chi detiene il potere.

E quindi, allontanandosi da questo luogo segnato dalla sofferenze, giunge spontanea una domanda: quanto ancora dovranno urlare prima che qualcuno finalmente li ascolti? E soprattutto, le elezioni del 29 maggio porteranno davvero un vento di cambiamento o saranno solo un altro inganno in questa crudele giostra di speranze infrante?

Elena Gazzano
elenagazzano6@gmail.com
https://www.instagram.com/elena.gazzano/
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La rabbia nera delle toghe nere tunisine dopo l’arresto di due colleghi

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
17 maggio 2024

Lo stato d’animo degli avvocati tunisini è nero come le loro toghe, dopo l’arresto di due loro colleghi, Sonia Dahmani e Mehdi Zagrouba, avvenuti  nel giro di 48 ore. Ieri centinaia di legali insieme a militanti di gruppi della società civile hanno protestato davanti al Tribunale di Tunisi. Principi del foro, difensori, hanno scioperato per la seconda volta nel giro di pochi giorni.

Manifestazione degli avvocati e militanti della società civile davanti al Tribunale di Tunisi
Protesta di militanti e avvocati a Tunisi

Sabato sera la polizia ha fatto irruzione nella sede dell’Ordine degli avvocati di Tunisi e hanno portato in galera la signora Dahmani. Lunedì sera stessa scena: nuovo blitz delle forze di sicurezza nell’edificio, arrestando Mehdi Zagrouba in modo piuttosto violento.

Mehdi Zagrouba

I difensori di Zagrouba hanno denunciato persino atti di tortura subiti dal loro assistito. Mercoledì, mentre veniva emesso l’atto di rinvio a giudizio, l’accusato giaceva svenuto per terra, tanto da richiedere un suo immediato trasferimento in ospedale. Secondo quanto riferito, su diverse parti del suo corpo erano presenti evidenti segni di tortura.

L’avvocato è stato arrestato lunedì sera per oltraggio a pubblico ufficiale ed è sospettato di aver aggredito un agente di polizia a margine del movimento di protesta degli avvocati dopo l’arresto della collega Sonia Dahmani. La legale è stata prelevata dalla polizia nella serata di sabato. Il regime non ha gradito le sue insinuazioni sarcastiche sulla situazione del Paese durante un suo intervento in TV, in particolare per quanto riguarda i migranti sub-sahariani, la cui presenza non è per nulla gradita in Tunisia.

Ne ha fatto seguito una convocazione dal giudice istruttore. La signora Dahmani ha ignorato la richiesta di comparizione, perché non è stata informata del motivo. Proprio a causa della sua assenza, il giudice incaricato del caso, l’11 maggio ha poi emesso nei suoi confronti un mandato di arresto, che è stato convalidato lunedì.

Il ministero degli Interni ha negato le accuse di violenza e torture, dichiarando che l’arresto di Zaghrouba si è svolto in modo assolutamente legale e senza problemi. E il portavoce dello stesso dicastero, Faker Bouzghaya , ha dichiarato a IFM (emittente radiofonica privata tunisina) “Rivendicare la tortura è un modo per sfuggire alla giustizia”.

Il presidente tunisino, Kaïs Saïed, non ha gradito le critiche dell’Unione Europea, Francia, Stati Uniti, dopo i numerosi arresti di avvocati, giornalisti e attivisti. E proprio ieri il capo di Stato ha qualificato tali preoccupazioni come “inaccettabili interferenze straniere” Ha poi aggiunto: “Non siamo intervenuti nei loro affari quando hanno arrestato manifestanti che denunciavano la guerra genocida contro il popolo palestinese”. Saïed ha subito incaricato il ministero degli Esteri di “convocare al più presto” gli ambasciatori di diversi Paesi stranieri per comunicare il proprio disappunto circa le loro critiche.

Cornelia I. Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
X: @cotoelgyes

©RIPRODUZIONE RISERVATA

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Tangentopoli genovese: Sansa (opposizione) “Toti dimettiti la Liguria deve avere un futuro”

Speciale per Africa ExPress  
Alessandra Fava
16 maggio 2024

Ferruccio Sansa, consigliere regionale all’opposizione, è stato candidato alla presidenza della Regione nel 2020 con la coalizione di cui fanno parte Pd, Movimento 5Stelle, Linea Condivisa, Europa Verde-Demos-Centro democratico. Al presidente Toti non ha mai risparmiato critiche e ha presentato centinaia di interrogazioni http://iterc.regione.liguria.it/ElePropCons.asp?pagina=21

Bahri Yambu, nave cargo saudita carica di armi ormeggiata nel porto di Genova nel 2019

Sansa è stupito dall’arresto ai domiciliari del presidente della Regione Giovanni Toti?
“Macchè. Sono tre anni e mezzo che dico queste cose e spesso in solitudine completa. Anche la nostra parte politica diceva di lasciar perdere. Ho fatto un centinaio di post su Facebook e decine di interrogazioni. Tutto è nato anche dall’idea che queste forme di finanziamento hanno creato un furto di democrazia in Liguria”.

Nel 2020 lei era lo sfidante di Toti per il centro sinistra. Come ricorda quel periodo oggi sotto la lente della magistratura?
“Per la campagna elettorale io avevo 50 mila euro a disposizione, derivanti soprattutto da soldi messi da me. Mentre Toti, il mio avversario, circa 2 milioni di euro. Quaranta volte tanto e questi erano finanziamenti che provenivano dalle fonti che ora spuntano dall’indagine: porto, grande distribuzione, sanità privata. Questi sono i primi filoni che lo hanno sostenuto, che poi sono quelli legati per lo più a privati, che lui ha favorito una volta vinte le elezioni. In pratica ha aiutato da presidente coloro che hanno finanziato la sua campagna elettorale”.

Manifesto durante la manifestazione dei portuali contro il passaggio di navi cariche di armi di passaggio nel porto di Genova

Claudio Scajola dice oggi che il problema in Italia sono i finanziamenti alla politica, ma dall’inchiesta esce un quadro che va al di là dell’imprenditore con simpatie politiche che appoggia un politico vicino alle sue idee…
“Il problema in Italia è che c’è una zona grigia tra politica e impresa e i rapporti non sono chiari. Non si capisce se alla fine governa la politica o finanziatori della politica e se gli interessi che vengono fatti da chi amministra sono quelli dei cittadini o di coloro che hanno erogato i fondi”.

Con l’aggravamento che dalle carte escono anche voti di scambio con la mafia siciliana, per cui i votanti per Toti, secondo le accuse, avevano una corsia previlegiata per avere le case popolari. Che cosa ne pensa?
“Penso che in una regione come la Liguria, che ha fortissime infiltrazioni mafiose al centro di moltissime indagini degli ultimi anni, sia una follia affidarsi a chi ti offre centinaia di voti”.

Anche a lei hanno offerto qualcosa in campagna elettorale?
“A me non hanno offerto né soldi, né finanziamenti perché non avrei restituito i favori e non mi interessava”.

Ferruccio Sansa

Che cosa succede ora in Regione?
“Toti si deve dimettere. Ieri parlavo con dirigenti della Regione e dicono che in settori chiave come la sanità si rischia il collasso. Non c’è tempo. Una regione come la Liguria non ha tempo. Siamo una regione senza testa e non si può lasciare un vuoto decisionale. E il problema non è solo l’ente regionale ma anche il Comune: il sindaco Marco Bucci che non è indagato, andava a braccetto con tutti gli indagati. Quindi è delegittimato anche il sindaco e ha una responsabilità politica, perché è lui ad aver scelto Signorini per i vertici di Iren (società di servizi che produce e distribuisce tra l’altro energia elettrica, ndr). Vedo che i liguri sono disorientati. Spaesati. Bisogna agire”.

Se si andasse a elezioni, nel centro-sinistra ci sono energie e idee per ripartire?
“Ora bisogna tagliare tutti i ponti con gli ambienti con cui anche in passato il centro sinistra ha avuto a che fare e tentare di costruire una Liguria completamente nuova. Dobbiamo ricostruire un patto con i cittadini tagliando tutti i legami con Spinelli e gli altri”.

Alessandra Fava
alessandrafava2015@libero.it
©️ RIPRODUZIONE RISERVATA
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Genova: e la nave saudita se ne va carica di armi e carri armati

https://x.com/fattoquotidiano/status/1789545438623797486?t=btI2sUngSH2eghhUQpxUzg&s=08

Crimini contro l’umanità: condannato a 20 anni in Svizzera ex ministro del Gambia

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
15 maggio 2024

L’ex ministro degli Interni del Gambia, Ousman Sonko, è stato condannato a 20 anni di galera dal Tribunale Federale di Bellinzona, Svizzera.

L’ex ministro degli Interni del Gambia, Ousman Sonko

Il processo contro Sonko è iniziato i primi di gennaio ed è terminato a marzo di quest’anno. La pubblica accusa aveva sollecitato l’ergastolo per i crimini contro l’umanità commessi dal 2000 al 2016, mentre il suo avvocato difensore, aveva chiesto la piena assoluzione del suo cliente e un risarcimento di quasi un milione di franchi svizzeri.

Sonko è stato ministro degli Interni dal 2006 al 2016, anno in cui era caduto in disgrazia e quindi destituito dall’ex dittatore Yahya Jammeh, al potere dall’ottobre del 1996 a gennaio 2017. Il tiranno ora è in esilio in Guinea Equatoriale. All’inizio del 2000, l’alleato dell’ex despota di Banjul, era comandante del Battaglione delle Guardie di Stato, poi ispettore generale della polizia gambiana, prima di occupare la poltrona di uno dei dicasteri più importanti del piccolo Stato, una enclave del Senegal.

Di per sé il caso Sonko non ha alcun legame diretto con la Svizzera. Tuttavia, la Confederazione, secondo il principio del diritto internazionale, può sempre perseguire crimini contro l’umanità, a condizione che l’autore del reato si trovi sul territorio nazionale e non venga estradato. In questo caso, il Gambia non ha presentato una richiesta di estradizione. Gli investigatori svizzeri sono però stati autorizzati a recarsi in Gambia per raccogliere prove in loco.

Sonko è apparso in Svizzera alla fine del 2016 con passaporto diplomatico, dopo aver tentato invano di essere accolto in Svezia, che lo ha poi deportato in Spagna. E il regno ispanico, a sua volta, gli ha negato il permesso di soggiorno.

Una volta giunto a Berna, Sonko ha inoltrato richiesta di asilo e da prassi è stato portato a Lyss (Canton Berna), in un centro per rifugiati. Poco dopo il suo arrivo, i TG locali  hanno parlato della sua presenza in Svizzera. La ONG Trial International, ha subito sporto denuncia contro Sonko. La Confederazione Elvetica ha poi aperto un’inchiesta nei suoi confronti e così l’ex ministro e ex alleato di Jammeh, da richiedente asilo è diventato imputato e da allora è stato dietro le sbarre in custodia cautelare.

La Corte penale elvetica ha stabilito che gli omicidi, i rapimenti e le torture dell’ex ministro facevano parte di un attacco sistematico ai civili e costituivano quindi crimini contro l’umanità. Ha invece lasciato cadere le accuse di stupro, poiché in questo caso non è stato accertato un attacco contro la popolazione.

Tribunale Penale Federale, Bellinzona, Svizzera

E’ la prima volta che un ex ministro viene condannato in Europa per questi crimini. Inoltre gli anni trascorsi in custodia cautelare saranno dedotti dalla pena. I giudici hanno anche imposto un ordine di espulsione dal territorio svizzero della durata di 12 anni. Il verdetto non è definitivo e può essere impugnato presso la Corte d’appello del Tribunale penale federale.

Benoît Meystre, il consulente legale dell’ONG Trial International, che ha avviato il procedimento, ha dichiarato a AFP: “Ho potuto constatare un grande sollievo da parte dei querelanti per essere stati presenti al processo, per essersi confrontati con Sonko e di aver potuto vedere le sue reazioni mentre testimoniavano. Alcune delle vittime hanno addirittura sottolineato che il loro ruolo svolto nel processo, li sta aiutando a guarire, indipendentemente dal verdetto”.

E infine la ONG ha riportato le parole di una delle vittime di Sanko dopo la lettura del giudizio: “Questa tanto attesa sentenza dimostra che non c’è scampo per coloro che hanno perpetrato crimini contro l’umanità in Gambia. Anche se si tratta persone di alto rango”.

Mentre Reed Brody, avvocato della Commissione Internazionale dei Giuristi, che lavora con le vittime di Jammeh e che ha monitorato il processo, ha specificato: “Il dibattimento in aula darà nuovo impulso per perseguire i crimini più gravi del regime di Yahya Jammeh, sforzi che in Gambia, dopo un lungo ritardo, stanno finalmente prendendo piede”.

Cornelia I. Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
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Inizia in Svizzera processo storico contro ex ministro gambiano

Chiede asilo in Svizzera ex ministro gambiano, accusato di violazione dei diritti umani

Regime all’attacco in Tunisia: in 48 ore arrestati due avvocati dissidenti che difendevano gli immigranti subsahariani

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
14 maggio 2024

L’arresto di Sonia Dahmani, legale e opinionista, da sempre molto critica nei confronti del regime del presidente Kaïs Saïed, mentre si trovava all’ordine degli avvocati a Tunisi, non è passato di certo inosservato sabato sera. France 24, emittente francese, ha trasmesso in diretta TV il momento in cui i poliziotti hanno fatto irruzione nell’edificio e fermato la donna.

Il regime tunisino non ha digerito un intervento dell’avvocato e opinionista al canale televisivo Carthage+, andato in onda lo scorso 7 maggio. Non sono state gradite le sue insinuazioni sarcastiche sulla situazione del Paese, in particolare per quanto riguarda i migranti sub-sahariani, la cui presenza non è per nulla gradita in Tunisia.

Proprio per riferire su quelle sue dichiarazioni, la signora Dahmani sarebbe dovuta comparire venerdì scorso davanti a un giudice istruttore, appuntamento che l’avvocato non ha rispettato. Alla stampa ha dichiarato di essersi rifiutata di comparire in tribunale senza conoscere le ragioni della convocazione.

Sonia Dahman, avvocato tunisino arrestato

E proprio a causa della sua assenza, il giudice istruttore, incaricato del caso, ha poi emesso un mandato di arresto sabato scorso. Ieri il giudice ha convalidato la detenzione dell’avvocato, il cui arresto non è sfuggito all’Ordine degli avvocati di Milano e alla Camera penale milanese. I colleghi  italiani hanno espresso piena solidarietà alla signora Dahmani e hanno chiesto alle “istituzioni di adottare ogni iniziativa volta a garantire il pieno e incondizionato esercizio dell’attività difensiva”.

Secondo quanto riportato dai media, Sonia Dahmani è indagata, in particolare, per aver diffuso “false informazioni con l’obiettivo di minare la sicurezza pubblica” e “istigazione all’odio”, ai sensi del decreto legislativo 54 emesso dal presidente Saïed il 13 settembre 2022, volto a combattere false informazioni sulle reti di comunicazione e prevede fino a 5 anni di carcere. Nella notte tra sabato e domenica sono stati fermati altri due opinionisti per le loro dichiarazioni sui media.

Lunedì scorso gli avvocati tunisini hanno scioperato in tutti tribunali del Paese. Secondo quanto riferito da Laroussi Zguir, presidente dell’Ordine della capitale, l’adesione sarebbe stata del cento per cento.

E nella serata di ieri, la polizia ha fatto nuovamente irruzione nell’edificio dell’Ordine degli avvocati e ha arrestato il legale Mehdi Zagrouba. In un comunicato il ministro degli Interni tunisino, ha fatto sapere che è stata aperta un’indagine dalla Procura nei confronti di due avvocati in seguito all’aggressione di un poliziotto a margine della manifestazione degli avvocati a Tunisi.

Un decina di giorni fa le forze dell’ordine hanno smantellato un accampamento davanti all’edificio dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) e mandato centinaia di persone verso i confini del Paese. Tra questi anche donne e bambini. Un’ottantina di persone sono state arrestate.

E, lunedì 6 maggio, durante il Consiglio di sicurezza, Saïed, ha riconosciuto per la prima volta che le autorità tunisine hanno effettuato espulsioni collettive, ammettendo che circa 400 persone sono state mandate alla frontiera orientale. Il tenore di vita in Tunisia è calato drasticamente. L’elevato tasso di disoccupazione, che ha causato la rivoluzione del 2011, resta e si stima che il 17 per cento della popolazione viva sotto la soglia di povertà. Ecco perché molti tunisini cercano di lasciare il Paese. Nel 2023 sono approdati circa 17.000 tunisini nel nostro Paese.

Smantellato campo di migranti davanti all’edificio dell’OIM, Tunisi

Nell’ambito del programma di sostegno alle riforme macroeconomiche (PARME), concordato dall’UE e dalla Tunisia lo scorso dicembre, Bruxelles prosegue il suo impegno erogando un cospicuo sostegno finanziario sotto forma di aiuti al bilancio. Pur di arginare il flusso migratorio, durante la sua ultima visita a Tunisi nel mese di aprile, la presidente del Consiglio dei ministri, Giorgia Meloni, ha portato altri aiuti economici suddivisi in tre accordi e ha promesso il suo sostegno per quanto riguarda l’applicazione del MoU con l’Unione Europea.

Recentemente gli abitanti di Sfax, epicentro delle tensioni tra residenti e fuggitivi, hanno nuovamente protestato contro la presenza dei migranti sub-sahariani, fuggiti da guerre, cambiamenti climatici, fame. “Non vogliamo che distruggano le nostre città”, sono stati alcuni degli slogan durante la manifestazione.

Cornelia I. Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
X: @cotoelgyes
©RIPRODUZIONE RISERVATA

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Ritorna la calma a Sfax dopo violente manifestazioni contro i migranti con un morto tunisino