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Infermiera tedesca rapita in Somalia 7 anni fa e da allora scomparsa, ricompare in un video: “Aiutatemi!”

Africa ExPress
29 marzo 2025

Sonja Nientiet, cittadina tedesca, infermiera del Comitato della Croce Rossa Internazionale (ICRC) è stata rapita in Somalia nel 2018. Da allora è sparita nelle mani dei sanguinari terroristi di al-Shebab.La sua situazione è drammatica. Pochi giorni fa, tramite  un videomessaggio diffuso sui social network, ha chiesto aiuto.

Il suo stato di salute, dopo anni in mano ai suoi aguzzini, sta peggiorando di giorno in giorno.

L’infermiera tedesca, Sonja Nientiet, prima del suo rapimento in Somalia nel 2018
E oggi, Sonja Nientiet, come appare anche nel video

Sonja nel video ha poi spiegato: “Ciò che mi tiene in vita è il desiderio di rivedere i miei cari”.

Appello al cancelliere tedesco

Nel filmato l’ostaggio si rivolge, tra l’altro, direttamente al cancelliere tedesco, Olaf Scholz, chiedendo un suo intervento per il suo immediato rilascio. La donna teme per la propria vita.

L’infermiera visibilmente scossa, non sempre riesce a trattenere le lacrime per tutta la durata del filmato Ma porta ugualmente a termine il video di circa 5 minuti, spiegando anche in poche parole la sempre più complessa e difficile situazione della Somalia.

Anni di silenzio

Per anni nessuno ha più parlato del rapimento della cittadina tedesca. Ma dopo la diffusione del suo video su social network, l’ICRC ha lanciato un appello per il rilascio della loro infermiera.

Sonja Nientiet è stata sequestrata il 2 maggio 2018 negli uffici della Croce Rossa a Mogadiscio. Allora i collaboratori somali dell’Organizzazione internazionale avevano spiegato ai reporter di AP che i terroristi sarebbero entrati nell’edificio da una porta posteriore e avrebbero fatto salire l’infermiera su una vettura. Al-Shebab ha poi rivendicato il sequestro. Attualmente la donna è ancora loro prigioniera da qualche parte.

La Somalia resta comunque uno dei Paesi più pericolosi al mondo. All’inizio del mese il dipartimento di Stato americano ha nuovamente diramato ai propri cittadini un avviso di non recarsi in Somalia a causa di possibili attentati e sequestri di persona.

Raid USA contro terroristi

In coordinamento con il governo di Mogadiscio, AFRICOM, United States Africa Command, il comando delle truppe statunitensi di stanza a Stoccarda, Germania), è intervenuto nei giorni scorsi nuovamente con diversi attacchi aerei contro i terroristi di al-Shebab.

Quasi alla fine del suo primo mandato, Donald Trump aveva disposto il ritiro dei militari USA dalla Somalia, ma Joe Biden aveva reintrodotto parte del piccolo contingente nel 2022. I reparti statunitensi, presenti con 450 uomini, stanno sostenendo l’intervento dei militari somali e della coalizione multinazionale dell’Unione Africana con operazioni di intelligence, addestramento militare e  attacchi diretti con l’ausilio di droni killer.

Ora, il governo somalo teme, che con il ritorno di Trump le truppe USA possano essere nuovamente richiamate.

Somalia offre basi aeree e porti a Trump

Ed è probabilmente per questo che con una lettera, datata 16 marzo 2025, Mogadiscio ha offerto agli USA il controllo esclusivo di infrastrutture logistiche e militari importanti, comprese le basi aeree di Balidogle e Berbera e i porti di Bosaso e Berbera.

Sta di fatto però che Berbera si trovi nel Somaliland. L’ex colonia britannica ha proclamato l’indipendenza dal Regno Unito il 26 giugno 1960 (si chiamava Stato del Somaliland), e, dopo 5 giorni si è unita alla Somalia Italiana, indipendente dal 1° luglio dello stesso anno.

Dopo lo scoppio della guerra civile somala il 30 dicembre 1990, e il conseguente collasso della Somalia, il 18 maggio 1991 il Paese si è ritirato dall’unione. Ma il suo governo non è mai stato riconosciuto dalla comunità internazionale, tanto meno dalla Somalia.

L’autoproclamata Repubblica ha un proprio governo, una propria moneta e le proprie strutture di sicurezza. Tuttavia, non essendo riconosciuta da nessun Paese del mondo, l’accesso ai finanziamenti internazionali multilaterali e le possibilità di viaggiare dei suoi cittadini sono limitati.

Il porto di Bosaso, sul Golfo di Aden, è nel Puntland, regione semi-autonoma della Somalia. Il controllo di Mogadiscio in Puntland è limitato, molto limitato.

Cornelia Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
X: @cotoelgyes
© RIPRODUZIONE RISERVATA

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Operazione Red Card: sette Paesi africani con Interpol contro la cybercriminalità: oltre 300 arresti

Speciale per Africa ExPress
Sandro Pintus
28 marzo 2025

Benin, Costa d’Avorio, Nigeria, Ruanda, Sudafrica, Togo e Zambia sono i Paesi che hanno partecipato all’Operazione Red Card di Interpol. Si tratta di un intervento internazionale coordinato contro la cyber criminalità, operativo dal novembre 2024 al febbraio 2025.

Criminalità transfrontaliera

L’obiettivo era diretto a smantellare le reti criminali transfrontaliere responsabili di frodi informatiche su larga scala e truffe online. Oltre 5.000 le vittime colpite da truffe bancarie su cellulare, schemi di investimento fraudolenti e frodi con app di messaggistica.

Il maggior numero di arresti, 130, in Nigeria. I truffatori sono accusati di frodi informatiche quali truffe di casinò online e investimenti. Per evitare di essere individuati avrebbero convertito i proventi illeciti in beni digitali.

AFJOC - African Joint Operation against Cybercrime
African Joint Operation against Cybercrime, agenti al lavoro (Courtesy AFJOC)

Traffico di esseri umani

Gli investigatori hanno scoperto che le truffe erano portate avanti da persone, vittime del traffico di esseri umani, costrette dai loro carnefici ad effettuare attività fraudolente. L’indagine, in Nigeria, ha portato al sequestro di 26 veicoli, 16 case, 39 terreni e 685 dispositivi elettronici.

Truffe telefoniche e via social

Secondo Paese per numero di arresti è il Ruanda: 45 persone. I delinquenti sono accusati di aver frodato le loro vittime attraverso i social per un totale di oltre 300 mila dollari (280 mila euro) nel 2024.

Gli arrestati si fingevano familiari feriti e chiedevano denaro per le spese ospedaliere. Oppure, telefonavano dicendo all’interlocutore che aveva vinto alla lotteria facendosi dare i suoi dati sensibili. Le autorità hanno recuperato 100 mila dollari (93 mila euro) e sequestrato 292 dispositivi elettronici.

Frode delle SIM

In Sudafrica è stata smantellata una gang specializzata nella frode delle SIM box. Gli agenti hanno arrestato 40 persone. Utilizzavano un sofisticato sistema che dirottava le chiamate internazionali facendole apparire come chiamate locali.

I truffatori si servivano di questa tattica per condurre attacchi di phishing via SMS su larga scala. La polizia ha confiscato più di mille schede SIM e 53 computer.

I malware in Zambia

Quattordici i cyber criminali arrestati in Zambia tutti membri di un’organizzazione che hackerava i cellulari. Attraverso un messaggio con un link prendevano il controllo del dispositivo nel quale veniva installato il malware.

Una volta acquisita la gestione del telefono avevano anche l’uso delle applicazioni bancarie e quelle di messaggistica delle vittime. Attraverso le chat di gruppo diffondevano i malware aumentando il numero di apparati “catturati”.

Fondi dal Regno Unito

L’operazione, è costata 3,2 milioni di sterline (3,8 milioni di euro), finanziata dal Foreign, Commonwealth & Development Office del Regno Unito. È stata condotta nell’ambito dell’African Joint Operation against Cybercrime-AFJOC (Operazione congiunta africana contro la criminalità informatica).

Queste frodi e truffe sono ben conosciute ormai da tempo nel nostro Paese. In Africa il fenomeno si sta ampliando e, data l’ingenuità della popolazione e la minore conoscenza della tecnologia, riescono ad andare a segno più facilmente.

Sandro Pintus
sandro.p@catpress.com

X (ex Twitter):
@sand_pin
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Interpol: falsi vaccini anti Covid-19 pericolosi sequestrati in Sudafrica e Cina

La mafia nigeriana balza ai primi posti nella classifica mondiale della criminalità

Omicidi in Africa: maglia nera a Lesotho e Sudafrica, i più probi Burkina e Marocco

Israele: armi e tecnologie. A chi conviene il genocidio

NEWS ANALYSIS
Alberto Negri

26 marzo 2025

Perché Israele non può fermare le guerre e noi non possiamo fermare il genocidio di Gaza? Perché lo Stato ebraico è parte integrante del complesso militare industriale israelo-americano e anche del nostro; cosa che mascheriamo. Dagli anni ’50 Tel Aviv ha ricevuto dagli Usa oltre 260 miliardi di dollari di aiuti militari.

Soltanto nell’ultimo anno e mezzo, dall’attacco di Hamas del 7 ottobre, gli aiuti hanno superato i 20 miliardi di dollari. Israele, allo stesso tempo, è all’avanguardia nella ricerca scientifico-tecnologica militare, è uno dei maggiori esportatori di armi e contemporaneamente uno dei maggiori clienti delle americane Boeing, General Dynamics, Lockheed Martin e RTX (Raytheon Technologies).

Queste società sono tra le principali fornitrici di tecnologie militari, come caccia F-35, missili avanzati e sistemi di difesa aerea, utilizzati dall’esercito israeliano.

Dietro queste aziende si cela una struttura finanziaria globale: i fondi d’investimento internazionali noti come le «Big Three»: Vanguard, BlackRock e State Street. I tre fondi d’investimento sono tra i maggiori azionisti di rilievo delle principali compagnie di armamenti e di molti settori.

Vanguard, BlackRock e State Street detengono quote significative in Boeing, Lockheed Martin e RTX, influenzando la gestione e le strategie di queste società. L’aumento delle spese militari e l’acquisto di armamenti da parte di Israele sono strettamente collegati ai profitti di queste aziende.

Lockheed Martin ha fornito i caccia F-35 a Israele, considerati un pilastro delle sue capacità militari. Gli F-35 il 26 ottobre hanno eliminato in un giorno l’80 per cento delle difese anti-aeree iraniane.

Boeing è responsabile della vendita di velivoli da combattimento e missili, mentre RTX ha fornito avanzati sistemi missilistici e difese aeree. Ogni vendita non solo rafforza l’apparato bellico israeliano ma genera anche grandi profitti.

Le Big Three svolgono un ruolo di primo piano nell’alimentare una rete economica che beneficia direttamente dalle tensioni geopolitiche e militari.

Mentre la popolazione civile di Gaza e Cisgiordania continua a soffrire per le operazioni militari e l’occupazione, le aziende belliche e i loro principali azionisti vedono aumentare i propri profitti grazie alle vendite crescenti di armamenti.

Ecco perché si parla di complesso militar-industriale israelo-americano. Ha un preciso significato bellico, finanziario e di potere globale. Israele ha un’influenza sproporzionata per quanto riguarda le vendite di armi.

Al mondo è il 97° Paese per popolazione ma il nono maggiore esportatore di armi. In settori come l’intelligenza artificiale e la cybersecurity è in testa alla leadership mondiale. Gaza e la Palestina sono il laboratorio dello Stato ebraico. Come scrive nel suo libro (Laboratorio Palestina, Fazi) il giornalista premio Pulitzer Antony Loewenstein, ebreo australiano.

“Molti Paesi vendono armi – dice Loewenstein – ma ciò che rende unica l’industria israeliana è il mix di armi, tecnologie di sorveglianza e tecniche che si combinano per creare un sistema completo per il controllo di popolazioni ‘difficili’ e si basano su anni di esperienza in Palestina”.

Il complesso militar-industriale di Israele – e di conseguenza anche degli Usa – utilizza i Territori occupati palestinesi come banco di prova per le armi e le tecnologie di sorveglianza che esporta in tutto il mondo, a partire dall’intelligenza artificiale. L’adozione di tecnologie di IA è stata accelerata dalla Unità 8200, il reparto d’élite dell’intelligence israeliana, oggi composta per il 60 percento da ingegneri ed esperti tech, il doppio degli informatici arruolati dieci anni fa.

Eppure tra i palestinesi si muore sempre di più. Secondo le testimonianze di ex soldati e analisti raccolte dal Washington Post, la fiducia nell’IA ha portato le forze armate israeliane a ridurre alcuni passaggi di controllo, con il risultato di aumentare il numero di obiettivi ritenuti legittimi.

Anche se questi comportano un maggior rischio di vittime tra i civili. Dalla proporzione di 1:1 del 2014 (un civile “sacrificabile” per colpire un membro di Hamas di alto livello) si è passati a 15:1 o persino 20:1 nel conflitto attuale, stando alle fonti del Washington Post.

Tutto questo naturalmente non ferma Israele e la crescita del suo apparato militar-industriale sempre più integrato in quello americano. La startup israeliana Wiz, leader nella cybersicurezza, è nel mirino di Google.

Il conglomerato di Google aveva già provato ad acquistarla la scorsa estate per 23 miliardi di dollari ma aveva ricevuto un secco no. Ha quindi deciso di alzare l’offerta, secondo il Wall Street Journal, a circa 33 miliardi di dollari.

Ci si chiede spesso come mai gli americani e gli europei non facciano pressioni concrete su Netanyahu per limitare le stragi a Gaza che ormai superano i 50mila uccisi (70mila secondo fonti come Lancet).

La realtà è che Stati Uniti e Gran Bretagna sono direttamente impegnati nelle operazioni militari: il 70 per cento dei voli di ricognizione sui bersagli da colpire a Gaza e in Libano nel 2024 sono stati compiuti da aerei americani e britannici.

Ma soprattutto non c’è azienda europea importante che non abbia accordi con l’Israel Innovation Authority, agenzia governativa incaricata di finanziare progetti innovativi.

Per esempio Stellantis si è unita ad altre aziende italiane come Enel, Leonardo STMicroelectronics, che hanno aperto laboratori di ricerca e sviluppo in Israele, o Sparkle, Snam e Adler che hanno concluso accordi con l’Israel Innovation Authority e con startup israeliane nel settore high-tech.

Ecco perché Israele non può mai perdere una guerra e noi europei non faremo nulla per fermare Netanyahu. Anche il riarmo europeo, che beneficerà le industrie belliche del continente e americane, renderà Israele più forte e influente. Come e perché muoiono a Gaza e in Medio Oriente lo sappiamo bene.

Alberto Negri
da Il Manifesto

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“Sotto la sabbia. La Libia, il petrolio, l’Italia”: da Gheddafi all’inferno. Lo spiega in un libro Giampaolo Cadalanu

Speciale per Africa ExPress
Claudia Svampa
Roma, 25 marzo 2025

Sarà presentato domani 27 marzo alle 18.00 presso la libreria Eli di Viale Somalia a Roma “Sotto la sabbia, la Libia, il petrolio, l’Italia” il nuovo libro di Giampaolo Cadalanu, giornalista, a lungo inviato speciale del quotidiano La Repubblica, che per oltre trent’anni ha seguito crisi e conflitti nei Balcani, in Medio Oriente, Sudan, Afganistan, Libia, Ucraina, Sri Lanka e Libano.

Un libro in cui Cadalanu, racconta con un’approfondita e dettagliata analisi, il complesso rapporto tra la Libia e lItalia, intrecciato indissolubilmente con le dinamiche geopolitiche del Mediterraneo e con linteresse economico legato alle risorse energetiche.

Pubblicato da Laterza “Sotto la sabbia” si propone come unindagine sulle radici e le conseguenze della crisi libica, delineando il ruolo delle potenze internazionali, delle strategie politiche e delle manovre economiche che hanno plasmato il destino del paese nordafricano.

Duecentocinquanta pagine tratteggiate come un lungo reportage storico e geopolitico che si articolano in undici capitoli a ripercorrere il passato e il presente della Libia, partendo dalla caduta di Gheddafi fino alle tensioni odierne.

Primavera araba

La narrazione si apre con la primavera araba e il crollo del regime, descrivendo come nel 2011 i governi occidentali hanno espresso con toni altisonanti le loro intenzioni umanitarie, ma guardando indietro è facile scoprire che queste servivano solo a coprire ragionamenti strategici e ricerca di posizioni vantaggiose”.

Lautore si sofferma poi sulle dinamiche interne libiche, suddividendo il paese in macro-regioni con caratteristiche peculiari e tensioni irrisolte.

Uno dei temi centrali del libro però è il legame tra Italia e Libia, una relazione che Cadalanu definisce oscillante tra complicità e diffidenza. Dopo la caduta del regime coloniale italiano, il paese nordafricano divenne un partner economico cruciale per Roma, soprattutto per quanto riguarda le forniture energetiche.

Alleanza fragile

Tuttavia si sottolinea come questa alleanza fosse fragile e spesso messa in discussione dagli interessi delle grandi potenze: La Libia era il settimo partner commerciale dellItalia, ma allo stesso tempo un vicino scomodo e difficile da gestire”.

Il ruolo dellENI nella regione è ampiamente discusso, mostrando come la compagnia petrolifera italiana abbia saputo navigare tra le turbolenze politiche per mantenere un accesso privilegiato alle risorse libiche.

Il petrolio come arma geopolitica é un altro dei temi che l’autore affronta senza sconti alla cronaca storica nelle dinamiche di potere libiche.

Combattenti antigheddafi festeggiano la caduta di Sirte, città natale del dittatore il 20 ottobre 2011. REUTERS/Esam Al-Fetori

Cadalanu evidenzia come Gheddafi avesse ben compreso il valore strategico delle risorse energetiche, utilizzandole non solo per finanziare il proprio regime, ma anche per alimentare movimenti rivoluzionari in tutto il mondo: Dai finanziamenti allIRA in Irlanda del Nord – racconta – al sostegno ai gruppi palestinesi, i petrodollari libici furono uno strumento di influenza globale”.

Manovre occidentali

Unampia sezione é poi dedicata alle manovre occidentali per controllare il petrolio libico dopo il 2011 ovvero quando, nell’analisi dell’autore, la caduta di Gheddafi non ha portato alla democratizzazione promessa, ma ha invece innescato una lotta per il controllo delle risorse, con attori internazionali – dalla Francia alla Russia, fino agli Stati Uniti – impegnati a garantire il proprio accesso ai giacimenti.

E proprio alla Francia e al ruolo di Nicolas Sarkozy nella decisione di attaccare Gheddafi é dedicato il capitolo in cui si mettono in luce documenti e indiscrezioni che suggeriscono come uno dei motivi principali dellintervento francese fosse la volontà di impedire la creazione di una moneta panafricana alternativa al dollaro e al franco CFA, una mossa che avrebbe danneggiato gli interessi economici francesi in Africa.

Giampaolo Cadalanu

“Sotto la sabbia” é dunque un libro di fondamentale approfondimento per chiunque voglia comprendere il contesto libico e le sue implicazioni internazionali. Con uno stile chiaro e documentato, Cadalanu riesce a intrecciare storia, politica ed economia, offrendo una fotografia nitida e completa della situazione libica e della complessità delle relazioni tra lItalia e la Libia, mostrandoci come, sotto la sabbia della retorica umanitaria e della diplomazia, si nascondano le vere ragioni di conflitti e alleanze: il petrolio, il potere e leterna lotta per il controllo delle risorse.

Claudia Svampa
info@claudiasvampa.it
© RIPRODUZIONE RISERVATA

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La prima presidente donna (e africana) alla testa del Comitato Olimpico Internazionale con tanti dubbi

Dal Nostro Corrispondente Sportivo
Costantino Muscau
25 marzo 2025

Non basta saper nuotare, bisogna saper navigare.

Kirsty Coventry, donna bianca dello Zimbabwe, divenuta dopo 131 anni di maschilismo inscalfibile, il numero 1 dello sport mondiale, c’è riuscita bene.

Nessun altro atleta africano ha vinto più medaglie di lei ai Giochi Olimpici. E’ stata una delle migliori nuotatrici nel dorso e nei misti del mondo, con medaglie d’oro, argento e bronzo a go go tra il 2000 e il 2009. E adesso – ha dichiarato poco meno di una settimana fa Kirsty Coventry “sono particolarmente orgogliosa di essere la prima donna presidente del Comitato Olimpico Internazionale e anche la prima dell’Africa”.

“La ragazzina che ha iniziato a nuotare in Zimbabwe tanti anni fa – ha aggiunto – non avrebbe mai potuto sognare questo momento. I soffitti di vetro sono stati infranti e sono pienamente consapevole delle mie responsabilità come modello”.

Kirsty Coventry, prima donna presidente del Comitato Olimpico Internazionale

Eccellente nuotatrice

Nuotatrice esaltata e imbattibile, navigatrice insuperabile ma criticata. Nata ad Harare il 16 settembre 1983, non si può dire che abbia avuto un’esistenza tormentata nella ex Rhodesia “dove i dittatori appendono i loro vestiti insanguinati, terra ricca di risorse ma lacerata da una leadership razzista criminale e corrotta che ha sperperato le sue ricchezze”, scrisse qualche anno fa Craig Lord, per il britannico The Times.

La famiglia della campionessa, tanto per dire, proprietaria di una azienda chimica, non ha fatto parte di quella minoranza bianca (30 mila persone su 300 mila) che non venne cacciata via dalla cosiddetta riforma agraria del 2000 di Robert Mugabe che distribuì la terra dei proprietaria bianchi e mise in ginocchio l’agricoltura.

Famiglia agiata

Il nonno era membro del consiglio di amministrazione della società di nuoto della capitale; i genitori Robert Edwin e Lyn Coventry erano appassionati nuotatori.

Dopo aver studiato alla Dominican Convent High School dal 1996 al 1999, la nuotatrice si è trasferita ad Aubern, in Alabama, dove si è laureata in Economia (gestione alberghiera e ristorazione). Ma è riuscita ad affermarsi fuori dal nuoto, e, grazie ai successi in vasca, è emersa in politica sotto i due padri-padroni del Paese, Robert Mugabe ed Emerson Mnangagwa.

Dopo aver vinto tre medaglie ad Atene (2004), divenne un’eroina in Zimbabwe: Mugabe la descrisse come un “tesoro nazionale” e la nostra “ragazza d’oro”, spedì una flotta di Mercedes a prenderla all’aeroporto, cenò con lei e i suoi genitori e le fece dono di 50/100 mila dollari (in una nazione dove si moriva a 38 anni, pare poi dati in beneficenza) e di un passaporto diplomatico a vita.

Era lo stesso presidente che aveva spinto i neri a instillare la paura nel cuore dei bianchi. Danzatori e suonatori di tamburo tradizionali la accolsero all’arrivo, migliaia di persone si riversarono per le strade sventolando striscioni inneggianti alla “principessa dello sport”.

Mito in Zimbabwe

A molti neonati venne dato il suo nome: Kirsty Coventry Mapurisa e Kirsty Coventree Kavamba o anche “Tre medaglie Chinotimba”, “Piscina Nhanga”, “Dorso Banda”…

Non è un caso se lei e la sua famiglia sono stati sempre sfuggenti nel commentare la situazione di un Paese in cui la libertà di pensiero, è stato scritto, “era punibile con la mano lunga della legge o con il pugno contundente del delinquente”.

Si capisce perché altri illustri sportivi quali Henry Olonga, (del cricket) o Edgar Rogers, segretario generale del Comitato Olimpico dello Zimbabwe, disgustati rinunciarono alla cittadinanza e se ne andarono all’estero.

Entra in politica

La filosofia della campionessa di nuoto invece è: “Se non ti siedi al tavolo, non puoi cambiare le cose”.

Forse per questo ha accettato, nel 2018, la nomina a ministra dello Sport, della Gioventù e della Ricreazione, sotto il nuovo presidente Emmerson Manangagwa, ora 82enne, salito al potere nel novembre 2017 con un colpo di Stato che ha rovesciato il suo mentore, Robert Mugabe,

Il mandato della Coventry, però, – come ha ricordato soprattutto la stampa britannica – è stato offuscato da diversi problemi: gli stadi dello Zimbabwe sono stati banditi dalla Confederazione Africana di Calcio (CAF) dall’ospitare tutte le partite internazionali nel 2020. Sia la nazionale sia le squadre nazionali stanno giocando le loro partite in casa all’estero. Nel 2022, la Federation Internationale de Football Association (FIFA) ha sospeso la Zimbabwe Football Association (ZIFA) per interferenza governativa e alcuni membri del suo consiglio sono stati accusati di frode e corruzione.

Ora è stata posta, giovedì 20 marzo, sul podio più alto dello sport mondiale come 10a presidente nella storia del CIO, che, come noto, supervisiona tutti i Giochi Olimpici. Una scelta fatta proprio ad Atene dove la nuotatrice si affermò nel 2004 con oro, argento e bronzo, che però la farà sudare.

Nel discorso di ringraziamento ha dichiarato: “Lo sport ha un potere ineguagliabile di unire, ispirare e creare opportunità per tutti, e mi impegno a fare in modo che sfruttiamo tale potenza al massimo. Insieme a tutta la famiglia olimpica, compresi i nostri atleti, tifosi e sponsor, costruiremo sulle nostre solide basi, abbracciamo l’innovazione e sosterremo i valori di amicizia, eccellenza e rispetto. Il futuro del Movimento Olimpico è luminoso, e non vedo l’ora di iniziare!”

Il futuro non appare così radioso

La sua nomina, ha spiegato Jean-Loup Chappelet, 72 anni, professore all’Università di Losanna, specialista della governance dello sport internazionale ed ex dirigente del CIO dal 1980 al 1987 – è una questione di geopolitica, perché non stiamo parlando solo di sport, ma dell’ordine sportivo globale per i prossimi dieci o quindici anni.

Gli Stati sanno che i Giochi Olimpici sono importanti, quasi più delle Nazioni Unite. Vogliono usarli, come hanno sempre fatto i russi e gli americani, e come hanno fatto i cinesi fin dal 2008.

Grattacapi in agenda

Le questioni da risolvere sono tante: quella degli atleti transgender, la questione russa, maggior potere al CIO sul suo consiglio esecutivo composto da 15 membri e riuscire a spostare le date delle Olimpiadi estive in modo che l’Africa e il Medio Oriente possano ospitarle.

E su alcuni di questi punti la nuova presidente rischia di fare un…buco nell’acqua. Intanto sui russi. Il ministro dello Sport della Federazione Russa, Mikhail Degtyarev, 43 anni, si è detto “felice della vittoria di Coventry”, sperando di vedere un Comitato Olimpico “più forte e indipendente” e il reintegro degli atleti di Mosca attualmente esclusi dagli eventi del CIO.

I russi erano ostili alla candidatura dell’ex campione di Atletica, Sebastian Coe, perché molto duro con la partecipazione dei loro connazionali, escludendoli dagli eventi atletici già nel 2016 a causa del doping e della guerra in Ucraina.

Il presidente dello Zimbabwe ha elogiato, a sua volta, la Russia per essere un “vero amico” durante l’ultimo vertice Russia-Africa. Insomma: un’ipoteca sulla prossima importante scelta è già arrivata.

Punto spinoso: atlete trans

Pur senza dichiararlo apertamente, la neo presidente ha sostenuto che le differenze biologiche vadano considerate con attenzione dicendosi pronta ad una revisione più restrittiva delle attuali linee guida del CIO sui trans.

La ex campionessa ha annunciato che creerà una task force per affrontare l’argomento, ma anche che incontrerà Donald Trump prima del suo insediamento ufficiale, il 23 giugno.

E’ noto che le prossime Olimpiadi si terranno nel 2028 a Los Angeles “con il tycoon – informa il sito italiano Gay.it – che chiederà il bando per le atlete trans sia alle Olimpiadi sia alle Paralimpiadi. Gli USA stanno lavorando per vietare l’ingresso nel Paese a tutte le atlete trans”.

Duro il commento del MIT  (Movimento Identità Trans)Coventry ha più volte dichiarato di non gradire la presenza di donne trans nello sport olimpico. Al momento della sua nomina ha dunque affermato che si impegnerà per impedirci in modo definitivo di gareggiare nello sport, bannando in particolare le donne trans dagli sport femminili. Sono questi nuovi valori olimpici: non la partecipazione, ma l’esclusione. Non l’eguaglianza, ma la discriminazione. Non la solidarietà, ma il Trumpismo”.

Baciata dalla fortuna

La neo presidente dovrà sperare nella buona stella che l’accompagna in tutta la sua vita.

La fortuna, infatti, sembra arriderle ancora. Proprio il giorno della sua elezione, il 20 marzo, è stata raggiunta da una buona notizia.

Dieci giorni prima due rapinatori erano entrati in casa dei genitori ad Harare e avevano portato via denaro contante e oggetti di valore per un valore di oltre 90.000 dollari, tra cui parte dei premi olimpici.

I due banditi sono stati arrestati e la refurtiva recuperata.

Costantino Muscau
muskost@gmail.com
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In Niger gli islamisti attaccano base militare con mortai made in Ucraina

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
24 marzo 2025

I gruppi armati attivi nel Sahel dispongono ora di armi sofisticate modernissime fabbricate in Ucraina. Gli attacchi dei jihadisti si susseguono senza sosta. Il 17 marzo hanno assaltato una postazione militare nei pressi della città di Makalondi, nella regione di Tillabéri.

MP 120 “molot” di fabbricazione ucraina in mano ai terroristi islamici

Due giorni dopo è stata presa di mira una base delle forze armate nigerine non lontana dal villaggio di Mossopaga, che si trova nella stessa zona, la più instabile del Paese. La regione si trova nella cosiddetta area delle tre frontiere (Niger, Mali, Burkina Faso), spesso teatro di aggressioni dei terroristi.

Zona delle tre frontiere (Burkina Faso, Mali, Niger

Armi ucraine di contrabbando

Questa volta, secondo quanto riportato da media locali, i jihadisti avrebbero utilizzato mortai di fabbricazione ucraina.

Durante gli assalti, che hanno provocato importanti danni materiali, sono stati uccisi diversi soldati nigerini. Dopo una accurata ispezione del campo di battaglia, è stato trovato un mortaio di 120 mm, un MP 120 “molot” e il relativo libretto d’istruzione in lingua ucraina. Un ufficiale in pensione, che non ha voluto rivelare la propria identità, ha confermato l’informazione al Journal du Niger.

Niger: libretto istruzioni in ucraino per utilizzo mortaio

A detta del militare, è molto probabile che i terroristi si siano procurati i mortai ucraini tramite “il corridoio di armi nel Sahel”, un traffico di contrabbando che, dopo la caduta di Gheddafi nel 2011, passa attraverso la Libia.

Finora Kiev non ha rilasciato commenti sul fatto. Il quotidiano nigerino ha sottolineato che l’Ucraina ha sempre tenuto fede alle convenzioni internazionali sul controllo delle armi e ha sempre negato di aver venduto materiale bellico ai terroristi.

Attacco a moschea

Venerdì scorso, i fedeli radunati per la preghiera delle 14.00 nella moschea di Fambita – sempre nella zona delle tre frontiere – sono stati sorpresi da un gruppo di uomini armati fino ai denti. Almeno 40 civili sono stati brutalmente assassinati. Finora il terribile attacco non è stato ancora rivendicato, ma il ministro degli Interni nigerino punta il dito sui combattenti di EIGS (Etat Islamique dans le Grand Sahara)

Lo stesso giorno è stato preso di mira anche l’oleodotto che porta il greggio nigerino a Cotonou in Benin. Le tubature della condotta sono state sabotate vicino a Muntseka, villaggio non lontano dalla frontiera con la Nigeria.

Gruppo armato nigeriano

Il Niger, oltre a dover combattere contro i gruppi armati legati a al-Qaeda (JNIM) o allo stato islamico (EIGS), deve anche lottare per arginare le continue incursioni dei terroristi nigeriani Boko Haram.

A metà marzo i sanguinari miliziani hanno assalito un campo militare a Chétima-Wangou, nella regione di Diffa, nel estremo est del Paese che confina con il bacino del Lago Ciad. In questa zona i terroristi sono particolarmente attivi.

Sono arrivati in oltre 300. Secondo quanto riferito da fonti dell’esercito nigerino, l’attacco è stato respinto, ma 4 soldati sono stati brutalmente ammazzati. L’aviazione di Niamey è poi riuscita a neutralizzare un colonna composta da una trentina di moto. Stessa fine ha fatto un’altra cinquantina di terroristi che si erano rifugiati in una casa. I restanti, invece, sono riusciti a scappare in Nigeria.

Insicurezza in primo piano 

Il bacino del Lago Ciad, situato nella parte centro-settentrionale dell’Africa sui confini di Nigeria, Niger, Ciad e Camerun è abitato da quasi 30 milioni di persone, tra questi oltre 5 milioni sono sfollati o rifugiati. Scappano dai sanguinari terroristi islamici Boko Haram e dei loro cugini di ISWAP, che nel 2016 si sono separati dal gruppo originale.

Niger: attacco Boko Haram nella zona di Diffa

Quando la giunta militare, capeggiata da Abdourahamane Tchiani, ha preso il potere nel luglio 2023, aveva promesso che il nuovo governo avrebbe affrontato immediatamente il grave problema dell’insicurezza. Da allora però le carneficine dei terroristi continuano senza sosta e, secondo ACLED, ONG statunitense che registra le vittime dei conflitti in tutto il mondo, da luglio 2023 a oggi sono state uccise oltre 2.400 persone nel Paese.

Contingente congiunto

Anche in Mali e Burkina Faso la questione sicurezza non è ancora stata risolta. Per questo motivo, i tre presidenti delle rispettive giunte militari – Ibrahim Traoré (Burkina Faso), Assimi Goïta (Mali) e Abdourahamane Tchiani (Niger) hanno deciso di formare un nuovo contingente composto da 5000 soldati delle forze armate dei tre Paesi. La nuova formazione militare, volta a contrastare il terrorismo nella regione dell’AES (Allenza degli Stati del Sahel), dovrebbe essere ufficialmente operativa fra breve. I tre eserciti hanno già effettuato alcune operazioni congiunte.

Togo – AES

Per ora AES comprende solamente tre Stati (Burkina Faso, Mali e Niger), tutti usciti definitivamente da ECOWAS (la Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale) lo scorso gennaio. Recentemente il ministro degli Esteri togolese, Robert Dussey, ha manifestato interesse alla nuova organizzazione regionale.

Per il Togo un’adesione all’istituzione regionale potrebbe avere risvolti economici interessanti. Lomé diventerebbe così il porto di AES, visto che gli altri tre Paesi non hanno sbocco sul mare. Ma per ora il governo togolese mantiene il massimo riserbo sulla questione.

Cornelia Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
X: @cotoelgyes
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Divorzio confermato tra Alleanza Stati del Sahel e Comunità Economica dell’Africa Occidentale

Venti di guerra: ora Leonardo assembla elicotteri in Africa

Dal Nostro Esperto di Cose Militari
Antonio Mazzeo
Marzo 2025

La controllata Leonardo Helicopters sta per avviare in Algeria l’assemblaggio dei velivoli AgustaWestland AW139M dopo aver ottenuto una commessa dalle forze armate di un Paese africano di cui non è stata divulgata l’identità.

Secondo l’autorevole Aviation Week l’azienda italiana realizzerà sette elicotteri medi bimotore AW139M presso lo stabilimento inaugurato recentemente presso l’aeroporto di Ain Arnat, nella provincia di Sétif (Algeria nord-orientale).

Elicottero militare di Leonardo AW139M

La struttura è di proprietà della joint venture creata il 25 marzo 2019 da Leonardo ed EPIC/EDIA (Etablissement Public de Caractère Industriel / Etablissement de Developementdes Industries Aeronautiques), azienda a capitale pubblico sotto il controllo del ministero della Difesa che opera in campo industriale-aeronautico militare.

Linea di produzione

“Il contratto attiverà il processo di avvio della linea di produzione di elicotteri in Algeria, come ci è stato riferito ufficialmente in occasione dell’esposizione di velivoli aerei a Dallas, l’11 marzo scorso”, riporta Aviation Week.

“Dopo che sarà operativa la linea di assemblaggio, i primi due AW139M saranno consegnati entro due anni, impiegando le capacità locali anche per la loro manutenzione. Lo stabilimento di Leonardo di Verigiate, nei pressi di Varese, fornirà i kit di assemblaggio”.

Secondo quanto riferito dai manager di Leonardo al settimanale specializzato nel settore aerospaziale, il nuovo impianto di Ain Arnat sarà utilizzato per la produzione di altri modelli di elicotteri destinati all’esportazione a diversi paesi africani.

Forniture in diversi Paesi

In questo modo Leonardo rafforzerà la propria presenza nel continente diversificando la sua rete produttiva. Ad oggi gli elicotteri AgustaWestland sono stati venduti alle forze armate di Algeria, Angola, Costa d’Avorio, Egitto, Libia, Kenya, Marocco e Nigeria.

Quello di Ain Arnat sarà il secondo polo di assemblaggio di Leonardo fuori dall’Italia, dopo quello di Filadelfia (USA). I piani di sviluppo prevedono ordini per una settantina di velivoli, una cinquantina dei quali destinati al mercato algerino. Il Ministero della Difesa di Algeri si è impegnato a contribuire finanziariamente nei prossimi anni a favore dell’impianto industriale.

Assemblaggio, vendita e assistenza

L’accordo tra Leonardo ed EPIC/EDI Adel 2019 prevede che il gruppo italiano segua l’assemblaggio, la vendita e la fornitura di assistenza degli elicotteri AgustaWestland. La joint venture fornirà ai clienti anche servizi post-vendita come riparazione e revisione, addestramento e sviluppo di capacità tecnologiche nel campo della produzione di materiali aeronautici.

L’elicottero multi-missione AW139M è la versione militare del velivolo Agusta Westland AW139, già venduto ad oltre 270 clienti di 90 Paesi a partire del 2004, anno della sua certificazione.

L’AW139 ha una velocità di crociera di 306 Km/h e un’autonomia di volo fino a 1.000 chilometri.

Potente e versatile

“L’AW139M è molto potente e versatile, veloce e spazioso e può ospitare fino a 15 passeggeri – riporta Ares Difesa –. Il velivolo assolve ad un’ampia gamma di missioni in ogni condizione meteo ed ambientale, quali trasporto tattico di truppe, supporto in teatro operativo elogistico, comando e controllo, ricerca e soccorso in combattimento (CSAR), pattugliamento marittimo. Uno dei suoi pregi è rappresentato dalla possibilità di cambiare la configurazione interna in tempi particolarmente rapidi a seconda delle esigenze di missione”.

Il programma di sviluppo della produzione industriale di Leonardo in Algeria ha preso il via nell’agosto 2016 dopo la firma di un accordo di cooperazione con le autorità militari locali. Inizialmente si prevedeva l’avvio della linea di assemblaggio nel 2021, ma la pandemia da COVID-19 ha causato un lungo stop al piano produttivo.

Nel novembre 2022, durante la 13esima sessione del Comitato bilaterale per la difesa Italia-Algeria, le due parti hanno concordato di finalizzare entro un anno l’accordo di produzione degli elicotteri AW139M. I militari algerini allora espressero inoltre l’interesse ad acquistare un certo numero di elicotteri d’attacco AW249.

Passo decisivo

Un passo decisivo per l’avvio della linea di assemblaggio in Algeria è stato compiuto in occasione della visita ufficiale nel Paese nordafricano – il 25 maggio 2023 – di una delegazione delle forze armate italiane, guidata dall’allora Segretario generale della Difesa e Direttore nazionale degli armamenti, generale Luciano Portolano, oggi Capo di Stato Maggiore della Difesa.

Stabilimento Leonardo/Algeria a

In quell’occasione la delegazione italiana si è recata in compagnia di alcuni dirigenti di Leonardo presso lo stabilimento industriale di AinArnat.

Importanti commesse

Il gruppo Leonardo ha già ottenuto in Algeria altre importanti commesse nel settore militare. Nel gennaio 2008 le controllate SELEX Sistemi Integrati ed ElsagDatamat hanno firmato un contratto del valore di 230 milioni di euro con la Gendarmeria Nazionale per la fornitura di apparati e sistemi per la sorveglianza, il controllo e la sicurezza, supportati da una rete di comunicazione per l’integrazione delle differenti tecnologie.

Nel periodo compreso tra il 2010 e il 2016 il gruppo italiano ha fornito alle forze armate, di polizia e alla gendarmeria algerine una settantina di elicotteri di differente tipologia, per un importo complessivo di 1 miliardo e 300 milioni di dollari (8 velivoli AW101, 24 AW109, 8 AW119 Koala per l’addestramento dei piloti, 20 AW139 e 10 Super Lynx).

Leonardo ha consegnato pure una partita di cannoni OTO Melara 127/64 LW per armare le nuove fregate della classe Meko A200 della Marina militare algerina, realizzate in Germania a partire del 2016 dal gruppo ThyssenKrupp Marine Systems.

Antonio Mazzeo
amazzeo61@gmail.com

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Joint-venture Leonardo-Algeria: al via produzione, assistenza, addestramento elicotteri

 

La risposta dello scienziato Sergio Pizzini a un articolo che critica la lettera di scienziati contro il riarmo

Qualche giorno fa il sito “Inoltre” ha pubblicato un articolo
a firma Alfonso Lanzieri che critica il documento di un gruppo di scienziati,
tra cui Carlo Rovelli e Flavio Del Santo.
Un articolo piuttosto disinformato che a noi è parso più dettato
da ideologia e propaganda che da un’analisi seria.
Per questo abbiamo chiesto al professor Sergio Pizzini
un parere sulla questione. I link sono in fondo.

Speciale per Africa ExPress
Sergio Pizzini
Milano,21 marzo 2025

Ho letto con interesse il pamphlet di Alfonso Lanzieri dedicato agli scienziati del disarmo, e, seppur indirettamente, a tutti quelli che liberamente esprimono le loro opinioni, opzione dovuta ad un Paese democratico. Fra questi il nome di Carlo Rovelli spicca per acutezza di ingegno, e per una importante linea di ricerca.

Secondo l’autore, questi scienziati hanno il pensiero annebbiato da pregiudizi, che li portano ad esprimere giudizi negativi sulle democrazie occidentali, indicando una loro vicinanza ideale ad un dittatore come Putin.

Ursula von der Leyen, Alto commissario dell’UE

Mai minimizzato orrori

Caro Lanzieri, io, modesto scienziato dei materiali, e tutti noi, mai abbiamo minimizzato gli orrori dei regimi totalitari nazifascisti (?) e comunisti, nè abbiamo fabbricato una serie di giustificazioni per Putin. La sua è un’affermazione priva di contesto.

Forse perché molti di noi hanno vissuto intensi periodi di collaborazione scientifica con i colleghi russi, conosciamo benissimo la struttura di potere del sistema russo anche nel suo settore scientifico, e siamo felici di vivere in un Europa dove questo potere, che esiste, viene gestito in maniera diversa.

Dolore e sdegno

Ed abbiamo vissuto con dolore e sdegno i metodi brutali e sanguinosi con cui i dittatori di ogni genere, si sono liberati dai loro nemici, senza dimenticare che i colpi di Stato in Cile, Argentina ed Iraq sono stati gestiti con estrema brutalità da un Paese democratico come gli USA.

Durante una mia permanenza a Buenos Aires come inviato delle Nazioni Unite, ho potuto sentire i racconti dei colleghi che vedevano dalla finestra la caserma dove venivano imprigionati i “comunisti” che poi vedevano la morte con un tuffo nel Rio della Plata.

Il nostro sguardo su tutte le passate e presenti vicende, è sempre stato attento alle deviazioni del sistema democratico in cui viviamo.  E quando è stato necessario, si è cercato di intervenire con dichiarazioni precise.

Guerra per procura

Così per la guerra di Ucraina, che è stata una guerra degli USA contro la Russia, combattuta per procura dal popolo ucraino. Senza dimenticare le responsabilità della NATO e l’invasione armata della Russia.

Così per la guerra di Gaza, dove il raid sanguinoso di Hamas, con le mille vittime, ha provocato un pogrom con diecine di migliaia di vittime, migliaia di tonnellate di bombe, ed una città distrutta.

Oggi la signora Ursula von der Leyen ha dichiarato esplicitamente che la Russia è il nostro nemico, dando una valutazione precisa al suo programma di riarmo europeo, un’ammucchiata di 27 Paesi, senza una globale percezione strategica di difesa comune e seguendo la logica della Germania, per cui dimenticare un passato disastroso ed infelice non è un affare semplice.

Voci di guerra fredda

Come non essere sinceramente preoccupati per questa visione, che riecheggia voci di guerra fredda, e di terza guerra mondiale, quando Trump e Putin si dividono mezzo mondo e l’Europa è un continente senza voce? Non sarebbe opportuno che la signora Van der Leyen pensasse ad un trattato di pace con la Russia?  Il riarmo sarebbe allora solo una deterrenza.

Gli scienziati non possono analizzare la realtà con le lenti dell’ideologia e dei pregiudizi. Altrimenti avrebbero una visione distorta e talvolta anche miope

Temo che un’Europa come questa non piaccia affatto al signor Trump, e che sia non compatibile con la sua logica di super potenza.

E arrivo alla parte più interessante, metafisica, della lettera di Lanzieri, dove la sua visione di intelligenza e pensiero, è rivolta esplicitamente a noi, cui attribuisce intelligenza, ma pensiero in stagnazione.

Onestà intellettuale

No, caro Lanzieri, noi usiamo la ragione senza pregiudizi, con molta onestà intellettuale, per analizzare la storia, e ci distinguiamo per questo dal pensiero comune, espresso da TV, e giornali, e da lei, dove la logica è interamente di parte.

Temo che il pensiero obnubilato sia una caratteristica di tanti, che non riescono a guardare criticamente gli avvenimenti, e giudicano attraverso una lente deformata dai pregiudizi il mondo che ci circonda.

Sergio Pizzini*
*Già professore ordinario di Chimica Fisica all’università degli studi di Milano
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I link:

Scienziati contro il riarmo

Quegli intellettuali severi critici della democrazia ma mansueti con i regimi

Milano festeggia il ramadan in piazza

Africa ExPress
Milano, 22 marzo 2025

Il consolato del Qatar ha organizzato per la prima volta un Iftar (pasto serale che interrompe il digiuno quotidiano dei musulmani durante il mese islamico del ramadan, dopo aver recitato salat al-Maghrib, la preghiera canonica del tramonto ndr) a Milano.

All’evento, in collaborazione con il Comune di Milano e l’Associazione Yasmine (per la comunità marocchina) con sede a Legnano, ha partecipato anche la comunità islamica e araba della città.

Milano: Iftar in presenza delle autorità

L’Iftar è stato aperto dal console generale del Qatar, Abdullah Al-Ziyara, insieme a Claudio Sgaraglia e Bruno Megale, rispettivamente prefetto e questore di Milano, Anna Scavuzzo, vice sindaco del capoluogo lombardo, e rappresentanti delle missioni diplomatiche di diversi Paesi, tra questi anche Mohamed Lakhal, console generale del Regno del Marocco con sede nella città.

Console generale del Qatar, Abdullah Al-Ziyara

Alla cerimonia, che si è svolta nel piazzale della stazione centrale, hanno partecipato anche delegati di diverse associazioni della società civile italiana,  responsabili di associazioni e centri culturali marocchini in Italia.

Questa iniziativa, la prima del suo genere a Milano, è volta a migliorare l’immagine del capoluogo lombardo come città aperta verso altre culture e religioni presenti nella società italiana.

L’evento mira inoltre a promuovere il ramadan tra i musulmani e dare  solidarietà per chi è nel bisogno, sia fedele dell’Islam sia non musulmano. Il digiuno di questo mese, imposto ai fedeli di religione islamica, simboleggia l’empatia e l’assistenza a chi è in stato di necessità.

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Congo-K e Ruanda, prove di dialogo in Qatar ma la pace è ancora lontana

Africa ExPress
Nairobi, 21 marzo 2025

In guerra le sorprese non finiscono mai. Se da un lato il gruppo ribelle M23/AFC, sostenuto dal governo di Kigali, ha boicottato i negoziati di pace a Luanda in agenda per il 18 marzo 2025, dall’altro, i presidenti del Ruanda, Paul Kagame e della Repubblica Democratica del Congo, Felix Tshisekedi, si sono incontrati martedì a Doha, capitale del Qatar.

Vertice preparato in gran segreto

La riunione tra di due capi di Stato è stata tenuta segreta fino all’ultimo e è stata mediata dall’emiro qatariota, Tamim Ben Hamad Al Thani. Nella serata di martedì, il ministero degli Esteri di Doha ha pubblicato un comunicato congiunto: “I due presidenti hanno riaffermato l’impegno di tutte le parti per un cessate il fuoco immediato e incondizionato. Inoltre hanno concordato sul fatto che è indispensabile continuare le discussioni iniziate in Qatar per stabilire solide basi per una pace duratura”.

Al centro, l’emiro del Qatar,Tamim Ben Hamad Al Thani, a sinistra Paul Kagame, presidente del Ruanda, Felix Tshisekedi, capo di Stato del Congo-K

Nuova avanzata dei ribelli

Per ora nessuna precisazione per quanto concerne M23/AFC. Tuttavia sembra che le dichiarazioni dei due leader non abbiano fatto breccia sui ribelli che controllano Goma e Bukavu, rispettivamente capoluoghi del Nord- e Sud-Kivu e altri territori nell’est del Congo-K.  Infatti, proprio ieri il gruppo armato sostenuto dal Ruanda ha conquistato la città di Walikale (Nord-Kivu) dopo intensi combattimenti. Il centro abitato si trova solo una cinquantina di chilometri dalla miniera di stagno di Bisie, la terza più grande al mondo per produzione.

Già dal 14 marzo la società mineraria Alphamine, che ha sede alle Mauritius, ha sospeso le operazioni di estrazione per l’avanzata del gruppo armato.

Miniera di stagno a Bisie (RDC) dell’Alphamine

Finora dunque nessun cessate il fuoco in vista, come auspicato da Kagame e Tshisekedi durante i colloqui a Doha.

Una volta terminato il vertice, Tina Salama, portavoce di Tshisekedi, ha poi precisato sul suo account X (ex Twitter): “E’ stato appena deciso un cessate il fuoco tra Ruanda e RDC. I dettagli dell’attuazione di quanto concordato saranno specificati nei prossimi giorni”.

La presidenza del Ruanda ha confermato che i due leader hanno discusso dell’urgente necessità di un dialogo politico diretto per affrontare le “cause profonde del conflitto. Il presidente Kagame è convinto che se tutte le parti lavorano insieme, le cose possono andare avanti più rapidamente”.

M23/AFC boicottano vertice in Angola

Niente di fatto, invece, nella capitale angolana. Il ministero degli Esteri della ex colonia portoghese ha annunciato martedì che per circostanze particolari e per cause di forza maggiore, i tanto attesi colloqui diretti tra M23/AFC e il governo di Kinshasa sono stati annullati all’ultimo minuto.

In un breve comunicato i ribelli avevano fatto sapere che le sanzioni europee imposte ai propri leader, “hanno compromesso seriamente il dialogo diretto, impedendo così qualsiasi progresso”.

Va sottolineato che il leader angolano, João Lourenço, che è anche l’attuale presidente di turno dell’Unione Africana, era stato nominato mediatore dall’Istituzione con sede a Addis Abeba, già nel 2022. E, la delegazione congolese, presente a Luanda già da lunedì scorso, è ritornata a Kinshasa a mani vuote.

Finora tutti tentativi diplomatici per porre fine al conflitto nella parte orientale della ex colonia belga sono falliti. A dicembre i due presidenti avrebbero dovuto incontrarsi a Luanda, ma all’ultimo momento il vertice è stato annullato.

Rottura tra Ruanda e Belgio

Da lunedì scorso il Ruanda ha interrotto i rapporti diplomatici con il Belgio. Olivier Nduhungirehe, ministro degli Esteri di Kigali, ha chiesto all’attaché d’affaire di Bruxelles di lasciare il Paese entro 48 ore.

La drastica decisione delle autorità di Kigali è scaturita dal fatto che il Belgio si sarebbe apertamente schierato con l’ex Congo belga in questo conflitto regionale e continuerebbe a mobilitarsi contro il Ruanda in vari forum, discreditando il Paese.

Anche il Belgio ha ovviamente preso provvedimenti simili nei confronti dei diplomatici ruandesi accreditati a Bruxelles. Tuttavia, il ministro degli Esteri Maxime Prévot, ritiene le misure adottate dal suo omologo ruandese sproporzionate, sottolineando che in caso di disaccordo, Kigali evita il dialogo.

Sanzioni UE

Proprio a causa del conflitto in corso nell’est del Congo-K, l’Unione Europea ha adottato sanzioni – anche dietro pressioni del Belgio – contro quattro personalità ruandesi (e anche nei confronti di alcuni congolesi).

Dopo aver proposto agli USA l’accesso esclusivo a minerali critici e progetti infrastrutturali in cambio di assistenza per la sicurezza contro i ribelli del M23/AFC, che assieme alle truppe del vicino Ruanda hanno invaso le ricche regioni minerarie dell’est del Paese, Donald Trump non ha perso tempo.

Emissario USA a Kinshasa

Domenica scorsa il presidente congolese ha ricevuto la visita di Ronny Jackson, inviato speciale di Trump e membro del Congresso degli Stati Uniti.

Jackson ha promesso la collaborazione degli USA affinché ritorni la pace nella ex colonia belga. Ha poi sottolineato: “Stiamo lavorando perché le aziende americane possano venire a investire nel Paese. Ma per questo dobbiamo assicurarci che ci sia un ambiente pacifico”.

Ronny Jackson, inviato speciale di Donald Trump e il presidente del Congo-K, Felix Tshisekedi

Oggi Tshisekedi è ritornato sulla questione RDC/USA, precisando che aveva già avviato i dialoghi con Washington sulle miniere congolesi nel 2019, durante il primo mandato di Trump. Poi, a causa del covid si era bloccato tutto. Il dossier era poi stato consegnato anche all’amministrazione di Joe Biden. “Ma ora con il ritorno di Trump, il progetto è di nuovo in pista”, ha aggiunto il presidente congolese.

In una intervista a Fox News, il leader dell’RDC ha poi chiarito: “Nella Silikon Valley sanno bene di cosa parlo. I nostri minerali sono importanti per gli USA, in particolare coltan, cobalto e litio”.

Africa ExPress
X: @africex
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Il Congo-K offre a Trump le sue miniere in cambio dell’aiuto contro i ribelli

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