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I manifestanti contro la finanziaria assaltano il parlamento: almeno 5 morti uccisi dalla polizia in Kenya

Africa ExPress
25 giugno 2024

La polizia kenyota ha aperto il fuoco sui manifestanti che hanno assalito il parlamento per protestare contro il Finance Bill 2024. Finora si parla di 5 morti accertati, ma il bilancio potrebbe salire. I feriti sono oltre 50, qualcuno anche in modo grave.

Manifestazioni in Kenya contro la nuova legge finanziaria: Parlamento in fiamme

Proteste massicce erano previste per la giornata odierna, scuole e uffici pubblici chiusi, ma nessuno poteva immaginarsi una svolta del genere. Le forze dell’ordine hanno dapprima usato gas lacrimogeni, idranti e pallottole di gomma per disperdere i manifestanti. Poi hanno aperto il fuoco contro le centinaia di persone che tentavano di entrare in Parlamento, mentre i deputati stavano per approvare la nuova legge finanziaria.

I parlamentari della maggioranza di governo sono riusciti a fuggire attraverso un tunnel, e i manifestanti hanno permesso a quelli dell’opposizione, che hanno votato contro la legge, di uscire dall’edificio assediato.

 

Le emittenti locali hanno diffuso filmati con scene caotiche e raccapriccianti: manifestanti che tentano di sopraffare gli agenti per prendere d’assalto l’edificio parlamentare. Alcune ali della struttura sono state incendiate. Ora stanno per essere chiuse tutte le maggiori vie d’accesso per la capitale.

Da un momento all’altro potrebbe essere dichiarato lo stato di emergenza.

Aggiornamento mercoledì, 26 giugno 2024 ore 01.00

Durante un discorso alla nazione trasmesso alla televisione, il presidente William Ruto ha classificato l’assalto al parlamento di martedì una minaccia per la sicurezza nazionale e ha giurato che tali disordini non si ripeteranno mai più. Il presidente ha affermato che il dibattito sulle tasse è stato “dirottato da persone pericolose”. Non è normale o concepibile, che dei criminali che si spacciano per manifestanti pacifici possano far regnare il terrore contro il popolo…”.

E il ministro della Difesa, Aden Duale, ha sguinzagliato l’esercito per sostenere la polizia “durante l’emergenza sicurezza e il danneggiamento di infrastrutture critiche”. Ovviamente internet ha subito un notevole rallentamento.

Altri scontri sono scoppiati a Mombasa e manifestazioni si sono tenute a Kisumu, sul lago Vittoria, e a Garissa, nel Kenya orientale, dove la polizia ha bloccato la strada principale per il porto somalo di Kismayu.

Anche a Eldoret, città natale di Ruto nel Kenya nord occidentale, la polizia ha sparato gas lacrimogeni contro manifestanti. Molte attività commerciali sono state chiuse per paura di violenze.

E a Nairobi, poche ore prima dell’escalation delle violenze, la gente scandiva a suon di musica, proveniente da altoparlanti: “Ruto deve andarsene” e “Tutto è possibile senza Ruto”. Infatti, se inizialmente l’attenzione delle proteste era concentrata su Finance Bill 2024, (cioè la legge finanziaria) ora hanno chiesto le dimissioni del presidente, cosa reclamata anche di deputati dell’opposizione.

La Commissione per i diritti umani del Kenya ha invitato Ruto a dare ordine immediato per fermare le uccisioni da parte delle forze di sicurezza. Il presidente, invece, ha fatto sapere di aver mobilitato tutte le risorse per garantire l’ordine.

Gli ambasciatori e gli alti commissari di Paesi come la Gran Bretagna, gli Stati Uniti e la Germania, in una dichiarazione congiunta hanno espresso preoccupazione per le violenze, invitando tutte le parti alla moderazione. Mentre da Washinton la Casa Bianca ha riferito che gli Stati Uniti stanno monitorando attentamente la situazione a Nairobi.

Sono soprattutto i giovani ad essere scesi nelle piazze e nelle strade nelle città di tutto il Paese. Due anni fa erano stati derisi è bollati poco impegnati per non essere andati a votare alle elezioni per il presidente. Ora, invece sono animati dalla rabbia per l’arroganza, la corruzione e la lunga negligenza dello Stato nei confronti delle esigenze della gente.

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Notizia in aggiornamento

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https://www.africa-express.info/2024/06/22/la-guerra-del-pane-manifestazioni-in-tutto-il-kenya-contro-la-nuova-legge-finanziaria/

 

Rianimare un giornalismo ormai senza autorevolezza e prestigio

Africa ExPress e Senza Bavaglio
Milano, 23 giugno 2024

L’informazione del nostro Paese ha subito una regressione impressionante. Gli editori danno la colpa al mercato e alle vendite che sono calate in modo impressionante. Ma uno dei motivi che invece potrebbe essere alla base di questa recessione va ricercato nel fatto che il prodotto giornale non è più curato come lo era solo fino a trent’anni fa, la qualità è quindi crollata, trascinando nel gorgo prestigio e autorevolezza: il pubblico lo ha capito e quindi il malumore si è riversato sul numero delle copie che è paurosamente sceso.

Il problema (non solo italiano, però) è la commistione tra economia, politica e media. Come la Rivoluzione francese ha stabilito un principio ormai riconosciuto universalmente – la separazione tra potere legislativo, esecutivo e giudiziario – oggi gli obbiettivi della rivoluzione liberale degli anni 2000 deve proporre e sancire la separazione tra potere politico, economico e dei media. Un obiettivo ambizioso, lo sappiamo, ma occorre cominciare a parlarne perché l’opinione pubblica ne prenda coscienza.

In questi giorni abbiamo assistito a comportamenti e affermazioni imbarazzanti di esponenti politici del nostro Paese. Obbiettivo colpire l’informazione libera. La giunta municipale di Milano ha querelato il giornalista Gianni Barbacetto, reo di aver posto domande scomode sulla situazione delle concessioni edilizie nel capoluogo milanese.

Domande, mica insulti o affermazioni calunniose. Quelle domande, sono la motivazione della querela, danneggiano la reputazione del Comune e dei funzionari che lavorano nei suoi uffici. Un chiaro tentativo di intimidazione per far sì che Barbacetto, un giornalista impegnato in ricerche di giornalismo investigativo, e quelli come lui la smettano di scrivere e indagare.

Altrettanto inquietanti le giustificazioni addotte da diversi politici che, a chi chiedeva loro un parere sull’inchiesta di Fanpage sulle organizzazioni giovanili di destra, hanno risposto tutti più o meno così: “Sono state intervistate persone colte di sorpresa a loro insaputa, la giornalista non si è rivelata tale e questo squalifica il suo lavoro”. Nessuno – per quanto ne sappiamo noi – ha risposto nel merito, ma tutti hanno attaccato un giornalismo secondo loro scorretto.

A costoro noi rispondiamo citando una delle massime care a Joseph Politzer: “Non esiste delitto, inganno, trucco, imbroglio e vizio che non vivano della loro segretezza. Portate alla luce del giorno questi segreti, descriveteli, rendeteli ridicoli agli occhi di tutti e prima o poi la pubblica opinione li getterà via. La sola divulgazione di per sé non è forse sufficiente, ma è l’unico mezzo senza il quale falliscono tutti gli altri”.

Noi di Africa ExPress e Senza Bavaglio riteniamo invece che sia importante recuperare il valore di questo concetto: svelare i segreti, fornire all’opinione pubblica tutte le informazioni – soprattutto quelle inconfessabili – perché il pubblico si possa creare una coscienza e possa giudicare le decisioni politiche per quello che sono in realtà non per quello che sembrano.

Africa ExPress e Senza Bavaglio
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Perché Africa ExPress e Senza Bavaglio? Perché c’è bisogno di un giornalismo nuovo

Oppositori al regime militare in Niger vanno all’attacco con sequestri e sabotaggi

Africa ExPress
24 giugno 2024

“Eppur si muove”, citando Galileo, l’opposizione al regime militare di transizione non si lascia intimidire e riemerge dal silenzio.

Regione di Agadez,Niger: sequestro del prefetto di Bilma

Un nuovo gruppo politico militare, finora sconosciuto, è apparso nel travagliato cielo del Niger. Il Front patriotique pour la justice (FPJ), capeggiato da Mahamato Tori, ha rivendicato l’attacco al convoglio del prefetto di Bilma (comune nella regione di Agadez), il sequestro dell’alto funzionario, del comandante Amadou Torda e di tutto l’apparato di sicurezza al seguito. L’aggressione è avvenuta proprio nella regione desertica di Agadez, che confina con la Libia e l’Algeria.

In un comunicato, pubblicato sabato scorso, Tori avverte: “Continueremo a lottare finché il presidente Mohamed Bazoum non verrà liberato”. E, secondo quanto afferma FPJ, durante l’attacco al convoglio del prefetto, sarebbero morti due militari nigerini.

FPJ è il secondo movimento d’opposizione armato passato all’azione nel giro di pochi giorni in Niger. Il 16 giugno scorso il Front Patriotique pour la Libération (FPL) capitanato da Mahmoud Sallah, aveva rivendicato il sabotaggio dell’oleodotto che porta il greggio dal Niger a Cotonou in Benin. I ribelli dell’FPL avevano minacciato da tempo che avrebbero fatto esplodere l’oleodotto se non fossero state soddisfatte le loro richieste, cioè  il ritorno dell’ordine costituzionale dopo il colpo di Stato del luglio 2023.

Sabotaggio dell’oleodotto Niger-Benin

Il 17 giugno l’FPL aveva chiesto alla società petrolifera cinese WAPCO – filiale di China National Petroleum Corporation (CNPC) – di annullare il prestito di 400 milioni di dollari concesso alla giunta militare di transizione. In caso contrario tutti gli impianti petroliferi sarebbero stati paralizzati.

A metà maggio il Fronte patriottico di liberazione ha rivendicato la responsabilità dell’attacco a una postazione militare a Séguédine, nel nord del Paese, non lontano dal confine libico. Diversi soldati sono stati uccisi e molte attrezzature sono state distrutte.

Il 40enne Mahmoud Sallah, leader di FPL ha conseguito un master in economia presso l’Università di Niamey. L’attivista politico si era rifiutato di aderire all’ex partito di governo di Mohamed Bazoum, il PNDS (Partito Nigerino per la Democrazia e il Socialismo). Sallah è stato poi imprigionato nel 2016 e nel 2019. Al termine della pena, ha fondato l’Union des Forces Patriotiques et Révolutionnaires (UFPR), poi diventata l’attuale FPL, composto principalmente da giovani Toubou, il suo gruppo etnico. Originario del Kawar, regione ricca di petrolio del Niger, il leader di FPL si sposta tra il suo Paese, il Ciad e la Libia. FPL si è alleato con l’ex leader dei ribelli touareg, Rhissa Ag Boula.

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Gli americani se ne vanno, bye bye Niger

 

La guerra del pane: manifestazioni in tutto il Kenya contro la nuova legge finanziaria

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
23 giugno 2024

Il Kenya è ancora sotto shock dopo l’uccisione di un 29enne durante la manifestazione di giovedì scorso contro la nuova legge finanziaria. Rex Kanyike Masai è morto nel centro di Nairobi a causa di ferite d’arma da fuoco durante le proteste.

Proteste in Kenya contro Finance Bill 2024

La polizia è andata giù pesante: ha usato lacrimogeni e cannoni d’acqua contro la gente, che, in gran parte, manifestava pacificamente nei pressi del parlamento, dove i legislatori stavano appunto discutendo sull’introduzione di nuove tasse.

Le proposte di legge del Finance Bill 2024  prevedono, tra l’altro, nuovi prelievi sull’assicurazione medica, tasse sull’olio vegetale e un ulteriore accisa sui carburanti. Ciò che la gente sta contestando maggiormente è l’imposta sul valore aggiunto sul pane – che in precedenza era a tasso zero – e un’altra di tipo ecologico che influenzerà i prezzi di assorbenti e pannolini. Insomma dopo le alluvioni, l’inflazione galoppante che su base annua si attesta al 5,1 per cento, la gente è allo stremo, anche a causa della disoccupazione giovanile. Sebbene il tasso di disoccupazione complessivo in Kenya sia del 12,7 per cento, mentre quello giovanile (15-34 anni, che costituiscono il 35 per cento della popolazione), è attorno al 67 per cento.

Amnesty International e altre quattro organizzazioni per i diritti umani, in un comunicato congiunto hanno denunciato giovedì scorso la violenta repressione della polizia antisommossa. Durante le manifestazioni sono state ferite almeno 200 persone, mentre oltre 100 sono state arrestate durante le proteste che si sono svolte non solo nella capitale, ma anche in altre città del Paese.

Si parla di 200 feriti nella sola Nairobi. Molti hanno riportato lesioni ai tessuti molli, altri, invece, problemi respiratori dovuti all’inalazione di gas lacrimogeni. Sei sono stati urtati dalle auto mentre scappavano dalla polizia e cinque sono stati colpiti da proiettili di gomma.

Proteste in Kenya: polizia usa idranti e gas lacrimogeni contro manifestanti

La mamma del giovane ucciso ha raccontato ai giornalisti che il figlio era insieme ad alcuni amici quando è caduto, riverso in una pozza di sangue, dopo essere stato colpito.

La Commissione Internazionale dei Giuristi (ICJ, organizzazione non governativa che si pone come obiettivo la promozione e la protezione dei diritti umani attraverso lo Stato di diritto) ha chiesto all’Independent Policing Oversight Authority di indagare sugli episodi di violenza della polizia durante le proteste. “Ribadiamo che l’uso di proiettili veri contro i manifestanti è sproporzionato e illegale”, ha dichiarato il presidente dell’ICJ,  Protas Saende.

Cornelia I. Toelgyes
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Piogge torrenziali e alluvioni: violenta crisi umanitaria in Kenya

Zambia, elefante calpesta a morte una turista americana

Africa ExPress
22 giugno 2024

Una 64enne turista statunitense, Juliana Gle Tourneau, originaria del Nuovo Messico, è morta, calpestata da un elefante, durante la sua vacanza in Zambia. E’ la seconda vittima americana uccisa da un pachiderma nel Paese nel giro di pochi mesi.

Zambia: elefante calpesta a morte turista americana

Il commissario di polizia della Southern Province, Auxensio Daka, ha confermato che l’incidente del quale è riasta vittima Juliana è accaduto mercoledì scorso a Livingston, sul Maramba cultural bridge. La città porta il nome dell’esploratore scozzese David, il primo europeo ad essersi addentrato nella zona. Dista solo pochi chilometri dalla Cascate Vittoria sul fiume Zambesi. Un sito dichiarato Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco e considerato uno delle sette meraviglie naturali del mondo.

Cascate Vittoria

La donna si trovava insieme a altri turisti su una macchina per osservare una mandria di elefanti, quando improvvisamente uno dei pachidermi ha attaccato la vettura, scaraventando Juliana all’esterno, per poi calpestarla a morte.

“Il fatto è successo verso le 18.00, mentre i turisti stavano tornando nel loro albergo”, ha spiegato il commissario di polizia. “Ma la comitiva si è dovuta fermare, in quanto il traffico sul ponte era bloccato a causa del passaggio del branco degli elefanti. La donna è stata soccorsa immediatamente e portata nel centro medico più vicino, dove è però deceduta subito dopo il suo arrivo”, ha puntualizzato infine il funzionario.

Elefanti nel parco nazionale del Kafue, Zambia

In marzo la 79enne statunitense, Gail Mattson, era morta in un incidente simile nel parco nazionale del Kafue, il secondo per grandezza in Africa e che ospita oltre 55 specie di animali. Anche allora un elefante maschio aveva caricato improvvisamente la vettura sulla quale viaggiavano 6 turisti con la loro guida. Un’altra donna era stata ferita e trasportata in ospedale, mentre i restanti componenti del gruppo avevano riportato solo lesioni minori. Allora le autorità avevano dispiegato sulla scena dell’incidente anche un elicottero e aperto un’inchiesta.

Africa ExPress
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Burkina Faso: carneficina jihadista (oltre 100 morti) e il leader della giunta riappare in pubblico e rassicura il Paese

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
20 giugno 2024

Il Consiglio dei ministri del Burkina Faso, previsto in un primo tempo per mercoledì 19 giugno, si è tenuto finalmente questa mattina a Ougadougou, presieduto dal leader della giunta militare, Ibrahim Traoré, al potere dal 2022 dopo un colpo di Stato.

Burkina Faso, Mansila, attacco dei jihadisti di JNIM

Durante l’attacco jihadista dell’11 giugno scorso a Mansila, nel nord-est del Burkina Faso, al confine con il Niger, sono morti oltre 100 soldati burkinbé e parecchi civili. Dopo il sanguinoso assalto sono circolate voci di malcontento da parte delle truppe e Traoré non è più apparso in pubblico per diversi giorni.

La carneficina di Mansila è poi stata rivendicata qualche giorno dopo da JNIM (Gruppo di sostegno dell’Islam e dei musulmani), costituito nel marzo 2017. Il movimento ora è guidato da Iyad Ag-Ghali, vecchia figura indipendentista tuareg, diventato capo jihadista e fondatore di Ansar Dine, in italiano: ausiliari della religione (islamica). Il “consorzio” comprende diverse sigle, tra questi Ansar Dine e Katiba Macina, AQMI (al Qaeda nel Magreb Islamico) e altri.

Durante il Consiglio odierno, il capo del regime militare di transizione ha smentito qualsiasi “sbalzo di umore” all’interno dell’esercito. “Sono notizie false”, ha poi sottolineato Traoré durante un servizio trasmesso dalla TV di Stato RTB. L’intervento del leader del regime militare è stato girato nel cortile dell’edificio dell’emittente RTB, dove il 12 giugno scorso – un giorno dopo la sanguinosa aggressione jihadista a Mansila – era caduto un razzo. La presidenza aveva classificato il fatto come incidente.

E Traoré, che non apprezza le critiche da parte di nessuno, ha nuovamente attaccato i media occidentali, definendoli “bugiardi e manipolatori”. Il 18 giugno scorso, il Consiglio Superiore della Comunicazione (CSC) ha sospeso per sei mesi le trasmissioni di TV5 Monde Afrique e ha multato l’emittente di 50 milioni di CFA (circa 76.500 euro). Già martedì l’esercito aveva negato “sbalzi di umore e voci di ammutinamenti” in alcune caserme.

Oggi il capo del regime militare di transizione ha inoltre spiegato di aver lanciato un’operazione a Mansila subito dopo l’attacco. Peccato solo che finora le autorità di Ouagadougou non abbiano rilasciato nessun comunicato ufficiale per quanto riguarda il bilancio della carneficina nel nord-est del Paese. Una fonte della sicurezza ha fatto sapere che mancano davvero molti soldati all’appello. I distaccamenti militari dispiegati in Burkina Faso comprendono generalmente circa 150 uomini.

Traoré ha poi spiegato che sono arrivati 6 aerei russi Ilyushine dal Mali a Ougadougou, con materiale proveniente dalle ex basi di MINUSMA di Gao e Timbuctù. Secondo alcune fonti attendibili, insieme all’equipaggiamento sarebbero arrivati anche parecchi “istruttori russi”, precedentemente di stanza in Mali.

Ibrahim Traoré, golpista Burkina Faso

Finora nessuna conferma ufficiale sull’arrivo di altri mercenari. I russi sono presenti da tempo nei tre Paesi (Mali, Niger e Burkina Faso) dopo la presa di potere da parte dei militari che hanno dato il benservito ai loro partner occidentali.

Il Burkina Faso, come i suoi vicini del Mali e del Niger, da oltre 10 anni è soggetto a continui attacchi dei terroristi. Finora le aggressioni hanno ucciso 20mila civili, oltre due milioni sono sfollati. Parte dei territori sono ancora fuori dal controllo dello Stato centrale, e, malgrado le forze messe in campo dalla giunta militare ad interim, i jihadisti continuano indisturbatamente le loro aggressioni contro la popolazione e le truppe di Ouagadougou.

Cornelia I. Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
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Rapporto ONU piazza l’esercito Israeliano nella lista nera delle organizzazioni terroriste come l’ISIS e Al Qaeda

Speciale per Africa ExPress
Federica Iezzi
19 giugno 2024

Al pari di Russia, organizzazioni terroriste come ISIS/Daesh, al-Qaeda e Boko Haram, Israele – nella fattispecie le Forze di Difesa Israeliane – è stato incluso nella lista nera dei Paesi per violazioni e abusi contro i bambini nelle zone di conflitto.

Striscia di Gaza [photo credit UNRWA]
Nonostante gli sforzi dello stato israeliano per persuadere António Guterres, Segretario Generale delle Nazioni Unite, a riconsiderare la risoluzione, la decisione resta valida.

Il rapporto delle Nazioni Unite, ha accertato più casi di crimini di guerra contro i minori nei Territori Occupati Palestinesi che in Repubblica Democratica del Congo, Myanmar, Somalia, Nigeria e Sudan. Sono stati verificati 8.009 gravi violazioni contro 4.360 bambini. Si parla di un aumento del 155% [Children and armed conflict – Report of the Secretary General].

Il rapporto di quest’anno è una lettura triste. Le Nazioni Unite hanno verificato più di 30mila gravi violazioni a livello globale nel 2023, con un aumento del 21 per cento rispetto all’anno precedente. L’aumento allarmante è dovuto alla natura in evoluzione, alla complessità e all’intensificazione dei conflitti armati, nonché all’uso di armi esplosive nelle aree popolate.

L’inclusione di Israele nella lista nera potrebbe indurre, chi continua a mantenere vivi rapporti commerciali con il Paese, a imporre un embargo sulle armi. In effetti il quadro più schiacciante, dal punto di vista morale e legale, è stato il sostegno diplomatico, finanziario e militare, a tutto campo, dell’Occidente all’assalto punitivo di Israele in Palestina.

 

La risposta di Israele è esplicitamente scivolata, ancora una volta, sulla linea della illegalità. Infatti lo Stato potrebbe negare i visti ai funzionari delle Nazioni Unite, impedendo loro di lavorare in Cisgiordania.

Ancora in piena discussione, presso la Corte Penale Internazionale, le accuse contro il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu e quello della della Difesa, Yoav Gallant. Pendenti anche le decisioni della Corte Internazionale di Giustizia che hanno fatto seguito alla richiesta di avvio di un procedimento contro lo Stato di Israele da parte del Sudafrica, per atti di genocidio contro i palestinesi della Striscia di Gaza.

Raphael Lemkin, giurista ebreo polacco, che ha dato il nome a quello che oggi viene definito “genocidio”, aveva ben in mente il suo significato [Free world, 1945]. Quello dell’intento manifesto alla distruzione di un popolo, attraverso una precisa policy e un chiarissimo schema delle condotte di un governo.

Il genocidio è reso possibile dalla disumanizzazione dell’altro. Molti Paesi, disegnati sulle attuali cartine geografiche, sono nati dalle ceneri di violenti massacri, basti pensare agli Stati Uniti contro i nativi d’America, alla Cambogia di Pol Pot contro minoranze etniche e religiose cambogiane, al Canada contro i popoli indigeni.

È estremamente difficile riparare la frattura spirituale commessa da Israele ai danni dei palestinesi. Ricorda, con tutto il suo orrore e la sua ingiustizia, pagine nere della nostra storia, a partire da Sarajevo per arrivare al Rwanda.

L’obiettivo è quello della fine dei doppi standard e della cultura dell’impunità di cui Israele ha goduto per troppo tempo.

Ci si chiede, come si è arrivati a tutto questo? L’errore di partenza è stato quello della tolleranza verso il colonialismo di insediamento di Israele, ancora prima della sua nascita come Stato. La sottrazione arbitraria delle terre palestinesi avveniva già con gli ebrei in fuga dall’Europa nazifascista. E allora il dualismo legale e la conseguente apartheid ha plasmato anni di soprusi.

Federica Iezzi
federicaiezzi@hotmail.it
Twitter @federicaiezzi
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Addio alla criminalità: la difficile strada verso la normalità di un giovane sudafricano

Dalla Nostra Corrispondente
Elena Gazzano
Città del Capo, 18 giugno 2024

La vita non ha perso tempo nel mettere alla prova Solin Roman. La forza della sua passione per la vita lo ha portato a unirsi alla banda locale quando aveva 19 anni; e la stessa forza lo allontanò da quella crudele esistenza poco prima del suo 21esimo compleanno.

Bande criminali Città del Capo

Ci sono storie che vivono nell’ombra, storie che la cronaca non rivela e che la società preferisce ignorare. In uno degli angoli più tormentati di Città del Capo, incastonato tra le strette vie di Manenberg, si svolge una guerra silenziosa e invisibile. È una guerra che si combatte quotidianamente nei vicoli e nelle case angosciate del quartiere. Solin Roman, con i suoi 21 anni di vita e gli occhi che raccontano storie di tormento e redenzione, è un veterano di questa battaglia.

Seduto davanti al suo schermo, Solin sembra un ragazzo qualunque, uno dei tanti giovani che riempiono le strade di Città del Capo. Ma il suo sguardo rivela una profondità che pochi alla sua età conoscono.

La sua storia inizia come tante altre nel mondo sotterraneo della malavita sudafricana: una famiglia segnata dalla criminalità. Un luogo dove la delinquenza è più di una scelta; offre protezione ed è un’eredità nel suo genere.

Solin Roman: a sinistra, mentre faceva ancora parte della banda criminale

Parliamoci chiaro. Manenberg (un quartiere di Città del Capo, creato dal governo dell’apartheid per le famiglie di colore a basso reddito) non è esattamente il posto che viene in mente quando si pensa alle storie di redenzione. “Non ho scelto di unirmi ad una banda, è la banda che ha scelto me, la passione di restare in vita ha deciso per me”. In questa fogna dimenticata, il crimine è il respiro della vita. “I miei fratelli, i miei cugini, facevano già parte degli Americans“, dice Solin. Gli “americani” controllano ogni angolo di questa sanguinosa realtà. “Unirsi a loro è stato come respirare: una necessità.”

Gli Americans sono una delle gang più temibili di Manenberg, noti per la loro ferocia e il controllo spietato del territorio. Questa zona è il loro impero; non puoi entrare nel quartiere senza il loro permesso… se vuoi andartene via tutto intero.

A 19 anni Solin si unisce alla sua banda, e viene trascinato nel vortice delle attività criminali: rapine, spaccio di droga, violenze. Ogni azione era un passo più lontano dall’innocenza e un passo più vicino verso lo “tshappie” (un tatuaggio che simboleggia a quale banda si appartiene).

Non c’è romanticismo nella sua storia. Gli Americans furono i mentori di Solin per caso e i suoi rapitori per destino. “Avevano il quartiere in pugno, con esso la mia vita”, dice con cruda onestà.

Ecco in un video l’intervista a Solin Roman

Chiamarla scelta sarebbe un’iperbole. Era una trappola inevitabile, un destino già scritto. “Non mi sono mai chiesto se volevo quel tipo di vita, perché non ho mai conosciuto un’alternativa – aggiunge -. Le cose diventavano sempre più difficili a casa. Non c’era abbastanza cibo. Volevo cambiare, magari trovare un lavoro e aiutare mia madre.”

E poi, un cambiamento. Un barlume di speranza. “Robin, un mentore spirituale, mi ha visto in un video sui social media”. Non era un santo con l’aureola, ma un uomo che non accettava di vedere un’altra vita stroncata. “Ha contattato la mia famiglia, ha insistito, ha lottato per farmi entrare nel programma di riabilitazione Sons of God”.

Quando ho iniziato il programma non è stato facile – ammette Solin con lo sguardo perso nei ricordi -. Ma ogni giorno diventava più chiaro che questa era la strada giusta. Prego ogni giorno, per me e per la mia famiglia. Voglio disperatamente fare la differenza.”

La trasformazione di Solin è un viaggio difficile, la strada verso la redenzione costellata di tentazioni e pericoli, dove il passato si manifesta come un’ombra insidiosa, sempre pronta a sussurrarti all’orecchio. Ma Solin è determinato. “In questo momento – spiega – il programma mi ha cambiato fisicamente e spiritualmente. Voglio una famiglia, voglio un lavoro. Sogno una vita normale, lontana dalla violenza”.

La lotta di Solin non è solo contro il suo passato, ma contro un sistema che ha radicato il gangsterismo nel tessuto stesso della sua comunità. Manenberg è un luogo dove il crimine non è solo un’opzione, ma una necessità imposta dalle circostanze. Povertà e mancanza di sicurezza trasformano la vita di molti giovani in una lotteria crudele, dove il biglietto vincente è spesso una condanna penale.

Quando gli viene chiesto del suo ritorno a Manenberg, Solin non mostra paura. “Mia madre è felice per me – dice con un sorriso appena percettibile -. La gente di Manenberg è la mia tifosa numero uno e comincia a capire che il cambiamento è possibile”.

Com’è burlona la vita, presentandoci sfide diverse ad ogni angolo, eppure a volte è la nostra passione ardente che diventa sia il nostro rapitore che il nostro liberatore.

La storia di Solin Roman è un vivido esempio di questa realtà, una testimonianza che il potere della trasformazione e della speranza può raggiungere anche luoghi oscuri come Manenberg.

Elena Gazzano
elenagazzano6@gmail.com
https://www.instagram.com/elena.gazzano/
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ONU conferma: i paramilitari sudanesi reclutano milizie in Centrafrica

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
18 giugno 2024

Dopo 14 mesi di guerra, oltre 12 milioni di sudanesi hanno lasciato le proprie case: di questi più di 9,9 milioni sono sfollati, mentre circa due milioni hanno cercato protezione nei Paesi limitrofi, per lo più in Ciad, Egitto e Sud Sudan, secondo l’ultimo rapporto di OIM (Organizzazione Internazionale per i Migranti). Non dimentichiamoci che dietro queste cifre ci sono persone, famiglie intere, bambini, che a causa del brutale conflitto tra le Rapid Support Forces, capeggiate da Mohamed Hamdan Dagalo, meglio noto come Hemetti, e le Forze armate sudanesi (SAF) Abdel Fattah Abdelrahman al-Burhan, presidente del Consiglio Sovrano e di fatto capo dello Stato, hanno perso tutto: casa, beni, parenti. Ciò che resta sono distruzione, fame e lacrime.

E’ risaputo che le RSF ricevono rifornimenti tramite Libia, Ciad e Repubblica Centrafricana. Ora arriva anche la conferma da parte degli esperti delle Nazioni Unite: i paramilitari di Hemetti (ex leader dei janjaweed, uomini a cavallo che violentavano le donne, uccidevano gli uomini e rapinavano i bambini) stanno pure reclutando miliziani di gruppi armati dal vicino Centrafrica.

Nel loro rapporto di venerdì scorso, il gruppo di esperti dell’ONU ha evidenziato che Am Dafok, al confine con la Repubblica Centrafricana (RCA), non è solo una linea di rifornimento per le RSF, ma anche un centro di reclutamento di nuovi miliziani pronti a combattere a fianco dei ribelli sudanesi. Già dall’agosto 2023 sono presenti combattenti di Front populaire pour la renaissance de la Centrafrique (FPRC).

Intanto El Fasher, capoluogo del Darfur settentrionale, è ancora al centro di sanguinosi  combattimenti. Secondo Medici Senza Frontiera ormai non esiste più un luogo sicuro nell’intera area. Uomini armati entrano in città, sparando sulla popolazione. Sembra essere l’inferno sulla terra. Settimana scorsa Karim Khan, procuratore della Corte Penale Internazionale (CPI) ha lanciato un appello, chiedendo di testimoniare in relazione alle accuse di crimini commessi in Sudan, in particolare a El-Fasher.

Gli appelli contro l’assedio nel capoluogo del Darfur settentrionale si susseguono. Il 13 giugno scorso il Consiglio di sicurezza dell’ONU ha adottato una risoluzione redatta dal Regno Unito, che chiede il ritiro immediato di tutti combattenti che minacciano la sicurezza dei civili. La proposta è stata votata da 14 dei 15 membri; sola astenuta: la Federazione Russa.

Abitanti di El Faher, in fuga dai combattimenti

Il Consiglio di Sicurezza ha anche esortato i Paesi a astenersi da interferenze esterne, volte a fomentare il conflitto e l’instabilità, sottolineando inoltre che tutti gli Stati membri, nonché le parti coinvolte nella guerra, devono rispettare l’ embargo sulle armi.

Sia Iran, sia gli Emirati Arbi Uniti sono già stati accusati di aver violato le misure adottate dall’UNO. Con prove evidenti, il primo ha fornito droni alle forze governative, grazie alle quali hanno potuto riconquistare, tra l’altro, la sede dell’emittente di Stato a Khartoum. Mentre è risaputo che gli EAU hanno fornito materiale bellico alle RSF via il vicino Ciad (https://www.africa-express.info/2023/04/17/sudan-dal-ciad-arrivano-i-rinforzi-per-i-janjaweed-sostenuti-da-arabia-saudita-e-emirati/). Un rapporto in tal senso era già stato presentato da esperti in monitoraggio aereo al Consiglio di sicurezza del Palazzo di Vetro all’inizio di quest’anno. Gli EAU hanno sempre respinto queste  accuse.

Intanto peggiora di giorno in giorno la situazione umanitaria nel Paese. Il conflitto è già costato la vita a migliaia e migliaia di sudanesi e sia l’ONU, sia le ONG avvertono da tempo che, secondo le stime, centinaia di migliaia di persone potrebbero trovarsi di fronte a carenze alimentari catastrofiche entro settembre.

Samantha Power, amministratrice di USAID (l’Agenzia USA per lo Sviluppo Internazionale), ha fatto sapere settimana scorsa che sono stati stanziati 315 milioni di dollari per aiuti urgenti per il Sudan, perché minacciato da una carestia di proporzioni storiche. La Power ha chiesto alle parti in conflitto di consentire l’accesso agli aiuti umanitari.

Mentre Linda Thomas-Greenfield, ambasciatrice statunitense presso le Nazioni Unite, ha dichiarato ai giornalisti: “Il mondo deve svegliarsi di fronte alla catastrofe che si sta svolgendo sotto i nostri occhi”.

E mentre la popolazione è in ginocchio e gran parte del Paese è in macerie, il governo sudanese ha concesso alla Russia di costruire una base navale a Port Sudan. La questione era già stata discussa anni fa tra Vladimir Putin e l’allora dittatore Omar al Bashir. In seguito le autorità di Khrtoum hanno congelato l’accordo bilaterale, perché a causa dell’instabilità politica il parlamento non è stato in grado di ratificare il trattato. (https://www.africa-express.info/2021/04/30/khartoum-sospende-accordo-bilaterale-con-mosca-per-costruzione-base-navale-a-port-sudan/)

Port Sudan, Mar Rosso

Ora la base navale russa è tornata alla ribalta. Lo ha confermato anche l’ambasciatore sudanese accreditato a Mosca, Mohamed Siraj, durante un’intervista concessa a Sputnik all’inizio del mese. Mentre una decina di giorni dopo il viceministro degli Esteri russo, Mikhail Bogdanov, ha chiarito che sono in corso colloqui con il Sudan in merito a una potenziale base russa sul Mar Rosso, ma ha sottolineato che finora non è stato raggiunto un accordo concreto.

Bogdanov ha anche sottolineato che bisogna aprire urgentemente nuovi dialoghi per porre fine alle ostilità in Sudan.

Se Mosca e Khartoum dovessero raggiungere un’intesa per la base militare sul Mar Rosso, il Cremlino dovrebbe fare un importante cambiamento di rotta. Finora la Russia ha appoggiato le RSF capeggiate da Hemetti, giacchè il gruppo Wagner, molto vicino a Putin, aveva ottenuto diritti minerari per giacimenti auriferi, fonte di valuta estera per la Russia, sotto sanzioni occidentali dopo l’invasione dell’Ucraina nel 2022.

Secondo l’Institute for the Study of War con sede a Washington, in cambio di una presenza navale in Sudan, sembra che il ministro degli Esteri russo si sia impegnata a fornire supporto militare alle Forze armate sudanesi.

Cornelia I. Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
X: @cotoelgyes

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