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Distribuzione del cibo in Nigeria: nella calca morte schiacciate oltre 30 persone

Speciale per Africa ExPress Cornelia I. Toelgyes Dicembre 2024 Sabato...
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Kenya, processo per terrorismo al profeta della “Setta della Fame” responsabile del massacro di Shakahola

Speciale per Africa ExPress

Sandro Pintus
16 luglio 2024

La settimana scorsa, nel tribunale di Shanzu a Mombasa, è iniziato il processo al predicatore-profeta Paul Mackenzie Nthenge. Il profeta è capo della Good News International Church (Chiesa Internazionale della Buona Novella), soprannominata la “Setta della Fame”.

Shakahola
Kenya, Shakahola, esumazione dei cadaveri

Nelle fosse comuni trovati 448 cadaveri

È ritenuto responsabile della morte di 448 persone seppellite in fosse comuni nella foresta di Shakahola, vicino a Malindi, sulla costa del Kenya. Tra i cadaveri sono stati identificati 131 bambini dei 184 scomparsi.

Il “massacro di Shakahola”, è venuto alla luce nell’aprile scorso, lasciando sotto shock l’intero Paese. Dopo la macabra scoperta il presidente keniota, William Ruto, si è scagliato contro “le congregazioni che usano la religione per ideologie inaccettabili”, paragonandole al terrorismo.

Il pubblico ministero ha subito chiarito che la chiesa della Buona Novella è “un’organizzazione criminale che ha commesso atti violenti in nome di un’ideologia”.

Morti per fame

La morte delle 448 persone, adepti della setta è avvenuta per fame. Mackenzie incoraggiava i fedeli a morire “per incontrare Gesù”. Chi cercava di scappare veniva ucciso a bastonate.

Le udienze del processo si tengono a porte chiuse con 90 testimoni, dodici dei quali – anche nove bambini – sono sotto protezione. Mackenzie e i coimputati sono accusati di 13 atti di terrorismo per il loro coinvolgimento nella morte di 448 persone, i cui corpi sono stati riesumati dalla foresta di Shakahola.

Secondo l’accusa saranno presentate prove dirette e indiziarie, ma anche con numerose prove reali e documentali, comprese quelle elettroniche e altre forme oltre che digitali. “Le prove riveleranno una struttura gerarchica, con Mackenzie e Smart Mwakalama al comando che supervisionavano le operazioni”, ha detto Peter Kiprop, vicedirettore della Procura.

morti anche bambini il Paul Mackenzie Nthenge
Paul Mackenzie Nthenge, predicatore-profeta della setta Good News International Church

La difesa: “È libertà di religione”

Di diverso avviso la difesa che ha respinto la accuse. Paul Mackenzie e i suoi coimputati stavano semplicemente esercitando i loro diritti fondamentali e si appella alle libertà di religione, espressione e associazione garantite dalla Costituzione keniota.

Il 10 luglio c’è stata la testimonianza di Lewis Thoya Sira, medico e fratello di Paul Mackenzie. Dopo aver saputo della morte dei suoi due nipoti deceduti per fame, si sarebbe recato sul posto, a Shakahola, con una TV locale e un suo cugino. Anche un bambino di 8 anni ha rilasciato una testimonianza in cui denuncia che all’età di 7 anni i suoi genitori hanno smesso di nutrirlo “perché quello era l’unico modo per andare in paradiso e incontrare Gesù”.

Il predicatore, insieme ai coimputati, è accusato anche di omicidio, omicidio colposo e crudeltà su minori da altri tre tribunali del Paese. Le cose si complicano parecchio per Paul Mackenzie Nthenge.

Sandro Pintus
sandro.p@catpress.com

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@sand_pin
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Massacro della setta religiosa in Kenya: a processo il profeta e 94 aderenti

Strage della setta religiosa in Kenya: salgono a 200 i morti e più di 600 dispersi

Orrore religioso in Kenya: trovati oltre 100 cadaveri, si sono lasciati morire di fame, scomparse più di 400 persone

Massacro in Kenya, 90 adepti di una setta cristiana si sono lasciati morire di fame “per incontrare Gesù”

Burkina Faso verso la criminalizzazione degli omosessuali

Dalla Nostra Corrispondente
Simona Fossati
Nairobi, 14 luglio 2024

 

Anche il Burkina Faso vuole criminalizzare l’omosessualità, allineandosi così con molti Paesi africani. Le pene previste non sono ancora state specificate. Finora in Burkina Faso non esisteva una legge che sanzionasse l’omosessualità.

Il Consiglio dei ministri della ex colonia francese, governata con pugno di ferro da una giunta militare di transizione, capeggiata dal golpista Ibrahim Traoré, sta preparando un intervento legislativo che mira a riformare il diritto di famiglia e le libertà dell’individuo. Il vecchio codice risale al 1989

Il governo, sotto il profilo legale, vuole rendere reato l’omosessualità e le pratiche a essa collegate. Nondimeno anche i diritti civili saranno oggetto di riforma: i matrimoni tradizionali e quelli religiosi saranno equiparati a quelli civili, la maggiore età verrà raggiunta a 18 anni e non più a 20. L’età minima per i matrimoni è di 18 anni, ma con l’autorizzazione di un giudice ci si può sposare anche a 16.

Spose bambine

Il testo del progetto di legge, che è stato inviato all’Assemblea legislativa di transizione per l’esame e l’adozione, prevede anche novità per quanto riguarda l’acquisizione e la perdita della cittadinanza burkinabé.

Un cittadino straniero, sposato con uno di nazionalità del Burkina Faso può richiedere la cittadinanza 5 anni dopo aver contratto il matrimonio. Ma la cittadinanza burkinabé si può anche perdere per comportamenti e/o azioni che vanno contro gli interessi del Paese. Quest’ultimo provvedimento non avrà alcun effetto sui figli e sui coniugi delle persone private della cittadinanza, ha spiegato il ministro della Giustizia di Ouagdougou, Edasso Rodrique Bayala.

Il governo giustifica queste proposte di legge con il fatto che le autorità tengono conto dei costumi e delle tradizioni del Burkina Faso. In poche parole vorrebbe  liberarsi da tutte le imposizioni provenienti dall’Occidente.

Simona Fossati
Simona.fossati@gmail.com
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Altri articoli sul BURKINA FASO li trovate qui

 

Kenya: Ruto silura gabinetto dei ministri e promette governo di larghe intese

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
13 luglio 2024

Dopo le proteste delle scorse settimane, due giorni fa il capo di Stato del Kenya, William Ruto, ha defenestrato quasi tutti i suoi ministri, eccetto il capo degli Esteri, Musalia Mudavadi e del  vice-presidente, Rigathi Gachagua (per motivi legali il numero due del Paese non può essere licenziato). Anche il procuratore generale Justin Muturi è stato esonerato dalle sue mansioni con effetto immediato.

William Ruto, presidente del Kenya, eletto nel 2022

In aggiunta alla revoca della maggior parte dei ministri, Ruto ha annunciato anche lo scioglimento di 47 società statali con funzioni sovrapposte per risparmiare denaro e di aver bloccato i fondi per l’ufficio della First Lady, Rachel.

Ruto si è deciso a questo passo dopo le proteste della popolazione e ha promesso che formerà un governo di larghe intese, appena potrà avviare le consultazioni.

I manifestanti hanno accusato i ministri di incompetenza, arroganza e hanno anche contestato gli sfarzosi stili di vita dei deputati, mentre la popolazione è costretta a combattere giornalmente per sopravvivere: le tasse sono troppo alte il costo della vita è in continuo aumento. Malgrado Ruto abbia accantonato la controversa proposta di legge finanziaria che prevedeva un forte aumento delle imposte, i giovani hanno continuato a protestare contro l’inadeguata governance del Paese.

Il presidente Ruto ha accettato le dimissioni del capo della polizia del Kenya, Japhet Koome

E ieri, il capo della polizia, Japhet Koome, ha rassegnato le proprie dimissioni dopo le manifestazioni di piazza, represse con violenza dalle forze dell’ordine, durante le quali sono morte 40 persone. Le associazioni per i diritti umani hanno accusato gli agenti di aver sparato sui dimostranti con pallottole vere, di aver rapito e arrestato arbitrariamente centinaia di persone.

Amnesty International ha fatto sapere la scorsa settimana che, in una cava fuori dalla capitale, è stato rinvenuto il corpo di Denzel Omondi, un manifestante scomparso durante le proteste, e ieri sono state scoperte altre salme a Mukuru, un insieme di baraccopoli nella periferia di Nairobi. I cadaveri sono già in avanzato stato di decomposizione. La maggior parte donne eccetto uno. Gli attivisti per i diritti umani hanno chiesto che vengano aperte immediatamente le relative indagini.

Venerdì un centinaio di studenti ha bloccato per ore una delle principali arterie di Nairobi, la Thika Road, per protestare contro la morte del loro collega di studi, Denzel Omondi.

Mandare a casa il capo di Stato non è tecnicamente possibile al momento attuale. Non si possono indire nuove elezioni in quanto non è stata ancora formata la nuova Commissione Elettorale Indipendente (IEBC) dopo le presidenziali del 2022.

Cornelia I. Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
X: @cotoelgyes
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Videocredit: Reuters

Altri articoli sul KENYA li trovate qui

 

L’Eritrea entra nell’Olimpo del ciclismo: terza vittoria di “Bini” al Tour de France

Dal Nostro Corrispondente Sportivo
Costantino Muscau
11 luglio 2024

Dopo la prima vittoria, entrò nella leggenda nazionale, anche se la moglie non poté raggiungerlo dall’Eritrea per festeggiare lunedì, il primo giorno di riposo del Tour.

Dopo la seconda, il suo telefonino è diventato quasi inagibile: su WhatsApp deve ancora rispondere a 600 messaggi. E ora? Altro che “Bini, vidi, vici”, come titolò il sito del Tour de France.

L’eritreo Biniam Girmai alla sua terza vittoria al Tour de France

Ora Biniam Girmay Hailu in bici stravince. Il ventiquattrenne ciclista eritreo ha fatto tris nella più importante corsa ciclistica mondiale. Dopo il primo successo, il I luglio, nella terza tappa sul traguardo di Piacenza, Bini si è ripetuto il 6 luglio nell’ottava frazione a Colombey-les-Deux- Eglises (dove è sepolto Charles de Gaulle, regione del Grand Est). E oggi, 11 luglio, nella 12° puntata della Grande Boucle, a Villeneuve-Sur-Lot (nel dipartimento Lot Garonna), Girmay ha messo in fila i più celebri velocisti del mondo.

Basta scorrere l’ordine d’arrivo. Chi mastica un po’ di ciclismo, si stropiccia gli occhi nel vedere dietro il giovane atleta africano della Intermarché- Wanty tipi come Wout Van Aert, Pascal Ackerman, Jasper Philipsen, Arnaud de Lie, Alexander Kristof, Dylan Groenewegen…

Il primo a non crederci è proprio lui. Si sente un miracolato. Tre volte primo, due volte secondo in 12 giorni di gara. E infatti il primo pensiero, nell’ intervista dopo corsa, Bimian le ha rivolte proprio al Padreterno: “Prima di tutto vorrei ringraziare Dio per avermi dato tanta forza e potenza. Senza Dio non potremmo fare nulla – ha detto – Secondo, voglio ringraziare i miei compagni di squadra. Grazie a tutti. Senza di loro non potrei dimostrare di essere il più veloce. Quando mi sveglio ogni mattina mi sento in forma e felice. Queste vittorie sono assolutamente incredibili. Mi danno fiducia per il futuro della mia carriera”.

E non solo a lui, ma a tutto il ciclismo africano. Al termine della vittoriosa terna, un giornalista del quotidiano l’Equipe ha ribadito come il ciclismo sia uno sport prevalentemente bianco ed europeo e gli ha chiesto: “Quale è il tuo impatto sul resto del tuo continente? Come vedi il futuro?”

Biniam Girmay, all’arrivo della 12esima tappa del Tour dr France

Bini ha risposto: “Il ciclismo non è uno sport globale come gli altri sport. Ma è bene contribuire alla sua globalizzazione. Se lavoriamo bene, se le squadre europee si preoccupano di investire nel ciclismo africano, funziona. Per il momento sono l’unico nero nel gruppo, ovviamente mi piacerebbe vederne altri”.

Ogni rosa, si sa, ha qualche spina. Due tormentano il giovane eritreo che si avvia a diventare lo sprinter più forte del mondo: l’eccesso di …successo gli sta causando problemi col cellulare: “Il mio telefono è impazzito già dopo la mia prima vittoria! Adesso è meglio se non lo uso più – ha commentato scherzando -. Ricevo troppi messaggi, ne ho 600 non letti su WhatsApp e questo ora mi sta causando problemi con il mio team perché a volte perdo le segnalazione della mia équipe e quindi devo ricorrere a qualche mio compagno per riferirmi le istruzioni da seguire in corsa”.

L’altro cruccio è più serio. Sua moglie, Salime, non è riuscita a unirsi ai festeggiamenti con i compatrioti in Francia. Chissà se le sarà possibile ora dopo il tris…

Costantino Muscau
muskost@gmail.com
© RIPRODUZIONE RISERVATA

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Vittoria eritrea al Tour

 

 

Vittoria eritrea al Tour: nuovi orizzonti del ciclismo africano

Erode in azione: i bambini dimenticati della Repubblica Centrafricana

Africa ExPress
10 giugno 2024

Il bombardamento dell’ospedale pediatrico in Ucraina ha occupato per due giorni le prima pagine di tutti i quotidiani. La distruzione (l’ennesima) della scuola a Gaza è stato inserito al secondo posto nei media. I piccoli muoiono in condizioni disparate ovunque. Ma i tre milioni di bambini della Repubblica Centrafricana sono i più poveri e i più fragili del mondo e di loro non si parla. Malnutrizione, accesso sanitario inadeguato e instabilità politica mettono il Paese sulla soglia di una crisi umanitaria.

Il mondo ha dimenticato i bambini del Centrafrica

La metà dei ragazzini non ha accesso al servizio sanitario e quasi il 40 per cento soffre di malnutrizione cronica. Solo pochi hanno la possibilità di usufruire di acqua potabile, di servizi igienici e di una sana alimentazione. Appena il 37 per cento frequenta regolarmente la scuola.

“L’attenzione globale è concentrata su altri conflitti e così la condizione dei bambini della ex colonia francese è diventata dolorosamente invisibile”, ha dichiarato pochi giorni fa ai giornalisti la rappresentante di UNICEF nella Repubblica Centrafricana, Meritxell Relano Arana.

Nonostante i molteplici accordi di pace, siglati tra i gruppi armati e il governo (l’ultimo risale al 2019), la situazione in diverse zone del Paese resta a tutt’oggi instabile. L’insicurezza, ormai diventata cronica, ostacola un miglioramento delle condizioni di vita della gente.

Mathieu, un padre di famiglia, residente nella capitale Bangui, ha confessato ai reporter di Corbeau News Centrafrique (CNC): “Non possiamo nemmeno garantire un pasto al giorno ai nostri figli. Come possono crescere sani e forti in queste condizioni?” E una madre ha aggiunto: “L’accesso ai servizi sanitari è un lusso che non possiamo permetterci. Siamo stati abbandonati dal nostro governo.”

Pur di contribuire al magro budget familiare, molti adolescenti abbandonano la scuola per andare a lavorare nelle miniere. Armati di pale e zappe, senza scarpe, indossando solo pantaloncini spesso strappati, a torso nudo e senza caschi protettivi, scavano tutto il giorno. Giovanissimi, stremati dalla fatica, rischiano la loro vita.

E a tutt’oggi migliaia di bambini soldato combattono nelle fila dei vari gruppi armati ancora attivi. Il Paese, è bene ricordalo, ha dato i natali a Bokassa, un militare golpista megalomane, un tiranno che si autoproclamò imperatore dell’Impero Centrafricano.

 

Africa ExPress
X: @africexp
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L’ONU denuncia: “Civili massacrati nella Repubblica Centrafricana”

 

 

 

 

Israele: il dovere di sterminare i palestinesi

NEWS ANALYSIS
Federica Iezzi
9 luglio 2024

Se l’impunità di cui Israele gode, a dispetto delle decisioni delle istituzioni del diritto internazionale, è oggi palese, per giustificare la distruzione di Gaza è stato utilizzato un discorso civilizzatore e sradicatore, blindato in un’innocenza democratica, dal nome “diritto a difendersi”.

Khan Younis, Striscia di Gaza [photo credit Al-Jazeera]
Questa formula viene spesso in mente anche a molti leader occidentali per dare carta bianca a Tel Aviv nelle operazioni che porta avanti contro i palestinesi, in una logica coloniale e sterminatrice.

Tutti gli stereotipi, gli eufemismi, i processi di legittimazione, utilizzati per ottenere l’accettazione del genocidio sulla Striscia di Gaza, hanno origini molto lontane. L’eradicazione dei nativi americani fu giustificata descrivendoli come orde selvagge che attaccavano periodicamente innocenti comunità di pionieri anglosassoni. Così è stata costruita la più grande democrazia del mondo. Stessa sorte è toccata alle vittime delle violenze dei Ku Klux Klan.

I fatti e la loro veridicità contavano poco. Niente aveva bisogno di essere dimostrato o supportato. Ciò che contava era l’orrore dell’accusa, il luogo e la forza di coloro che l’avevano lanciata, il luogo e la debolezza di coloro che designava e il terreno sicuro su cui era stata schierata.

È sorprendente vedere quanto poco sia variato lo stile delle accuse e delle inversioni di vittimizzazione che l’ordine coloniale usa contro coloro che massacra.

Il ministero della Sanità di Gaza sta riportando il numero di corpi non identificati nel bilancio totale delle vittime della guerra. Autorità israeliane e funzionari internazionali hanno etichettato questo sviluppo, progettato per migliorare la qualità dei dati, come mezzo per minarne la veridicità.

L’ultimo report su The Lancet, tra le più quotate riviste medico-scientifiche nel panorama mondiale, sottolinea che documentare la reale portata delle vittime è fondamentale per garantire la responsabilità storica e riconoscere l’intero costo della guerra. Oltre ad essere un requisito legale.

Quanto sta accadendo a Gaza appare per l’Occidente come un pericoloso promemoria. Definisce chiaramente le condizioni in cui il razzismo più disinibito e presunto può ancora scatenarsi liberamente, beneficiare di un ampio consenso e non solo di una complice indifferenza. È stato scomodato per secoli senza porre troppi problemi filosofici, giuridici o morali alla coscienza occidentale.

Gaza dimostra come un massacro costantemente condiviso possa essere ampiamente accettato e dimostra fino a che punto l’opposizione possa essere controllata, repressa, emarginata, ridotta allo stupore o alla protesta impotente.

Dalla caduta del nazismo e dalla fine degli imperi coloniali, la funzione di Israele è stata quella di salvare la grande narrativa occidentale. Permette all’Occidente di perpetuare la finzione di percepire se stesso attraverso idee di democrazia, civiltà, progresso e innocenza.

Nel 1943 l’ufficio stampa del Reich presentò il piano di sterminio ebraico dei popoli d’Europa. Goebbels scrisse “Se le potenze dell’Asse perdessero la battaglia, niente potrebbe salvare l’Europa dall’ondata giudeo-bolscevica”. Coloro che oggi continuano a evocare lo sterminio degli ebrei d’Europa per arruolarne la memoria a favore del sionismo, riprendendo senza scrupoli gran parte dei luoghi comuni che lo giustificavano, fingono di ignorare che esso fu reso possibile solo da un lungo processo ideologico, giuridico, sociale, linguistico e di polizia, che viene riproposto proprio oggi contro i palestinesi.

La continua invocazione dell’attacco di Hamas a Israele, lungi dall’attenuare o qualificare il carattere genocida della distruzione di Gaza, conferma e completa ampiamente il processo di giustificazione dello Stato israeliano. Non esiste genocidio che non sia così motivato e presentato come una necessità. Tutti i genocidi hanno il loro “7 ottobre”, che hanno reso sacro per usarlo, spesso a posteriori, come un assegno in bianco, un’autorizzazione a sterminare, addirittura un dovere di sterminare per non esserlo a propria volta.

Federica Iezzi
federicaiezzi@hotmail.it
Twitter @federicaiezzi
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In Sudafrica il ricordo dell’apartheid scatena la solidarietà alla Palestina: anche i liceali raccolgono fondi

Dalla Nostra Corrispondente
Elena Gazzano
Città del Capo, 8 luglio 2024

Gli italiani, giovani e vecchi, sono imbalsamati in un vortice di apatia e superficialità. Invece dall’altra parte del mondo, in Sudafrica, un gruppo di liceali appartenenti all’organizzazione Youth for 4Al-Quds القدس (Giovani per Gerusalemme) offre una lezione di vita. Questi ragazzi, con la loro forza e determinazione, hanno organizzato un evento di protesta e sensibilizzazione sul conflitto israelo-palestinese.

Un conflitto che molti di noi, comodamente seduti nei nostri salotti, preferiscono ignorare. Perché? Perché è complicato, scomodo, lontano. Ma loro, i giovani sudafricani, hanno deciso di affrontarlo a viso aperto, di guardare negli occhi l’ingiustizia che si sta consumando in Medio Oriente e dire basta.

Una delle squadre che hanno partecipato all’evento organizzato da Youth 4Al-Quds

Questi liceali sudafricani si muovono secondo un principio fondamentale: la solidarietà non è un’opzione, ma un dovere. Vedono nei palestinesi la stessa sofferenza che i loro nonni e genitori hanno vissuto sotto l’apartheid, e per loro, l’evento che hanno organizzato è una missione di giustizia. Alla manifestazione sportiva di solidarietà hanno partecipato 14 squadre di calcio, 14 squadre di ciclismo e 4 di netball; il ricavato, gestito dall’organizzazione Youth 4Al-Quds, è stato destinato all’acquisto di cibo che partirà poi per Palestina.

La disinformazione, purtroppo, circola indisturbata tra i giovani italiani. Oggi l’informazione è a portata di clic, eppure troppo spesso si resta intrappolati in un torpore di superficialità e ignavia. Le conversazioni si limitano a gossip, mode passeggere e frivolezze, mentre questioni vitali di attualità vengono ignorate. Forse sarebbe bene capire che si deve essere informati, essere coinvolti e attivi, perché ciò che accade nel mondo riguarda tutti.

i giovani sudafricani hanno cercato di capire la storia del conflitto israelo-palestinese. Una storia lunga e complessa, che affonda le sue radici nel movimento sionista e nella resistenza locale. Un conflitto che è molto più di una semplice disputa territoriale: è una lotta per l’identità, la giustizia e la dignità.

Liceali premiate dopo il torneo di solidarietà

Dopo la Seconda Guerra Mondiale, l’ONU propose la creazione di due Stati, uno ebraico e uno arabo. Ma questo piano non fu ben accettato. La guerra del 1948 portò alla nascita di Israele e alla Nakba, la “catastrofe” per i palestinesi, con centinaia di migliaia di rifugiati costretti a lasciare le loro case. Da allora, Israele ha continuato a espandersi, costruendo insediamenti illegali e negando i diritti fondamentali ai palestinesi.

Successivamente gli accordi di Oslo del 1993 promettevano una soluzione ai due Stati, ma questi non sono mai stati pienamente implementati. E così, la situazione è rimasta tesa, con esplosioni di violenza ciclica. L’ultima crisi è scoppiata il 7 ottobre 2023, quando Hamas ha lanciato un attacco contro Israele, scatenando una risposta militare massiccia. Questa crisi che tutti i giorni peggiora, non è stata l’inizio della guerra ma l’ultima goccia di una catastrofe che dura da anni.

Hamas è considerata un’organizzazione terroristica da molti Paesi occidentali, ma per molti palestinesi rappresenta invece un movimento di resistenza contro l’occupazione israeliana. Questa percezione è stata amplificata dall’inefficienza e dalla corruzione dell’Autorità Palestinese. Nonostante gli sforzi della comunità internazionale per contrastarla con sanzioni e azioni militari, Hamas continua a rappresentare una sfida significativa.

In Israele il concetto di supremazia ebraica è fondamentale, essendo uno Stato fondato per garantire la maggioranza demografica e privilegi agli ebrei. Questa politica ha portato a discriminazioni sistematiche contro i cittadini arabi di Israele e a una negazione dei diritti fondamentali ai palestinesi nei territori occupati. La soluzione dei due Stati sembra sempre più illusoria, dato l’incremento continuo degli insediamenti israeliani nelle zone palestinesi.

L’esperienza del Sudafrica offre una lezione importante: il cambiamento è stato possibile grazie alla resistenza interna e alla pressione internazionale, inclusa l’adozione di sanzioni economiche. Un cambiamento simile in Israele potrebbe richiedere una mobilitazione globale, ma prima di tutto è necessaria una maggiore consapevolezza tra i cittadini.

La questione israelo-palestinese non è solo un problema lontano; è una realtà che ci coinvolge tutti. In un mondo interconnesso, la giustizia per uno equivale alla giustizia per tutti. È arrivato il momento di risvegliarsi dal letargo della disinformazione.

Elena Gazzano
elenagazzano6@gmail.com
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Altri articoli sul SUDAFRICA li trovate qui

Gli eritrei respinti se ne devono andare dalla Svizzera: Berna alla ricerca di un Paese terzo dove sistemarli

Africa ExPress
7 giugno 2024

Berna sta tentando di rimandare a casa i richiedenti asilo eritrei le cui domande di asilo sono state rigettate. Provengono dalla peggiore dittatura africana (e forse del pianeta) , governata dal 1991 con pugno di ferro da Isaias Aferworki. Le Nazioni Unite hanno riconosciuto l’Eritrea come Stato indipendente nel 1993 dopo il referendum al quale ha partecipato il 99 per cento della popolazione.

Famiglia eritrea in Svizzera in un centro per rimpatrio

Ora anche questi richiedenti asilo sono vittime di una politica sempre più restrittiva in materia di rifugiati, volta a rallentare il flusso migratorio verso la Confederazione elvetica.

In assenza di un accordo di riammissione tra Berna e Asmara, gli eritrei respinti dovrebbero poter essere rimandati in patria attraverso Paesi terzi. L’ex colonia italiana “accoglie” i connazionali solo in caso di rimpatrio volontario. Il parlamento elvetico ha dunque incaricato il Consiglio federale di adoperarsi per raggiungere quanto prima un accordo di transito con un’altra nazione.

Ma, secondo un deputato svizzero ben informato sul dossier Eritrea, la richiesta inoltrata al Consiglio federale è inutile: “Finché il governo di Asmara non riprenderà i propri cittadini, è inutile concludere accordi con Paesi terzi. Ci costerebbe solo denaro, sia per quanto riguarda il trattato con il governo dello Stato di transito, sia per il trasporto andata e ritorno. Se l’Eritrea dovesse infine rifiutarsi di riprendere i propri cittadini da una terza nazione, saremmo costretti a pagare anche il loro volo di ritorno in Svizzera”.

Secondo quanto riportato dalla NZZ (Neue Zuercher Zeitung, autorevole quotidiano svizzero in lingua tedesca), sarebbero 278 gli eritrei che potrebbero essere colpiti dal draconiano provvedimento, qualora Berna dovesse raggiungere un accordo con uno o più Paesi terzi.

Ovviamente nessuno degli eritrei respinti è disposto a tornare volontariamente in patria, anche se, vista la loro situazione attuale, non hanno nessuna prospettiva per una vita migliore in Svizzera. Intere famiglie vivono da anni in spazi ristretti nei centri di rimpatrio, nell’impossibilità di lavorare; devono accontentarsi di pochi spiccioli che il governo mette loro a disposizione.

Durante la crisi migratoria del 2015, l’allora Consigliere federale Simonetta Sommaruga, aveva dichiarato che nessun rifugiato eritreo sarebbe stato respinto. Tuttavia, la pressione politica interna è diventata troppo forte, portando, nel giugno 2016, a un cambiamento di rotta da parte della Segreteria di Stato per la Migrazione. Da quel momento in poi, anche gli eritrei hanno visto sempre più spesso respinte le richieste di asilo.

Il presidente eritreo, Isaias Aferwerki

La maggior parte dei giovani è scappata a causa del servizio militare/civile “perpetuo”. Lo ha sottolineato anche Mohamed Abdelsalam Babiker, relatore speciale per i Diritti umani delle Nazioni Unite per l’Eritrea. “La situazione dei diritti umani nel Paese rimane drammatica. Gravi violazioni, tra questi l’uso diffuso di detenzioni arbitrarie anche in isolamento, sparizioni forzate, persistono senza sosta. Le autorità hanno continuato ad applicare un sistema di servizio nazionale a tempo indeterminato che equivale ai lavori forzati, collegato a tortura e a trattamenti inumani o degradanti”.

Africa ExPress
X: africexp
©RIPRODUZIONE RISERVATA

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Errore a Zurigo che rimpatria un eritreo: torturato e sbattuto in galera, evade torna in Svizzera che lo accoglie

 

Massacri, esodi di massa, carestia: la lenta agonia del Congo-K orientale

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
6 luglio 2024

Massacri, villaggi bruciati, raccolti distrutti, carestia, banditismo, omicidi mirati, gang esoteriche e violenze. La crisi nell’est della Repubblica Democratica del Congo è sempre più allarmante, eppure sembra dimenticata dal resto del mondo. Pochi giorni fa OIM (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni) ha lanciato un nuovo appello per azioni immediate volte a proteggere la popolazione civile.

Il conflitto tra le forze governative congolesi e i ribelli dell’M23 sostenuto dal Ruanda sta devastando le regioni orientali del Congo-K. Ma Giovedì 4 luglio, gli Stati Uniti hanno annunciato una tregua umanitaria. Il cessate il fuoco ha preso il via ieri, anche se non sono stati rilasciati commenti da Kinshasa e tantomeno da Kigali.

Sfollati in Congo-K: crisi umanitaria

Alla fine del 2023 gli sfollati interni erano 6,9 milioni in tutto il territorio nazionale. Alla fine di maggio, nel solo Nord-Kivu, altri 1,77 milioni sono scappati dalle proprie case per fuggire alla furia dei miliziani M23.

I massacri sono proseguiti senza sosta e alla fine del mese di giugno i ribelli hanno preso il controllo di Kanyabayonga, località strategica, distante solamente un centinaio di chilometri da Goma.

Goma, situata sulla riva settentrionale del lago Kivu è il capoluogo del Nord-Kivu e alla sua periferia orientale passa il confine con il Ruanda. Al di là della frontiere è schierato l’esercito di Kigali. I miliziani dell’M23 sono invece posizionati a occidente e a settentrione.

Anche a Goma, la situazione socio-economica si sta deteriorando rapidamente, poiché la città rimane isolata e i rifornimenti arrivano a singhiozzo. Civili – compresi molti sfollati – sono vittime di furti, rapine, abusi e molestie.

Ora, con la presa Kanyabayonga, gli M23 possono controllare l’accesso alle città di Butembo e Beni, roccaforti della grande tribù Nande e di importanti centri commerciali del Paese.

Il quadro globale nel Nord-Kivu è davvero critico. Secondo quanto riportato in un articolo dall’emittente e giornale online tedesco Deutsche Welle (DW), diverse fonti, comprese quelle delle Nazioni Unite, avrebbero riferito che in alcuni degli ultimo scontri l’esercito ruandese sarebbe stato in prima linea e in numero superiore ai ribelli M23.

Gruppo armato M23 in Congo-K

Un responsabile della sicurezza che ha voluto restare anonimo, ha spiegato ai reporter dell’Associated Press che a metà giugno, durante un assalto a una base militare congolese a una decina di chilometri a nord di Goma, sarebbe stato ucciso un mercenario rumeno e altri due sarebbero stati feriti da un missile. Il ministero degli Esteri di Bucarest e diverse emittenti rumene hanno confermato la notizia.

La crisi si estende oltre il Nord-Kivu. Più di 77.700 persone sono fuggite nel Sud-Kivu. Ma anche in questa provincia dall’aprile scorso causa di un conflitto tra due fazioni del gruppo armato Biloze Bishambuke, sono scappate oltre 30.000 persone. La situazione della sicurezza nella provincia di Ituri rimane instabile e imprevedibile, con continue violazioni dei diritti umani.

E a tutto ciò si aggiungono pure le catastrofi naturali, che hanno aggravato la crisi umanitaria. L’innalzamento delle acque del lago Tanganica, le forti piogge e l’ingrossamento dei fiumi hanno causato inondazioni e frane, soprattutto nel Sud Kivu. Lo scorso maggio oltre 50.000 persone sono state costrette a lasciare i propri villaggi.

In mezzo a tanta disperazione e sofferenza la vita però continua e qua e là si intravvedono spiragli di luce e solidarietà. A Goma, Gaël Assumani, ex campione di box congolese, dal 2020 gestisce un club di box solidale, Nyama Boxing, per dare ai giovanissimi che vivono per strada, un futuro migliore. L’ex atleta spera di allontanare i giovani anche dai vari gruppi armati che operano nella zona.

 

“Alcuni bambini hanno lasciato le loro famiglie perché non riescono a sopravvivere in condizioni di povertà estrema. Altri invece, provengono da zone di conflitto e si trovano nei campi per sfollati. Ora noi cerchiamo di dare loro una speranza, formandoli e facendo capire loro che hanno una famiglia”, ha spiegato Assumani. Lui stesso ha vissuto per strada dopo la morte della mamma.

E poi ci sono persone come Deborah Nzarubara, che proviene da una lunga stirpe di apicoltori di Goma che pratica questa antica attività in modo sostenibile e biologico per far coesistere armonicamente agricoltura e api. Il miele deve essere prodotto senza danneggiare la vita degli insetti che lo producono. Deborah sta formando nuovi apicoltori, installando arnie moderne. La giovane è fortemente motivata da un senso di responsabilità per le generazioni future.

Corenelia Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
X: @cotoelgyes
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Sbarca ad Haiti la missione di sicurezza guidata dal Kenya

Speciale per Africa ExPress
Federica Iezzi
6 luglio 2024

Il primo contingente della Missione di Sicurezza Multinazionale (MSSM – Multinational Security Support Mission), guidato dal Kenya e sostenuto dalle Nazioni Unite, è arrivato ad Haiti, quasi due anni dopo la disperata richiesta del Paese, volta a frenare l’aumento della violenza legata alle bande armate che scorrazzano ovunque.

Polizia e forze palamilitari kenyane ad Haiti [photo credit Al-Jazeera]
La comprensione del contesto locale e la mappatura del conflitto tra le gang, che controllano territori e quartieri, rimangono le più grosse sfide. Le domande chiave rimangono ancora senza risposta e permane la possibilità di danni civili ancora maggiori.

In seguito alle dimissioni dell’ex primo ministro haitiano, Ariel Henry, i colloqui politici avviati lo scorso anno sotto la guida della Comunità Caraibica (CARICOM), hanno portato alla creazione di un consiglio presidenziale transitorio, guidato da Gary Conille. L’attuale governo di transizione si è impegnato a indire elezioni e a cedere il potere all’inizio del 2026.

Secondo il documento operativo, redatto all’inizio dell’anno tra Kenya e Haiti, l’obiettivo della missione sarà quello di rendere le autorità haitiane credibili ed efficaci, con la capacità di mantenere le condizioni di sicurezza necessarie per elezioni libere ed eque.

Nessuna sequenza temporale, dunque, e mancano obiettivi generali. “Saranno le autorità haitiane a decidere dove gli agenti saranno dislocati e le regole di ingaggio. Si tratta di un contingente che risponde agli ordini della polizia nazionale e delle forze armate haitiane”. E’ quanto dichiarato dal ministro della giustizia e della pubblica sicurezza a Haiti, Carlos Hercule.

La struttura della forza e la mancanza di supervisione delle Nazioni Unite hanno sollevato interrogativi su chi avrà il controllo finale delle operazioni. Un approccio che si concentri esclusivamente sui gruppi armati haitiani e non sulle reti più ampie di sostegno tra le élite politiche ed economiche, otterrà solo vantaggi a breve termine.

La storia dei tentativi di stabilizzazione della pace ad Haiti riporta alla memoria la missione MINUSTAH (Mission des Nations Unies pour la Stabilisation en Haïti), marchiata da scandali, impunità e interferenze politiche dal 2004 al 2017, e la risposta degli haitiani oggi è un misto di entusiasmo, indifferenza e delusione. La storia mostra che quando forze straniere operano impunemente, il sistema di responsabilità diventa ancora più opaco e ancora più discrezionale.

Anche con solide garanzie, le cause profonde dell’insicurezza di Haiti non possono essere affrontate da un intervento di sicurezza straniero. Infatti, storicamente, gli interventi esteri sono serviti a prevenire le riforme necessarie e hanno rafforzato uno status quo intrinsecamente insostenibile. Senza un profondo cambiamento politico e un nuovo approccio sociale, adottato dapprima dagli Stati Uniti e poi dall’intera comunità internazionale, ci sono pochi motivi per considerare quest’ultimo intervento diverso dai fallimenti del passato.

Da anni la società civile haitiana e le organizzazioni civiche invocano un cambiamento sistemico, una rottura con il passato. La domanda è se questa forza straniera fornirà lo spazio agli haitiani per ottenere il cambiamento che desiderano o se sarà ancora una volta utilizzata dagli interessi internazionali per portare avanti gli affari come al solito.

Federica Iezzi
federicaiezzi@hotmail.it
Twitter @federicaiezzi
©️ RIPRODUZIONE RISERVATA

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