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Burundi: stop alle unioni illegali, le donne conviventi considerate criminali

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
7 giugno 2024

“Nel nome dell’ordine morale e cristiano” è stata lanciata una nuova campagna contro le coppie di fatto in due province del Burundi (Ngozi e Kayanza). Una iniziativa volta a costringere le persone a sposarsi. In poche parole, i burundesi devono stare lontano dal peccato. Eppure la Costituzione dell’ex protettorato parla chiaro: il Burundi è uno Stato laico e garantisce la libertà di religione e di coscienza.

Centinaia di concubine cacciate da casa con i figli

Il 29 marzo scorso il governatore della provincia di Ngozi, Désiré Minani, ha annunciato: “Le donne conviventi, non legalmente sposate, non potranno più restare nella casa che condividono con il partner”. Detto fatto, pochi giorni fa Minani ha rivelato con enorme soddisfazione che sono state cacciate ben 900 concubine dall’inizio della campagna fino alla fine di aprile.

Finora le autorità non hanno potuto allontanare tutte le donne non sposate legalmente, censite a finora. E, come riporta RFI, durante una conferenza stampa, il governatore ha spiegato che non è stato possibile cacciarle al 100 per cento. La quota raggiunta si aggira sull’85 per cento. Minani ha poi aggiunto: “Da queste unioni illegali sono nati ben 3.600 bambini”.

E sono proprio i piccoli ad aver messo in difficoltà le autorità locali. Il governatore ha sottolineato che l’amministrazione della provincia sta cercando di trovare i finanziamenti necessari per iscrivere questi bambini a scuola.

Gran parte delle conviventi che l’amministrazione provinciale non è riuscita a cacciare dall’abitazione comune sono donne di una certa età, conviventi con il loro partner da oltre 25 anni, mentre tutte le altre sono musulmane con un compagno della stessa religione.

La maggior parte dei burundesi abbraccia il cristianesimo (poco più dell’86 per cento il cattolicesimo, il 2,6 per cento il protestantesimo), solo l’1 per cento sono musulmani, mentre altri sono devoti a religioni tradizionali e una piccola minoranza all’induismo e altre confessioni.

Dopo aver cacciato la convivente, le autorità impongono all’uomo di ritornare con la moglie legittima, mentre la donna, in linea di massima, dovrebbe andare nella casa paterna. Ma la questione non è semplice, per stessa ammissione del governatore. “Purtroppo capita che i genitori sono entrambi deceduti e gli altri familiari non sono disposti ad accoglierle” e ha aggiunto: “Tutti progetti hanno lati positivi e negativi, è sempre stato così e Minani prosegue: “Tutte le conviventi che scopriremo d’ora in poi saranno considerate criminali”.

“Sono disperata – si è sfogata Anne (nome di fantasia) coi reporter di Reporter di RFI -. Con il mio compagno abbiamo avuto 7 figli, uno è morto. Due mesi fa sono venuti a casa, ci hanno arrestato, costringendoci a separarci. I figli sono rimasti con me, sono riuscita a rimandare a scuola alcuni, ma non tutti”.

Il racconto di Anne è una storia nella storia, ma ce ne sono altre ancora più drammatiche. Molte di queste donne vivono ora per strada con i loro figli, defraudati del diritto all’istruzione. Sono per lo più i vicini di casa a denunciare le coppie di fatto alle autorità.

Nella provincia di Kayanza la situazione è simile. Ben 136 donne sono state costrette a lasciare la casa che condividevano con il loro compagno.

Angeline Ndayishimiye, moglie del presidente Evariste Ndayishimiye, al potere dal 2020, un ex militare e molto credente, ha elogiato le misure adottate dal governatore di Ngozi. “Mi congratulo e incoraggio Désiré Minani, perché sta riportando onore alle famiglie”.

Angeline Ndayishimiye, first lady del Burundi

Già nel 2017 l’allora presidente Pïerre Nkurunziza, aveva dato ordine alle coppie conviventi more uxorio di sposarsi entro la fine dell’anno. Ancora più severo si era espresso nei confronti degli uomini ancora sposati e non divorziati dalla precedente moglie. Anche Nkurunziza aveva chiesto di porre fine immediatamente alla convivenza con altra persona. La “moralizzazione” della società burundese prosegue anche con questa presidenza.

L’87 per cento dei circa 13 milioni di burundesi vive sotto la soglia di povertà, la mortalità infantile è ancora alta e l’aspettativa di vita è poco al di sopra dei 61 anni.

Cornelia I. Toelgyes
cornelicit@hotmail.it
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Ordine del presidente in Burundi alle coppie non sposate: “Sposatevi subito”

 

 

Alleati e affari: Lavrov a caccia grossa in Africa

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
6 giugno 2024

Il programma del safari africano del potente ministro degli Esteri della Federazione Russa, Sergej Viktorovič Lavrov, è stato molto fitto. In tre giorni ha visitato quattro Paesi francofoni: Guinea, Repubblica del Congo, Burkina Faso e Ciad.

Il ministro degli Esteri russo Lavrov con il suo omologo guneano, Morissanda Kouyate, all’aeroporto di Conakry

Guinea                                    

Lunedì, Lavrov è sceso dall’aereo a Conakry – sorridente e in pieno relax, senza cravatta – per una visita lampo in Guinea, dove è stato ricevuto dal suo omologo guineano, Morissanda Kouyate. Il capo della diplomazia moscovita si è intrattenuto anche con il presidente, Mamadi Doumbouya, al potere dal settembre 2021, dopo aver defenestrato con un colpo di Stato Alpha Condé.

Va ricordato che la Russia è stato il primo Paese a riconoscere l’indipendenza della Guinea nel 1958. Allora il nuovo presidente, Sékou Touré, aveva declinato l’invito di De Gaulle a far parte della Comunità Franco-Africana come Stato autonomo. La Guinea preferisce la povertà e la libertà rispetto alle ricchezze della schiavitù”, rispose il leader africano alla Francia, parole che fecero infuriare De Gaulle, ma che rimasero impresse nella storia. Da allora i rapporti con la Russia sono rimasti per lo più concentrati sull’estrazione mineraria.

Bisogna sottolineare che la bauxite estratta in Guinea rappresenta il 40 per cento della produzione del gigante russo Rusal, tra i maggiori produttori di alluminio al mondo. Proprio per questo motivo, Mosca ha sempre cercato di mantenere rapporti cordiali con i leader del Paese. Nel gennaio 2019, l’allora ambasciatore russo, Alexandre Bredgazé, ora a capo di Rusal-Guinea, ha apertamente incoraggiato l’ex presidente, Alpha Condé, a modificare la Costituzione per potersi candidare per un terzo mandato.

Comunque anche il golpista oggi al potere ha conservato ottimi rapporti con la Russia. Infatti, per esempio, sulla risoluzione dell’ONU di condanna dell’invasione russa in Ucraina, la Guinea è rimasta neutrale. I suoi diplomatici hanno lasciato l’aula durante il voto al Palazzo di Vetro.

Mamadi Doumbouya, un ex ufficiale della Legione straniera, è rimasto in buoni rapporti anche con la Francia, al contrario dei suoi vicini putschisti del Mali, Burkina Faso e Niger, che hanno interrotto le relazioni con Parigi. Pur di non perdere anche Conakry, le autorità francesi stanno evitando di interferire negli affari interni del Paese. Ad esempio, rimane discreta anche la critica sulla violazione dei diritti umani o sulla la chiusura delle maggiori emittenti private, lo scorso maggio, dopo l’annuncio del rinvio sine die delle elezioni, inizialmente fissate per la fine di quest’anno.

Doumbouya ha ribadito che “la Guinea rimane un Paese aperto e sovrano, che collabora con tutti”. Comunque, prima di partire per il Congo-Brazzaville,  i due leader hanno espresso il desiderio di rafforzare la loro cooperazione bilaterale.

Congo-Brazzaville

La Repubblica del Congo, seconda tappa del tour di Lavrov, è un alleato di lunga data della Francia eppure anche in questo Paese la cooperazione con Mosca risale alla lotta per l’indipendenza. Il Parti congolais du travail (PCT), ancora oggi al potere, ha abbandonato il marxismo-leninismo dopo il crollo dell’URSS.

Il capo della diplomazia russa, Levrov, con il presidente della Repubblica del Congo, Denis Sassou-Nguesso,

Anche qui, Lavrov ha incontrato dapprima il suo omologo, Jean-Claude Gakosso. Il presidente, Denis Sassou-Nguesso, ha ricevuto Lavrov a Oyo, la sua roccaforte a 400 chilometri a nord di Brazzaville. Come nella sua precedente visita del luglio 2022, il capo della diplomazia russa ha apprezzato la posizione equilibrata del governo di Brazzaville per quanto concerne la questione ucraina.

Lavrov ha poi espressamente sottolineato che il suo Paese sostiene l’iniziativa del presidente congolese per quanto concerne l’organizzazione di una conferenza inter-libica. Sassou-Nguesso presiede il comitato di alto livello dell’Unione Africana (UA) sulla Libia.

Il presidente del Congo-B durante un intervista con il direttore di Africa ExPress, Massimo Aberizzi,nel 2008

Durante la sua visita in Congo-B, il capo della diplomazia di Mosca non ha potuto fare a meno di criticato l’Occidente e i suoi presunti obiettivi in Ucraina e Libia. “Quello che è successo in Libia è una tragedia, i cui responsabili sono la Nato e i suoi membri. La stessa cosa è accaduta in Iraq e in Afghanistan, dove l’Occidente ha voluto imporre il suo marchio di democrazia”.

E’ risaputo che la porta d’entrata della Russia per la conquista dell’Africa è la Libia, dove Mosca ha stretti legami con il generale Khalīfa Haftar, capo dell’esercito nazionale libico (ENL). Pochi giorni fa il comandante ha ricevuto in una base militare vicino a Bengasi una delegazione russa capeggiata dal viceministro della Difesa di Mosca, Junus-bek Evkurov. Mentre poche settimane fa, il figlio del generale, Khaled Haftar, si è recato a Mosca. In tale occasione ha avuto colloqui anche con il viceministro degli Esteri, Mikhail Bogdanov. Secondo alcune indiscrezioni, Mosca starebbe avviando proprio nella Libia orientale la sua Legione Africana, destinata a sostituire i mercenari del gruppo Wagner.

Burkina Faso

Il viaggio del ministro degli Esteri russo è poi proseguito alla volta del Burkina Faso, grande alleato di Mosca. Ieri mattina Lavrov ha incontrato il presidente della giunta militare transitoria, Ibrahim Traoré, e gli ha promesso l’invio di altri istruttori nel Paese. Un gruppo di militari sarà formato anche in Russia.

Uccisione di civili in Burkina Faso

Da oltre 10 anni il Burkina Faso si deve confrontare con continui attacchi dei jihadisti; aggressioni che hanno causato migliaia di morti e oltre 2 milioni di sfollati. “Non ho dubbi che grazie alla nostra cooperazione, le rimanenti sacche di terrorismo in Burkina Faso saranno distrutte”, ha dichiarato Lavrov.

Ciad

Quarta e ultima tappa del tour africano di Lavrov è stato il Ciad, dove ieri sera ha incontrato il suo omologo Abderaman Koulamallah, che, seduto accanto al suo ospite ha sottolineato: “Il Ciad è uno Stato sovrano, intratteniamo relazioni con chi vogliamo noi e non siamo ostaggi di nessuno”. L’ex colonia francese è rimasto l’ultimo stretto alleato della Francia nel Sahel.

Durante una conferenza stampa, il potente ministro degli Esteri ha risposto prontamente alle parole del suo omologo: “La nostra amicizia con la Repubblica del Ciad non influenzerà le sue relazioni con la Francia. Parigi, invece, ha un approccio diverso: o sei con noi, o sei contro di noi”.

Russia e Ciad hanno mantenuto relazioni poco intense, scandite da contatti regolari e visite diplomatiche, dalla firma di un “piano di cooperazione” nel 2013. I loro rapporti si sono raffreddati all’inizio della transizione, iniziata dopo la morte nell’aprile 2021 del presidente Idriss Déby Itno. All’epoca, N’Djamena aveva accusato Mosca di utilizzare i mercenari del gruppo Wagner per fomentare movimenti di destabilizzazione ai suoi confini.

I rapporti tra i due governi sono visibilmente migliorati a gennaio 2024 con la visita di Mahamat Idriss Déby a Mosca. Allora Vladimir Putin aveva elogiato il suo omologo ciadiano per essere riuscito a stabilizzare la situazione nel suo Paese. Mahamat è salito al potere nel 2021, dopo la morte del padre, ucciso durante uno scontro a fuoco con i ribelli nel nord del Paese. Il mese scorso è stato eletto presidente con il 61 per cento delle preferenze.

Cornelia I. Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
X: @cotoelgyes

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Epidemia di vaiolo delle scimmie esplode in Congo Brazzaville

Lotta ai migranti: l’Italia non è più sola, in Ciad sbarcate truppe ungheresi e il governo vuol cacciare i militari USA

Non c’è infanzia nel Sahel: cresciute del 70 per cento le violenze sui minori

Kenya a mollo: a rischio la grande risorsa del turismo

Speciale per Africa ExPress
Flavio Vanetti
5 giugno 2024

Dopo aver sperimentato, nel periodo natalizio e in generale in inverno, temperature insolitamente alte (36-37 gradi centigradi stranamente molto umidi – ma addirittura più di 40 percepiti – contro i 30-32 della norma), il Kenya sta affrontando il problema delle piogge in eccesso. Addirittura vere e proprie alluvioni, che hanno creato danni enormi e che stanno mettendo a rischio il turismo, fonte insostituibile di proventi.

Kenya devastato dalle inondazioni

Adriano Ghirardello è un italiano, della provincia di Varese, che da oltre 30 anni fa avanti e indietro da Malindi, dove ha casa e dove trascorre dai 6 agli 8 mesi, alternati con il rientro a Fagnano Olona. Sta per ritornare in Africa e si aspetta che lo scenario sia tutt’altro che migliorato.

“Le forti precipitazioni – spiega – non sono una novità: ci sono ogni anno. Cominciano tra marzo e aprile e durano di solito fino al termine di giugno. Ma quest’anno sembra che le piogge abbiano preso un piglio devastante. Due anni fa ci fu una grande siccità: non piovve per nulla. Adesso sta accadendo il contrario. Ai tempi soffrirono gli animali, oggi invece tocca agli uomini. Le bestie vedono invece spuntare erba fresca e per gli erbivori è una manna: ma automaticamente entrano in gioco pure i carnivori, che li mettono nel mirino e completano il ciclo della catena alimentare. L’acqua in abbondanza, poi, risolve la questione della sete”.

Kenya: inondazioni hanno colpito il Kenya dopo le forti piogge

Di contro è un guaio per gli umani. E per il turismo. In un parco come quello di Masai Mara non riusciranno a muoversi finché non ricostruiranno i ponti distrutti dalla violenza dell’acqua. Di nuovo Ghirardello, che nei suoi mesi in Kenya è coinvolto nel servizio di pattugliamento dei parchi: “Di recente ho parlato con un fotografo di Nairobi: è disperato perché gli stanno saltando i safari prenotati. Se non ricostruite, certe strutture devono essere almeno vagamente agibili: sennò salta la programmazione ed è un guaio grosso perché i danni sono già nell’ordine dei milioni di euro”.

La ricostruzione può avere luogo solo tramite le realtà locali, il governo centrale non può fare nulla. “Nella zona del Masai Mara, per dire, è la contea di Narok che deve occuparsi della riattivazione di ponti, piste e strade. Questo parco, uno dei più famosi, conta un centinaio di campi dedicati ai turisti. Da luglio entrerà poi in vigore la nuova tariffa d’ingresso: 200 dollari ogni 12 ore. Bisogna insomma spicciarsi, sennò il danno sarà enorme: solo in questo periodo si calcolano almeno mille visitatori da tutto il mondo. Ed è un momento favorevole per vedere gli animali perché è in arrivo la transumanza dalla Tanzania verso il Kenya”.

Uno penserà adesso al famoso e tanto sbandierato cambiamento climatico, ma in realtà quanto sta succedendo è figlio di qualcosa che è ben nota da anni: si tratta di  “El Niño”, che prende le mosse dal riscaldamento delle acque del Oceano Pacifico. Peraltro, le manifestazioni estreme che dobbiamo sempre più spesso affrontare hanno probabilmente accentuato la forza di questo fenomeno. “A febbraio il servizio di previsione aveva avvisato dei rischi, invitando a organizzarsi in previsioni di piogge pesanti. I tornado, se non altro, non arrivano in Kenya perché l’equatore protegge. El Niño tocca il Mozambico e sfiora la Tanzania, ma non va oltre”.

E come se non bastasse quando scende dal cielo, l’acqua determina un’altra emergenza. Sulla terra stavolta. “Tutte le masse che si accumulano nel Masai Mara, a Nairobi e nel Nord  del Paese – conclude Adriano Ghirardello – scendono nei due fiumi principali, il Tana River e l’ Athi Galana-Sabaki. Confluiscono nell’Oceano Indiano, il primo a Lamu, il secondo dalle parti di Malindi. Sono già stati sommersi dei campi e ho saputo che vicino a Malindi l’acqua ha divelto un baobad di 800 anni, simbolo di un’eroina che aveva combattuto contro gli inglesi. Si trovava a 50 metri dalla riva: spazzato via come un fuscello”.

Flavio Vanetti
©RIPRODUZIONE RISERVATA

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Piogge torrenziali e alluvioni: violenta crisi umanitaria in Kenya

 

A Rafah l’orrore incontra l’orrore

EDITORIALE
Federica Iezzi
4 giugno 2024

Stessa equivalenza, stesso gemellaggio, stessa promiscuità nell’obbrobrio. Il messaggio lanciato a Rafah, nel sud della Striscia di Gaza, dallo Stato israeliano è chiaro e in completo disprezzo del diritto internazionale umanitario e delle istituzioni che dovrebbero applicarlo. Con il sostegno incrollabile del governo statunitense – che ha annunciato l’invio di una nuova consegna di armi a Israele, per un importo di un miliardo di dollari – intende continuare questa impresa di distruzione sistematica.

Rafah, Striscia di Gaza [photo credit Al-Jazeera]
Incarnata dalla Corte Penale Internazionale, la richiesta di giustizia contro Benjamin Netanyahu gode di un notevole significato morale. Nello stesso modo, coinvolge, sul proprio territorio, i 123 Stati che ne riconoscono la giurisdizione.

A ruota, le decisioni della Corte Internazionale di Giustizia – che hanno fatto seguito alla richiesta di avvio di un procedimento contro Israele da parte del Sudafrica – restano vincolanti, ma l’Aja non ha mezzi per obbligare uno Stato a conformarsi alle sue decisioni. Solo il Consiglio di Sicurezza potrebbe consentire l’effettiva attuazione dei provvedimenti della Corte, banalmente con l’adozione di sanzioni.

Le false pretese dell’Occidente perdono ogni efficacia e suonano vuote. Il divario, tra le belle parole umanitarie e la reale indifferenza al massacro, è netto.

Il parallelo tra sostenere il popolo palestinese, condannando gli orrori di Hamas, ed esprimere solidarietà a Israele, non appoggiando le politiche mortali di Netanyahu, non regge più.

Il popolo palestinese ha il diritto di esistere e di beneficiare degli stessi diritti del popolo israeliano, su una terra che è anche la sua. E come il Vietnam di fronte al rullo compressore americano, la Striscia di Gaza non merita di essere trasformata in una fossa comune per i due milioni di abitanti, rifugiati in ciò che resta della zona ancora vivibile.

Quindi si, l’antisemitismo deve essere combattuto senza sosta. Si, Israele ha il diritto di esistere. Ma non dimentichiamo che in Israele non c’è giorno in cui decine di migliaia di manifestanti scendono in piazza per chiedere le dimissioni del primo ministro Netanyahu, la cui politica compiacente nei confronti di Hamas e di sostegno alla violenza dei coloni israeliani in Cisgiordania, ha portato il Paese sull’orlo di un abisso.

Esodo da Rafah (courtesy Reuters)

Nulla può giustificare il massacro di civili. Né la violenza dell’avversario, né l’occupazione, né il blocco, né tutto ciò che i palestinesi sono stati obbligati a sopportare per decenni, senza alternativa. L’orrore di alcuni non può giustificare quello di altri.

Chi ne ha pagato il prezzo? Ammettendo che ogni guerra richiede “sacrifici”, per cosa e per chi, a parte gli interessi di Hamas e dell’asse iraniano, sono stati sacrificati più di 15.000 bambini palestinesi? Per dimostrare che Israele è capace del peggio? Lo sapevamo già.

Nessuno Stato al mondo può permettersi di agire senza rischi nel modo in cui agisce oggi Israele. E’ vero non bisogna dimenticare il 7 ottobre, così come non bisogna dimenticare che da quel giorno non è iniziata la storia.

Ma come bruciare viva la Striscia di Gaza può giustificare la barbarie israeliana? Quanti bambini uccisi, quanti ospedali distrutti, quante persone sfollate, quanti convogli umanitari presi di mira o bloccati, quanti discorsi dai toni apertamente genocidari saranno necessari per “risarcire”, agli occhi del governo israeliano, l’affronto del 7 ottobre?

Abitanti di Rafah in fuga. Ma sono come topi in trappola. Non hanno un posto dove andare(Courtesy Al Jazeera)

Non solo Israele sta letteralmente distruggendo la vita all’interno dell’enclave palestinese, ma lo sta facendo senza alcuna prospettiva politica. Sul piano militare, finora non è riuscita a distruggere le Brigate al-Qassam e, nel medio e lungo termine, non offre la minima possibilità di porre fine alla crisi.

Chi difende veramente la causa palestinese oggi? L’ ”asse della resistenza”, che ha commesso ogni possibile massacro nella regione negli ultimi quindici anni? I regimi arabi, che non hanno lezioni da insegnare in termini di compassione e rispetto dei diritti umani e che hanno deciso di guardare Gaza bruciare senza muovere un dito? Gli Stati Uniti che, nonostante le minacce e gli avvertimenti, continuano a finanziare questa carneficina, nonostante il disastro umanitario e strategico? Gli europei che si svegliano troppo tardi e con troppa moderazione, e che hanno tanta difficoltà ad affermare l’ovvio?

Federica Iezzi
federicaiezzi@hotmail.it
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Gli attacchi dell’esercito e dei ruandesi non fermano i jihadisti in Mozambico

Speciale per Africa ExPress
Sandro Pintus
4 giugno 2024

Le Forze di difesa e sicurezza mozambicane (FDS) e i militari ruandesi (RDF) hanno attaccato le posizioni jihadiste nel nord del Mozambico. Le operazioni sono durate tre giorni, dal 26 al 29 maggio e secondo il presidente mozambicano Filipe Nyusi “… i terroristi sono stati ‘pestati'”, Decine e decine sono rimasti sul terreno e molte attrezzature sono state catturate”, riporta l’Agenzia portoghese LUSA .

Per il momento sono stati trovati sette jihadisti morti di Is-Mozambico (ex Al Sunnah wa-Jammà) trafitti dai proiettili. I militari mozambicani stanno cercando gli altri terroristi. L’offensiva anti jihadista è stata condotta nei villaggi di Limala e Mbau, nel distretto di Mocímboa da Praia, e Nova Familia, in quello di Nangade, a sud e sud-ovest di Palma.

offensiva Nangade e Mocimboa
Mappa dell’offensiva militare a Nangade e Mocimboa da Praia (Courtesy GoogleMaps)

L’assalto a Macomia

È l’ultima operazione, in ordine di tempo, delle truppe ruandesi e mozambicane aiutate dai paramilitari della Força local, volontari a difesa dei villaggi. Succede dopo l’assalto jihadista del 10 e 11 maggio scorsi al quartier generale di Macomia.

Una settimana dopo l’assalto a Macomia è arrivata la rivendicazione dello Stato islamico su Al-Naba, il suo strumento di propaganda jihadista. “Abbiamo attaccato la città da diversi punti dopo aver battuto l’esercito mozambicano all’interno e all’esterno della città e interrotto le vie di comunicazione”.

Il gruppo ribelle descrive i risultati dell’azione con tanto di immagini e grafica. “Controlliamo la maggior parte della città e i cristiani sono fuggiti. Abbiamo sequestrato grandi quantità di armi e munizioni; bruciato le baracche dei militari; ammazzato una quindicina di persone”.

“Abbiamo sequestrato le attività commerciali dei cristiani e distribuito i prodotti ai musulmani residenti. Abbiamo catturato 12 auto e distrutto due blindati”. La propaganda termina con i saluti “…agli uomini dello Stato islamico e ai loro orgogliosi cavalieri. Specialmente quelli dello Stato mozambicano (Is-Mozambico, ndr).

offensiva
Rivendicazione ISIS su attacco a Macomia

Attendevano il termine della SAMIM

I jihadisti di Is-Mozambico aspettavano da mesi il ritiro dei militari della Missione in Mozambico della Comunità di Sviluppo dell’Africa Meridionale (SAMIM). Avrebbe dovuto fermare la guerriglia islamista a Cabo Delgado, nell’estremo nord del Mozambico.

Il prossimo termine della missione (ufficialmente a metà luglio) e soprattutto la partenza dei 1.500 militari del contingente sudafricano hanno lasciato mano libera ai jihadisti.

L’attacco di Macomia conferma la continuazione dell’attività jihadista “organizzata” di Is-Mozambico a sud della penisola di Afungi, sede dei cantieri TotalEnergies.

offensiva
Militari Samim della missione SADC

I 1.400 morti di Palma

Ricordiamo il sanguinoso massacro jihadista nel marzo 2021, nella città di Palma, capitale degli enormi giacimenti di gas occupata dai miliziani per una decina di giorni.

Il governo mozambicano non ha mai divulgato il numero dei morti. L’indagine del giornalista inglese Alex Perry conferma 1.411 morti, 330 dei quali decapitati dai jihadisti. L’occupazione di Palma ha dato il via alla missione SAMIM.

Truppe ruandesi sostituiranno SAMIM

Le truppe SAMIM verranno sostituite da altri militari del Ruanda. Durante la missione SADC i militari ruandesi, contattati direttamente dal presidente Nyusi, si sono occupati della bonifica e messa in sicurezza dei cantieri TotalEnergies nella penisola di Afungi. È un progetto da 20 miliardi di dollari fermo dal 2021 che, nonostante le richieste del presidente mozambicano, TotalEnergies non ha ancora deciso di riaprire.

A Cabo Delgado sono attesi altri 2.000 militari ruandesi oltre ai 2.000 già presenti. I jihadisti cercano di riprendersi il territorio lasciato scoperto dalle truppe dei Paesi SADC e ISIS ripete: “Abbiamo sconfitto i militari della missione SAMIM”. Una sfida diretta a Maputo.

Sandro Pintus
sandro.p@catpress.com

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Truppe sudafricane lasciano il Mozambico per fine missione anti jihadista: sono finiti i fondi

In luglio termina la missione militare SADC in Mozambico contro i jihadisti. Molti interrogativi

ESCLUSIVA/Video shock in Mozambico: militari SADC bruciano corpi dei nemici uccisi

Mozambico: massacro a Palma, inefficienze e una meticolosa programmazione

Bambini armati tra i jihadisti che hanno assediato e ucciso a Palma, Mozambico

Mozambico, Total annuncia ripresa lavori e jihadisti attaccano Palma

Congo-K: “No a fondi europei al Ruanda per operazione anti jihadisti in Mozambico”

Il presidente del Mozambico corteggia la Total: “Area dei giacimenti gas è sicura. Tornate”

Sconfitto l’ANC: Sudafrica in bilico sull’orlo del burrone

Dalla Nostra Corrispondente
Elena Gazzano
Città del Capo, 2 giugno 2024

Per trent’anni, l’ANC ha cavalcato l’onda della gloria, un’onda che Nelson Mandela ha fatto crescere da quando votò per la prima volta nel 1994. Ora, quel glorioso passato è sepolto sotto un cumulo di corruzione, incompetenza e promesse infrante.

Sudafrica: ANC perde le elezioni 2024

Il 40 per cento dei voti ottenuti in queste elezioni segna la fine di un’era. Ma non è una sorpresa per chi ha occhi per vedere: è solo la logica conseguenza di decenni di febbre del potere e disillusione.

Il principale partito di opposizione, Democratic Alliance (DA), ha ricevuto il 21,71 per cento delle preferenze, consolidando la sua posizione come seconda forza politica del Paese. Tuttavia, il risultato più sorprendente è stato quello di uMkhonto we Sizwe (MK), il nuovo raggruppamento politico fondato da Jacob Zuma nel dicembre 2023. MK ha ottenuto il 14,76 per cento dei consensi. Questo successo è particolarmente evidente nella provincia di KwaZulu-Natal, dove MK è emerso il più votato, superando Economic Freedom Fighters (EFF, sinistra radicale), che ha impiegato anni per raggiungere la sua attuale posizione.

La Piaga della Disuguaglianza

Questa non è solo la storia di una sconfitta elettorale, è la cronaca di un fallimento morale. In un Paese dove il 32 per cento della popolazione è disoccupato e dove le disuguaglianze non solo persistono ma si sono acuite, l’ANC ha fallito nel mantenere le promesse fatte al popolo sudafricano. La libertà conquistata con il sangue è stata venduta in cambio di corruzione e nepotismo. Le frustrazioni per la mancanza di acqua e elettricità, la criminalità dilagante e il degrado morale incessante sono il lascito di un governo che ha alienato l’anima e perso il contatto con i suoi cittadini.

Il Ritorno del Passato

E come se non bastasse, ecco che Jacob Zuma, l’uomo delle mille ombre, torna sulla scena politica con uMkhonto we Sizwe (MK). Colui che ha dovuto dimettersi per corruzione ed è stato condannato per non essersi presentato in tribunale, ora guida il terzo partito più grande del Paese. È una tragedia teatrale dove il villano torna per reclamare il suo posto nel caos. Il fatto che l’MK, fondato solo sei mesi fa, abbia ottenuto quasi il 15 per cento dei voti, è un chiaro segnale di quanto l’ANC sia caduto in disgrazia.

Sudafrica: Jacob Zuma

La situazione politica di Jacob Zuma è complessa e controversa. Nonostante gli scandali di corruzione e il suo ruolo nelle rivolte del 2021, Zuma ha mantenuto un forte sostegno tra la popolazione Zulu, dimostrando la sua abilità nel comunicare e mobilitare i suoi sostenitori.

Il leader populista ha accusato il suo successore, il presidente uscente, Cyril Ramaphosa, di essere responsabile dei suoi problemi legali. Ed ora Zuma ha inflitto una sconfitta significativa al suo rivale. Duduzile Sambudla, figlia di Zuma e membro dell’MK, ha dichiarato che il partito non è disposto a entrare in coalizione con l’ANC sotto la guida di Ramaphosa. Questo potrebbe essere l’annuncio che una coalizione potrebbe essere possibile senza di lui?

Una Nuova Era di Governo di Coalizione

Il presidente uscente, Cyril Ramaphosa, è sull’orlo del precipizio. Con il peggior calo di voti nella storia del partito e una base elettorale in ribellione, la sua posizione non è mai stata così fragile. Nonostante sia teoricamente ancora in grado di mantenere il suo ruolo, la sua autorità è notevolmente indebolita. Ramaphosa deve ora affrontare la sfida di formare un governo di coalizione, un compito che potrebbe anche rivelarsi distruttivo.

Cyril Ramaphosa, presidente uscente del Sudafrica

E allora cosa dovremmo aspettarci? Un governo di coalizione con la Democratic Alliance (DA), il partito che ha sempre criticato l’ANC per la sua corruzione? O forse un’alleanza con gli Economic Freedom Fighters (EFF) di Julius Malema, un’altra costola ribelle dell’ANC? Ogni scelta porterà il suo carico di contraddizioni e potenziali disastri. L’unica certezza è che l’ANC non potrà più governare senza rendere conto a qualcuno. Forse ci siamo: è arrivata una maturità democratica che il Sudafrica dovrà imparare ad abbracciare.

Possibili Scenari

Il caos politico in Sudafrica ha scatenato una frenesia di speculazioni sul futuro del governo e delle alleanze politiche. Girano voci che il presidente Ramaphosa potrebbe addirittura essere spodestato. Se Paul Mashatile, vicepresidente dell’ANC, diventasse il nuovo leader, potrebbe cercare un accordo con il partito di Zuma e forse anche con gli Economic Freedom Fighters. Altre figure che potrebbero sostituire l’ex presidente, sono Gwede Mantashe, ministro dell’Energia, e Naledi Pandor, ministro degli Esteri. Tuttavia, nonostante queste speculazioni, si sa quanto sarebbe difficile sradicare Ramaphosa dal posto che protegge con unghie e denti.

Le possibilità di coalizione sono molteplici e complesse. Una delle opzioni è quella di creare un governo di unità nazionale che coinvolga sia l’ANC che la DA, con la partecipazione di altri partiti minori. Tuttavia, c’è anche la possibilità di una coalizione che escluda completamente l’ANC, coinvolgendo la DA, gli Economic Freedom Fighters e il partito di Zuma, MK. Anche se il leader della DA, John Steenhuisen, ha escluso l’EFF e l’MK come potenziali partner di coalizione, citando il rischio di politiche estreme che potrebbero portare a conseguenze troppo negative. Ma quando c’è in ballo il potere tutto può succedere.

Tutte queste opzioni riflettono le divergenze ideologiche del panorama politico africano e la dura strada verso una coalizione che faccia ingranare al Paese la prossima marcia.

La Fine di un Sogno

Il sogno dell’ANC è diventato un incubo. Il partito che ha liberato il Sudafrica dall’apartheid è ora il simbolo della disillusione e della sconfitta. Il popolo ha parlato, e il messaggio è chiaro: il tempo del cambiamento è ora. Questo è un momento storico che potrebbe segnare la rinascita del Sudafrica, se solo i suoi leader avranno il coraggio di ascoltare e agire. Ma finché i vecchi fantasmi come Zuma continueranno a infestare la scena politica, il futuro resta incerto.

E così, il Sudafrica attende, in bilico tra speranza e disperazione.

Elena Gazzano
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Il Sudafrica si prepara alle elezioni nella profonda disillusione: il cambiamento è un miraggio lontano

Non c’è infanzia nel Sahel: cresciute del 70 per cento le violenze sui minori

Africa ExPress
1° giugno 2024

Basta violenze sui minori nel Sahel (Burkina Faso, Mali e Niger). Tali episodi sono aumentati del 70 per cento negli ultimi tre mesi del 2023, in rapporto ai tre mesi precedenti. L’allarme è stato lanciato giorni fa da Gilles Fagninou, direttore regionale di UNICEF per l’Africa occidentale e centrale dallo scorso febbraio.

Sahel: aumentano le violenze sui minori

La maggior parte delle violazioni consiste nel reclutamento e successivo utilizzo dei piccoli come soldati da parte di gruppi armati. Ma ci sono anche casi di omicidi e mutilazioni.

“Le violenze devono cessare, i bambini devono poter godere appieno del loro diritto fondamentale alla vita, in conformità alla Carta africana sui diritti e il benessere dei bambini e la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia”, ha sottolineato il beninese Fagninou. Ha chiesto inoltre a tutte le parti in causa il massimo impegno per proteggere la popolazione civile.

In Burkina Faso, Mali e Niger gli attacchi dei terroristi legati ad al Qaeda o allo stato islamico (ISIS) sono all’ordine del giorno. E la popolazione civile ne paga il prezzo più elevato, perché costretta a subire le violenze dei jihadisti, dei militari, delle milizie comunitarie, dei mercenari e di gruppi criminali comuni.

Il nord del Mali è anche teatro di un’insurrezione separatista. L’accordo di pace siglato nel 2015 tra il governo di Bamako e i touareg dell’Azawad è andato in fumo con la presa del potere da parte della giunta militare di transizione. La situazione è poi peggiorata dopo la partenza di MINUSMA (Missione di pace dell’ONU in Mali). Da allora alcuni gruppi separatisti hanno ripreso le armi contro l’esercito maliano.

Le violenze vanno di pari passo con l’estrema povertà, l’insicurezza alimentare e la profonda crisi politica che accomuna i tre Paese del Sahel, governati da golpisti.

Nell’ultimo rapporto delle Nazioni Unite del giugno 2023 sull’impatto dei conflitti armati sui bambini nel mondo, è stato rilevato che nel 2022 sono morti 423 bambini a causa di attacchi da parte di gruppi affiliati allo stato Islamico ed a Al-Qaeda, ma anche per mano delle forze di sicurezza, soprattutto nella regione del Sahel. La prossima relazione del Palazzo di Vetro riguardante il 2023 dovrebbe essere pubblicata alla fine di questo mese.

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La giunta militare del Mali: “Riprenderemo il controllo di tutto il territorio”, ma jihadisti e tuareg hanno ripreso gli attacchi

 

Weekend di fuoco in Burkina Faso: terroristi sterminano indistintamente cristiani e musulmani

I problemi della Nigeria: tornare al vecchio inno nazionale

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
31 maggio 2024

Per celebrare il suo primo anniversario come presidente della Nigeria, Bola Tinubu, ha siglato una legge per d’adozione del nuovo inno nazionale. Per essere precisi, Tinubu ha ripristinato quello vecchio, in vigore dal 1960, poi mandato in “pensione” nel 1978 sotto il regime militare di Olusegun Obasanjo. “Nigeria, We hail tee” (Nigeria, ti accogliamo) le parole erano state scritte da Lillian Jean Williams, una inglese residente nel Paese e la musica composta da Frances Berda.

 

Nel 1959 il “Comitato nazionale di pianificazione per l’indipendenza” aveva annunciato un concorso per la selezione di un inno nazionale per commemorare l’indipendenza della Federazione della Nigeria il 1° ottobre 1960. L’unità rappresenta il messaggio chiave dell’inno.

Durante il governo del presidente Goodluck Jonathan, nel 2014 era stata convocata una conferenza nazionale, presieduta dall’ex presidente della Corte suprema, Idris Legbo Kutigi. Una delle risoluzioni adottate in tale occasione è stata proprio quella di ritornare al vecchio inno “Nigeria, We Hail Thee”, che invoca all’unità, pace e prosperità.

Ora Tinubu l’ha nuovamente adottato, ma non tutti nigeriani sono d’accordo con la scelta del capo di Stato. Molti si sono indignati per la modifica dell’inno nazionale. Gran parte della popolazione ritiene inoltre che le priorità siano ben diverse: in primo piano l’insicurezza, l’elevato costo della vita, dovuto al galoppante aumento dell’inflazione che a aprile ha raggiunto il 33,69 per cento (0,49 in più rispetto al mese precedente), la crisi della valuta straniera e tanto altro.

L’ex ministro dell’Istruzione in carica dal 2006 al 2007, Oby Ezekwesili, ha postato su X (ex Twitter) un twitt in cui sostiene che non canterà mai il “nuovo vecchio” inno.

Durante il suo primo anno al potere, Tinubu ha varato parecchie riforme, soprattutto nel settore dell’economia, sorprendendo tutti quando ha annunciato la fine di alcuni sussidi sul carburante e il ritorno di un tasso di cambio determinato dal mercato.

Tali misure hanno portato a una svalutazione della moneta locale (naira), e una crescente inflazione. A ciò si aggiunge un forte rincaro della corrente elettrica e una serie di misure fiscali che hanno colpito soprattutto il settore privato.

Nigeria: popolazione in ginocchio per l’elevato costo della vita

Tra i festeggiamenti per celebrare il primo anno al potere, il presidente ha partecipato all’apertura del cantiere per la realizzazione della nuova autostrada Lagos-Calabar, che dovrebbe collegare la capitale economica con il capoluogo del Cross River State. L’assegnazione di questo appalto è nell’occhio del ciclone per mancanza di trasparenza, inoltre per la realizzazione dell’opera, sono già stati sfrattati oltre mille residenti.

Per quanto riguarda la sicurezza, la situazione resta drammatica. Nel nord del Paese i rapimenti in scuole e villaggi per riscuotere riscatti sono all’ordine del giorno.

Giovedì scorso un gruppo di uomini armati ha ucciso almeno 6 civili e 5 soldati in un attacco a sorpresa nello Stato di Abia, nel sud-est del Paese. Finora l’attentato non è stato rivendicato da nessun movimento, ma le autorità puntano il dito su miliziani di IPOB (acronimo per Indigenous People of Biafra, gruppo separatista nazionalista della Nigeria che mira a ripristinare la Repubblica del Biafra), attivo nella zona.

Pochi giorni fa centinaia di persone sono fuggite dai loro villaggi nel Niger State. Alcuni testimoni hanno confermato che ne sono state brutalmente ammazzate almeno dieci, mentre oltre 100 risultano disperse, rapite dagli aggressori. Anche se non ci sono prove evidenti, si suppone che una fazione di Boko Haram agisca insieme alle bande di rapitori nell’area.

In un suo post su X del 26 maggio, Amnesty International ha chiesto alle autorità nigeriane di porre fine a questa ondata di rapimenti e di consegnare i presunti responsabili alla giustizia. I frequenti sequestri di massa e le uccisioni sono una chiara prova del fallimento delle autorità nel proteggere la popolazione.

L’Italia ha inserito la Nigeria tra i Paesi di origine sicuri, abbattendo così la tutela per i richiedenti asilo che arrivano dal Paese africano. Per il nostro governo è “senza pericoli” per i nigeriani che vengono rimpatriati, ma non per gli italiani che vi si recano. Le raccomandazioni del sito “Viaggiare Sicuri” della Farnesina non sono infatti molto confortanti.

Cornelia I. Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
X: @cotoelgyes
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NIGERIA: altri articoli li potete leggere qui

Boko Haram e bande di gruppi armati scatenati in Nigeria: in una settimana tre sequestri di massa

Human Rights Watch fuori dal Ruanda

Speciale per Africa ExPress
Federica Iezzi
30 maggio 2024

Il governo rwandese ha negato l’ingresso nel Paese a Clementine de Montjoye, ricercatrice di Human Rights Watch. E’ il quarto caso, dopo episodi simili accaduti nel 2008, 2010 e 2018.

Human Rights Watch “Join us or die – Rwanda’s extraterritorial repression”

De Montjoye, cittadina franco-britannica, all’inizio del mese aveva informato il governo ruandese del suo piano di lavoro e aveva inviato richieste di incontro al ministero della Giustizia, interlocutore dell’organizzazione non governativa in seno al governo ruandese, senza ricevere alcuna risposta.

Il divieto d’ingresso fa seguito alla pubblicazione di un recente rapporto di Human Rights Watch, “Join us or die – Rwanda’s extraterritorial repression”, che documenta il sistematico attacco del governo del Ruanda contro critici e dissidenti, oltre i suoi confini.

È preoccupante ma non sorprendente vedere che poche settimane prima che il Ministero degli Interni inglese invii i primi richiedenti asilo in Ruanda, si assista ad una profonda ostilità sul controllo e monitoraggio indipendente dei diritti umani nel Paese.

Per promuovere i suoi successi internazionali, il Ruanda si presenta come un marchio sinonimo di modernità e successo. Ma allo stesso tempo persegue una politica aggressiva contro i dissidenti del regime.

Paul Kagame, presidente del Ruanda dal 2000, con il suo partito di governo, il Front Patriotique Rwandais, ha deciso di ricostruire questo Paese secondo le sue misure, al cospetto di una folla in adorazione. Semplicità amministrative nelle formalità, lotta contro la corruzione, attenzione maniacale a esenzioni fiscali, sicurezza giuridica e sicurezza fisica. Nessun rivale nella regione africana.

E riguardo le operazioni militari del Ruanda nella Repubblica Democratica del Congo e la repressione degli oppositori?

E’ evidente il grande divario tra la scintillante vetrina mostrata all’Occidente dal Ruanda e la realtà politica in cui la libertà di espressione è calpestata. La diaspora ruandese e i cittadini ruandesi sanno bene cosa può succedere loro se criticano il governo.

Campagne di trolling (violenza verbale inappropriata e provocatoria), attacchi spyware (raccolta e utilizzo spietato di informazioni sensibili), fino a intimidazioni fisiche. Queste operazioni, volte a nascondere gli abusi e mettere a tacere i critici, sono incoraggiate da un’ampia gamma di società di pubbliche relazioni, con reti che arrivano fino all’Europa e agli USA.

Dal 2017 continua una violenta campagna di esecuzioni extragiudiziali, rapimenti e intimidazioni, nonché di arresti arbitrari, detenzioni illegali, torture e sparizioni forzate sul suolo ruandese di attivisti politici, dissidenti e loro familiari. Inoltre il governo di Kigali abusa sistematicamente dei meccanismi giudiziari internazionali, nella sua determinazione a riportare in Ruanda oppositori reali o presunti.

L’incapacità della comunità internazionale di riconoscere la gravità e la portata delle violazioni dei diritti umani da parte del governo di Kagame, sia a livello nazionale che all’estero, lascia molti ruandesi senza un rifugio protetto a cui rivolgersi.

Federica Iezzi
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Altri articoli sul Ruanda li trovate qui

Giustizia sotto il fuoco: Sudafrica e Israele si scontrano di fronte alla corte internazionale di giustizia dell’Aia

Dalla Nostra Corrispondente
Elena Gazzano
Città del Capo, 29 maggio 2024

Nella fredda e austera aula della Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia, il mondo ha assistito a una battaglia combattuta non con armi, ma con parole, accuse e rabbia. La Repubblica del Sudafrica, con determinazione feroce, ha portato Israele davanti alla giustizia internazionale. Il palcoscenico? Le accuse di genocidio nella martoriata Striscia di Gaza. Si tratta di un’accusa pesante come una condanna a morte, un’accusa che grida vendetta e reclama giustizia.

Aja, Corte  Internazionale di Giustizia

L’accusa del Sudafrica

Il Sudafrica, rappresentato dall’ambasciatore di Pretoria accredito nei Paesi Bassi, Vusimuzi Madnsel, ha avanzato la richiesta di urgenti misure provvisorie per fermare ciò che viene descritto come una campagna di sterminio orrenda. Secondo le loro testimonianze, l’offensiva militare israeliana non è solo una guerra, ma una serie di atti deliberati volti a cancellare un popolo intero. E’ una scena del crimine.

Vusimuzi Madnsel, ambasciatore del Sudafrica nei Paesi Bassi

Il Sudafrica si è presentato con prove documentate e immagini sconvolgenti: sfollamenti di massa, distruzione di ospedali, abitazioni ridotte in macerie. Tutto questo, a suo giudizio, costituisce il macabro mosaico di un genocidio.

Inoltre le dichiarazioni di alti funzionari dello Stato ebraico, riportate in dettaglio, sono state usate per dimostrare l’intento genocida. “Documenti e video di parlamentari e leader militari israeliani mostrano incitamenti alla distruzione del popolo palestinese, con la società civile israeliana che supporta apertamente queste azioni. Israele continua a mostrare disprezzo per la vita palestinese, operando con impunità”.

Parole che evocano fantasmi del passatoL’esempio terribile del Ruanda risuona, richiamando l’attenzione del mondo su questa crisi.

La difesa di Tel Aviv

Dall’altra parte, Israele risponde con la forza di chi è assai convinto nella propria causa. In una sala gremita di tensione palpabile, i suoi rappresentanti hanno difeso le azioni del loro Paese come necessarie e giustificate in una lotta senza quartiere contro Hamas, descritta come un’organizzazione terroristica che non risparmia nemmeno i propri civili per raggiungere i suoi scopi. Ogni bomba, ogni raid, dicono, è una risposta disperata per proteggere i loro cittadini. “Non abbiamo scelto questa guerra – affermano – ma la combattiamo per sopravvivere.”

E non mancano di sottolineare i loro sforzi umanitari. Israele descrive un quadro di campi medici allestiti, passaggi terrestri aperti per il transito degli aiuti, e la fornitura costante di beni di prima necessità. “Siamo un popolo in guerra – sostengono – ma non abbiamo mai dimenticato la nostra umanità.” Le loro parole sono calcolate precise, volte a controbilanciare le accuse di genocidio con un’immagine di soldati con una mano sul grilletto e l’altra che porge aiuti.

La decisione della Corte

Le parole dei giudici arrivano pesanti. Hanno riconosciuto che la situazione nella Striscia di Gaza è peggiorata drasticamente. La distruzione è ovunque. La sofferenza, sottolineano, è ovunque. Ogni edificio crollato, ogni vita spezzata, ogni lacrima versata parla di una crisi che il mondo non può più ignorare.

In una decisione cruciale, la Corte Internazionale di Giustizia ha riaffermato le misure provvisorie precedentemente indicate e ne ha introdotte ulteriori per interrompere la crisi umanitaria. Alcune includono la sospensione dell’offensiva militare israeliana nel Governatorato di Rafah, la garanzia di assistenza umanitaria e la protezione dell’accesso ai corpi investigativi delle Nazioni Unite nella Striscia di Gaza. E’ stato chiesto a Israele di presentare un rapporto sulle misure adottate per conformarsi all’ordine della Corte entro un mese. I giudici hanno sottolineato che queste misure provvisorie hanno effetto giuridico vincolante e hanno evidenziato l’importanza di un’azione immediata per affrontare la crisi umanitaria e prevenire ulteriori violazioni del diritto internazionale.

La Ricerca della Verità

La verità è una bestia difficile da domare. In questo conflitto, è sepolta sotto strati di propaganda, dolore e morte. Ma non si può smettere di cercarla. Le testimonianze di entrambe le parti dipingono un quadro complesso e doloroso. Il Sudafrica accusa, Israele si difende, e nel mezzo ci sono i civili, intrappolati in un incubo senza fine. Occorre scavare oltre la superficie,  ascoltare le storie di chi è intrappolato tra la vita e la morte, e portare alla luce la cruda realtà.

Immagini scioccanti

Israele e Sudafrica si affrontano in una guerra di testimonianze e immagini scioccanti. Entrambi sono determinati a far prevalere la propria verità. Ma al centro di questo scontro titanico, che si scorda di dimenticare chi soffre davvero: i civili intrappolati in un inferno quotidiano.

La decisione della Corte Internazionale di Giustizia non porrà fine alla sofferenza, ma rappresenta un passo cruciale verso la responsabilizzazione e la protezione dei diritti umani. 

In questo crocevia di dolore e speranza, la Corte Internazionale di Giustizia è chiamata, sotto gli occhi del mondo che guarda, a prendere decisioni che riecheggeranno nei libri di storia.

Elena Gazzano
elenagazzano6@gmail.com
https://www.instagram.com/elena.gazzano/
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