Grazie a Simona Ali Seminara e Futzum Hurui, Africa Express e Senza Bavaglio hanno realizzato una serie di tre podcast per spiegare il perché delle nostre e testate online: Africa Express si occupa dei problemi di un continente dimenticato e dei problemi del Medio Oriente, più che mai importanti in questo momento. Senza Bavaglio invece affronta i problemi dell’informazione, dilaniata da disinformazione, propaganda e interessi diversi da quelli dei lettori, degli spettatori e degli ascoltatori e insidiata dalla concorrenza, non sempre onesta e corretta, dei social.
I mass media, da noi come in Africa e in Medio Oriente, devono essere riportati alla loro funzione originaria fatta di prestigio, autorevolezza e controllo delle fonti. L’importanza dell’informazione è fondamentale in una democrazia e non deve subire i condizionamenti della politica e dell’economia. Noi crediamo che come a suo tempo la Rivoluzione Francese ha sancito la separazione tra i poteri legislativo, esecutivo e giudiziario (principio ormai accettato dalle società più moderne), i nuovi traguardi della democrazia devono separare il potere politico, quello economico e quello dei media. Siamo visionari, lo sappiamo, ma i giornalisti dovrebbero sempre guardare avanti e non indietro.
Quello che noi cerchiamo di fare è ricondurre l’informazione sui binari della correttezza, della lealtà e dell’onestà, anche intellettuale. Non facendo sconti a nessuno ma guardando tutti negli occhi, a testa alta e con la schiena dritta. Per noi non solo slogan. Non vi nascondiamo che spesso quando abbiamo incontrato in Africa, satrapi, cleptocrati, leader religiosi, capi guerriglieri, miliziani, alti ufficiali di eserciti e polizia, insomma delinquenti e assassini, o nel nostro mondo, approfittatori, avvoltoi sciacalli, strozzini, mentitori seriali, opportunisti speculatori, trafficanti, gente che si è arricchita al limite della legalità, ci siamo chiesti: “Ma ne vale la pena? Non sarebbe meglio insegnare ai nostri figli a comportarsi da furbetti, sfruttando le situazioni a nostro vantaggio, abbandonando gli altri al loro destino?”
Abbiamo sempre risposto di no, il sentimento della solidarietà ci ha sempre imposto di lottare per migliorare le condizioni dei più deboli. Lo facciamo in Africa, in Medio Oriente, ma anche nel nostro mondo.
Dal Nostro Corrispondente Elena Gazzano
Città del Capo, 16 giugno 2024
Cyril Ramaphosa è stato rieletto presidente del Sudafrica, consolidando la sua leadership in un momento di grandi cambiamenti per il Paese. La sua conferma, avvenuta due settimane dopo il voto nazionale, è stata ratificata durante la prima seduta della 7ª Assemblea Nazionale al Cape Town International Convention Centre (CTICC), anche se era orami una conclusione scontata.
Nel suo discorso di accettazione, Ramaphosa ha cercato di rassicurare i membri del parlamento e la nazione: “Questo è l’inizio di una nuova era. Il Sudafrica è cambiato profondamente dai risultati delle elezioni del 2024, e le decisioni che abbiamo preso sono nel miglior interesse del nostro Paese. Lavoreremo insieme per un Sudafrica più giusto e prospero.” Ma le sue parole, per quanto benintenzionate, hanno sollevano una questione molto critica: queste promesse saranno mantenute o si dissolveranno come fumo nel vento politico sudafricano? Le divisioni profonde, le accuse di corruzione, e le alleanze instabili sono dei giganti che minacciano di paralizzare il governo prima ancora che possa iniziare a lavorare.
Finalmente, due settimane dopo le elezioni nazionali, il Sudafrica ha un nuovo governo. La settima Assemblea nazionale ha tenuto la sua prima seduta al CTICC, dove i membri del parlamento hanno prestato giuramento e tenuto discorsi: a tratti, sembravano più episodi di un dramma politico che momenti di vera leadership.
Non si è potuto non notare l’assenza del partito MK (Mkhonto we Sizwe), la cui sedia vuota riecheggiava il malcontento e le accuse di frode elettorale. Un gesto simbolico, certo, ma che lascia poco spazio all’immaginazione sulla serietà di questo partito.
I due raggruppamenti politici, African National Congress (ANC) e Democratic Alliance (DA) hanno infine siglato un accordo per formare un governo, un’alleanza che potrebbe sembrare un matrimonio di convenienza o un patto del diavolo. John Steenhuisen, leader di DA, e Fikile Mbalula, segretario generale di ANC, hanno confermato l’accordo con una calma che a malapena nascondeva l’urgenza della situazione.
Questi eventi hanno segnato un’importante svolta: il Sudafrica ha ora un governo di coalizione, non di maggioranze. L’epoca dei partiti dominanti sembra essere giunta al termine.
Il Palcoscenico del CTICC: Un Nuovo Capitolo o un Vecchio Film?
I discorsi di congratulazioni si sono rapidamente trasformati in piattaforme di frecciatine politiche e dichiarazioni programmate. Il leader della DA, John Steenhuisen, visibilmente soddisfatto, ha dichiarato: “Oggi è un giorno storico per il nostro Paese e penso che sia l’inizio di un nuovo capitolo. Un nuovo capitolo di costruzione, cooperazione, e di mettere il nostro Paese e i suoi interessi al primo posto.” Eppure, queste parole suonavano vuote per molti, viste le alleanze precarie e le promesse spesso infrante del passato. Difficile non vedere in queste affermazioni un certo grado di ipocrisia, considerato che proprio la DA ha spesso accusato l’ANC di essere incapace di governare efficacemente.
Dall’altra parte, Julius Malema, leader di’EFF (Economic Freedom Fighters), ha mantenuto il suo solito tono provocatorio: “Abbiamo contestato perché volevamo dimostrare al Sudafrica che non siamo d’accordo con questa unione che consolida il potere monopolistico bianco sull’economia e sui mezzi di produzione in Sudafrica. Questo matrimonio cerca di minare il cambiamento delle relazioni di proprietà nel paese. La storia vi giudicherà e lo farà duramente.” Le sue parole incendiarie, hanno messo in luce le profonde divisioni che ancora segnano il tessuto sociale e politico del Sudafrica. Malema ha sempre giocato il ruolo di guastafeste, ma in questa occasione, le sue critiche hanno risuonato con una verità scomoda per molti.
Nel frattempo, l’IFP, con un approccio più moderato, ha espresso supporto, ma con riserve. “L’IFP è pronta a servire nel governo di unità nazionale, sapendo che il Sudafrica è completamente cambiato dai risultati delle elezioni del 2024. Entriamo nella GNU con mente aperta e occhi ancora più aperti. Sosterremo ogni decisione giusta del Presidente, ma dove dobbiamo dissentire, lo faremo e avanzeremo valide ragioni.” Parole che riflettono un cauto ottimismo ma anche un velato scetticismo.
Il parlamento, riunito nel Cape Town International Convention Centre, ha visto discorsi che oscillavano tra l’entusiasmo della cooperazione e la critica amara ad “alleanze forzate”.
Il segretario generale dell’ANC, Fikile Mbalula, ha annunciato che “la maggior parte dei partiti è stato concorde sulla creazione di un governo di unità nazionale. Questo includerà la cooperazione nei rami esecutivo e legislativo.” Tuttavia, questo primo incontro dell’Assemblea Nazionale ha messo in evidenza la fragile alleanza che tiene insieme il nuovo governo del Sudafrica. Con una scena politica così frammentata, le vere intenzioni dietro le mosse di ogni partito rimangono avvolte nel mistero. La cooperazione sarà davvero possibile, o ci troviamo di fronte a un governo destinato a crollare sotto il peso delle proprie contraddizioni?
La democrazia sudafricana, giovane e fragile, è ora messa alla prova come mai prima d’ora. La capacità dei suoi leader di navigare attraverso questo periodo tumultuoso determinerà non solo il futuro politico del paese, ma anche il suo tessuto sociale ed economico. Questo momento potrebbe essere un’opportunità di crescita e maturazione, o il preludio di un declino inarrestabile.
Il Sudafrica, una nazione di incredibili contrasti, si trova di fronte a unafasecruciale della sua esistenza. Le promesse di unità e progresso sono allettanti, ma la realtà delle divisioni etniche, economiche e politiche rimane un fardello pesante. Saranno le alleanze politiche in grado di sopravvivere alle pressioni interne ed esterne? E le promesse di cambiamento, si tradurranno in azioni concrete? Oppure dovremmo prepararci ad un’ era di conflitti e delusioni?
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Speciale per Africa ExPress Sandro Pintus 16 giugno 2024
Parte dei 18 milioni di euro di finanziamenti dell’Unione Europea stanziati per la conservazione della natura in Tanzania sono stati cancellati.
I finanziamenti al solo Kenya
La Commissione europea ha deciso di tagliare i fondi al Paese dell’Africa orientale perché non rispetta i diritti umani come previsto dal progetto “NaturAfrica”. Tutto l’importo stanziato verrà devoluto al solo Kenya, anch’esso parte del progetto.
In un comunicato, Survival International – organizzazione che difende i diritti dei popoli indigeni – accusa il governo tanzaniano di violenze contro la popolazione Masai.
“I Masai sono vittime di violenti sfratti. Vengono espulsi dalle loro terre ancestrali per far spazio al turismo della conservazione e alla caccia ai trofei”, accusa Survival. “L’intero modello di conservazione in atto nell’Africa orientale si basa sul furto brutale delle terre indigene – spiega Caroline Pearce, Direttrice generale di Survival International -. Creano aree protette come parchi nazionali e zone di caccia ai trofei con la complicità di WWF e Frankfurt Zoological Society (FZS”).
Gli sfratti dalle terre ancestrali e la distruzione delle case e delle cose continuano ad esserci nonostante, secondo ripetute sentenze giudiziarie, siano illegali. Violenze non condannate nemmeno da FZS e WWF che vantano una lunga storia di collaborazione con il governo tanzaniano nel campo della “conservazione. Invece, alcuni di questi sfratti, serviranno alla creazione di nuove aree di caccia ai trofei per la famiglia reale di Dubai.
Negli ultimi decenni la popolazione Masai è raddoppiata: oggi o membri di questa popolazione di origine nilotica, sono 200 mila. Di questi, circa 70 mila sono in pericolo di sfratto. Espulsi dal Parco del Serengeti, sono finiti nell’area di Ngorongoro e ora vengono espulsi anche da lì.
Parole preoccupanti dalla presidente tanzaniana
Ora i Masai sono preoccupati anche dalle parole pronunciate dalla presidente Samia Suluhu Hassan. Durante uno dei primi discorsi del suo insediamento, nel 2021, ha dichiarato: ”…Avevamo concordato che le persone e la fauna selvatica potessero convivere, ma ora il numero delle persone sta superando quello della fauna selvatica”.
Parole che hanno allarmato il popolo Masai perché, dagli sfratti forzati di cui sono vittime, credono che si stesse riferendo a loro.
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Dalla Nostra Corrispondente Elena Gazzano
Città del Capo, 14 giugno 2024
A Gaza, dove il crepitio delle esplosioni e il ronzio continuo dei droni scandiscono il ritmo di ogni giorno, una giovane donna offre una resistenza silenziosa attraverso la sua chitarra.
Rahaf Nasser, una studentessa di medicina costretta ad abbandonare i suoi studi a causa della devastazione, usa la musica per cercare di preservare un senso di umanità e normalità per i bambini che vivono in un contesto di guerra continua.
Rahaf ha descritto con parole semplici ma potenti il dramma che la sua famiglia e i suoi vicini sono stati costretti a vivere. “Ho perso tutti i miei ricordi, tutti i miei giocattoli d’infanzia, la mia casa, quindi sono venuta qui senza nulla. Non abbiamo potuto portare niente con noi. Ho lasciato lì tutti i miei strumenti musicali, così ho preso in prestito la chitarra di un amico di mio padre,” ha spiegato, rivelando il trauma della perdita e della separazione che accompagna l’esilio forzato.
https://youtu.be/H0u_FjoJkR4
https://www.youtube.com/watch?v=H0u_FjoJkR4
La musica di Rahaf non è solo un rifugio personale, ma un mezzo per comunicare al mondo il desiderio di vivere dei palestinesi. “Uso la musica per trasmettere il mio messaggio e la mia voce al mondo intero. I nostri bambini amano giocare come i bambini fuori da questa terra. Certe persone pensano che amiamo morire, che amiamo la situazione in cui ci troviamo, ma è sbagliato. I nostri bambini amano vivere, amano essere vivi, giocare tra loro. Qui non possiamo fare nulla di tutto ciò.”
È disgustoso e profondamente tragico che giovani anime come Rahaf siano arrivate a pensare che il mondo li consideri così disumanizzati da supporre che essi abbiano abbracciato la loro condizione di sofferenza e morte. La protesta di Rahaf sfida una percezione ripugnante, invece di riconoscere questi giovani individui come un riflesso del nostro comune desiderio di vita, siamo colpevoli di averli ridotti a una mera astrazione che subisce passivamente la propria distruzione.
La testimonianza di questa giovane mette in luce una realtà straziante: il desiderio di normalità e di pace è l’unico desiderio in questo luogo devastato. La sua decisione di abbracciare la musica come strumento di resistenza e comunicazione riflette una lunga storia di come l’arte possa servire come mezzo di coesione sociale e di protesta. La chitarra di Rahafa cerca di creare una connessione umana e di solidarietà tra le rovine.
L’utilizzo della musica per scopi umanitari e politici non è nuovo, ma l’approccio di Rahaf offre un esempio particolarmente rilevante di come la cultura può resistere alla disumanizzazione della guerra. Mentre la musica è stata strumentalizzata in passato per fomentare odio o come arma psicologica, come nel caso delle fanfare naziste o nelle pratiche di tortura a Guantanamo Bay, l’uso che ne fa Rahaf è fondamentalmente diverso.
Le sue note non cercano di manipolare, ma di guarire, non di dividere, ma di unire.
Nel contesto dell’attuale conflitto, le melodie di Rahaf si ergono come una denuncia silenziosa dell’orrore quotidiano che i civili di Gaza devono affrontare. È un richiamo a riconoscere l’umanità dei palestinesi al di là delle narrazioni dominanti che spesso li riducono a semplici vittime o aggressori. La giovane utilizza la sua chitarra per offrire una narrazione alternativa, che celebra la vita e la resilienza nonostante l’oppressione.
Un paragone illuminante può essere tracciato con la lotta contro l’apartheid in Sudafrica. Durante quel periodo, la musica e le canzoni di protesta giocarono un ruolo cruciale nel mobilitare le masse e nel tenere viva la speranza di un cambiamento. Canzoni come “ASIM’BONANGA” divennero simboli di resistenza e di unità nazionale. La musica, come nel caso di Rahaf, servì a mantenere la coesione sociale e a promuovere un’identità collettiva di lotta e resilienza contro un nemico comune.
Nella storia di Rahaf e della sua chitarra, ci viene ricordata la resilienza dello spirito umano anche di fronte a un’intensa disperazione. La sua musica non solo offre conforto ai bambini di Gaza, ma rappresenta anche un toccante rimprovero alle condizioni disumane perpetuate da decenni di conflitto. Mentre le potenze occidentali rimangono compiacenti o attivamente complici nelle sofferenze inflitte ai palestinesi, la chitarra di Rahaf risuona come un’accusa vibrante contro l’indifferenza e l’ipocrisia internazionale, mettendo a nudo l’urgente necessità di una giustizia reale che le parole politiche finora non sono riuscite a garantire.
“Cerchiamo di resistere, ma veniamo spazzati via.”
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Dal Nostro Corrispondente Sportivo Costantino Muscau
13 giugno 2024
Figli, fratelli e sorelle d’Italia? Sì, ma (solo) quando torna comodo. Il “nero”, o lo “straniero”, va di moda, è amato ed esaltato (solo) quando porta lustro all’azzurro. Un azzurro spesso più duro da conquistare del K2. La conferma si è avuta ai XXVI campionati Europei di Atletica Leggera conclusisi la notte di mercoledì 12 giugno a Roma.
Gli ori di Marcell Jacobs (100 metri), di Yemaneberhan Crippa (mezza maratona), di Nadia Battocletti (5 e 10 mila metri), gli argenti di Ali Chituru (100 metri) e Larissa Iachipino (salto in lungo) e i bronzi di Catalin Tecuceanu (800 metri) e Zaynab Dosso (100 metri) e le ottime prestazioni, seppure non premiate da medaglie, di altri atleti quali Ayomide Folorunso (400 ostacoli), Ahmed Ouhda (10 mila metri), Chiebuka Emmanuel Ihemeje (salto triplo), Osama Zoghlami, (3000 siepi); Eyob Faniel (mezza maratona); Dariya Derkach (triplo), Daria Kaddari (200 metri), Eyob Faniel e Sofiia Yaremchuk (mezza maratona) sono il frutto di una meravigliosa “sostituzione etnica”, (come direbbe un certo Lollobrigida).
Medaglie figlie di sangue misto o …addirittura straniero! Dalla Giamaica all’Etiopia, dal Marocco alla Tunisia, dal Texas alla Costa d’Avorio, dall’Ucraina alla Nigeria: i 116 atleti che la Federazione Italiana di Atletica Leggera aveva selezionato per la manifestazione romana hanno formato veramente una nazionale multietnica.
Tra gli ultimi a scendere in pista, nell’ultima giornata, sono stati la figlia d’arte Larissa Iapichino, 21 anni, toscana con antenati giamaicani e due ventisettenni dell’Esercito italiano, “un vicentino”, (1500 metri) e un “bergamasco” della Val Seriana, (10mila metri). Il primo si chiama Ossama Meslek, è laureato in Ingegneria meccanica ed è nato a Vicenza da genitori marocchini. Il secondo fa di nome Ahmed Ouhda, è nato ad Ait Ali Ouhassou (Marocco meridionale). Nel 2004 è arrivato a Gromo (Bergamo, alta Val Seriana): qui lavorava il papà. Anche Emmanuel Ihemeje, 26 anni, figlio di nigeriani, nato a Carrara, è di casa nella Bergamasca.
La sera prima, martedì, aveva calcato le scene dell’Olimpico Nadia Battocletti, 24 anni, trentina volante, bianca che più bianca non si può. Il papà Giuliano è della Val di Non, ma spesso ci scordiamo della mamma, Jawara Saddaougui, marocchina.
Fratelli e sorelle d’Italia, ora. Ma quale Italia? Ali Armah Chituru, nero che più nero non si può, è nato a Como da madre nigeriana, papà ghanese, adottato da una famiglia comasca. È il nuovo colosso (in tutti i sensi, alto 1.98 pesa quasi 100 chili) della velocità. Con il tempo di 10”05. Ali è il quarto italiano più veloce di sempre. A Roma è stato battuto per un soffio dal navigato campione Marcel Jacobs (padre texano). Ali all’istituto tecnico lariano ha studiato amministrazione, finanza e marketing. È perfino di fede cristiana (!), scrivono le biografie ufficiali e dal 2020 fa parte delle Fiamme Gialle. Insomma, un italiano doc, si direbbe. La cittadinanza è giunta però solo a 18 anni, il che gli ha impedito il tesseramento per la Nazionale e la partecipazione a diverse competizioni.
Secondo i dati Cinformi (Centro informativo per l’Immigrazione), i figli nati da entrambi genitori stranieri sono 53.079 (26.815 in meno rispetto al 2012) e costituiscono il 13,5 per cento del totale dei nati nel 2023. Quelli nati da coppie miste sono passati dai 28.111 del 2012 ai 29.137 del 2022. Quale meraviglia, allora, che lo sport sia sempre più lo specchio di questa realtà? Eppure, c’è chi sproloquia, ad esempio parlando della ventiseienne pallavolista Paola Egonu: “Italiana di cittadinanza, ma è evidente che i suoi tratti somatici non rappresentano l’italianità”.
Che dire allora dei gemelli Osama e Ala Zoghlami, classe 1994? Il primo è militare dell’Aeronautica, il secondo delle Fiamme Gialle. Osama lunedì notte nella finale dei 3 mila siepi ha tentato un’impresa folle: vincere la durissima gara (era arrivato terzo nei precedenti europei di Monaco) scappando dopo 600 metri e correndo da solo per più di un km! La storia dei gemelli aiuta a capire quanto sia difficile ottenere la cittadinanza per chi, pur sentendosi “italiano al cento per cento”, abbia genitori stranieri.
Osama e Ala, originari di Tunisi, all’età di 2 anni, sono venuti con la famiglia a Valderice (Trapani). Qui Osama, a 9 anni, ha cominciato a correre per scherzo fino a quando non lo ha notato Enrico Angelo, un insegnante di educazione fisica. Ala, invece, per il mezzofondo ha rinunciato alla carriera da calciatore. Nel 2012 sono andati a Palermo per allenarsi a tempo pieno, quando stavano portando a termine l’Istituto tecnico per attività sociali. Sono cresciuti senza poter vestire la maglia azzurra nelle categorie giovanili, fino alla fatidica maggiore età.
Nel 2013, (finalmente!) è arrivata la cittadinanza. I due fratelli hanno confessato: “Ci sentivamo italiani fin da bambini, ci siamo integrati benissimo sin dalle elementari e l’aver praticato uno sport ha facilitato questo percorso”.
Nella finale dei 3 mila siepi, quella sera di lunedì, c’era anche Yassin Bouhi, finanziere pure lui e pure lui italiano di seconda generazione. Yassin è nato infatti a Reggio Emilia il 24 novembre 1996, da genitori marocchini. Yassin ha cominciato a correre a 13 anni, si è diplomato all’istituto tecnico (indirizzo relazioni internazionali) e si è confermato un mezzofondista di ottimo livello, oltre che musicista con il nome d’arte “Buio”.
Per non parlare dell’italiana più veloce di sempre, Zaynab Dosso, e della sua compagna velocista Dalia Kaddari. Zaynab è il fulmine nazionale con 11’02” sui 100 metri; ha visto la luce a Man (Costa d’Avorio) il 12 settembre 1999 e ha scoperto l’Italia nel 2009. Quando i genitori sono partiti per l’Italia, Zaynab aveva tre anni ed era stata affidata ai nonni. Dopo 7 anni trascorsi a Rubiera (Reggio Emilia), è divenuta “tricolore”.
Dalia Kaddari italo-sarda-magrebina è un’altra valida sprinter. Nata 23 anni fa a Cagliari da mamma isolana e papà marocchino (Hassan, noto per tutti Sandro a Quartu Sant’Elena dove vive) si è fatta notare anche fuori pista: è stata Miss Quartu nel 2016. Purtroppo per guai fisici, a Roma, entrambe si sono dovute fermare in semifinale.
C’è poi chi ha tenacemente perseguito la maglia azzurra della nazionale. E’ Darya Derkack, 31 anni, saltatrice in lungo e nel triplo. Nata nel 1993 in Ucraina, dal 2002 ha la residenza con la famiglia a Pagani. A causa delle norme in vigore, Dariya non ha potuto gareggiare con la maglia azzurra fino al 2013. Nel frattempo, aveva rifiutato importanti richieste di tesseramento dal suo Paese, dal Qatar e dalla Spagna.
“Voglio indossare la maglia azzurra, gli altri colori non mi interessano”, ripeteva. E alla fine ce l’ha fatta.
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Ieri alle 05.30, appena tornato a casa dalla moschea dopo la prima preghiera del mattino, è stato arrestato l’ottantenne El Hadj Mousbila Sankara, zio di Thomas Sankara, ex presidente del Burkina Faso, assassinato nel 1987: il visionario che aveva sognato di affrancare il suo Paese dalla dipendenza del neocolonialismo.
Gli agenti dell’ANR (Agence Nationale de Renseignement), uomini dell’intelligence burkinabé, si sono presentati a casa dell’anziano signore, chiedendogli di seguirlo. I parenti, attoniti e increduli, hanno giusto potuto consegnare i medicinali al congiunto, perché potesse continuare a curarsi.
Prima di portare via il vecchietto, gli agenti hanno rassicurato i parenti che sarebbe tornato non più tardi alle 2 del pomeriggio, ma dal momento del suo arresto senza accuse, i congiunti non hanno più avuto sue notizie.
Il motivo del suo arresto – senza accuse ufficiali – sembra evidente. A metà maggio El Hadj Mousbila Sankara, ex sindacalista, aveva scritto una lettera aperta al presidente di fatto della giunta militare di transizione, Ibrahim Traoré, criticando la gestione del Paese e invitandolo a risolvere alcuni dei problemi più impellenti. La critica investe il mancato rispetto dei diritti fondamentali dei lavoratori e la repressione delle libertà di pensiero e di espressione.
Si sa, i golpisti non amano le critiche, nemmeno se queste provengono da un anziano saggio, molto attivo durante la rivoluzione sankarista.
Dalla fine di maggio non si hanno più notizie di Arouna Louré, un medico anestesista, nonché attivista del movimento Assemblement pour le Salut National (RSN), un gruppo di intellettuali, giornalisti e militanti politici, molto critici nei confronti dell’attuale governo. Come riporta RFI, il medico sarebbe stato avvicinato da alcuni uomini in abiti civili mentre si stava spostando da un ospedale a un altro.
Nel settembre 2023, Louré è stato uno dei primi ad essere arruolato forzatamente nell’esercito per tre mesi, dopo aver espresso pubblicamente le sue opinioni sull’attuale regime.
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Nelle ultime settimane, gli attacchi indiscriminati e la devastante offensiva contro i rifugiati a Rafah, l’annuncio del riconoscimento dello Stato palestinese da parte di Spagna, Irlanda, Norvegia e Slovenia, poi la nuova proposta di cessate il fuoco avanzata da Washington, hanno ulteriormente aumentato la pressione su Israele, da parte delle capitali ritenute “amiche”, minacciando un isolamento diplomatico senza precedenti.
Joe Biden sembra aver capito che Netanyahu ha una visione dell’era post-Hamas molto diversa da quella immaginata dal Dipartimento di Stato.
Il “piano Biden” prevedeva la partecipazione all’amministrazione della Striscia di Gaza di un’Autorità Palestinese rinnovata e rafforzata e la ripresa di un processo negoziale tra Israele e Palestina. La posizione di Israele, al contrario, appare quanto mai chiara. Rifiuta qualsiasi ripresa dei negoziati con l’Autorità Palestinese e appoggia i suoi alleati fondamentalisti messianici, che desiderano apertamente rioccupare e ricolonizzare Gaza.
Il Primo Ministro israeliano, oggi, sembra contare solo su un’ipotetica vittoria – a novembre negli Stati Uniti – del suo sostenitore Donald Trump. Il che esporrebbe Israele e Palestina a una guerra di logoramento senza fine.
Sempre più forte risuona il ritornello – dei fautori dello scontro di civiltà – che promuove Israele come un bastione avanzato dell’Europa di fronte al mondo musulmano, una sorta di cittadella accampata in prima linea.
Ed è proprio lì che sprofondano le radici cristiane dell’antisemitismo. La persecuzione storica degli ebrei ha accompagnato l’affermazione di un’identità cristiana egemonica e omogenea, che ha oppresso l’alterità e ha legittimato il dominio.
Historia magistra vitae, scriveva Cicerone. Invece l’eredità del passato si presenta come un sinistro ribaltamento degli insegnamenti. Alla fine di quasi due millenni di persecuzione europea – di cui l’antigiudaismo cristiano è stato il carburante – gli ebrei, sia in Israele che nella diaspora, diventano lo scudo di una crociata anti-musulmana. Anche se ciò significa negare la pluralità del popolo palestinese.
Lo sappiamo fin dall’inizio. Netanyahu non ha mai smesso di dimostrare che il suo destino personale è più importante di quello del suo Paese. L’obiettivo della guerra non è tanto quello di distruggere Hamas – cosa che gli è stata utile per emarginare l’Autorità Palestinese – né quello di liberare gli ostaggi israeliani, quanto quello di sottrarsi ai procedimenti giudiziari, avviati nei suoi confronti per corruzione, frode e abuso di fiducia, e alle accuse della Corte Internazionale di Giustizia.
La risoluzione della più importante istituzione di giustizia mondiale rimarrà inascoltata finché Washington continuerà a sostenere militarmente Israele. I negoziati diplomatici impantanati sembrano incapaci di mettere a tacere le armi e trasudano invece un sentimento di enorme passività. Dunque, al momento rimane indisturbata la corsa a capofitto di Netanyahu per mantenere il potere.
Anche se Joe Biden, generoso fornitore degli arsenali israeliani, tenta – la campagna elettorale lo obbliga – di rendere Hamas responsabile della paralisi dei negoziati sul cessate il fuoco, non è sfuggito che Itamar Ben Gvir (leader del partito israeliano di estrema destra – Otzma Yehudit) e Bezalel Yoel Smotrich (leader della destra radicale israeliana – Partito Sionista Religioso), i principali alleati di Netanyahu, hanno minacciato di uscire dalla coalizione, cioè provocare la caduta del governo, se il primo ministro accettasse una tregua prima della completa distruzione di Hamas. Ci sono tutte le ragioni, dunque, per credere che Netanyahu abbia deciso di continuare la guerra per ragioni politiche.
Il terrore della guerra a Gaza ci coinvolge tutti. Come mondo, come Paese, come comunità, come individui. Ha deformato il continuum spazio-temporale in cui viviamo. E non opponendoci al disastro in atto, ne diventiamo complici involontari.
Come non sentire il terrore del popolo israeliano ferito già dalla storia con la perdita di centinaia di vite? Come non comprendere il popolo palestinese che rischia di essere cancellato dalle carte geografiche, umiliato per decenni da sottomissione e confinamento? Come non vedere che le responsabilità sono condivise, anche da parte della comunità internazionale, ma che le dimissioni di Benjamin Netanyahu sono una condizione essenziale per evitare l’irreparabile?
Bambini, rifugiati, operatori umanitari, malati: in assenza di un obiettivo di guerra realistico, non ci sono più limiti che trattengano Israele dalla sua spirale discendente. Una storia, una cultura, una memoria stanno scomparendo davanti ai nostri occhi. Quella che era stata annunciata come una guerra contro Hamas è presto diventata una guerra contro un popolo.
Non si arresta la mortale deriva verso il basso dei leader politici, dell’ipocrisia omicida di Hamas, dei crimini di guerra commessi dalle Forze di Difesa Israeliane, della complicità delle potenze occidentali, dell’inazione dei Paesi Arabi e dell’impotenza del Diritto Internazionale Umanitario.
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Tutto il Malawi è in apprensione per il vicepresidente, Saulos Klaus Chilima. L’aereo sul quale viaggiava insieme a altre persone, tra loro anche la moglie Mary, è sparito dai radar questa mattina.
Il gruppo di persone – nove, secondo un comunicato del gabinetto del presidente, Lazarus Chakwera, sarebbe partito con un aereo militare dall’aeroporto della capitale Lilongwe questa mattina poco dopo le 09.00 e era diretto a Mzuzu, nel nord del Paese, dove sarebbe dovuto atterrare attorno alle 10.00.
Lo stringer di Africa Express, raggiunto via whatsapp, ha riferito che il nord del Paese è stato colpito da forte maltempo questa mattina.
Il vicepresidente, la moglie e gli altri passeggeri erano diretti a Mzuzu per partecipare al funerale di Ralph Kasambara, ex ministro della Giustizia e procuratore generale. Nel 2013 era caduto in disgrazia, perché coinvolto in uno scandalo finanziario. Era poi stato poi condannato a diversi anni di galera.
I funerali si sono svolti questa mattina nel villaggio di Chijere, Nkhata Bay. Il ministro dell’Informazione, Moses Kunkuyu, ha riferito ai reporter della BBC che l’aeroporto di Mzuzu sarebbe stato quello più vicino al luogo della cerimonia funebre, al quale il vicepresidente avrebbe dovuto partecipare in rappresentanza del governo.
Nel 2022 Chilima era stato arresto per presunta corruzione. Il mese scorso il Tribunale ha ritirato tutte le accuse, senza fornire motivazione alcuna.
Non appena l’aeroplano è sparito dai radar, sono state attivate le ricerche, interrotte con il calare della sera. Riprenderanno con le prime luci dell’alba domani mattina. Intanto il capo di Stato ha disdetto il suo volo per le Bahamas, previsto per questa sera.
Aggiornamento 11 giugno 2024
Poche ore fa il gabinetto della presidenza ha rilasciato un nuovo comunicato con il tragico epilogo: l’aereo militare è stato ritrovato nella foresta Chikangawa, nel nord del Paese. Tutti gli occupanti sono morti. Non è chiaro se la moglie di Chilima fosse a bordo.
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Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes 10 giugno 2024
Durante una piccola cerimonia nella base 101 a Niamey, venerdì scorso è iniziata ufficialmente la smobilitazione degli americani in Niger. Sabato hanno lasciato il Paese 269 militari su un totale di 946. Insieme al primo contingente, sono state caricate anche svariate tonnellate di materiale su un C-130, un grosso areo da trasporto.
Durante il suo breve intervento di venerdì scorso, Mamane Sani Kiaou, Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, ha dichiarato che saranno garantite la protezione e la sicurezza delle truppe americane. L’accordo tra Washington e Niamey prevede infatti le autorizzazioni di sorvolo e atterraggio, nonché l’organizzazione di convogli terrestri tra le varie postazioni americane in Niger.
Il 16 marzo il governo golpista di Niamey aveva chiesto agli Stati Uniti di ritirare le proprie truppe dal Paese africano. Così Washington ha cominciato a sgombrare il campo, operazione che dovrà essere completata entro il 15 settembre prossimo, secondo un accordo siglato a maggio tra il ministro della Difesa nigerino, Salifou Modi e l’assistente segretario alla Difesa statunitense per le operazioni speciali e i conflitti a bassa intensità (LIC, low intensity conflict), Christopher Maier.
I soldati di Washington che si trovano ancora nell’ex colonia francese, sono dislocati a Oullam, nella regione di Tilabéri, cosiddetta area delle tre frontiere (Niger, Mali, Burkina Faso), dove i terroristi sono molto attivi. Altri sono a Diffa (nell’estremo est del Paese), zona che confina con il bacino del lago Ciad, particolarmente battuta da Boko Haram e i loro cugini di ISWAP (fazione che nel 2016 si è separata dal raggruppamento originale e ha giurato fedeltà allo stato islamico).
La maggior parte degli americani sono però di stanza alla base 201 di Agadez, la cui costruzione è costata più di 100 milioni di dollari. Dista quasi 1000 chilometri dalla capitale ed è stata progettata per l’utilizzo di voli di sorveglianza con e senza equipaggio e altre operazioni. Ma dal golpe militare dello scorso anno, è praticamente inattiva, la maggior parte dei droni, che un tempo monitoravano le attività jihadiste nei Paesi africani instabili, sono stati messi negli hangar.
Le infrastrutture dovrebbero essere restituite alle autorità nigerine, mentre tutte le attrezzature sensibili, cioè le postazioni di lavoro, veicoli, armi e molto ancora, saranno rispedite negli Stati Uniti o utilizzate in altri Paesi dove i militari di Washington sono attualmente operativi.
Per poter rispettare la scadenza del 15 settembre 2024 imposta da Niamey, Washington dovrà affrontare un sfida logistica non indifferente. Nonostante sia stato messo un punto finale alla cooperazione militare, i due Paesi collaboreranno in altri settori. Tra qualche settimana è atteso un nuovo accordo tra l’Agenzia americana per lo Sviluppo (USAID) e il Niger.
A metà aprile, appena un mese dopo aver ufficializzato il benservito agli americani, è arrivato il primo contingente russo in Niger, ufficialmente si tratta di personale militare volto all’addestramento delle truppe nigerine impegnate nella lotta contro i continui attacchi dei terroristi.
Ma i russi non sono i soli a collaborare con le forze armate di Niamey. A settembre si sono insediati i mercenari siriani, al soldo di SADAT International Defense Consultancy, società militare privata turca che ha stretti legami con il regime Recep Tayyip Erdogan. Dunque sono arrivati ben prima dei contractor russi dell’Africa Corps (ex Wagner).
La giunta militare di transizione nigerina nega ovviamente l’impiego di mercenari stranieri, come la maggior parte dei Paesi dove i soldati di ventura sono attivi. La Turchia sta intensificando le sue iniziative con i regimi militari del Sahel, in particolare in Niger, un Paese chiave al confine meridionale della Libia.
La presenza di Ankara in Africa è imponente. Basti pensare che le sue rappresentanze diplomatiche sono presenti in 40 Paesi e la sua compagnia aerea, la Turkish Airlines, copre 58 destinazioni nel continente nero. E non per ultimo l’Agenzia di cooperazione e di sviluppo turca (Tika) è attiva in molti Stati africani anche con lo scopo di promuovere investimenti. Tra questi la vendita dei droni Bayraktar TB2, costruiti dalla Baykar Technologies di Esenyurt (la società è interamente controllata dalla famiglia Bayraktar; il presidente del consiglio d’amministrazione è Selçuk Bayraktar, genero del presidente turco Recep Tayyp Erdogan avendone sposato la figlia Sümeyye, ndr).
E, come riporta Repubblica in un suo articolo di sabato scorso, nel nord del Niger Ankara ha allestito una base di droni da dove partono i Bayraktar TB2, versione a lungo raggio.
Oltre ai vari attori internazionali, attualmente sono ancora presenti solo due contingenti di Paesi europei. Tra questi un centinaio di soldati tedeschi in una base di trasporto aereo, situata nella periferia della capitale. Niamey e Berlino hanno siglato poche settimane fa un accordo che permette alla Germania di continuare a utilizzare tale appoggio logistico.
Anche le truppe italiane, nell’ambito della Missione bilaterale di supporto nella Repubblica del Niger (MISIN) si trovano ancora in territorio nigerino. A fine marzo Giovanni Caravelli, direttore dell’Agenzia Informazioni e Sicurezza Esterna (AISE, cioè lo spionaggio) è stato ricevuto dal presidente de facto del regime di Niamey, Abdourahmane Tchiani. In tale occasione il capo di Stato nigerino aveva elogiato l’operato dei nostri militari nel suo Paese.
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Speciale per Africa ExPress Alessandra Fava 8 giugno 2024
Il governo Netanyahu è disposto a percorrere qualsiasi strada pur di durare in “eterno”. Per restare agguatato al potere fa la guerra. Che sia a Gaza, Cisgiordania, Libano, non importa. L’opinione pubblica è rimasta basita dall’inchiesta del giornale inglese The Guardian a proposito delle pressioni e delle minacce esercitate sulla Corte penale internazionale per evitare che Israele venga accusato di genocidio. La questione ha creato uno scandalo in Israele perché finora la fiducia negli apparati segreti è stata quasi totale. Tra l’altro sono proprio il Mossad (lo spionaggio israeliano) e lo Shin Bet (l’agenzia di intelligence per gli affari interni) ad essere coinvolte negli incontri internazionali delle trattative con Hamas di questi mesi.
Il primo ministro israeliano ha messo infatti in campo l’attuale capo del Mossad, il servizio segreto che di solito interviene per operazioni speciali all’estero, Davide Barnea, per presiedere le trattative per la restituzione con gli ostaggi.
Il suo predecessore Yossi Cohen è stato invece delegato in passato, sempre dall’attuale primo ministro, a fare pressioni sul procuratore generale della Corte penale internazionale, Fatou Bensouda, per evitare che indagasse sulle violenze contro i palestinesi nel 2021. Il giornale Haaretz il 4 giugno ha pubblicato un articolo sull’affaire Barnea accusando Bibi e Yossi di aver agito con metodi talmente indegni che non sarebbero stati utilizzati neppure dalla mafia siciliana.
Titolo: “I trucchi sporchi di Bibi e Yossi poco consoni persino per la mafia”. Sotto la foto di una scena de “Il Padrino”. Secondo la ricostruzione del quotidiano britannico The Guardian, infatti Coen avrebbe avuto diversi incontri segreti con Bensouda in cui le avrebbe consigliato di lasciar perdere il caso per non mettere a rischio la sicurezza della propria famiglia. Il materiale raccolto dalla Bensouda era piuttosto scottante: infatti il successore di Bensouda, Karim Khan, ha chiesto l’arresto del premier israeliano Netanyahu proprio sulla base delle accuse del 2021.
Ma oltre alle minacce in stile mafioso, il governo israeliano si è anche avvalso dal 7 ottobre di una pesante e costosa campagna di disinformazione, come ha scovato un sito israeliano specializzato in finte notizie, finti profili e campagne di disinformazione https://fakereporter.net/pdf/pro-Israeli_influence_network-new_findings-0624.pdf?v=3. La questione è stata ripresa anche dal New York Times in quanto il ministero israeliano degli Affari della diaspora avrebbe stanziato 2 milioni di dollari a una società di comunicazione politica di Tel Aviv che si chiama Stoic per fare della propaganda filo-Israele e filo Bibi, sui social e in rete, campagna partita proprio nell’ottobre scorso. L’operazione è stata piuttosto sofisticata, ha coinvolto milioni di persone sia in Israele che negli Usa e nella diaspora in generale, modificando il sentire e le notizie sulla guerra.
Sono stati creati falsi account per divulgare fake. Sono nati finti siti internet con news inventate, i cui contenuti sono stati diffusi sopratutto da X, raccogliendo decine di migliaia di followers. Le operazioni digitali secondo il giornale sono riuscite anche a influenzare i politici del Congresso e del Senato nel momento del voto a favore delle armi e degli aiuti militari da mandare in Israele.
Lo scempio dei neonati nei kibbutz con i bambini bruciati nel forno di casa, l’amplificare le violenze sessuali (in numero molto ridotto sicuramente avvenute), rendere mostruoso l’attacco militare del 7 ottobre da parte dei guerriglieri di Hamas sono stati i prodromi della battaglia digitale, continuata sotto gli occhi di tutti gli attenti osservatori nei mesi successivi. Tutta l’operazione è stata coordinata dal ministro degli affari della Dispora, Amichai Chikli.
Alcuni post hanno tentato anche di distruggere il supporto dei neri e degli afroamericani per i palestinesi uccisi a Gaza. Altri hanno cercato di influenzare i paesi arabi limitrofi e le loro popolazioni invitandoli a non immischiarsi nelle questioni palestinesi. Insomma gli interventi sono stati ad ampio raggio, su diverse tematiche e hanno impattato sopratutto sui cittadini Usa e europei presenti in rete.
Tra i sostenitori del governo israeliano e del suo eccidio, negli Usa figurano sicuramente gli evangelisti. In un museo privato legato proprio a questo gruppo religioso, arriva ora un’opera importantissima e poco studiata. E’ stato infatti trasportato negli Usa il mosaico di Megiddo, ritrovato in un carcere di massima sicurezza costruito su un edificio militare del mandato britannico nella Valle di Jesreeel in Israele.
Il mosaico del 230 dopo Cristo è una rarissima testimonianza della prima era cristiana e sembra contenga delle scritte sulla divinità di Cristo e riporta i nomi di cinque donne. L’opera di 54 metri quadrati che non è mai stata esposta al pubblico è stata smontata e trasportata a Washington nel Museo della Bibbia, dove potrebbe essere utilizzato a fini propagandistici.
I cristiani evangelici hanno sostenuto il governo Netantyahu e le sue politiche genocidarie perché pensano che sia vicina la fine del mondo e il ritorno del Cristo e che le guerre in Terra Santa e la riconquista da parte di Israele accelerino l’evento finale.
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