EDITORIALE
Massino A. Alberizzi
23 luglio 2024
“L’unica soluzione possibile per risolvere la crisi palestinese è quella che prevede due Stati che, con il controllo e l’aiuto internazionale, imponga una convivenza pacifica tra i due popoli”, è il ritornello che sentiamo ripetere da fine ottobre dopo l’orrendo massacro perpetrato dai miliziani di Hamas contro inermi civili e militari israeliani il 7 ottobre.
Ma più che una manifestazione di intenti sembra una asserzione volta a calmare gli animi. Una promessa della politica che però, essendo sotto pressione da parte di lobby guerrafondaie, aggiunge: “Però ora non è il momento”. Se non ora, quando? Quando la quota dei morti avrà raggiunto 6 milioni, un numero che porterebbe a pari il bilancio con le vittime dell’olocausto?
Obbedienti esecutori di ordini
A porre sul tavolo la soluzione dei due popoli due Stati ha cominciato il presidente americano Joe Biden, cui imprudentemente si sono accodati i più obbedienti esecutori degli ordini americani, tra i quali naturalmente l’Italia. Il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, ha indicato più volte la proposta, ma poi si è guardato bene di darne esecuzione, come invece hanno fatto, tra gli altri, Spagna e Irlanda che hanno riconosciuto lo Stato di Palestina.
Naturalmente contro il diritto dei palestinesi ad avere una patria si sono schierati compatti gli israeliani che qualche giorno fa alla knesset (il parlamento) hanno votato una risoluzione con cui bocciano la soluzione dei due Stati. Tutti d’accordo, tranne i deputati dei partiti arabi. Un documento che lascia perplessi perché praticamente sentenzia che solo gli ebrei hanno diritto a una patria. Un diritto sancito “nelle sacre scritture”.
Sacro e profano
L’idea che ciò che è sacro per qualcuno può essere profano per altri, non sfiora neanche lontanamente le menti dei sostenitori del sionismo.
Ma allora perché i politici occidentali si limitano a patetiche dichiarazioni di principio e non fanno nulla per realizzare concretamente quanto promettono? La risposta forse si può ricercare nelle fortissime pressioni esercitate dalle lobby e dalle organizzazioni sioniste da sempre impegnate in una propaganda tesa a dimostrare che lo Stato ebraico è l’unico democratico della regione ed è l’unico che ha diritto ad esistere in Palestina.
Mantra smentito
Un mantra smentito dalla recente pronuncia della Corte Internazionale di Giustizia che, pur se non vincolante, ha sentenziato impietosamente che nello Stato ebraico vige un sistema di apartheid, cioè di segregazione razziale nei confronti dei palestinesi. E un Paese che pratica una politica di apartheid non può essere considerato democratico.
E’ poi francamente patetica e capziosa la giustificazione addotta dai difensori di Israele quando affermano che lo Stato ebraico ha “il diritto di difendersi”. Certo! Tutti hanno il diritto di difendersi ma dagli aggressori, non a casaccio da tutti quelli che danno fastidio o sono ingombranti.
E non basta dire che la reazione di Israele è stata sproporzionata ed eccessiva. Occorre invece condannare con forza quella risposta, che nega un principio acquisito dai Paesi democratici. Le responsabilità penali sono individuali e non trasferibili ad altri. Invece da anni l’esercito israeliano colpisce deliberatamente la popolazione civile palestinese nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania, con il pretesto che la gente nasconde i terroristi.
Combattenti per la libertà trasformati in tiranni
L’obiettivo? Annientare e distruggere un’intera popolazione. Una popolazione che dà fastidio perché rivendica, come a suo tempo hanno fatto giustamente gli ebrei, il diritto di avere una patria.
In Palestina si sta verificando qualcosa che noi di Africa ExPress abbiamo visto molte, troppe volte in Africa: combattenti per la libertà che, abiurando ai propri principi di democrazia, si trasformano in tiranni e feroci dittatori. Uno schema collaudato.
Intenzione dichiarata
Qualcuno ha anche obiettato: “Quello di Israele non si può definire genocidio, perché Tel Aviv non ha mai dichiarato apertamente la sua intenzione di annientare i palestinesi”. E’ vero che la definizione legale di genocidio prevede un’intenzione dichiarata. Ma è anche vero che altri genocidi che si sono verificati nel secolo scorso, armeni e tutsi ruandesi, per esempio, non sono stati preceduti da disegni espressi in documenti o dichiarazioni pubbliche.
Il dittatore iracheno Saddam Hussein è stato accusato di genocidio per aver “gasato” i curdi, ma nessuno gli ha chiesto una dichiarazione ufficiale delle sue intenzioni.
Due pesi e due misure
E qui viene a galla il metodo indisponente dei due pesi/due misure utilizzato quando si analizzano i comportamenti degli altri. Qualcosa che viene rimproverato a chi è un avversario, viene consentito a chi è amico. Non si condanna il genicidio in atto a Gaza, ma si censurano i bombardamenti di Putin in Ucraina. Putin viene definito un dittatore squilibrato antidemocratico e illiberale, Netanyahu resta invece un primo ministro che difende in suo Paese da una massa di terroristi. Eppure sia Putin sia Netanyahu sono inseguiti da un mandato d’arresto della Corte Penale Internazionale, che per altro né Russia né Israele riconoscono.
Giulio Andreotti e i terroristi
Nel 2006, durante gli attacchi Hezbollah a Israele, Giulio Andreotti, in un intervento al Senato si espresse più o meno così: “Ognuno di noi se fosse nato in un campo di concentramento e da 50 anni fosse lì e non avesse alcuna prospettiva di poter dare ai propri figli un avvenire sarebbe un terrorista”. Un’osservazione che dovrebbe fare riflettere tutti coloro che oggi si affrettano a dipingere come semplici e disumani terroristi persone che non hanno alternative se non quella di imbracciare un fucile per difendere se stessi e le proprie famiglie.
Facile per chi vive nel benessere, e ogni giorno può permettersi due pasti, guardare con disgusto quei poveri disgraziati senza futuro concepiti, nati e cresciuti in un campo profughi dove le loro famiglie vivono da tre o quattro generazioni. Una narrazione scadente e di parte sulla situazione in Palestina porta a formulare giudizi avventati.
Le scuse di Clinton
Agire subito dovrebbe essere un imperativo per la politica, a meno che non voglia comportarsi come Bill Clinton che, due anni dopo il genocidio in Ruanda durante una visita a Kigali nel 1998, chiese pubblicamente scusa per il mancato intervento per fermare i massacri: “Anche la comunità internazionale, insieme alle nazioni africane – disse rivolendosi ai ruandesi – deve assumersi la sua parte di responsabilità per questa tragedia. Non abbiamo agito abbastanza rapidamente dopo l’inizio delle uccisioni. Non avremmo dovuto permettere che i campi profughi diventassero un rifugio sicuro per gli assassini. Non abbiamo chiamato subito questi crimini con il loro giusto nome: genocidio. Non possiamo cambiare il passato. Ma possiamo e dobbiamo fare tutto ciò che è in nostro potere per aiutarvi a costruire un futuro senza paura e pieno di speranza”.
E chissà se ha mai chiesto scusa l’allora ambasciatore britannico all’ONU, lord David Hannay, che convinse il Consiglio di Sicurezza a non usare la parola “genocidio” per descrivere la carneficina in Ruanda. Un accorgimento che evitò un intervento militare umanitario a difesa dei civili che altrimenti il diritto internazionale avrebbe voluto obbligatorio.
Massimo A. Alberizzi
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Discorso di Bill Clinton in Ruanda il 25 marzo 1998
https://www.cbsnews.com/news/text-of-clintons-rwanda-speech/#:~:text=We%20should%20not%20have%20allowed,fear%2C%20and%20full%20of%20hope.
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