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Giustizia sotto il fuoco: Sudafrica e Israele si scontrano di fronte alla corte internazionale di giustizia dell’Aia

Dalla Nostra Corrispondente
Elena Gazzano
Città del Capo, 29 maggio 2024

Nella fredda e austera aula della Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia, il mondo ha assistito a una battaglia combattuta non con armi, ma con parole, accuse e rabbia. La Repubblica del Sudafrica, con determinazione feroce, ha portato Israele davanti alla giustizia internazionale. Il palcoscenico? Le accuse di genocidio nella martoriata Striscia di Gaza. Si tratta di un’accusa pesante come una condanna a morte, un’accusa che grida vendetta e reclama giustizia.

Aja, Corte  Internazionale di Giustizia

L’accusa del Sudafrica

Il Sudafrica, rappresentato dall’ambasciatore di Pretoria accredito nei Paesi Bassi, Vusimuzi Madnsel, ha avanzato la richiesta di urgenti misure provvisorie per fermare ciò che viene descritto come una campagna di sterminio orrenda. Secondo le loro testimonianze, l’offensiva militare israeliana non è solo una guerra, ma una serie di atti deliberati volti a cancellare un popolo intero. E’ una scena del crimine.

Vusimuzi Madnsel, ambasciatore del Sudafrica nei Paesi Bassi

Il Sudafrica si è presentato con prove documentate e immagini sconvolgenti: sfollamenti di massa, distruzione di ospedali, abitazioni ridotte in macerie. Tutto questo, a suo giudizio, costituisce il macabro mosaico di un genocidio.

Inoltre le dichiarazioni di alti funzionari dello Stato ebraico, riportate in dettaglio, sono state usate per dimostrare l’intento genocida. “Documenti e video di parlamentari e leader militari israeliani mostrano incitamenti alla distruzione del popolo palestinese, con la società civile israeliana che supporta apertamente queste azioni. Israele continua a mostrare disprezzo per la vita palestinese, operando con impunità”.

Parole che evocano fantasmi del passatoL’esempio terribile del Ruanda risuona, richiamando l’attenzione del mondo su questa crisi.

La difesa di Tel Aviv

Dall’altra parte, Israele risponde con la forza di chi è assai convinto nella propria causa. In una sala gremita di tensione palpabile, i suoi rappresentanti hanno difeso le azioni del loro Paese come necessarie e giustificate in una lotta senza quartiere contro Hamas, descritta come un’organizzazione terroristica che non risparmia nemmeno i propri civili per raggiungere i suoi scopi. Ogni bomba, ogni raid, dicono, è una risposta disperata per proteggere i loro cittadini. “Non abbiamo scelto questa guerra – affermano – ma la combattiamo per sopravvivere.”

E non mancano di sottolineare i loro sforzi umanitari. Israele descrive un quadro di campi medici allestiti, passaggi terrestri aperti per il transito degli aiuti, e la fornitura costante di beni di prima necessità. “Siamo un popolo in guerra – sostengono – ma non abbiamo mai dimenticato la nostra umanità.” Le loro parole sono calcolate precise, volte a controbilanciare le accuse di genocidio con un’immagine di soldati con una mano sul grilletto e l’altra che porge aiuti.

La decisione della Corte

Le parole dei giudici arrivano pesanti. Hanno riconosciuto che la situazione nella Striscia di Gaza è peggiorata drasticamente. La distruzione è ovunque. La sofferenza, sottolineano, è ovunque. Ogni edificio crollato, ogni vita spezzata, ogni lacrima versata parla di una crisi che il mondo non può più ignorare.

In una decisione cruciale, la Corte Internazionale di Giustizia ha riaffermato le misure provvisorie precedentemente indicate e ne ha introdotte ulteriori per interrompere la crisi umanitaria. Alcune includono la sospensione dell’offensiva militare israeliana nel Governatorato di Rafah, la garanzia di assistenza umanitaria e la protezione dell’accesso ai corpi investigativi delle Nazioni Unite nella Striscia di Gaza. E’ stato chiesto a Israele di presentare un rapporto sulle misure adottate per conformarsi all’ordine della Corte entro un mese. I giudici hanno sottolineato che queste misure provvisorie hanno effetto giuridico vincolante e hanno evidenziato l’importanza di un’azione immediata per affrontare la crisi umanitaria e prevenire ulteriori violazioni del diritto internazionale.

La Ricerca della Verità

La verità è una bestia difficile da domare. In questo conflitto, è sepolta sotto strati di propaganda, dolore e morte. Ma non si può smettere di cercarla. Le testimonianze di entrambe le parti dipingono un quadro complesso e doloroso. Il Sudafrica accusa, Israele si difende, e nel mezzo ci sono i civili, intrappolati in un incubo senza fine. Occorre scavare oltre la superficie,  ascoltare le storie di chi è intrappolato tra la vita e la morte, e portare alla luce la cruda realtà.

Immagini scioccanti

Israele e Sudafrica si affrontano in una guerra di testimonianze e immagini scioccanti. Entrambi sono determinati a far prevalere la propria verità. Ma al centro di questo scontro titanico, che si scorda di dimenticare chi soffre davvero: i civili intrappolati in un inferno quotidiano.

La decisione della Corte Internazionale di Giustizia non porrà fine alla sofferenza, ma rappresenta un passo cruciale verso la responsabilizzazione e la protezione dei diritti umani. 

In questo crocevia di dolore e speranza, la Corte Internazionale di Giustizia è chiamata, sotto gli occhi del mondo che guarda, a prendere decisioni che riecheggeranno nei libri di storia.

Elena Gazzano
elenagazzano6@gmail.com
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Forze speciali del Togo partecipano all’esercitazione militare dei Paesi del Sahel

Africa ExPress
28 maggio 2024

Un’esercitazione militare denominata Amour pour la patrie ha preso il via all’inizio di questa settimana nell’ovest del Niger, al confine con il Mali. All’addestramento partecipano le forze speciali di Mali, Niger, Burkina Faso, Ciad e Togo per contrastare i terroristi del Sahel. Tutti e cinque i Paesi subiscono da anni aggressioni violente da parte dei jihadisti.

Esercitazioni militari congiunte a Tillia, Niger

Il ministero della Difesa di Niamey ha precisato: “L’esercitazione è il frutto di un “partenariato militare tra il Niger e Paesi amici come Mali, Burkina Faso, Togo e Ciad. Il corso, che terminerà i primi di giugno, comprende manovre tattiche, ma si cerca anche di rafforzare i rapporti con la popolazione locale”.

Il Togo aveva assunto toni più concilianti con i regimi militari saliti al potere con un colpo di Stato (Mali, Burkina Faso e Niger), rispetto agli altri membri di ECOWAS (Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale). In Ciad, dopo la morte del padre nel 2021, è salito al potere Mahamat Déby Itno. Da pochi giorni è stato eletto come capo di Stato, dopo  le presidenziali di inizio di maggio.

Invece nel frattempo il Burkina Faso ha pubblicato un decreto secondo cui il governo militare di transizione, capeggiato dal de facto presidente, Ibrahim Traoré, salito al potere nel settembre 2022, resterà in vigore per altri 60 mesi.

L’esercitazione, secondo il ministero di Niamey, è volto a rafforzare le capacità operative e la resilienza delle forze armate di AES (Alleanza degli Stati del Sahel, siglato dai tre Paesi golpisti lo scorso anno). Nel gennaio 2024 i tre governi hanno abbandonato ECOWAS.

Amour pour la Patrie si sta svolgendo a Tillia, nel centro di formazione delle forze speciali nigerine. Il campo militare è stato inaugurato nel 2021 anche grazie ai finanziamenti della Germania. Nel settembre 2022 Washington aveva poi inviato equipaggiamenti militari, soprattutto veicoli, compresi blindati, per un valore di 13 milioni di dollari. Il sito si trova in una zona desertica molto isolata, dove nel marzo 2021 sono stati massacrati da presunti terroristi oltre 140 civili.

Vista la grave crisi politica nel Paese, ieri Bruxelles ha deciso di non prorogare oltre il 30 giugno prossimo la missione  EUMPM (EU Military Partnership Mission in Niger).

Base aerea 201 USA Agadez, Niger

Una settimana fa Niamey ha fatto sapere che le truppe statunitensi dovranno partire entro il 15 settembre prossimo, dopo aver revocato la collaborazione militare con Washington un paio di mesi fa.

Da tempo i golpisti hanno scelto nuovi partner militari, in particolare i russi, che recentemente hanno fatto la loro apparizione anche in Niger, secondo accordi presi tra Vladimir Putin e il suo omologo nigerino, Abdourahamane Tchiani.

Aggiornamento 29 maggio 2024

Secondo l’Agenzia di stampa tedesca, la Repubblica del Niger e la Germania hanno firmato martedì un accordo che consente ai militari tedeschi di continuare a utilizzare la base di trasporto aereo nella periferia di Niamey. La base ospita attualmente circa 100 militari tedeschi.

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https://www.africa-express.info/2024/03/17/la-giunta-golpista-del-niger-da-il-benservito-agli-americani-revoca-della-cooperazione-militare/

https://www.africa-express.info/2024/05/04/i-russi-entrano-nella-base-americana-a-niamey/

https://www.africa-express.info/2024/05/23/niger-arrivano-mercenari-siriani-inviati-dalla-turchia/

Togo: in vista delle elezioni il governo fa i conti e comunica il numero di morti per terrorismo jihadista

 

 

A 48 metri dal cielo, il kenyota Kirui è stato ucciso dall’Everest

Dal Nostro Corrispondente Sportivo
Costantino Muscau
26 maggio 2024

Voleva solo sfiorare il cielo. Voleva farlo dal tetto del mondo, l’Everest, ma scalandolo – primo africano nella storia – senza l’aiuto delle bombole di ossigeno. A 48 metri dalla meta, invece, il cielo se lo è portato via.

Joshua Cheruiyot Kirui

Il keniota Joshua Cheruiyot Kirui, 40 anni, affermato dirigente bancario di professione, maratoneta e scalatore per passione, è stato trovato senza vita a 8800 metri di altezza. Di lui e della sua guida nepalese, Nawang Sherpa, 44, si erano perse tracce e notizie mercoledì scorso, 22 maggio.

Il giorno seguente, l’Everest Today, che segue con particolare attenzione le cime sopra gli 8 mila dell’Himalaya e del Karakorum, ha annunciato: “È con profonda tristezza che condividiamo la notizia della morte dell’alpinista keniota Cheruiyot Kirui sull’Everest. Il suo corpo è stato trovato a poca distanza dalla vetta. Chiamiamo il punto della sua morte sul Monte Everest (8848.86m) Cheruiyot Point per onorare il primo africano quasi al vertice dell’Everest senza usare ossigeno supplementare. E anche il Kenya – ha aggiunto Everest Today – dovrebbe dedicare a questo alpinista una delle sue montagne”.

“Ora che è morto, la patria si gloria di un nuovo eroe alla memoria, ma chi lo amava aspettava il ritorno di un figlio vivo, di un eroe morto che ne farà?”. Potrebbero dirlo, pur senza conoscere Fabrizio De André, la mamma Ruth Kenduywo e il papà Wilson Kenduywo, che nel loro villaggio di Chepterit (contea di Nandi, nella provincia Rift Valley, 250 km dalla capitale), attendevano buone nuove da questo loro figliolo di cui andavano fieri.

Non solo era diventato dirigente di un importante istituto finanziario, Kenya Commercial Bank, ma, travolto da una irrefrenabile passione per lo sport, aveva corso maratone e mezze maratone e si era dedicato, negli ultimi 10 anni, con tutte le forze all’alpinismo: era arrivato a scalare il Kilimangiaro (5895 metri) e ben 15 volte il Monte Kenya (5199 metri). “Fin da bambino amava arrampicarsi sugli alberi, i cipressi e gli eucaliptus del nostro compound – ha ricordato la mamma in un’intervista rilasciata sabato, 25 maggio al canale keniota NTV – io tremavo di paura e mi rinchiudevo in casa per non vederlo in cima. A ogni sua impresa mi si stringeva il petto dall’ansia”.

“Ha scritto un libro sulle montagne, è stato una settimana sulle Alpi, più recentemente in Argentina – ha aggiunto il papà – per lui scalare era diventato un lavoro, ma era sempre attento alla sicurezza. Eravamo orgogliosi di lui. E speravamo che la sua ultima impresa portasse gloria a lui e alla nazione”.

I genitori dello scalatore kenyota, Joshua Cheruiyot, morto sull’Everest

L’obiettivo di Joshua Cheruiyot era, infatti, quello di toccare la punta del pianeta senza bombole. Il bancario prestato all’alpinismo sapeva bene che già un suo connazionale, James Kagambi, era stato il primo africano e keniota a raggiungere il tetto terrestre nel maggio di 2 anni fa (ne avevamo parlato anche su Africa Express). Lui però voleva fare di più – come aveva dichiarato nella sua ultima intervista (quotidiano The Star, 21 marzo scorso) alla vigilia della spedizione rivelatasi fatale.

“L’arrampicata sull’Everest è già stata fatta. Penso che l’unica differenza sia salire senza ossigeno. Questo non è stato fatto da nessun africano. È il modo più difficile per scalare il Monte Everest, ma senza questa sfida mi sembrerebbe di non aver raggiunto molto. So che ci sono rischi, ma non sono suicida”,

Kirui aveva aggiunto di essere preparato mentalmente e fisicamente e di non aver trascurato nessun dettaglio, anche alimentare: “Abbiamo bisogno di molti fluidi, di acqua. Il cibo deve essere facilmente digeribile, come lo zucchero semplice, i noodles e il riso. La carne non aiuta perché il tuo corpo potrebbe non digerire cibi complessi. Servono zuppe come quella di aglio, bevanda sana utile a mantenere il corpo caldo e prevenire il mal di montagna. Quando mi impegno in qualcosa, ho l’intenzione di tornare vivo e raccontare di persona ai miei cari quello che ho fatto”, aveva concluso

A mamma e papà è arrivata, invece, la telefonata di un altro figlio, che comunicava la ferale notizia. Una caduta, forse, è stata fatale a Joshua e al suo sherpa Nawang. Quando erano a due passi dal cielo.

“Dio dà e Dio toglie” è stato il commento rassegnato del primo scalatore, James Kagambi. Di certo questa ennesima tragedia ricorda – come ha scritto The Nation – che scalare l’Everest non è come fare una passeggiata nei parchi di Nairobi. Nella stessa settimana nel monte supremo del pianeta sono morti altri tre alpinisti, ha sottolineato Himalaya Times, che ha aggiunto: “Lo scalatore dagli ultimi contatti radio sembrava avesse un comportamento anormalo, ma si rifiutava di ricorrere all’ossigeno”.

Secondo gli ultimi dati ufficiali, dagli anni ’20 a oggi sull’altare del re dell’Himalaya le vittime sacrificate sono 340. Oltre 200 hanno trovato sepoltura fra i ghiacci perenni. Joshua Cheruiyot Kuri sarà fra esse. Riportarlo a casa costerebbe 190 mila dollari.

Costantino Muscau
muskost@gmail.com
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Il sogno nero sull’ Everest, missione compiuta. Ora sventola anche la bandiera del Kenya sulla vetta più alta del mondo

 

L’ONU avverte: rischio genocidio nel Darfur settentrionale

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
25 maggio 2024

Mentre il mondo è concentrato su quanto sta accadendo nella Striscia di Gaza e in Ucraina, in Darfur aumenta giornalmente il rischio genocidio. Anzi, la kenyana Alice Wairimu Nderitu, consigliere speciale del segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, per la prevenzione di genocidio, ha lanciato venerdì un allarme in tal senso ai microfoni della BBC: “Ciò che sta accadendo in Darfur ci fanno pensare che laggiù potrebbe verificarsi un genocidio, ma forse è  già avvenuto”.

Sudan, Darfur settentrionale: El Fasher sull’orlo del genocidio

La signora Alice Wairimu Nderitu ha anche informato il Consiglio di sicurezza del Palazzo di Vetro dei massacri, causati dal conflitto armato che si sta consumando da oltre 13 mesi in Sudan: la guerra senza quartiere tra le Rapid Support Forces (RSF), capitanate da Mohamed Hamdan Dagalo “Hemetti” e le Forze armate sudanesi (SAF) del de facto presidente e capo dell’esercito, Abdel Fattah Abdelrahman al-Burhan.

A El Fasher, capoluogo del Darfur settentrionale, nelle ultime due settimane sono stati brutalmente ammazzate centinaia di civili. “La situazione si sta evolvendo verso un genocidio. Le crescenti ostilità in questa zona hanno aperto un capitolo davvero allarmante. Sto chiedendo di prestare la massima attenzione a questo  conflitto. Ho cercato di far sentire la mia voce, ma viene soffocata dalle altre guerre in Ucraina e a Gaza”, ha spiegato la signora Nderitu.

E infine la consigliera di Guterres ha avvertito: “La maggior parte della popolazione di El Fasher appartiene a tribù africane. Se il conflitto continuerà, aumenterà il rischio di aggressioni e uccisioni a sfondo razziale”.

Residenti locali hanno riferito che mercoledì scorso le RSF hanno attaccato e saccheggiato il campo per sfollati Abu Shouk, uccidendo un numero imprecisato di persone e ferendone almeno 13; venerdì i combattimenti sono proseguiti in altre zone di El Fasher.

Il campo per sfollati di Abu Shouk, nel Darfur settentrionale distrutto dalle RSF

Secondo il Comitato di coordinamento per i rifugiati e gli sfollati, che supervisiona i campi della regione, circa il 60 per cento degli oltre 100.000 abitanti di Abou Shouk è fuggito giovedì. Nell’insediamento vivono i sopravvissuti alle violenze di due decenni fa in Darfur, dove i janjaweed sono cresciuti e si sono sviluppati prima di essere integrati nella RSF per ripulirne l’immagine. Con il nuovo conflitto in atto, circa mezzo milione di persone si sono trasferite nell’area di El Fasher. Ma oggi la città e i dintorni sono un campo di battaglia cruciale in questa guerra che per ora non mostra segni di arresto.

L’anno scorso, le RSF e i suoi alleati hanno attaccato altre zone del Darfur, come el-Geneina, nella parte occidentale della regione, ammazzando migliaia di persone e costringendone più di mezzo milione, per lo più della tribù Massalit, a fuggire nel vicino Ciad. I Massalit sono una popolazione musulmana, ma non araba, che vive a cavallo tra Sudan e Ciad. Si pensi solo che la loro lingua è scritta in caratteri latini e non arabi.

Già allora i paramilitari erano stati accusati di abusi e di una campagna di uccisioni a sfondo etnico contro gruppi non arabi. Ovviamente i paramilitari hanno sempre respinto ogni addebito.

Le forze armate sudanesi, dopo una serie di sconfitte subite proprio in Darfur, hanno rafforzato le loro difese intorno a El Fasher, stringendo anche accordi con gruppi armati, precedentemente neutrali. A novembre la coalizione di questi movimenti ha dichiarato El Fasher come “linea rossa”, cioè zona interdetta, fatto che è stato rispettato per qualche mese anche dalle RSF.

La fragile tregua nel Darfur settentrionale è crollata verso marzo-aprile, quando gruppi ribelli,  come la fazione di Minnie Minawi del Movimento di Liberazione del Sudan (SLM/A-MM) e quella il guidata da Gibril Ibrahim, il Movimento per la Giustizia e l’Uguaglianza (JEM), hanno schierato le loro truppe contro le RSF.

Sudan, Darfur

A metà aprile i miliziani capeggiati da Hemetti hanno poi mobilitato migliaia di truppe verso il capoluogo El Fasher. Da allora sono in corso violenti scontri in alcune parti della città, in particolare nelle zone settentrionali e orientali e nella periferia.

Le RSF hanno attaccato e bruciato anche villaggi appartenenti agli Zaghawa, gruppo etnico non arabo, al quale appartengono sia Minni Minawi sia Gibril Ibrahim.

In questi giorni anche l’ambasciatore statunitense accreditato all’ONU, Linda Thomas-Greenfield, ha condannato fermamente le RSF per l’assedio di El Fasher e ha chiesto ai finanziatori esterni di non sostenere le parti in conflitto.

La signora Thomas-Greenfield ha poi evidenziato che Washington ha già iniziato a imporre sanzioni a leader del gruppo, responsabili di queste operazioni militari.

Cornelia I. Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
X: @cotoelgyes

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https://www.africa-express.info/2024/05/07/in-sudan-rischio-ecatombe-per-fame-e-lonu-lancia-allarme-i-convogli-non-riescono-a-arrivare/

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Kenya: l’incredibile performance di una ballerina che non sente i suoni

Africa ExPress
24 maggio 2024

Ha incantato tutti con il suo passo pieno di grazia, la 17enne keniota Gorrety Akinyi. Malgrado soffra di una gravissima disabilità uditiva ha sorpreso tutta la comunità, eccellendo in una esibizione di danza nella baraccopoli di Kibera a Nairobi.

Malgrado la sua incapacità di processare in modo adeguato i suoni, ha imitato meticolosamente i suoi compagni e il suo professore, riuscendo così a padroneggiare alla perfezione la coreografia. Grazie a determinazione e entusiasmo, la giovanissima ha saputo interpretare con grande armonia il balletto, senza poter sentire la musica. Per i suoi coetanei è diventata un mito: vederla ballare a piedi nudi con una grazia tale sembra davvero incredibile che non possa percepire, ascoltare le note, sulle quali il suo corpo si muove con rara grazia.

La 17enne è entrata a far parte del progetto Elimu durante la pandemia nel 2020, quando tutte gli istituti scolastici erano chiusi. Fondato da Michael Wamaya, Elimu offre un’educazione artistica dopo la scuola e uno spazio sicuro per i bambini di Kibera, il più grande insediamento informale della capitale del Kenya. Inizialmente la decisione della giovane di partecipare a un programma dove il suono è essenziale, è stata accolta con incredulità e scetticismo dai suoi compagni.

Utilizzando il linguaggio dei segni, la ragazza ha raccontato che era la sola non udente a frequentare il corso di danza. “Michael era così disponibile e pronto ad aiutarmi. Ricordo che tutti si erano chiesti come avrei fatto a ballare, visto che sono sorda. Così ho dovuto imitare quello che fanno coloro che possono udire, perché non posso né sentire, né parlare”.

Gorrety Akinyi durante la sua esibizione di ballo

La giovane ha tutta l’intenzione di continuare a danzare. “Ora frequento il liceo, ma una volta terminato non vorrei smettere. Voglio coltivare questa mia grande passione”.

Per Florence Awino, madre di Akinyi, vedere la figlia danzare è una gioia incredibile.”Da quando fa parte del corpo di ballo, ho notato un grande miglioramento in mia figlia. Mai avrei pensato che avesse potuto raggiungere lo stesso livello di danza e di comportamento di chi sente”, ha aggiunto con fierezza la mamma.

Africa ExPress
X: @africexp
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Video Credit: Africa News

 

 

Un futuro incerto per la richiesta di mandati di arresto per Israele e Hamas

Speciale per Africa ExPress
Federica Iezzi
23 Maggio 2024
(2 – fine)

Nella storia della giustizia internazionale, quale punto di svolta rappresenta l’annuncio della richiesta di mandati di arresto per Israele e Hamas, da parte del procuratore capo della Corte Penale Internazionale?

Striscia di Gaza [photo credit Al-Jazeera]

La Corte penale dell’Aja ha sofferto fin dalla sua nascita di critiche molto forti legate al concetto dei “doppi standard”, in quanto le sue azioni legali sono state interpretate come una giustizia al servizio delle potenze occidentali.

Dobbiamo tornare all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, quando l’Occidente denunciò la violazione del Diritto Internazionale Umanitario, voce cui si contrappose il sud del mondo evocando una legge a “geometria variabile”.

La comunità internazionale ora è stata forzatamente messa davanti al muro della verità. Sarà interessante vedere come reagiranno gli Stati parte del Trattato di Roma – che nel 1998 ha istituito la Corte Penale Internazionale – di fronte all’eventuale obbligo di arrestare gli accusati, spesso politicamente protetti.

Hemingway scriveva che il fallimento avviene “gradualmente, poi all’improvviso”. Il tempo dell’estradizione inizia a ticchettare sul serio non quando Netanyahu verrà incriminato, ma quando verrà rimosso dal potere. Non riuscirà a evitarlo a lungo. Una volta uscito, Washington sarà fondamentale.

Facile il parallelismo con Slobodan Milošević, ex presidente serbo. Estromesso dal potere nove mesi prima della sua estradizione. La Casa Bianca, cui erano subordinati gli aiuti economici, fece pressioni sul nuovo governo di Belgrado affinché lo consegnasse all’Aja.

Ci sono ancora dubbi sulla strategia della Procura, che ha impiegato solo un anno per emettere accuse scenografiche in Ucraina e sette mesi in Palestina, mentre in altre situazioni – Nigeria, Sudan, Venezuela, Georgia – ha mostrato un’estenuante lentezza e indecisione.

Il significato pratico della richiesta di un mandato di arresto può essere limitato. Al contrario rimangono sostanziali: il valore espressivo dell’affermazione dei diritti e della dignità delle vittime dei crimini, commessi da entrambe le parti, e l’accelerazione di un processo politico che metta fine al conflitto.

Netanyahu ha risposto alla Corte usando un linguaggio in codice nella versione ebraica, chiaro riferimento storico alla sfida del potere da parte del movimento sionista.

La cascata di aspre critiche, cui evidentemente si sono accodati gli Stati Uniti, non si è fatta attendere molto. La caratteristica sorprendente è che non c’è stata alcuna difesa della politica israeliana nel merito. Le obiezioni riguardano una presunta equivalenza tracciata tra i leader israeliani e i leader di Hamas, obiezioni basate sulla giurisdizione della Corte, ma niente che scagioni i leader israeliani dalle violazioni strutturali nella legge e nella politica.

Una popolazione prevalentemente civile mantiene il suo status civile nonostante la presenza di combattenti (Protocollo Aggiuntivo I alle Convenzioni di Ginevra, 1977), già fermamente definito nel 2016, dal procuratore del Tribunale Penale Internazionale per l’ex Jugoslavia, nel processo contro Radovan Karadžić – ex presidente della Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina. La Striscia di Gaza è in gran parte occupata da civili, quindi qualsiasi operazione diretta contro il territorio nel suo complesso è un’operazione diretta contro i civili.

Le richieste della Corte Penale Internazionale ignorano completamente qualsiasi questione non collegata all’attuale situazione nella Striscia di Gaza. Niente sull’apartheid, come crimine contro l’umanità, niente sugli insediamenti israeliani illegali in Palestina, come crimine di guerra, niente sui precedenti e sistematici attacchi di Israele contro la Striscia di Gaza.

E’ anche preoccupante la mancanza di mandati di arresto per il capo di stato maggiore dell’esercito israeliano o per un qualsiasi altro alto comandante, in quanto si esclude implicitamente il dolus specialis, senza cui non si concretizza il crimine di genocidio.

Federica Iezzi
federicaiezzi@hotmail.it
Twitter @federicaiezzi
(2 – fine)
©️ RIPRODUZIONE RISERVATA

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Corte Penale Internazionale: sbagliato paragonare i mandati di arresto ai leader di Israele e di Hamas

 

Niger: arrivano mercenari siriani inviati dalla Turchia

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
23 maggio 2024

I mercenari siriani, al soldo di SADAT International Defense Consultancy, società militare privata turca che ha stretti legami con il regime Recep Tayyip Erdogan, sono arrivati in Niger verso settembre, pochi dopo mesi il Colpo di Stato. Dunque ben prima dei contractor russi dell’Africa Corps (ex Wagner), che hanno fatto la loro apparsa nell’ex colonia francese ufficialmente solo a metà aprile.

Paramilitari siriani di SADAT in Niger

Finora SADAT non ha rilasciato commenti e il ministero degli Esteri di Ankara ha ovviamente smentito, eppure diverse fonti a Niamey hanno confermato la presenza di uomini della società paramilitare turca SADAT. I mercenari si trovano, ad esempio, nelle miniere gestite da aziende turche nella regione di Tillabéry, nel sud-ovest del Paese. Vengono impiegati anche per la sicurezza in diversi progetti di costruzione di strade. E spesso i nuovi mercenari devono affrontare sul campo anche i jihadisti, che cercano di paralizzare le attività delle aziende straniere.

L’Osservatorio siriano per i diritti umani, con sede in Gran Bretagna, ma ha ricercatori in tutta la Siria, ha confermato che il reclutamento di combattenti siriani da inviare in Niger è in corso da diversi mesi. I giovani vengono assoldati nelle aree siriane sotto controllo di Ankara e dai gruppi armati sostenuti dalla Turchia, nel nord-ovest del Paese. “Circa 1.100 combattenti siriani sono già stati dispiegati in Niger da settembre dello scorso anno”, ha fatto sapere il direttore dell’Osservatorio, Rami Abdulrahman a Voice of America (VOA). Anche la ONG Syriens pour la vérité et la justice (STJ), un gruppo per i diritti umani con sede in Francia, ha  documentato tale reclutamento. Il direttore esecutivo della ONG, Bassam Allah, ha aggiunto che i combattenti siriani sono stati portati in Niger con aerei militari di Ankara, con una sosta in aeroporti turchi prima di proseguire.

Secondo quanto riportato da AFP, i giovani, prima di “essere buttati nei campi di battaglia” nella ex colonia francese, partecipano a speciali corsi di addestramento. Un combattente ha inoltre dichiarato che nel reclutamento è coinvolto anche la Divisione Sultan Murad, una milizia siriana sostenuta dal regime di Erdogan. Finora sono già attivi due gruppi di mercenari provenienti dalla Siria, un terzo contingente dovrebbe arrivare a breve.

AFP ha chiesto a alcuni siriani perché si sono precipitati a combattere in Niger. Omar, un nome di fantasia, ha detto che nel nord della Siria “non ci sono opportunità di lavoro se non quella di unirsi a una fazione armata e guadagnare non più di 1.500 lire turche (46 dollari) al mese”. Il ragazzo, che deve mantenere la mamma e i suoi tre fratelli in Siria, dice di percepire ora un ottimo salario, 1.500 dollari al mese. Non è chiaro se il soldo che riceve è al netto, in quanto 350 dollari devono essere versati mensilmente alla Divisione Sultan Murad.

Abdulrahman dell’Osservatorio siriano ha poi aggiunto che in caso di ferimento del congiunto, la famiglia riceve un indennizzo di 30.000 dollari e mentre se dovesse morire, 60.000. E, secondo lui, i mercenari siriani sostenuti dalla Turchia sarebbero dislocati nell’area transfrontaliera, la cosiddetta regione delle tre frontiere (Niger, Mali e Burkina Faso).

Mentre Omar ha raccontato ai reporter di AFP che il suo viaggio lo ha portato prima in Turchia, a Gaziante, nella regione dell’Anatolia Sud Orientale, poi a Istanbul, dove si è imbarcato su un aereo militare per il Burkina Faso, prima di essere accompagnato sotto scorta nei campi del vicino Niger. Dopo due settimane di addestramento militare, è stato incaricato di sorvegliare un sito vicino a una miniera. “Io e altri abbiamo lavorato insieme a nigerini in tenuta militare, ma non so se fossero soldati”, ha spiegato il giovane siriano e ha aggiunto: “Ci hanno diviso in diversi gruppi, guardie e combattenti. Altri compagni sono stati mandati a contrastare i Boko Haram (attivi anche in Niger, ndr) e altri ancora a Lomé”, nel vicino Togo. Omar non ha saputo fornire dettagli per quanto riguarda quest’ultima missione.

Altri due mercenari siriani hanno poi specificato di essere stati arruolati dalla Divisione Sultan Murad, fedelissima a Ankara nel nord della Siria. “Abbiamo firmato contratti di sei mesi presso la sede della Divisione con l’azienda privata SADAT International Defense Consultancy. La società è considerata l’arma segreta di Ankara nelle guerre in Nord Africa e Medio Oriente, anche se il suo capo ha negato tale accusa in un’intervista del 2021 all’AFP.

La giunta militare di transizione nigerina nega ovviamente l’impiego di mercenari stranieri, come la maggior parte dei Paesi dove i soldati di ventura sono attivi. RFS ha evidenziato che, secondo le informazioni in loro possesso, un altro Paese del Sahel sarebbe in trattative con SADAT per rafforzare la sicurezza del palazzo presidenziale.

La Turchia sta intensificando le sue iniziative con i regimi militari del Sahel, in particolare in Niger, un Paese chiave al confine meridionale della Libia. Già nel 2020 Washington aveva accusato SADAT di aver inviato migliaia di mercenari.

La presenza di Ankara in Africa è imponente. Basti pensare che le sue rappresentanze diplomatiche sono presenti in 40 Paesi e la sua compagnia aerea, la Turkish Airlines, copre 58 destinazioni nel continente nero. E non per ultimo l’Agenzia di cooperazione e di sviluppo turca (Tika) è attiva in molti Stati africani anche con lo scopo di promuovere investimenti.

Drone turco Bayraktar TB2

Ed è così che Ankara ha aumentato la sua influenza anche in Niger. Il governo di Mohamed Bazoum, deposto dai golpisti lo scorso luglio, ha acquistato 6 droni Bayraktar TB2, consegnati nel novembre 2022. Gli aerei senza pilota vengono prodotti dall’azienda Baykar Technologies di Esenyurt (la società è interamente controllata dalla famiglia Bayraktar; il presidente del consiglio d’amministrazione è Selçuk Bayraktar, genero del presidente turco Recep Tayyp Erdogan avendone sposato la figlia Sümeyye ndr). Altri droni turchi sono stati acquistati recentemente da Burkina Faso e Mali.

Cornelia I. Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
X: @cotoelgyes

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Rapite dai turchi in Siria donne curde poi portate come schiave del sesso in Libia

Corte Penale Internazionale: sbagliato paragonare i mandati di arresto ai leader di Israele e di Hamas

 

Speciale per Africa ExPress
Federica Iezzi
21 Maggio 2024
(1 – continua)

“Questo è il modo in cui stiamo dimostrando, concretamente, che la vita di tutti gli esseri umani ha lo stesso valore”. E’ così che si conclude la dichiarazione del procuratore della Corte Penale Internazionale, Karim A.A. Khan KC, in merito all’indagine sui crimini consumati nell’inumana guerra tra Israele e Palestina [https://www.icc-cpi.int/news/statement-icc-prosecutor-karim-aa-khan-kc-applications-arrest-warrants-situation-state].

Striscia di Gaza [photo credit Al-Jazeera]
Nessun doppio standard, dunque. Fine dei giochi politici e dei tentativi di protezione politica. Solo giustizia.

Richiesti mandati di arresto per il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, il ministro della difesa israeliano, Yoav Gallant, il leader di Hamas, Yahya Sinwar, il comandante delle Brigate al-Qassam (braccio armato di Hamas a Gaza), Mohammed Diab Ibrahim al-Masri, e il leader politico di Hamas, Ismail Haniyeh.

L’accusa al vaglio della Camera Preliminare è per crimini di guerra e contro l’umanità. Perché alla Corte penale dell’Aja? Perché esistono fondati motivi per ritenere che gli accusati abbiano commesso un crimine di competenza del tribunale.

Se la Corte Penale Internazionale approverà la richiesta del procuratore e con essa i mandati di arresto, allora 124 Stati saranno obbligati ad arrestare e consegnare alla giustizia gli accusati, qualora dovessero entrare nel loro territorio.

A differenza del caso ucraino, la Procura ha scelto di rendere pubblica la richiesta, piuttosto che aspettare l’approvazione dei mandati di arresto. Altro passo insolito è stato quello di riunire il gruppo di esperti esterni per affermare la decisione. Il panel esterno comprende: i giudici Adrian Fulford e Theodor Meron, gli avvocati Amal Clooney (moglie di George Clooney), Danny Friedman e Helena Kennedy, il consulente legale Elizabeth Wilmshurst, i professori universitari Marko Milanovic e Sandesh Sivakumaran.

La commissione esamina da mesi azioni militari, dichiarazioni, comunicazioni e ha fortemente sottolineato come le ragioni del conflitto devono essere separate dalla condotta delle ostilità.

Ci sono prove evidenti che sia Hamas che Israele abbiano commesso crimini internazionali. Non vi è alcuna argomentazione sull’equivalenza nelle accuse, come prontamente denunciato da Israele. L’indagine è su condotte criminali separate.

Veniamo ora alle accuse. Per i leader di Hamas, le accuse si concentrano sui fatti del 7 ottobre e includono crimini di guerra e crimini contro l’umanità, parte diretta di un attacco diffuso e sistematico contro civili israeliani. Le accuse contro i leader israeliani si concentrano, invece, sul metodico attacco alla popolazione civile della Striscia di Gaza e sull’uso della fame come metodo di guerra contro l’intera popolazione palestinese.

Il termine genocidio non è ancora incluso. E non sorprende questo conservazionismo. Si parla infatti di persecuzione come crimine contro l’umanità. Vero che si tratta di un reato contro un gruppo umano ben identificato, ma il termine “persecuzione” non include l’intento di distruggere.

Non da ultimo, è bene ricordare che il conflitto armato in corso non è solo tra due entità nazionali, nella fattispecie Palestina e Israele, ma è parallelamente anche tra Israele e Hamas, tra l’altro colpendo direttamente una popolazione – quella di Gaza – rigorosamente protetta dal Diritto Internazionale Umanitario, in quanto rifugiata (IV Convenzione di Ginevra, 1949). Precisazione non irrilevante in quanto tesa a confermare la statualità palestinese e comunque a eliminare ogni dubbio, nel caso in cui Israele sostenesse la linea che si tratti di territori interni.

L’impatto politico delle accuse a Israele sarà significativo. Per esempio la vendita di armi al Paese sarà irrealizzabile per gli Stati firmatari del Trattato sul commercio delle armi (2013).

Sarà anche interessante vedere l’effetto delle potenziali accuse a Israele sul caso avviato dal Sudafrica, presso la Corte Internazionale di Giustizia, per atti di genocidio contro i palestinesi della Striscia di Gaza. Semplificando la Corte Internazionale di Giustizia si occupa di Stati, mentre la Corte Penale Internazionale, di individui.

L’obiettivo rimane lo stesso, cioè quello di ribadire con forza che, in tutti i contesti, ai principi del Diritto Internazionale Umanitario nessuno può derogare.

Federica Iezzi
federicaiezzi@hotmail.it
Twitter @federicaiezzi
(1- continua)
©️ RIPRODUZIONE RISERVATA

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Qui ci sono alcuni degli articoli pubblicati sulla guerra in Palestina

Assalto della guerriglia a Cabinda: gli indipendentisti uccidono un drappello di dodici militari angolani

Speciale per Africa ExPress
Sandro Pintus
21 maggio 2024

Gli indipendentisti del  Fronte di liberazione dell’enclave di Cabinda (FLEC-FAC) tornano ad attaccare. Attraverso un comunicato inviato all’Agenzia portoghese LUSA, hanno annunciato la morte di 12 militari angolani mentre altri quattro sono stati feriti gravemente. Nessuna conferma è stata data dal governo di Luanda.

Cabinda FAC, braccio armato del FLEC
Cabinda, militanti del FAC, braccio armato del FLEC

Agguato nella notte

L’operazione di guerriglia, portata avanti da una unità del comando delle operazioni speciali delle Forze armate di Cabinda (FAC) è del 14 maggio. Le FAC riferiscono che l’agguato è iniziato alle 3.20 di mattina. “Gli scontri con i soldati angolani sono avvenuti nella regione del Belize, nel villaggio di Tundu Maselese, al confine con la Repubblica Democratica del Congo (Congo-K).

Accuse di stupri

Nel comunicato la FLEC-FAC fa pesanti accuse alle FAA. “I soldati delle Forze armate angolane hanno violentato donne sotto la minaccia delle armi – scrivono gli indipendentisti -. Hanno picchiato uomini che cercavano di difendere le loro mogli e figlie”. Le violenze sono successe nel villaggio di Mbaka-Nkosi, nella foresta di Maiombe, vicino al confine con il Congo-K.

Il Fronte di liberazione accusa Luanda anche di “molteplici violazioni e attacchi ai diritti umani e al diritto umanitario a Cabinda”. Incolpa il presidente angolano, João Lourenço, di selvaggia repressione in corso a Cabinda sulla popolazione dell’enclave.

Mappa di Cabinda
Mappa di Cabinda

Appello a ONU e all’Unione Europea

Gli indipendentisti fanno appello alle Nazioni Unite e all’Unione Europea affinché intervengano “contro la repressione e le violazioni di Luanda e per la libera espressione della popolazione di Cabinda”

Zona di guerra

È il secondo attacco in 10 giorni. Segue quello della notte del 5 maggio contro un mezzo militare delle FAA nell’area di Miconje, nella regione del Belize. Nell’agguato sono morti tre militari angolani e due lavoratori brasiliani della società mineraria Lufo.

Il comunicato FAC dell’operazione di guerriglia è stato ricevuto da Voz da America sabato 6 maggio firmato dal tenente generale João Cruz Mavinga Lúcifer.  Né Luanda né il governo brasiliano hanno confermato il bilancio delle vittime.

“Tutte le notizie sulla presunta pacificazione di Cabinda, diffuse dal governo angolano, sono menzogne politiche. Mettono a rischio la vita di ogni incauto straniero nell’interno e nelle città – si legge -. Cabinda è zona di guerra”

FAA esercitazioni Cabinda 2022
Esercitazioni delle Forze armate angolane a Cabinda nel 2022

Cinquemila soldati di Luanda sul campo

Secondo gli indipendentisti FLEC-FAC oltre 5.000 soldati FAA sono presenti nelle foreste di Maiombe e lungo il confine tra Angola e Congo-K. È un’operazione congiunta delle Forze Armate dell’Angola e della Repubblica Democratica del Congo per combattere i rispettivi guerriglieri.

Indipendenza e petrolio

Cabinda, è un’enclave di 700 mila abitanti più piccola dell’Umbria tra Congo-K e Congo-B. Dista un centinaio di km in linea d’aria dall’Angola ma circa 350 km attraversando il Congo-Brazzaville in auto.

L’indipendenza di Cabinda è sempre stata complicata. Le ultime decisioni politiche internazionali dopo l’indipendenza dell’Angola, nel 1975, sono quelle ONU e dell’Organizzazione dell’Unità Africana (OUA).

L’Assemblea Generale ONU indicava l’Angola come comprendente l’exclave di Cabinda. L’OUA, al contrario nel 1964, menzionò in maniera distinta l’Angola e Cabinda.

Luanda ha preso per buona la decisione ONU agglomerando Cabinda e non ha alcuna intenzione di concederne l’indipendenza. L’exclave è infatti la gallina dalle uova d’oro: il 60 per cento del petrolio angolano è di Cabinda. Tra le multinazionali petrolifere che operano c’è anche l’italiana ENI. È una provincia angolana che galleggia sul petrolio e produce quotidianamente 700 mila barili di petrolio greggio.

Una materia prima alla quale Luanda non ha alcuna intenzione di rinunciare.

Sandro Pintus
sandro.p@catpress.com

X (ex Twitter):
@sand_pin
© RIPRODUZIONE RISERVATA

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Riprende la guerriglia a Cabinda: il FLEC attacca, morti e feriti tra l’esercito angolano

Muore il presidente Raisi e in un teatro iraniano va in scena un opera buffa di Dario Fo

dal quotidiano Tehran Times
Teheran, 20 maggio 2024

L’opera teatrale “Tutti i ladri non sono ladri” sarà rappresentata alla Farabi Hall della città di Sowme’eh Sara, nella provincia di Gilan in Iran, dal 20 al 24 maggio.

Mahan Naeimi ha diretto lo spettacolo basato su un dramma comico del drammaturgo italiano Dario Fo intitolato “Il ladro virtuoso” (noto anche come “Non tutti i ladri vengono per nuocere”).

Ali Akhavan, Sogand Khan-Zolfi, Bahman Azad, Maryam Dashti, Mahgol Sadat Sahrghi e Misagh Naeimi fanno parte del cast di questa commedia di 75 minuti.

La storia dell’atto unico racconta di un ladro che entra in casa del vicesindaco, mentre il vicesindaco torna a casa con la sua amante segreta Julia e il ladro si nasconde in un orologio a pendolo.

Una veduta di Sowme’eh Sara, Iran

Dario Fo (1926-2016) è stato un drammaturgo, attore, comico, cantante, regista teatrale, scenografo, cantautore, pittore, attivista politico della sinistra italiana e vincitore del Premio Nobel per la letteratura nel 1997.

Dario Fo

Nel suo tempo, è stato probabilmente il drammaturgo contemporaneo più rappresentato nel teatro mondiale. Gran parte della sua opera drammatica dipende dall’improvvisazione e comprende il recupero di forme illegittime di teatro, come quelle dei giullari e dei suonatori ambulanti medievali e, più notoriamente, l’antico stile italiano della commedia dell’arte.

Le sue opere sono state tradotte in 30 lingue e rappresentate in tutto il mondo, tra cui Argentina, Bulgaria, Canada, Cile, India, Paesi Bassi, Polonia, Romania, Sudafrica, Corea del Sud, Spagna, Sri Lanka, Svezia, Regno Unito, Stati Uniti e Iran.

Il suo lavoro degli anni ’60, ’70 e ’80 è costellato di critiche ad assassinii, corruzione, crimine organizzato, razzismo, teologia cattolica e guerra. Nel corso degli anni Novanta e Duemila, si è dedicato alla parodia di Forza Italia e del suo leader Silvio Berlusconi, mentre negli anni 2010 ha preso di mira le banche nel contesto della crisi del debito sovrano europeo.

Sempre negli anni 2010, è diventato il principale ideologo del Movimento Cinque Stelle, il partito anti establishment guidato da Beppe Grillo, spesso chiamato dai suoi membri “il Maestro”.

Il conferimento del Premio Nobel per la letteratura nel 1997 ha segnato il “riconoscimento internazionale di Fo come figura di spicco del teatro mondiale del Novecento”. L’Accademia di Svezia ha elogiato Fo come scrittore “che emula i giullari del Medioevo nel flagellare l’autorità e sostenere la dignità degli oppressi”.

Tehran Times

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Cade l’elicottero: a bordo il presidente iraniano Ebrahim Raisi