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Un mondo smemorato che non vuole chiamare la carneficina in Palestina con il suo nome: genocidio

 

EDITORIALE
Massino A. Alberizzi
23 luglio 2024

“L’unica soluzione possibile per risolvere la crisi palestinese è quella che prevede due Stati che, con il controllo e l’aiuto internazionale, imponga una convivenza pacifica tra i due popoli”, è il ritornello che sentiamo ripetere da fine ottobre dopo l’orrendo massacro perpetrato dai miliziani di Hamas contro inermi civili e militari israeliani il 7 ottobre.

Ma più che una manifestazione di intenti sembra una asserzione volta a calmare gli animi. Una promessa della politica che però, essendo sotto pressione da parte di lobby guerrafondaie, aggiunge: “Però ora non è il momento”. Se non ora, quando? Quando la quota dei morti avrà raggiunto 6 milioni, un numero che porterebbe a pari il bilancio con le vittime dell’olocausto?

Obbedienti esecutori di ordini

A porre sul tavolo la soluzione dei due popoli due Stati ha cominciato il presidente americano Joe Biden, cui imprudentemente si sono accodati i più obbedienti esecutori degli ordini americani, tra i quali naturalmente l’Italia. Il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, ha indicato più volte la proposta, ma poi si è guardato bene di darne esecuzione, come invece hanno fatto, tra gli altri, Spagna e Irlanda che hanno riconosciuto lo Stato di Palestina.

Soldati israeliani nelle zone palestinesi

Naturalmente contro il diritto dei palestinesi ad avere una patria si sono schierati compatti gli israeliani che qualche giorno fa alla knesset (il parlamento) hanno votato una risoluzione con cui bocciano la soluzione dei due Stati. Tutti d’accordo, tranne i deputati dei partiti arabi. Un documento che lascia perplessi perché praticamente sentenzia che solo gli ebrei hanno diritto a una patria. Un diritto sancito “nelle sacre scritture”.

Sacro e profano

L’idea che ciò che è sacro per qualcuno può essere profano per altri, non sfiora neanche lontanamente le menti dei sostenitori del sionismo.

Ma allora perché i politici occidentali si limitano a patetiche dichiarazioni di principio e non fanno nulla per realizzare concretamente quanto promettono? La risposta forse si può ricercare nelle fortissime pressioni esercitate dalle lobby e dalle organizzazioni sioniste da sempre impegnate in una propaganda tesa a dimostrare che lo Stato ebraico è l’unico democratico della regione ed è l’unico che ha diritto ad esistere in Palestina.

Mantra smentito

Un mantra smentito dalla recente pronuncia della Corte Internazionale di Giustizia che, pur se non vincolante, ha sentenziato impietosamente che nello Stato ebraico vige un sistema di apartheid, cioè di segregazione razziale nei confronti dei palestinesi. E un Paese che pratica una politica di apartheid non può essere considerato democratico.

E’ poi francamente patetica e capziosa la giustificazione addotta dai difensori di Israele quando affermano che lo Stato ebraico ha “il diritto di difendersi”. Certo! Tutti hanno il diritto di difendersi ma dagli aggressori, non a casaccio da tutti quelli che danno fastidio o sono ingombranti.

E non basta dire che la reazione di Israele è stata sproporzionata ed eccessiva. Occorre invece condannare con forza quella risposta, che nega un principio acquisito dai Paesi democratici. Le responsabilità penali sono individuali e non trasferibili ad altri. Invece da anni l’esercito israeliano colpisce deliberatamente la popolazione civile palestinese nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania, con il pretesto che la gente nasconde i terroristi.

Combattenti per la libertà trasformati in tiranni

L’obiettivo? Annientare e distruggere un’intera popolazione. Una popolazione che dà fastidio perché rivendica, come a suo tempo hanno fatto giustamente gli ebrei, il diritto di avere una patria.

In Palestina si sta verificando qualcosa che noi di Africa ExPress abbiamo visto molte, troppe volte in Africa: combattenti per la libertà che, abiurando ai propri principi di democrazia, si trasformano in tiranni e feroci dittatori. Uno schema collaudato.

Intenzione dichiarata

Qualcuno ha anche obiettato: “Quello di Israele non si può definire genocidio, perché Tel Aviv non ha mai dichiarato apertamente la sua intenzione di annientare i palestinesi”. E’ vero che la definizione legale di genocidio prevede un’intenzione dichiarata. Ma è anche vero che altri genocidi che si sono verificati nel secolo scorso, armeni e tutsi ruandesi, per esempio, non sono stati preceduti da disegni espressi in documenti o dichiarazioni pubbliche.

Il dittatore iracheno Saddam Hussein è stato accusato di genocidio per aver “gasato” i curdi, ma nessuno gli ha chiesto una dichiarazione ufficiale delle sue intenzioni.

Due pesi e due misure

E qui viene a galla il metodo indisponente dei due pesi/due misure utilizzato quando si analizzano i comportamenti degli altri. Qualcosa che viene rimproverato a chi è un avversario, viene consentito a chi è amico. Non si condanna il genicidio in atto a Gaza, ma si censurano i bombardamenti di Putin in Ucraina. Putin viene definito un dittatore squilibrato antidemocratico e illiberale, Netanyahu resta invece un primo ministro che difende in suo Paese da una massa di terroristi. Eppure sia Putin sia Netanyahu sono inseguiti da un mandato d’arresto della Corte Penale Internazionale, che per altro né Russia né Israele riconoscono.

Giulio Andreotti e i terroristi

Nel 2006, durante gli attacchi Hezbollah a Israele, Giulio Andreotti, in un intervento al Senato si espresse più o meno così: “Ognuno di noi se fosse nato in un campo di concentramento e da 50 anni fosse lì e non avesse alcuna prospettiva di poter dare ai propri figli un avvenire sarebbe un terrorista”. Un’osservazione che dovrebbe fare riflettere tutti coloro che oggi si affrettano a dipingere come semplici e disumani terroristi persone che non hanno alternative se non quella di imbracciare un fucile per difendere se stessi e le proprie famiglie.

Facile per chi vive nel benessere, e ogni giorno può permettersi due pasti, guardare con disgusto quei poveri disgraziati senza futuro concepiti, nati e cresciuti in un campo profughi dove le loro famiglie vivono da tre o quattro generazioni. Una narrazione scadente e di parte sulla situazione in Palestina porta a formulare giudizi avventati.

Le scuse di Clinton

Agire subito dovrebbe essere un imperativo per la politica, a meno che non voglia comportarsi come Bill Clinton che, due anni dopo il genocidio in Ruanda durante una visita a Kigali nel 1998, chiese pubblicamente scusa per il mancato intervento per fermare i massacri: “Anche la comunità internazionale, insieme alle nazioni africane – disse rivolendosi ai ruandesi – deve assumersi la sua parte di responsabilità per questa tragedia. Non abbiamo agito abbastanza rapidamente dopo l’inizio delle uccisioni. Non avremmo dovuto permettere che i campi profughi diventassero un rifugio sicuro per gli assassini. Non abbiamo chiamato subito questi crimini con il loro giusto nome: genocidio. Non possiamo cambiare il passato. Ma possiamo e dobbiamo fare tutto ciò che è in nostro potere per aiutarvi a costruire un futuro senza paura e pieno di speranza”.

E chissà se ha mai chiesto scusa l’allora ambasciatore britannico all’ONU, lord David Hannay, che convinse il Consiglio di Sicurezza a non usare la parola “genocidio” per descrivere la carneficina in Ruanda. Un accorgimento che evitò un intervento militare umanitario a difesa dei civili che altrimenti il diritto internazionale avrebbe voluto obbligatorio.

Massimo A. Alberizzi
massimo.alberizzi@gmail.com
X: @malberizzi
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Discorso di Bill Clinton in Ruanda il 25 marzo 1998
https://www.cbsnews.com/news/text-of-clintons-rwanda-speech/#:~:text=We%20should%20not%20have%20allowed,fear%2C%20and%20full%20of%20hope.

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Congo-K: gli esperti dell’ONU inchiodano Ruanda e Uganda: entrambi collaborano con i ribelli M23

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
22 luglio 2024

Nel loro ultimo rapporto sul Congo-K, gli esperti delle Nazioni Unite ora puntano il dito non solo sul Ruanda, ma accusano anche l’Uganda di appoggiare i ribelli M23. Certo in forma minore rispetto a Kigali, tuttavia si tratta di una diretta interferenza nel violento conflitto che si sta consumando nell’est del Paese. Il gruppo armato in questione prende il nome da un accordo firmato dal governo del Congo-K e da un’ex milizia filo-tutsi il 23 marzo 2009.

Soldati ruandesi combattono nelle fila dei ribelli M23 nel Congo-K

Secondo quanto emerge dal fascicolo pubblicato l’8 luglio corso, l’intelligence militare di Kampala ha permesso alle truppe dell’M23 – e a quelle ruandesi che le sostengono – di transitare attraverso il territorio ugandese. Il rapporto specifica che responsabili dei ribelli hanno soggiornato sia a Kampala, sia a Entebbe.

Le fonti degli investigatori dell’ONU hanno confermato la presenza dalla fine dell’anno scorso di ufficiali dell’intelligence militare ugandese a Bunagana, nel Nord-Kivu. Hanno sostenuto che gli uomini di Kampala si coordinano con i leader dell’M23, forniscono logistica e trasportano i capi del movimento ribelle nelle aree sotto il loro controllo.

Le autorità dell’Uganda hanno respinto categoricamente tutte le accuse e hanno negato di appoggiare i ribelli nell’est della RDC. “Non abbiamo nessun motivo per sostenere gli M23 – ha sostenuto il portavoce dell’esercito ugandese, Félix Kulayigye . I nostri soldati sono presenti nell’area in ragione di un accordo di cooperazione militare dell’aprile 2021, per contrastare un altro gruppo armato”, cioè i terroristi di ADF, Allied Democratic Forces, un’organizzazione islamista ugandese, presente anche nel Congo-K dal 1995.

Gli esperti, tra l’altro, hanno sottolineato che la presenza di truppe ruandesi in Congo-K è piuttosto consistente. Attualmente sarebbero dispiegati tra 3.000 e 4.000 uomini, che combattono accanto al gruppo M23, anzi, le Forze di Difesa del Ruanda (FDR) dirigerebbero de facto le operazioni dei ribelli.

Congo-K: nell’est del Congo la gente continua a arrivare nei campi per sfollati

Il governo di Bruxelles, dopo la pubblicazione del rapporto, che ha messo nuovamente in evidenza l’implicazione di Kigali nel conflitto nell’est del Paese, ha chiesto al governo ruandese di ritirare le proprie truppe quanto prima.

Venerdì scorso Gracia Yamba Kazadi, ministro degli Esteri di Kinshasa, ha convocato, Matata Twaha, chargé d’affaire di Kampala, accreditato nella Repubblica Democratica del Congo. Come prevedibile, anche il diplomatico ugandese ha respinto tutte le accuse, bollandole come “una maldestra manovra dell’ONU che rischia di raffreddare i caldi e buoni rapporti tra i due Paesi”. Ha poi aggiunto che il suo governo attende un comunicato ufficiale da parte dell’ONU sulla questione, prima di rispondere in modo formale.

Intanto Washington venerdì scorso ha annunciato un prolungamento sino al 3 agosto della tregua umanitaria cominciata il 4 luglio. Le autorità congolesi hanno denunciato che il cessate il fuoco non è stato rispettato pienamente dai ribelli M23 e una settimana fa sarebbero stati uccisi almeno dieci civili. La situazione nell’est del Paese rimane allarmante e molto preoccupante.

Cornelia Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
X: @cotoelgyes
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Massacri, esodi di massa, carestia: la lenta agonia del Congo-K orientale

La Corte Internazionale di Giustizia sentenzia: “E’ apartheid il regime imposto da Israele ai palestinesi”

Speciale per Africa ExPress
Federica Iezzi
22 luglio 2024

Con un ampio e schiacciante parere consultivo [No. 2024/57], la Corte Internazionale di Giustizia delle Nazioni Unite, ha emesso una sentenza assai pesante che decreta illegittima l’occupazione da parte di Israele dei Territori Palestinesi.

Qalandia checkpoint, Cisgiordania [photo credit Amnesty International]

L’abuso prolungato da parte di Israele della sua posizione di potenza occupante, attraverso l’annessione e l’affermazione di un controllo permanente sul territorio palestinese occupato, viola i principi fondamentali del Diritto Internazionale.

In un parere storico, anche se, ripetiamo, non vincolante, la Corte osserva che la legislazione israeliana impone e mantiene una separazione quasi completa in Cisgiordania e Gerusalemme Est tra i coloni e le comunità palestinesi.

E’ una lettura questa, che fa riflettere anche gli alleati di Israele, con la Corte che informa che gli altri Stati hanno l’obbligo di non riconoscere l’occupazione come legale né di supportarla.

Il parere è stato fornito in risposta a una richiesta dell’assemblea generale delle Nazioni Unite, depositata nel 2022, sostenuta da 87 Paesi e osteggiata, tra gli altri, dai soliti Stati Uniti, Regno Unito e Germania. Precede dunque l’ultimo conflitto, ma è inevitabile che aumenti la pressione su Israele, e sui suoi alleati, affinché metta fine alla sua offensiva militare.

Le parole, perennemente contro le decisioni internazionali, del primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, non si fanno attendere. “Il popolo ebraico non è occupante nella propria terra, né nella nostra eterna capitale Gerusalemme, né nella nostra eredità ancestrale di Giudea e Samaria”.

Il segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, trasmetterà tempestivamente il parere consultivo all’organismo mondiale composto da 193 membri. In seguito spetta proprio all’assemblea generale decidere come procedere sulla questione.

Oltre a imporre la fine dell’occupazione e a consentire il ritorno dei palestinesi sfollati, il più alto tribunale di Diritto Internazionale, obbliga Israele a interrompere tutti gli atti illegali, incluse le attività di insediamento e l’abrogazione della legislazione che mantiene l’occupazione, inclusa quella che discrimina i palestinesi o cerca di modificare la composizione demografica del territorio occupato.

Le conseguenze legali del parere della Corte sono del tutto prive di ambiguità e le conseguenze politiche sono di vasta portata.

Se lo status quo è illegale e viola le regole dello jus cogens, allora ciò cambia la leva che può essere utilizzata per trasformare questo stato in una situazione permanente. Ciò rafforza le posizioni della Palestina e indebolisce quelle di Israele.

La Legge non è una sorta di monolite intoccabile che differenzia il bene dal male. Enon aumenta o diminuisce a seconda che le persone credano o meno che sia effettivamente legge.

Se la difesa” automatica” rimane sempre quella di “essere di fronte all’unica democrazia nel Medio Oriente, allo Stato con l’esercito più morale del mondo” che combatte un popolo ridotto a un cliché terroristico, allora bisogna fare attenzione a non sottovalutare il potere della legge.

Quando la legge stessa afferma che non si tratta più di una democrazia ma di uno Stato di apartheid, che commette ingiustizie contro un popolo i cui diritti sono sistematicamente violati e discriminati, il potere dell’interpretazione viene meno.

Federica Iezzi
federicaiezzi@hotmail.it
Twitter @federicaiezzi
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Appello di scienziati e ambientalisti: ”Salviamo gli ultimi elefanti Super tusker dalla caccia trofeo in Tanzania”

Speciale per Africa ExPress
Sandro Pintus
21 luglio 2024

Gli elefanti maschi di Amboseli hanno una caratteristica che li mette in pericolo: le zanne che arrivano a toccare il terreno e pesano 45 kg ognuna. Li chiamano “Super tusker” (super zanne) per i lunghissimi e particolarissimi denti di avorio che ne fanno preda di trafficanti e “collezionisti” di trofei.

elefante Super tusker del Parco nazionale di Amboseli
Craig, elefante Super tusker del Parco nazionale di Amboseli

La lunghezza oltre standard delle zanne di questi pachidermi è tipica di una popolazione che vive nel parco nazionale di Amboseli. La loro caratteristica è che le zanne crescono più rapidamente di quelle degli altri elefanti. Purtroppo, il governo tanzaniano ha deciso di riaprire la caccia a questi particolari pachidermi per i trofei.

La petizione

Il mondo accademico e ambientalista non ci sta e scienziati e ricercatori hanno deciso di muoversi con le ONG. Elephant Voices, Amboseli Trust for Elephants e Center for Biological Diversity, hanno lanciato una petizione su Avaaz , diretta a Samia Suluhu Hassan, presidente della Tanzania.

“Tra pochi giorni, la presidente della Tanzania potrebbe condannare a morte gli elefanti più straordinari d’Africa – si legge nell’appello -. Intende concedere nuovi permessi a ricchi cacciatori di trofei che li uccidono per puro divertimento” .

 

elefanti super tusker Instagram
Screenshot Instagram sugli elefanti Super tusker di Amboseli                        https://www.instagram.com/p/C8unt00qM8f/

 

Gli elefanti si chiamano per nome

“Appartengono a una popolazione che viene studiata da oltre 50 anni. Recentemente si è scoperto che si chiamano per nome, e da quel che sappiamo sono i primi esseri non umani capaci di farlo”. La popolazione degli elefanti, fino alla scorsa stagione, era una specie protetta. Nove mesi fa il governo della Tanzania ha autorizzato la caccia di cinque maschi adulti: almeno due di questi erano “Super tusker”.

Si possono muovere liberamente nell’area kenyota del Parco nazionale di Amboseli dove la caccia è proibita. Se passa l’autorizzazione a cacciare trofei nel settore tanzaniano verranno uccisi altri maschi adulti adatti alla riproduzione.

super tusker Mappa del Parco di Amboseli
Mappa del Parco nazionale di Amboseli (Courtesy GoogleMaps)

Amboseli patrimonio UNESCO

L’area fa parte di un ecosistema con una superficie di 8.000 kmq a oltre mille metri sul livello del mare a nord del Kilimangiaro. Il parco si trova all’interno dell’Amboseli Biosphere Reserve che nel 1991 è diventato patrimonio UNESCO.

Via Instagram le ONG chiedono agli USA, maggiore mercato di trofei di elefante in Tanzania di vietare l’importazione. E chiedono ai cittadini di firmare la petizione che, al momento in cui scriviamo, ha superato le 305 mila firme. Ma se per caso non dovesse avere successo, per evitare lo sterminio, visto che è impossibile fidarsi degli umani, forse c’è una soluzione.

Suggeriamo alla popolazione di elefanti della Tanzania di utilizzare la strategia adottata dagli elefanti del Parco di Gorongosa, Mozambico: far nascere i cuccioli senza zanne.

Sandro Pintus
sandro.p@catpress.com

X (ex Twitter):
@sand_pin
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Mozambico: contro il bracconaggio elefanti nati senza zanne

Strage continua: tra due decenni in Africa non ci saranno più elefanti

I cianobatteri responsabili della strage di elefanti in Botswana e Zimbabwe

Botswana: “Riapriamo la caccia agli elefanti”, diventeranno cibo per cani e gatti

 

L’avorio distrutto e quei cento mila elefanti uccisi in due anni

I traumi psicologici del bracconaggio sui cuccioli di elefante orfani

A Nairobi, dove si curano elefantini orfani vittime del bracconaggio

In Sudan il conflitto continua la sua folle corsa: oltre la metà della popolazione soffre la fame

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
19 luglio 2024

“Le Agenzie delle Nazioni Unite e le ONG devono tornare tutte sul campo, la popolazione sudanese ha bisogno di noi”, è l’appello lanciato qualche giorno fa tramite AFP da Christos Christou, presidente internazionale di Medici Senza Frontiere (MSF). Gran parte delle operazioni umanitarie sono state interrotte e molte ONG, in attesa di nuovi sviluppi, si sono ritirate a Port Sudan, che dista un migliaio di chilometri da Khartoum.

Sudan: sfollati e rifugiati in continuo aumento

L’ex protettorato anglo-egiziano è entrato nel 16esimo mese di guerra e la fame attanaglia gran parte della popolazione. Il rapporto dell’ONU di fine giugno precisa che 25,6 milioni di sudanesi – poco più della metà della popolazione – è colpita da insicurezza alimentare acuta. I morti sono ben oltre 16 mila, cifra certamente sottostimata. Secondo gli ultimi dati, più di 11 milioni di persone sono state costrette a lasciare le proprie abitazioni tra questi circa 2 milioni hanno cercato rifugio nei Paesi limitrofi.

Tra i morti e feriti ci sono anche operatori umanitari, medici e paramedici. Nelle ultime due settimane nello stato di Sennar, dove si sono intensificati i combattimenti, sono stati uccisi due volontari di Red Crescent Society (SRCS). La Federazione internazionale delle società di Croce Rossa e Mezzaluna Rossa ha sottolineato che proteggere coloro che prestano servizio per aiutare gli altri, non è solo un obbligo legale, ma anche morale.

Le due parti in conflitto, Rapid Support Forces, capeggiate da Mohamed Hamdan Dagalo, meglio noto come Hemetti, da un lato, e le Forze armate sudanesi (SAF), comandate da Abdel Fattah Abdelrahman al-Burhan, presidente del Consiglio Sovrano e di fatto capo dello Stato, dall’altro, hanno devastato quasi tutto il Paese.

Una parte di Omdurman, città gemella di Khartoum, sulla sponda occidentale del Nilo, e un tempo il principale polo commerciale del Sudan, è oggi inabitabile a causa della presenza di cadaveri nelle strade e nelle case. Una crisi sanitaria senza precedenti. Non è rimasto nessuno per dare una degna sepoltura ai morti. Per le strade si aggirano solo roditori e insetti.

Un quartiere di Omdurman, Sudan

Intanto a Ginevra, sotto l’egida delle Nazioni Unite si tenta di trovare una soluzione per quanto riguarda il passaggio dei convogli con aiuti umanitari e la protezione dei civili. E Ramtane Lamamra, inviato del segretario generale dell’ONU, Antonio Guterres, sta tentando di guidare un approccio con rappresentanti delle RSF e dell’esercito sudanese. Si tratta di “discussioni di prossimità”, il che significa che le due parti in conflitto non si incontrano e non negoziano direttamente.

Sin dall’inizio della guerra, sia l’esercito sia le RSF sono stati accusati di aver saccheggiato e ostacolato l’arrivo dei convogli aiuti umanitari, oltre ad aver quasi distrutto un sistema sanitario già fragile.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha lanciato un nuovo allarme per quanto riguarda El Fasher, capoluogo del Darfur settentrionale, dove a tutt’oggi sono intrappolate oltre 800mila persone. I convogli con gli aiuti umanitari non possono accedere nella zona a causa degli incessanti combattimenti tra le RSF e l’esercito sudanese. E ora, secondo quanto riportato da un funzionario di PAM (Programma Alimentare Mondiale), l’unica via di rifornimento ancora aperta è stata interrotta a causa delle forti piogge. Mentre Mona Rishmawi, membro della Missione d’inchiesta dell’ONU sul Sudan, ha dichiarato ai reporter di Reuters che i rifugiati arrivati nel vicino Ciad, durante la fuga sono stati costretti a nutrirsi di erba per sopravvivere.

Anche a Sennar, città sul Nilo Blu, nel sud-est del Paese, la situazione è a dir poco catastrofica da quando è sotto assedio dei paramilitari di Hemetti. Le RSF stanno controllando le principali vie d’accesso, impedendo così l’arrivo di beni di prima necessità.

E proprio per l’ormai risaputa presenza di miliziani stranieri tra i paramilitari delle RSF, le autorità dello Stato di Khartoum hanno ordinato a tutti non sudanesi di abbandonare la regione entro le 23.59 del 26 luglio prossimo.

Cornelia Toelgyes
cornelicit@hotmail.it
X: @cotoelgyes
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In Ruanda con il 99 per cento dei voti, vince ancora il pugno di ferro di Kagame

Speciale per Africa ExPress
Federica Iezzi
18 luglio 2024

Nessun dubbio in Ruanda. Una vittoria senza spettacolo, né colpi di scena. Paul Kagame rimane il leader indiscusso, appoggiato dalla forza del suo partito, il Fronte Patriottico Ruandese (FPR – Front Patriotique Rwandais).

Elezioni presidenziali in Rwanda [photo credit BBC]
Con il 99 per cento delle preferenze, per Kagame inizia dunque il quarto mandato presidenziale.  Seconda posizione per Frank Habineza, il candidato del Partito Democratico Verde del Ruanda, con poco più dello 0,5 per cento dei voti. Al terzo posto l’indipendente Philippe Mpayimana, con l’irrisorio 0,3 per cento. I grandi oppositori, Stima Diane Rwigara, Victoire Ingabire, Bernard Ntaganda, erano stati tutti finemente esclusi dalle elezioni.

Fermando i massacri contro i tutsi, trent’anni fa, con le truppe dell’FPR, l’ex ribelle – che si è fatto le ossa nella macchina politica ugandese – si è assicurato il riconoscimento duraturo dei ruandesi e della comunità internazionale, rimasta immobile durante il genocidio, che causò quasi un milione di vittime.

Gestione autoritaria e coinvolgimento nel conflitto che dilania la parte orientale della Repubblica Democratica del Congo, si contrappongono al “miracolo ruandese”, molto visibile e molto reale se si considerano le performance economiche e sociali che il Paese mostra solo tre decenni dopo la violenza che lo ha colpito.

Di questo genocidio, le cui cicatrici ancora emergono sui verdi pendii delle mille colline, Paul Kagame ne fece anche uno strumento politico per vigilare sulla sua popolazione. Indottrinamento o educazione? Probabilmente un po’ entrambi.

Il trauma intergenerazionale e la situazione nell’est della Repubblica Democratica del Congo hanno contribuito a serrare i ranghi attorno all’uomo che incarna la resistenza. Nell’immaginario collettivo, il gruppo ribelle ruandese anti-Kagame, le Forze Democratiche per la Liberazione del Ruanda – con ideologia Hutu e con il sostegno di Kinshasa – si continua a nascondere nelle foreste congolesi, pronto a finire “il lavoro” iniziato nel 1994. La realtà è evidentemente più complessa, ma la paura è sapientemente alimentata dal presidente.

Il leader ruandese Paul Kagame con il direttore di Africa ExPress, Massimo Alberizzi, in una foto di qualche anno fa

Questi ultimi risultati elettorali definiscono chiaramente la dittatura di Kagame come uno degli stati di polizia più efficaci e brutali del 21° secolo. Secondo il rapporto Freedom in the World 2024, di Freedom House – organizzazione non governativa internazionale con sede a Washington – Kigali ha represso il dissenso politico attraverso la sorveglianza pervasiva, l’intimidazione, la detenzione arbitraria, la tortura e le violenze a carico di dissidenti in esilio.

Le limitazioni alla partecipazione dei cittadini al processo decisionale sotto la guida dell’FPR sono evidenti. Il concetto di Stato di diritto, inteso a promuovere il buon governo, è in gran parte assente. Il Parlamento non ha il potere di sfidare efficacemente l’esecutivo, dominato dai membri dell’FPR e dai loro alleati della coalizione.

La mancanza di indipendenza della magistratura, con alti funzionari nominati dal presidente e confermati dal Senato, dominato dall’FPR, si traduce in poche preziose sentenze contro il governo.

Nonostante l’impressionante crescita economica del Ruanda, come riconosciuto dalla Banca Mondiale, il Paese non è inclusivo e deve far fronte a carenze in settori cruciali, quali istruzione e sanità, per mostrare un’autentica trasformazione sociale ed economica.

Federica Iezzi
federicaiezzi@hotmail.it
Twitter @federicaiezzi
©️ RIPRODUZIONE RISERVATA

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Dopo l’ultimo attacco israeliano al campo di di al-Mawasi, a Gaza ormai restano solo distruzione e morte tra le tende

Speciale per Africa ExPress
Federica Iezzi
17 luglio 2024

E’ solo l’ennesimo massacro in ordine di tempo quello di al-Mawasi. Più di 90 morti, almeno 300 feriti gravi, all’interno delle tende di un campo profughi. Questo l’agghiacciante bilancio.

Piccola fettina di terra costiera non lontana da Khan Younis, nel sud della Striscia di Gaza, al-Mawasi oggi ospita una popolazione stimata di circa un milione di sfollati interni. Spostati da nord a sud, poi da sud a nord e ancora da nord a sud, gli abitanti sono privi di tutto e cercano di sopravvivere con una temperatura di 40 gradi, senza acqua potabile e con la malnutrizione nelle ossa.

Al-Mawasi, Striscia di Gaza [photo credit Middle East Monitor]
Le Forze di Difesa Israeliane l’avevano dichiarata “safe zone”. Ma cosa significa? Niente è sicuro a Gaza. La parola d’ordine dei sionisti, “Stanare gli uomini di Hamas”, resta la perenne giustificazione di Israele all’uccisione di centinaia di civili.

Questa volta chi si voleva colpire? Arriva rapida e senza scrupoli la voce dura di Benjamin Netanyahu, in una conferenza stampa. I destinatari di missili e bombardamenti aerei erano il comandante del braccio armato di Hamas, Mohammed Deif, e il comandante senior della brigata Khan Younis, Rafa Salama. Netanyahu ha dato la sua benedizione affinché il capo dello Shin Bet – l’agenzia di sicurezza israeliana – effettuasse l’operazione dopo essersi assicurato che non c’erano ostaggi israeliani nella zona. Per i civili palestinesi invece nessuna premura.

Ancora una grave violazione da parte di Israele del Diritto Internazionale Umanitario. Ancora il non rispetto del principio di proporzionalità, contrapposto alla necessità militare, nei conflitti armati.

L’Egitto, mediatore nei colloqui per il cessate il fuoco, ha condannato l’attacco e ha criticato il “silenzio vergognoso e la mancanza di azione da parte della comunità internazionale”.

Ogni giorno Gaza è testimone del flagrante fallimento dell’obiettivo fissato nove mesi fa dal capo del governo israeliano, ovvero quello di “annientare Hamas”, movimento che non ha avuto difficoltà a reclutare al suo interno una fetta di popolazione palestinese determinata a reclamare giustizia per le violazioni subite.

Intanto in Israele crescono ogni settimana le manifestazioni contro l’estremismo cieco di Netanyahu. Mai negli ultimi anni nella nostra democrazia la questione del diritto, se non del dovere, di disobbedire è stata sollevata con così tanta intensità. Sentinelle della dignità, questi cittadini agiscono in nome di valori intangibili e immutabili.

Le nostre società stanno attraversando un periodo buio, l’umanità sembra avviarsi verso il vuoto. La nostra democrazia non è più semplicemente in crisi, ma si sta trasformando davanti ai nostri occhi in un regime sempre più autoritario, come atto preparatorio al peggio. Siamo arrivati ​​ad un punto di intersezione cruciale. Quanti saranno coloro che, di fronte ad ordini illegali, preferiranno scendere nel campo dell’onore, piuttosto che estinguere definitivamente ogni forma di coscienza?

Le continue violazioni di regole e norme da parte dell’occupazione israeliana sono un duro colpo per i diritti umani e il silenzio può essere interpretato solo come condiscendenza nei confronti della potenza occupante.

Tutti dovremmo essere sorpresi dal silenzio assordante dell’Occidente, dalla mancanza di solidarietà dei leader dei Paesi arabi o dall’inquietante lontananza dei Paesi asiatici e nordafricani.

Per non turbare i sogni dei suoi alleati estremisti, Netanyahu continua a dire no al cessate il fuoco e ad un governo dell’Autorità Palestinese a Gaza e, per non perdere l’appoggio degli Stati Uniti e dell’opposizione israeliana, continua a dire no all’occupazione permanente. L’ambiguità mette in luce la portata della crisi. Risultato? Apertis verbis, una mancanza di strategia generale e una crescente spaccatura con la Casa Bianca.

Federica Iezzi
federicaiezzi@hotmail.it
Twitter @federicaiezzi
©️ RIPRODUZIONE RISERVATA

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Addio a Bruno Brugnoni, le sue analisi sono state importanti per capire il mondo

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L’ultimo saluto a Bruno si potrà dare o domani mattina,
mercoledì 17 luglio, alle 10 per la benedizione della salma,
oppure giovedì 18 luglio alle ore 9,30, per la chiusura della bara.
In entrambi i casi, all’obitorio dell’istituto dei tumori
in via Ponzio 8, a Milano.

Senza Bavaglio e Africa Express
Milano, 16 luglio 2024

Ieri sera dopo una breve ma micidiale malattia se n’è andato Bruno Brugnoni, un indomito combattente per la libertà. Era nato a Genova e il 21 luglio avrebbe compiuto 83 anni. Aveva fatto della lotta contro il malaffare e la corruzione una ragione di vita. Non era giornalista, ma, amico di Senza Bavaglio e di Africa ExPress, ci aveva aiutato moltissimo nelle nostre inchieste. Era ingegnere navale e in qualità di “direttore di macchina” aveva girato il mondo e avuto occasione di toccare con mano alcuni importanti episodi corruttivi. Durante la stagione di Mani Pulite era stato consulente della procura di Milano e di quella di Monza.

Per noi diverse volte le sue analisi erano state assai preziose. Durante l’inchiesta che abbiamo avviato sul caso di Silvia Romano, la ragazza rapita di Kenya il 20 novembre 2018, tenuta in cattività per 18 mesi in Somalia, poi liberata e tornata a casa misteriosamente islamizzata, ci ha aiutato capire il quadro della situazione e perché le tessere del mosaico non combaciavano ed erano sbilenche.

Bruno Brugnoni in una foto dell’anno scorso

Grazie alla sua esperienza sui mercantili ci ha spiegato cosa era successo nel Canale di Suez il 23 marzo del 2021 quando la porta-container Ever Given – una delle navi più grandi al mondo con una stazza lorda di 224mila tonnellate e una capacità di carico di 20mila container lunga 400 metri e larga 60 – battente bandiera panamense, si era incagliata nel corso d’acqua bloccando la navigazione per diversi giorni.

Bruno Brugnoni alla manifestazione del 25 aprile

Ma lo scoop più importante è quello messo a segno nel 2002 quando ci ha aiutato a leggere, analizzare e capire le centinaia di documenti su un traffico d’armi tra Ucraina, Liberia e Sierra Leone. Era il periodo in cui i due Paesi africani erano devastati da una furiosa guerra civile combattuta con le armi provenienti dalla nazione ex sovietica.

Il nostro Bruno festeggiato dalla famiglia di Senza Bavaglio e di Africa ExPress al pranzo di Senza Bavaglio e di Africa ExPress dopo la manifestazione del 25 aprile scorso

Bruno era un fervente liberale, potremmo definirlo un estremista liberale, non nel senso conservatore del termine ma piuttosto progressista. Insomma, un liberal intransigentemente antifascista cresciuto alla scuola di Piero Gobetti e dei fratelli Carlo e Nello Rosselli e non sopportava violenze e soprusi.

Il nostro amico era al nostro fianco anche durante svariate manifestazioni che si sono svolte a Milano per la liberazione di Julian Assange.

E lo scorso 25 aprile aveva partecipato con noi, sotto le bandiere di Senza Bavaglio, alla manifestazione per l’anniversario della Liberazione.

Bruno con Paolo Palillo durante un incontro degli amici di Africa ExPress

La redazione di Africa ExPress e di Senza Bavaglio è vicina alla famiglia.
Bruno ci mancherà moltissimo.

Africa ExPress
Senza Bavaglio
©️ RIPRODUZIONE RISERVATA

Una manovra sbagliata e forse voluta ha causato il blocco del Canale di Suez

Il mondo opaco delle commodities: dal petrolio, ai diamanti, alle armi nei feroci conflitti africani

Armi dall’Ucraina alla Liberia e Sierra Leone: via Monza

Qui gli articoli sul rapimento di Silvia Romano

Ci ha lasciato Bruno Brugnoni, le sue analisi sono state importanti per capire il mondo

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Senza Bavaglio e Africa Express
Milano, 16 luglio 2024

Ieri sera dopo una breve ma micidiale malattia se n’è andato Bruno Brugnoni, un indomito combattente per la libertà. Era nato a Genova e il 21 luglio avrebbe compiuto 83 anni. Aveva fatto della lotta contro il malaffare e la corruzione una ragione di vita. Non era giornalista, ma, amico di Senza Bavaglio e di Africa ExPress, ci aveva aiutato moltissimo nelle nostre inchieste. Era ingegnere navale e in qualità di “direttore di macchina” aveva girato il mondo e avuto occasione di toccare con mano alcuni importanti episodi corruttivi. Durante la stagione di Mani Pulite era stato consulente della procura di Milano e di quella di Monza.

Per noi diverse volte le sue analisi erano state assai preziose. Durante l’inchiesta che abbiamo avviato sul caso di Silvia Romano, la ragazza rapita di Kenya il 20 novembre 2018, tenuta in cattività per 18 mesi in Somalia, poi liberata e tornata a casa misteriosamente islamizzata, ci ha aiutato capire il quadro della situazione e perché le tessere del mosaico non combaciavano ed erano sbilenche.

Bruno Brugnoni in una foto dell’anno scorso

Grazie alla sua esperienza sui mercantili ci ha spiegato cosa era successo nel Canale di Suez il 23 marzo del 2021 quando la porta-container Ever Given – una delle navi più grandi al mondo con una stazza lorda di 224mila tonnellate e una capacità di carico di 20mila container lunga 400 metri e larga 60 – battente bandiera panamense, si era incagliata nel corso d’acqua bloccando la navigazione per diversi giorni.

Bruno Brugnoni alla manifestazione del 25 aprile

Ma lo scoop più importante è quello messo a segno nel 2002 quando ci ha aiutato a leggere, analizzare e capire le centinaia di documenti su un traffico d’armi tra Ucraina, Liberia e Sierra Leone. Era il periodo in cui i due Paesi africani erano devastati da una furiosa guerra civile combattuta con le armi provenienti dalla nazione ex sovietica.

Il nostro Bruno festeggiato dalla famiglia di Senza Bavaglio e di Africa ExPress al pranzo di Senza Bavaglio e di Africa ExPress dopo la manifestazione del 25 aprile scorso

Bruno era un fervente liberale, potremmo definirlo un estremista liberale, non nel senso conservatore del termine ma piuttosto progressista. Insomma, un liberal intransigentemente antifascista cresciuto alla scuola di Piero Gobetti e dei fratelli Carlo e Nello Rosselli e non sopportava violenze e soprusi.

Il nostro amico era al nostro fianco anche durante svariate manifestazioni che si sono svolte a Milano per la liberazione di Julian Assange.

E lo scorso 25 aprile aveva partecipato con noi, sotto le bandiere di Senza Bavaglio, alla manifestazione per l’anniversario della Liberazione.

Bruno con Paolo Palillo durante un incontro degli amici di Africa ExPress

La redazione di Africa ExPress e di Senza Bavaglio è vicina alla famiglia.
Bruno ci mancherà moltissimo.

Africa ExPress
Senza Bavaglio
©️ RIPRODUZIONE RISERVATA

Una manovra sbagliata e forse voluta ha causato il blocco del Canale di Suez

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Armi dall’Ucraina alla Liberia e Sierra Leone: via Monza

Qui gli articoli sul rapimento di Silvia Romano

Kenya, processo per terrorismo al profeta della “Setta della Fame” responsabile del massacro di Shakahola

Speciale per Africa ExPress

Sandro Pintus
16 luglio 2024

La settimana scorsa, nel tribunale di Shanzu a Mombasa, è iniziato il processo al predicatore-profeta Paul Mackenzie Nthenge. Il profeta è capo della Good News International Church (Chiesa Internazionale della Buona Novella), soprannominata la “Setta della Fame”.

Shakahola
Kenya, Shakahola, esumazione dei cadaveri

Nelle fosse comuni trovati 448 cadaveri

È ritenuto responsabile della morte di 448 persone seppellite in fosse comuni nella foresta di Shakahola, vicino a Malindi, sulla costa del Kenya. Tra i cadaveri sono stati identificati 131 bambini dei 184 scomparsi.

Il “massacro di Shakahola”, è venuto alla luce nell’aprile scorso, lasciando sotto shock l’intero Paese. Dopo la macabra scoperta il presidente keniota, William Ruto, si è scagliato contro “le congregazioni che usano la religione per ideologie inaccettabili”, paragonandole al terrorismo.

Il pubblico ministero ha subito chiarito che la chiesa della Buona Novella è “un’organizzazione criminale che ha commesso atti violenti in nome di un’ideologia”.

Morti per fame

La morte delle 448 persone, adepti della setta è avvenuta per fame. Mackenzie incoraggiava i fedeli a morire “per incontrare Gesù”. Chi cercava di scappare veniva ucciso a bastonate.

Le udienze del processo si tengono a porte chiuse con 90 testimoni, dodici dei quali – anche nove bambini – sono sotto protezione. Mackenzie e i coimputati sono accusati di 13 atti di terrorismo per il loro coinvolgimento nella morte di 448 persone, i cui corpi sono stati riesumati dalla foresta di Shakahola.

Secondo l’accusa saranno presentate prove dirette e indiziarie, ma anche con numerose prove reali e documentali, comprese quelle elettroniche e altre forme oltre che digitali. “Le prove riveleranno una struttura gerarchica, con Mackenzie e Smart Mwakalama al comando che supervisionavano le operazioni”, ha detto Peter Kiprop, vicedirettore della Procura.

morti anche bambini il Paul Mackenzie Nthenge
Paul Mackenzie Nthenge, predicatore-profeta della setta Good News International Church

La difesa: “È libertà di religione”

Di diverso avviso la difesa che ha respinto la accuse. Paul Mackenzie e i suoi coimputati stavano semplicemente esercitando i loro diritti fondamentali e si appella alle libertà di religione, espressione e associazione garantite dalla Costituzione keniota.

Il 10 luglio c’è stata la testimonianza di Lewis Thoya Sira, medico e fratello di Paul Mackenzie. Dopo aver saputo della morte dei suoi due nipoti deceduti per fame, si sarebbe recato sul posto, a Shakahola, con una TV locale e un suo cugino. Anche un bambino di 8 anni ha rilasciato una testimonianza in cui denuncia che all’età di 7 anni i suoi genitori hanno smesso di nutrirlo “perché quello era l’unico modo per andare in paradiso e incontrare Gesù”.

Il predicatore, insieme ai coimputati, è accusato anche di omicidio, omicidio colposo e crudeltà su minori da altri tre tribunali del Paese. Le cose si complicano parecchio per Paul Mackenzie Nthenge.

Sandro Pintus
sandro.p@catpress.com

X (ex Twitter):
@sand_pin
© RIPRODUZIONE RISERVATA

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Massacro della setta religiosa in Kenya: a processo il profeta e 94 aderenti

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