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Il drammatico Natale tra le macerie dei cristiani di Gaza

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Distribuzione del cibo in Nigeria: nella calca morte schiacciate oltre 30 persone

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Esercito evacua suore straniere dall’inferno di Khartoum

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
12 agosto 2024

Cinque suore (quattro indiane e una polacca della congregazione delle Figlie di Maria Ausiliatrice), un padre salesiano (Jacob Thelekkadan, di origine indiana), un volontario, Chan Mabek, e diversi cittadini sud sudanesi, sono stati evacuati con l’aiuto delle forze armate del Sudan (SAF). Hanno trascorso oltre un anno nell’inferno della capitale Khartoum, quasi totalmente distrutta dalla guerra iniziata il 15 aprile 2023. Dopo giorni e giorni di viaggio, costellato da pericoli e insidie, la comitiva è arrivata sana e salva a Port Sudan pochi giorni fa.

Una delle suore evacuate proviene dalla Polonia. Le altre 4, come il padre, sono originari dall’India

Molti quotidiani sudanesi e anche internazionali hanno parlato di una evacuazione di religiosi italiani, eppure nel gruppo non c’era nemmeno un nostro connazionale. E’ successo perché trattandosi di congregazioni religiose con un marcato stampo italiano, (come, per esempio, i salesiani, il cui fondatore è don Bosco) molti sono convinti che i membri siano della stessa nazionalità.

Persino SAF (Forze Armate Sudanesi), ha sottolineato in un comunicato: “L’esercito sudanese e il General Intelligence Service hanno evacuato con successo dalla loro residenza a sud di Khartoum cinque suore cattoliche italiane, un sacerdote e venti cittadini sud-sudanesi”. E ha aggiunto: “Le Forze armate sudanesi hanno effettuato con successo l’evacuazione a Omdurman e poi il viaggio verso a Port Sudan.

Le suore delle Figlie di Maria Ausiliatrice hanno gestito per anni una scuola, la Dar Maryam Primary School, che si trova nella zona di Al Shajara, un quartiere a sud della capitale Khartoum, che comprende anche una scuola materna. L’istituto era per lo più frequentato da piccoli rifugiati sud sudanesi. La residenza delle religiose è confinante con il complesso scolastico.

Poche settimane prima dell’evacuazione, padre Jacob ha raccontato che la missione ha accolto un’ottantina di persone in difficoltà. “Manca tutto, soprattutto il cibo, non sappiamo più cosa mangiare. Le suore hanno dovuto cuocere foglie di alberi per riempire il pancino dei piccoli, mentre noi adulti siamo ormai abituati a saltare i pasti. Da quando è iniziata la guerra non faccio altro che aggiungere nuovi buchi alla cintura dei miei pantaloni”.

Padre Jakob a Port Sudan mentre racconta cosa succede a Khartoum

Il tetto dell’edificio principale è stato danneggiato dalle granate e alcune parti degli alloggi delle suore sono state incendiati. Sulle pareti fanno bella mostra fori di proiettili.

L’area di Al Shajara, che ospita installazioni militari chiave, è tra i punti focali del conflitto tra l’esercito e le Rapid Support Forces (gli ex janjaweed), scoppiato nell’aprile 2023. I paramilitari hanno ripetutamente cercato di prendere il controllo dell’area, ma l’esercito ha finora respinto gli attacchi.

Già a dicembre la Croce Rossa aveva cercato di portare in salvo i membri della missione, tentativo fallito. Il convoglio era stato attaccato.

Subito dopo l’evacuazione da Khartoum, avvenuta nella notte tra il 28 e 29 luglio, il gruppo è stato portato a Omdurman, città gemella della capitale, sulla sponda occidentale del Nilo, dopo aver attraversato in barca il fiume in una notte buia, senza luna. Poi la comitiva è rimasta per qualche giorno nella casa delle Missionarie della Carità di Madre Teresa di Calcutta. L’edificio, ancora in condizioni discrete, non è stato chiuso dopo la partenza delle religiose. L’istituto è attualmente gestito da personale locale.

Le 5 suore e il padre accolti festosamente a Port Sudan da altri religiosi

Il gruppo è approdato a Port Sudan il 7 agosto. I cosiddetti “italiani” sono stati accolti dalla comunità dei Comboniani, dove sono presenti alcuni padri, nostri connazionali e da due congregazioni di suore (religiose della Visitazione e di Madre Teresa di Calcutta, entrambe fondate da indiani).

L’ex protettorato anglo-egiziano sta per entrare nel 16esimo mese di guerra. Le due parti in conflitto, Rapid Support Forces, capeggiate da Mohamed Hamdan Dagalo, meglio noto come Hemetti, da un lato, e le Forze armate sudanesi (SAF), comandate da Abdel Fattah Abdelrahman al-Burhan, presidente del Consiglio Sovrano e di fatto capo dello Stato, dall’altro, hanno devastato quasi tutto il Paese e messo in ginocchio gran parte della popolazione.

Oltre 11 milioni di persone hanno dovuto lasciare le proprie case, tra questi ben più di 2 milioni hanno varcato i confini verso i Paesi limitrofi in cerca di protezione. “Oltre la metà dei sudanesi, è colpita da insicurezza alimentare”, ha comunicato martedì scorso Edem Wosornu, direttrice per le operazioni e advocacy presso l’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA), durante la sessione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sul Sudan.

Zamzam, Darfur, campo per sfollati

La fame, un’arma antica quanto il mondo, uccide non solo bambini, ma anche donne in gravidanza, madri, anziani e persone con disabilità. Martedì il PAM (Programma Alimentare Mondiale delle Nazioni Unite) ha dichiarato un’emergenza carestia nel grande campo per sfollati di Zamzam a sud di El Fasher, capoluogo del Darfur settentrionale, dove migliaia di persone stanno tentando di sopravvivere alla guerra.

E l’ambasciatore James Kariuki, vice rappresentante permanente del Regno Unito presso le Nazioni Unite, ha rincarato la dose durante il suo intervento al Consiglio di Sicurezza di questa settimana: “La carestia in Sudan è interamente causata dall’uomo. Oggi, per la fame, stanno morendo cento persone al giorno. Domani saranno molti di più, se le parti in conflitto continueranno la loro guerra per il potere”.

La pace nel Paese finora resta un’utopia. Durante questo fine settimana il governo di Khartoum ha inviato una delegazione a Gedda (Arabia Saudita) per consultazioni con alti funzionari di Washington a proposito dei prossimi colloqui per un cessate il fuoco, fortemente voluti dal governo di Joe Biden. I dialoghi prenderanno il via il prossimo 14 agosto a Ginevra.

L’incontro tra la delegazione USA, capeggiata da Tom Periello, rappresentante speciale per il Sudan e quella sudanese, capitanata da Mohamed Bashir Abu Nommo, a capo del dicastero dei Minerali, si è concluso senza alcun accordo sulla partecipazione del governo africano ai dialoghi in Svizzera. Mentre le RSF hanno già confermato la presenza dei loro delegati.

Cornelia Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
X: @cotoelgyes
@RIPRODUZIONE RISERVATA

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ALTRI ARTICOLI SUL SUDAN LI TROVATE QUI

Gaza e West Bank: palestinesi fermati raccontano le torture ed emergono gli stupri

Speciale per Africa ExPress
Alessandra Fava
11 agosto 2024

Benvenuto all’inferno: è quello che un soldato israeliano dice a un prigioniero palestinese. O meglio a un uomo di un paese vicino a Tulkarem, arrestato per avere un fratello nella resistenza (forse) o meglio, un fratello sparito dalla circolazione e quindi è sospettato di essere finito tra i miliziani. Basta questo per avere la casa perquisita in piena notte, moglie e figli terrorizzati dall’irruzione di diversi soldati armati in casa, arredi spaccati, piatti fatti a pezzi, la vita distrutta alla ricerca di non si sa cosa. Fouad Hassan, 45 anni, finito nella prigione di Megiddo. Del fratello non sa niente da tempo, ma lui nella prigione di Megiddo è stato torturato per diverse settimane.

Le testimonianze di alcuni palestinesi torturati nelle prigioni israeliane dal 7 ottobre a oggi sul sito di B’tselem


Benvenuti all’inferno è diventato anche il titolo che B’tselem, associazione israeliana che indaga da tempo sulle violenze nei Territori occupati, la West Bank e Gaza, ha voluto dare all’ultimo report. L’associazione ha intervistato con nomi e cognomi 55 palestinesi rilasciati di recente da diverse prigioni israeliane o posti di fermo. Alcuni sono stati trattenuti per mesi: 30 sono della Cisgiordania, 21 della Striscia di Gaza e altri 4 cittadini di Israele. Tutti sono stati rilasciati senza alcun indizio di reato. Eppure hanno subito torture di ogni genere, sono stati perquisiti nudi da donne, sono stati legati e imbavagliati, messi in posizioni umilianti, picchiati, lasciati senza cibo, privati del sonno. Dal 7 ottobre di fatto è scattato il via libera contro i palestinesi fermati in qualsiasi circostanza.

A novembre e dicembre già erano emerse le torture esercitate dall’esercito israeliano a Sde Teiman, una base vicino a Gaza. Ma secondo B’telem Sde Teiman è solo la punta dell’iceberg, le violenze si sono perpetrate anche in caserme e altri luoghi legati alla pubblica amministrazione e all’esercito.

Civili della Striscia di Gaza arrestati da militari israeliani

“Il governo israeliano ha cinicamente sfruttato il nostro trauma collettivo legato agli orrori del 7 ottobre per tradurre in azione l’agenda razzista e violenta del ministro della Sicurezza Nazionale Ben G’vir – si legge nel rapporto -. Questo governo ci ha condotto a una bassezzza morale mai vista prima, attuando ancora una volta il dispregio per la vita umana, che siano gli ostaggi a Gaza oppure israeliani e palestinesi coinvolti in questa guerra o i palestinesi imprigionati nei campi di tortura”.

Pochi giorni dopo la pubblicazione del report di B’tselem, martedì scorso, durante una trasmissione tv su Canale 12, una rete progressista, è stato reso noto un video in cui alcuni riservisti a Sde Teiman stuprano a turno un fermato palestinese, accusato di essere membro di Hamas e di essere uno degli attentatori del 7 ottobre, mentre altri prigionieri stanno coricati a terra, a faccia in giu, legati e denudati. Il video di mezzo minuto era al centro di un dibattito televisivo, Morning News. Alla proiezione delle immagini, il giornalista di Israel Hayom, Yehuda Shlezinger, ha sbottato: “Prima di tutto se lo meritano. Secondo, è una grande forma di vendetta e può fungere da deterrente per noi”.

Israele, centro di fermo segreto di Sde Teiman nel deserto del Negev, stupro di gruppo su prigionieri palestinesi da parte di riservisti israeliani

https://theintercept.com/2024/08/09/israel-prison-sde-teiman-palestinian-abuse-torture/

Canale 12 ha quindi sospeso la partecipazione di Shlezinger ad altre puntate, ma il fatto ha infiammato l’opinione pubblica finendo sulle agenzie internazionali. Intanto uno degli stupratori è comparso sul canale di estrema destra 14 celandosi con un passamontagna e ha criticato la diffusione del video. L’avvocato generale militare di Israele, secondo quanto riferito dal quotidiano israeliano Haaretz, ha quindi ordinato un’indagine sui riservisti coinvolti nella violenza, ma il governo di estrema-destra sembra proteggere anche i violentatori. Per altro, quando la polizia alla fine di luglio, in seguito a reportage di diverse testate anche statunitensi, è andata a Sde Teiman per indagare sulle violenze avvenute in passato, come riferisce il Jerusalem Post, si è ritrovata all’ingresso del campo segreto di Sde Teiman nel Nevev, gruppi di estrema destra che manifestavano contro i controlli.

https://www.msn.com/en-za/news/other/sde-teiman-riots-threatening-the-checks-and-balances-key-to-our-survival/ar-AA1ox6lI

Tutti i palestinesi sono nemici. La violenza contro il nemico viene non solo accettata, ma promossa come arma di guerra.

Alessandra Fava
alessandrafava2015@libero.it
©️ RIPRODUZIONE RISERVATA

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Altri articoli su Israele e la Guerra di Gaza li trovate qui

 

Francesca Albanese (ONU) sulla Palestina: “Israele opprime? Non ci meravigliamo se la reazione è violenta”

Dalla Nostra Inviata Speciale
Federica Iezzi
Amman (Giordania), 10 agosto 2024

 

Relatrice speciale delle Nazioni Unite sui Territori Palestinesi Occupati, Francesca Albanese, dall’inizio della guerra, ha puntualmente presentato un’analisi dettagliata della situazione. Accertamento delle responsabilità dei crimini commessi a Gaza e in Cisgiordania, embargo sulle armi, sanzioni verso Israele per imporre un cessate il fuoco e invio di una presenza internazionale per proteggere la Palestina sono punti focali spesso toccati.

Albanese ha un mandato del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite che comprende l’investigazione delle violazioni, l’effettuazione di visite o missioni regolari e la stesura di relazioni sui risultati. L’abbiamo intervistata per Africa ExPress

La Relatrice speciale Francesca Albanese [photo credit United Nations]
C’è un po’ di confusione quando si parla di Territori Palestinesi Occupati. L’occupazione militare c’è ai sensi della Convenzione dell’Aja (art.42), quando c’è controllo effettivo del territorio. Ci può spiegare cosa significa? Per la Cisgiordania, per Gerusalemme Est e per la Striscia di Gaza?

Il Territorio Palestinese Occupato è ciò che resta dalla spartizione della Palestina del 1947. Inizialmente il 45 per cento di questa terra sarebbe dovuta diventare lo Stato Arabo. Dopo la prima guerra arabo-israeliana del 1948, invece, lo Stato israeliano ha inglobato l’80 per cento della Palestina storica.
Oggi, gli stralci rimasti sono Territorio Palestinese Occupato, che comprende Striscia di Gaza, Gerusalemme Est e Cisgiordania.
I tre territori sono amministrati (e sono stati trattati) in maniera differente da Israele, sin dal 1967. Questo per acuire la frammentazione della regione e la separazione tra i palestinesi.
In queste zone c’è un’occupazione militare che fa scattare gli obblighi previsti dalla Convenzione dell’Aja e dalle Convenzioni di Ginevra in materia di conflitti armati.
Perché Gaza è sempre stata trattata in modo diverso? Gaza rappresentava il più grande campo di rifugiati al mondo. Il 75 per cento dei suoi abitanti nel 1947-1949 erano figli della Nakba, cioè l’esodo forzato dei palestinesi. Israele ha cercato in ogni modo di favorire la loro migrazione da Gaza, senza successo, mettendo in atto dunque la tanto discussa politica di quarantena, di isolamento della popolazione. Ancor di più oppressa dopo il 2007 dall’assedio.
Per quanto riguarda Gerusalemme, Israele la considera – illegalmente – annessa. La considera parte del proprio territorio, però senza riconoscere i diritti di cittadinanza ai palestinesi che la abitano.
Mentre, il resto della Cisgiordania è ancora terra aperta alla conquista, visto che Israele, dal 1967 ad oggi, ha stabilito circa 300 colonie per 800.000 israeliani-ebrei. Lo Stato israeliano ha dichiarato la maggior parte di questi territori in Cisgiordania, annessi. Quindi sotto la sua giurisdizione civile. Il fatto che consideri o tratti in maniera distinta queste aree, non altera minimamente lo status di occupazione militare in corso, che è illegale. Oggi stabilito, con chiarezza e perentorietà, anche dalla Corte Internazionale di Giustizia.

La Relatrice speciale Francesca Albanese intervistata da Federica Iezzi

La declamata soluzione a due Stati non è possibile finché si mantiene un’occupazione militare. La IV Convenzione di Ginevra, sancisce che ‘la potenza occupante non potrà procedere alla deportazione o al trasferimento di una parte della sua popolazione civile nel territorio da essa occupato’. A questa si aggiunge la risoluzione 446 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite del 1979, che ne ha esplicitamente riconosciuto l’illegalità. La risoluzione ONU 2334 del 2016 condanna tutti gli insediamenti israeliani nei territori occupati. Oggi anche il parere consultivo della Corte Internazionale di Giustizia decreta illegittima l’occupazione da parte di Israele dei Territori Palestinesi. Perché dunque  la comunità internazionale non fa nulla?

La comunità internazionale non se la sente di prendere posizione nei confronti di Israele per una serie di ragioni, ipocritamente storiche. Basta una lettura in chiaro, di quello che è successo 80 anni fa, per capire la linea di pensiero degli Stati Occidentali. A chiudere il quadro ci sono anche interessi economici e finanziari.
Ma il motivo fondamentale però è una affinità elettiva da suprematismo bianco. Bianco, che vede in Israele una parte di se, mentre l’altro è rappresentato dagli arabi, dai musulmani, dalle persone di colore. Israele e Palestina oggi sembrano l’ultima frontiera di un confronto mai risoltosi tra nord globale e sud globale.

Secondo la Corte Internazionale di Giustizia, Israele non può invocare il diritto all’autodifesa, previsto dalla Carta delle Nazioni Unite, contro le minacce provenienti dal territorio che occupa e contro la popolazione. Perché, nonostante una estesa e chiara legislazione sull’argomento, si continua a parlare di legittima difesa?

Il diritto all’autodifesa, nella Carta delle Nazioni Unite, sancisce il diritto di uno Stato di utilizzare la forza, uso bandito nel nostro ordinamento internazionale fatta eccezione per due casi: quando sia autorizzato dal Consiglio di Sicurezza o in caso di autodifesa. L’autodifesa si può dichiarare quando c’è aggressione da parte di un altro Stato.
In questo caso, non solo non c’è aggressione da parte di un altro Stato ma Israele occupa il territorio palestinese, peraltro con un regime di apartheid. E’ consequenziale che ad un regime di oppressione si creino delle forme di resistenza.
Questo non significa giustificare né quello che Hamas ha fatto lo scorso 7 ottobre, né altre forme di resistenza che violino il Diritto Internazionale.
La resistenza del popolo palestinese è legittima ma deve rispettare i limiti del Diritto Internazionale.
La risposta a ogni violazione va data in termini di riaffermazione del diritto. Bisognava investigare e assicurare alla giustizia coloro che hanno commesso crimini, invece di lanciare un’operazione militare, la quale – si è chiaramente visto – non è né votata a liberare gli ostaggi, né ad eliminare Hamas.
Non c’è stato nessun attacco che si possa definire di precisione a Gaza. Non si può parlare nemmeno di guerra. E’ un genocidio. E’ una guerra tra uno degli eserciti più sofisticati al mondo e un popolo quasi inerme. E’ vero che Hamas si sta difendendo. Ma è chiaro che è impossibile da annientare perché è resistenza popolare. E la resistenza non si può debellare, perché fa parte dell’essere umano che chiede dei diritti. E’ stato eroso tutto lo spazio che i palestinesi hanno tentato di creare anche per una resistenza non violenta.

La efferatezza del tentativo di sterminare gli ebrei d’Europa, legittimò lo Stato israeliano. Un crimine abominevole è stato riparato offrendo agli ebrei di tutto il mondo un rifugio dove potessero vivere in pace e sicurezza, liberi da persecuzioni. La riparazione della vergogna europea nata nell’orrore dei campi nazisti, si è accompagnata all’ingiustizia commessa contro i palestinesi. Cosa ne pensa?

All’interno delle Nazioni Unite si sa esattamente che cosa ha significato la creazione dello Stato d’Israele per i palestinesi e in termini di ingiustizia internazionale. Si usciva da un periodo storico che vedeva gli ebrei, vittime di persecuzioni in Europa, privi di un posto sicuro. Sembrava un’operazione di giustizia soddisfare le legittime istanze del popolo ebraico permettendo la creazione di uno Stato solo per gli ebrei, la cui persecuzione, culminata con l’olocausto, era un elemento propulsore per la creazione dello Stato di Israele.
Il problema comincia nel momento in cui quello Stato viene immaginato in una terra già abitata, con un governo, una cultura, una società. Così sono cominciate le ingiustizie. I palestinesi con cittadinanza israeliana (erroneamente chiamati arabi israeliani), sono stati sottoposti per 20 anni alla legge marziale. Sfollati dai propri villaggi, dalle proprie case, dalla propria terra. Ai 7 milioni di rifugiati del 1948 e del 1967, non è stato mai permesso di rientrare. Stesso trattamento nei confronti dei palestinesi che non facevano parte della struttura militare dell’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina, ndr) o di chiunque avesse una voce che potesse ispirare la resistenza palestinese.
Ovviamente è cresciuta la solidarietà tra la gente. E così oggi sono tanti a pagare, non tanto per l’identità palestinese, quanto per la solidarietà con il popolo palestinese.
La Comunità Internazionale dell’epoca ha pensato di risolvere nel solito modo: disponendo delle terre e delle risorse dei popoli – che oggi chiameremmo del sud del mondo – a proprio piacimento. Questa è un modo di pensare coloniale. Se rattrista e sconvolge che questa mentalità potesse essere predominante 80 anni fa, è scioccante che si giustifichi ancora oggi.

Tulkarem, Cisgiordania [photo credit Al-Jazeera]
Oggi la quasi totalità del mondo occidentale condanna giustamente l’antisemitismo, ma sostiene fino alla complicità una nazione genocidaria composta dai discendenti dei sopravvissuti alla Shoah. Si continua a confondere l’olocausto con i campi di concentramento, ma questi ultimi sono stati solo la parte finale di un processo di disumanizzazione, di umiliazione, di persecuzione di un popolo. Come è possibile non vedere l’analogia con quello che i palestinesi stanno vivendo? Come è stato possibile arrivare all’attuale negazione dei diritti di un popolo?

L’analogia è nella discriminazione e nel razzismo. Negli ultimi 10-15 anni si è intenzionalmente lasciato nel vago il concetto di l’antisemitismo. Non è escluso che ci possano essere stati argomenti o frasi, utilizzati contro lo Stato di Israele, a base antisemita. La critica per le performance in termini di diritti umani e scarsa conformità al Diritto Internazionale, è uno scrutinio essenziale e necessario che si applica a tutti gli Stati. Perché Israele dovrebbe essere al di sopra delle leggi?
Come dice lo storico Raz Segal, Israele è nato come uno Stato di eccezione. Sin dall’inizio è stato un Paese avulso dall’applicazione della legge. E’ nato commettendo un’ingiustizia, è nato violando gli stessi principi che venivano in parallelo sanciti dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani nel 1948. Se da una parte la Comunità Internazionale prometteva e imponeva il rispetto di determinati diritti, al tempo stesso molti di quei diritti li violava, riconoscendo l’esistenza dello Stato di Israele, derubando case, terre, vite e squarciando la patria di oltre un milione di persone. L’argomento “antisemitismo” è diventato un passe-partout nelle mani di coloro che sostengono a spada tratta lo Stato di Israele.
La guerra genocida che Israele ha lanciato contro Gaza ha acuito un sentimento antisemita. E va risolto ragionando sul perché gli ebrei vengano associati a Israele. Questo è veramente pericoloso.

L’intento manifesto alla distruzione di un popolo, nel caso della Palestina, è chiaro. E il nome, coniato dall’umanità, è genocidio. Il divieto del genocidio è una norma di ius cogens, così fondamentale per i valori della comunità internazionale, da non poter essere derogato da nessuna delle parti. Fin dal primo giorno sono stati presi di mira, dall’esercito israeliano, ospedali, scuole, rifugi. Ma anche panifici, impianti di desalinizzazione dell’acqua, luoghi sacri e di culto, centrali elettriche, strade. Questa è una strategia pianificata e intenzionale per ripulire Gaza dai civili. E’ così?

Ho pensato fino alla presa di Rafah che fosse così, cioè che Israele stesse veramente cercando di allontanare quanti più palestinesi possibile, uccidendoli o ferendoli. Però Gaza è sigillata, non c’è nessun posto nel quale i palestinesi possano scappare. C’è la distruzione di un popolo nella maniera più fisica e brutale che purtroppo la storia ha già insegnato. Ed è una maniera industrializzata di ammazzare le persone, con l’intelligenza artificiale, con armi inadeguate per combattere una guerriglia urbana. Il problema incidentale è che tutto questo toglie forza e efficacia al Diritto Internazionale.

Rappresentazione della guerra sulla Striscia di Gaza da parte del fumettista André Carrilho [Portogallo]
Sembra che il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sia paralizzato. Come è possibile garantire, e chi può garantire, che entrambe le parti in conflitto rispettino il Diritto Internazionale Umanitario?

Il quadro normativo e gli strumenti a disposizione per attuarlo sono sempre gli stessi. Ma manca la volontà politica. Anzi c’è la volontà politica proprio di andare nel verso contrario, schermando Israele dall’applicazione della legge.
Cessate il fuoco, fine dell’occupazione illegale, sospensione dell’espansione delle colonie: tutto paralizzato a causa della mancanza di volontà politica, principalmente degli Stati Uniti. Ma anche dell’Europa, che si trova in una posizione di vassallaggio nei confronti di Stati Uniti e Israele.
Gli Stati, invece, potrebbero imporre sanzioni, sospendere le relazioni economiche, gli accordi commerciali, l’import, l’export, gli accordi con le università e tutte le forme di partenariato. Cioè tagliare le relazioni con Israele, fino a che non si conforma al Diritto Internazionale.
Accanto ci sono le relazioni politiche e diplomatiche. E’ assurdo che Israele continui ad abusare del diritto e delle sedi preposte al rispetto dello stesso, senza conseguenze. Crea un precedente ed è un vizio di sistema.

Federica Iezzi
federicaiezzi@hotmail.it
Twitter @federicaiezzi
©️ RIPRODUZIONE RISERVATA

Per approfondimenti
Anatomy of a Genocide
Report of the Special Rapporteur on the situation of human rights in the Palestinian territory occupied since 1967 to Human Rights Council – Advance unedited version [A/HRC/55/73]
March 24, 2024
J’accuse. Gli attacchi del 7 ottobre, Hamas, il terrorismo, Israele, l’apartheid in Palestina e la guerra
Francesca Albanese, Christian Elia
Editore Fuoriscena

Altri articoli sulla guerra a Gaza si trovano qui

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Un diamante del Botswana brilla sui 200 metri e anche oltre le siepi oro africano

Dal Nostro Corrispondente Sportivo
Costantino Muscau
9 agosto 2024

Gaborone: che roba è? Un medicinale contro la malaria? E pula? Di che si tratta?
Alzi la mano chi sa di che cosa parliamo.

Letsile Tebogo, oro per il Botswana nei 200 metri piani, mostra la scarpetta con le iniziali della mamma e della sua data di nascita

Eppure, sono la capitale e la valuta di uno Stato tra i massimi produttori di diamanti al mondo, grande quasi come la Francia, il Botswana. E proprio in Francia l’altra sera, giovedì 8 agosto, ha brillato uno dei suoi più preziosi diamanti umani nella storia sportiva nazionale e continentale.

E’ Letsile Tebogo, 21 anni, medaglia d’oro sui 200 metri piani, in 19.46. Primo africano re di quella che viene definita la velocità olimpica per eccellenza (assieme ai 100 metri) e primo oro ai Giochi in assoluto del suo Paese. Un suo fan, Elliot Nkhwanana, sul sito del quotidiano locale Sunday Standard /The Telegraph ha scritto: “Dedichiamogli uno dei nostri distretti!”. Il Botswana, ex colonia inglese, indipendente dal 1966, meno di 3 milioni di abitanti, di distretti ne ha 10, ma in tutto comprende 16 divisioni amministrative.

Gli abitanti della cittadina natale di Letsile Tebogo (Kanye, a meno di 90 chilometri dalla capitale Gaborone), più concretamente riconoscenti per i successi ai Mondiali di atletica dello scorso anno (argento ai 100 metri e bronzo ai 200), gli regalarono ben due mucche!

Tebogo, infatti, a dispetto del nomignolo “lo scolaretto”, a tempo perso fa l’agricoltore. Ama la terra, gli animali e la natura, al punto che – udite, udite, – dopo i Mondiali del 2023 abbandonò i social media. “Fu una decisione non facile – disse alla BBC un anno fa – tutti parlano e dicono quello si sentono di dire in modo da influenzarmi psicologicamente. Io dissi no, basta! Mollai i social”. E nel dicembre scorso su Facebook aggiunse: “I campioni parlano raramente, essi compiono le imprese sportive e il mondo intorno ad esse blatera. Io sono solo un ragazzo africano con la missione di portare l’Africa nel mondo”.

In questi anni ci è riuscito pienamente. Ha abbandonato il calcio, che praticava egregiamente dall’età di 6 anni e nel 2019 si è dedicato all’Atletica, con una serie di successi sorprendenti fino al primo posto di giovedì notte sui 200 metri. In questa gara ha piegato con facilità la concorrenza Usa, compreso il supercampione dei 100 metri di Noah Lylls (indebolito dal Covid). E ha smentito definitivamente il luogo comune che i corridori africani possono eccellere solo nelle gare di resistenza. In questi anni, dopo le sue molteplici affermazioni nelle corse veloci, correva sempre ad abbracciare mamma Seratiwa, nascosta fra il pubblico. La mamma però il 18 maggio scorso se n’è andata, per malattia, e Tebogo, che non ha mai conosciuto il papà, è rimasto solo. Col ricordo della madre ben impresso: sulle sue scarpette ha inciso le inziali di Seratiwa e la data della sua nascita (non della morte).

Dopo aver suonato la campana a bordo pista che verrà collocata sulla rinata cattedrale parigina di Notre Dame, le ha mostrate ai 70 mila spettatori dello Stade de France.

Perché abbandonò il pallone? Lo ha spiegato, in gennaio sempre intervistato dalla BBC: “Con il calcio non andavo mai oltre la capitale. Con l’atletica, invece, ho avuto la possibilità di girare il mondo”. E far scoprire al mondo… distratto che la capitale si chiama Gaborone e la moneta locale pula.

A questo proposito, per i suoi meriti sportivi, al giovane campionissimo la Choppies Botswana, azienda leader di supermarket, ha donato un milione di …pula, circa 67 mila euro e 2500 Pula di bonus spese per un anno. In tutto, una somma ben superiore al valore della medaglia d’oro: Il vero simbolo delle Olimpiadi consta di 6 grammi di placcatura in oro e 505 grammi di nucleo d’argento. In tutto, 936 dollari, più 18 grammi della Tour Eiffel (valore 2 euro!).

Il Diamante del Botswana, però, non deve far scordare il Leone del Marocco. Dicono che il leone berbero si sia estinto. Certamente non in atletica.

Marocco: Soufiane El Bakkali vince la medaglia d’oro 3000 siepi alle olimpiadi di Parigi

Soufiane El Bakkali, 28 anni, di Fes, mercoledì 7 agosto, la sera prima del trionfo di Tebogo, ha confermato la sua imbattibilità sui 3 mila siepi. Era stato campione olimpico anche a Tokyo, nei giochi precedenti, quando fu il primo marocchino a conquistare l’oro dopo Hicham El Guerrouj (2004) e il primo non keniano a vincere dal 1980. Aveva conquistato anche il titolo mondiale nel 2022 e 2023. Una rispettata e amata icona nazionale. Oltretutto era stato in prima fila tra i donatori di sangue in occasione dello spaventoso terremoto che nel settembre 2023 ha devastato il suo Paese.

La corsa era terreno di conquista quasi esclusivo dei corridori di Nairobi. Stavolta un keniano, Abraham Kibiwot, 28 anni, si è dovuto accontentare del terzo posto, alle spalle anche dello statunitense Kenneth Rooks, 24 anni.

La competizione è stata segnata da un momento drammatico: il siepista etiope Lamecha Girma, 23 anni, è caduto sul terzultimo ostacolo ed è svenuto. Panico e preoccupazione, dissoltisi solamente ieri dopo gli accertamenti del caso in ospedale.

La gara, come è noto, consta di 35 barriere: 28 ostacoli e 7 salti di fossa (chiamati riviera). Insomma, siepi vere e proprio non ce ne sono, ma è il caso di dire che oltre le siepi stavolta non c’era il buio, ma l’oro, l’oro sfolgorante del Leone Marocchino.

Costantino Muscau
muskost@gmail.com
©️ RIPRODUZIONE RISERVATA

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Oro africano alle Olimpiadi Parigi: una keniota vince i 5 mila e una algerina si impone in ginnastica artistica

Il Corriere della Sera condannato a risarcire un palestinese etichettato terrorista (lui e la sua NGO)

Speciale per Africa ExPress
Chiara Zanini
8 agosto 2024

Quindicimila euro: questa la cifra che il Corriere della Sera ha pagato a un cittadino palestinese, Shawan Jabarin, che il quotidiano aveva presentato come terrorista. Shawar Jabarin, che è invece il direttore dell’organizzazione per la difesa dei diritti umani Al-Haq (www.alhaq.org), era stato etichettato come terrorista e assassino da Israele e dalla sua propaganda ed era stato oggetto di una campagna di diffamazione mirata. Il giornale si è fidato di informazioni denigratorie senza verificarne la veridicità.

Shawan Jabarin, direttore dell’organizzazione per la difesa dei diritti umani Al-Haq

All’epoca (nel 2021) Jabarin era stato invitato dalla deputata Laura Boldrini ad intervenire in videoconferenza insieme ad un rappresentante di Addameer, un’altra ong palestinese. Era già noto il tentativo di far passare invece questi due gruppi palestinesi, insieme ad altri quattro, come organizzazioni terroristiche, nonostante l’accusa fosse stata respinta a livello internazionale dagli Stati e dalle istituzioni dell’UE (tra cui l’Italia) e dalle Nazioni Unite.

Il collegamento in video si era infine tenuto il 20 dicembre 2021, ma due giorni dopo il Corriere della Sera, Libero e Il Tempo avevano pubblicato articoli con affermazioni false e diffamatorie su Addameer, su Al-Haq e sul suo direttore generale Jabarin, definendolo senza prove un “terrorista” e omettendo che l’accusa di essere “organizzazioni terroristiche” proveniva da Israele. La sentenza attuale ha stabilito che in questo modo è stato violato il diritto dei lettori ad accedere a informazioni libere e imparziali. La tecnica delle false accuse è ricorrente, ma in questo caso anche l’avvocato di Jabarin è stato attaccato e diffamato. 

Dopo essere stato convocato in tribunale, il Corriere della Sera ha accettato un accordo che includeva un risarcimento a Shawan Jabarin per il danno alla reputazione e la pubblicazione di un articolo che rettificasse le affermazioni diffamatorie. Il Corriere lo ha pubblicato, ma ha omesso di essere stato l’origine di quella falsa notizia ripresa da altre testate.

Va sottolineato che l’Ordine dei giornalisti del Lazio e quello della Lombardia avevano ricevuto nel dicembre 2022 un reclamo dallo European Legal Support Center, che ha supportato Jabarin. ELSC aveva segnalato in particolare le violazioni degli obblighi deontologici di veridicità e accuratezza cui sono tenuti i giornalisti professionisti. Ad oggi il Consiglio di disciplina dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia non si è espresso con una decisione. 

Shawan Jabarin era stato invitato da deputati italiani anche il mese scorso, ma l’incontro era poi stato annullato, complice – come indicano European Legal Support Center e Al- Haq – la buona riuscita dell’opera di diffamazione.

In un comunicato congiunto delle due organizzazioni si legge: “Non solo alcuni media hanno  diffamato i palestinesi, ma anche la stampa mainstream italiana è stata accusata di aver riportato informazioni inaccurate sul genocidio in corso a Gaza, sul regime di apartheid coloniale di insediamento di Israele e sui crimini internazionali contro il popolo palestinese nel suo complesso. C’è un’urgente necessità di esporre e discutere la qualità delle informazioni in Italia e il diritto di accedere a informazioni neutrali, attraverso fonti verificate, affidabili e imparziali”.

Chiara Zanini
©️ RIPRODUZIONE RISERVATA

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I continui massacri a Gaza e l’irresponsabile indifferenza dell’Occidente

EDITORIALE
Federica Iezzi
Amman (Giordania), 7 agosto 2024

Ognuno può costruire la sua analisi sugli eventi di Gaza, sulle loro implicazioni militari, diplomatiche e politiche interne ed esterne. Ma ci sono realtà oggettive che sono davanti ai nostri occhi. E c’è ricorrenza.

Autore di crimini di guerra, il governo israeliano, guidato da un uomo incriminato per corruzione, frode e abuso di fiducia, sprofonda nella violenza senza poter offrire la benché minima soluzione diplomatica.

Rafah, Striscia di Gaza [photo credit BBC]
Liberarsi di Gaza è diventata l’ossessione delle autorità israeliane, che hanno cercato di trasferire il mantenimento dell’ordine a una forza palestinese, anche se ciò significava riservarsi il tanto abusato diritto di difesa.

Intollerabili doppi standard

Come insegna la storia, Israele usa una forza eccessiva nell’indifferenza della comunità internazionale. Non va incolpato né l’Iran né Hamas, ma l’inerzia dell’Occidente, il costante sostegno della politica americana a favore di Israele e gli intollerabili doppi standard delle organizzazioni internazionali. Israele ha violato decine di risoluzioni delle Nazioni Unite per settant’anni, senza embargo, senza sanzioni e in totale impunità.

La punizione dell’Occidente alla Palestina inizia quando i palestinesi di Gaza, che avrebbero dovuto votare per Fatah e la sua leadership corrotta, hanno scelto Hamas. Hamas, che rifiuta di riconoscere Israele o di rispettare gli Accordi di Oslo, totalmente denigranti. Nessuno ha mai chiesto quale particolare Israele, Hamas avrebbe dovuto riconoscere. Israele del 1948? Israele dei confini dopo il 1967? Israele che continua a costruire vasti insediamenti solo ebrei in terra araba, inghiottendo quel poco più del 20 per cento della Palestina che resta da negoziare?

Discorso illusorio

Gli occhi non sono ancora ben aperti su quanto sia illusorio il discorso americano secondo cui se sommergiamo di denaro la Cisgiordania, aiutiamo Fatah e le forze di sicurezza, a serrare il popolo palestinese attorno a Mahmoud Abbas. A differenza di Hamas, Fatah ha cessato di esistere come forza ideologica e come movimento politico coerente. Sotto il marchio troviamo una moltitudine di rami, baronie, interessi personali.

Le critiche per non aver tenuto conto delle realtà politiche e diplomatiche, nei riguardi di Fatah e Hamas, non possono scagionare i principali colpevoli di una guerra annunciata. Il governo israeliano che da più di cinquant’anni mantiene un’occupazione illegale dei territori palestinesi. Il governo americano per il suo fermo sostegno al rifiuto israeliano di rispettare il Diritto Internazionale e le risoluzioni delle Nazioni Unite. L’Unione Europea per il suo allineamento con le posizioni americane e israeliane, il suo boicottaggio verso l’Autorità Nazionale Palestinese eletta, il suo rifiuto di qualsiasi pressione sulla potenza occupante.

Buoni e cattivi

L’assenza di sfumature nuoce all’analisi di un conflitto dove si cerca ad ogni costo una linea di demarcazione tra i buoni e i cattivi, sacrificando vite umane. Senza dimenticare che Israele, nel suo estremismo, sta assaporando già un diluvio di fuoco sull’Iran, anche se ciò significherebbe incendiare l’intera regione.

Combattere i meccanismi di oppressione dei palestinesi – quali occupazione, colonizzazione e apartheid israeliani – non costituisce la scelta verso uno schieramento piuttosto che un altro ma è la condizione stessa per prevedere un destino comune basato sull’uguaglianza e sulla giustizia tra due popoli.

Federica Iezzi
federicaiezzi@hotmail.it
Twitter @federicaiezzi
©️ RIPRODUZIONE RISERVATA

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Oro africano alle Olimpiadi Parigi: una keniota vince i 5 mila e una algerina si impone in ginnastica artistica

Dal Nostro Corrispondente Sportivo
Costantino Muscau
6 agosto 2024

“Ho il record del mondo, due medaglie di campionessa del mondo, ma dalla lista mi manca la medaglia olimpica. Se tutto andrà come spero, il mio sogno di avere anche quella si avvererà”. Così parlò il 22 luglio scorso, intervistata da Standardmedia.co.ke, Beatrice Chebet, 24 anni, poliziotta di nome, mezzofondista di fatto e di gran classe, nata a Kericho (Rift Valley), seconda di sette figli di una coppia di contadini.

Olimpiadi Parigi 2024: medaglia d’oro alla kenyana Beatrice Chebet nei 5000 m

La sera del 5 agosto, ha realizzato il suo sogno nell’impianto parigino Stade de France. Ha conquistato l’oro nella gara dei 5 mila metri, col tempo di 14.28.56 davanti a 70 mila persone faziosamente schierata con l’unica francese, Rénelle Lamote, in pista.

Alle spalle di Beatrice, la connazionale Faith Kipyegon, 30 anni, (nata a Bomet, residente a Eldoret) e all’olandese Sifan Hassan, 31 anni, fuggita dall’Etiopia nel 2008 per raggiungere la mamma. Sifan Hassan era la campione uscente: a Tokio nel 2021 era stata incoronata regina dei 5 mila e anche dei 10 mila metri.

Mentre la Chebet festeggiava, però, alle sue spalle scoppiava un dramma durato un paio d’ore. È stato un altalenarsi di gioie e delusioni. La giuria prima squalificava la Kipyegon, per aver ostacolato una concorrente, privandola quindi dell’argento e assegnandolo alla Hassan. In questo modo consentiva all’italiana Nadia Battocletti, 24 anni, campionessa europea, di salire sul podio con il bronzo. Seguivano lacrime di delusione e di gioia.

Più tardi, molto tardi, contrordine. I giudici, su reclamo della federazione keniota, confermavano l’ordine d’arrivo con la Battocletti rimessa al quarto posto e la Hassan al terzo.

Si invertivano le manifestazioni dei sentimenti: lacrime di felicità (per la Kipyegon) e frustrazione (della Battocletti, dopo essere stato respinto il controricorso italiano). Comunque, la classifica finale definitiva confermava il predominio africano: la quinta Margaret Chelimo Kipkemboi, 31 anni, del Kenya, la sesta, settima e la nona etiopi (rispettivamente Ejgayehu  Taye, 24, Media Eisa, 19 anni Gudaf Tsegay, 27). Delle 16 finaliste sui 5 mila metri, sette provenivano dal Continente nero. L’ultima, anche in ordine di arrivo, è l’esordiente Francine Niyomukunzi, 25 anni.

In realtà anche Nadia Battocletti, studentessa di ingegneria edile e architettura, ha sangue africano da parte di mamma Jawahara marocchina, residente col marito Giuliano, a Cavareno, in Val di Non (Trentino).

In compenso Francine Niyomukunzi ha un po’ di Italia. Originaria di Bururi (Burundi sud) risiede a Siena, dove da tempo si allena nel Tuscany Camp, un centro per atleti divenuto un pezzo d’Africa nella campagna toscana creato da Giuseppe Giambrone (il campus raccoglie giovani di Uganda, Burundi Ruanda, Tunisia e Italia).

Keely Hodgkinson, medaglia d’oro 800 m femminile

Un colpo di scena di altro genere si è verificato sempre nella serata di lunedì 5 agosto sugli 800 metri. Le atlete africane sono state “bastonate” da una giovane inglese, dando al vecchio continente un oro che mancava da decenni. Keely HodgKinson, 22 anni, ha superato l’etiope Tsige Duguma, 23 anni, e la campionessa mondiale Mary Moraa, 24, del Kenya. La britannica viveva questo momento da quando aveva 10 anni, ha dichiarato. A farne le spese le favorite africane, soprattutto la Moraa, che ai campionati del mondo di Budapest, nel 2023, l’aveva sopravanzata di tre decimi di secondo!

Nel variegato, complesso e controverso paesaggio delle Olimpiadi parigine è possibile scorgere anche una suggestiva, inaspettata delicata figura femminile, che, con forza e grazia, emerge dalle parallele asimmetriche. Una fanciulla, acqua e sapone, si diceva una volta, che regala all’Algeria e all’Africa la prima medaglia nella ginnastica artistica della storia. E questa medaglia è d’oro. Per la verità lei, Kaylia Nemour, è nata 17 anni fa a Saint-Benoît-la-Forêt, un paesino nel cuore della Francia, da padre algerino e mamma francese.

Kaylia Nemour vince la medaglia d’oro nella disciplina parallele asimmetriche per l’Algeria

E possiede anche la doppia nazionalità, tanto che per anni ha rappresentato a livello internazionale la terra in cui è nata. Nel 2023, però, ha deciso di esibirsi per il Paese paterno dopo una querelle con la federazione francese di ginnastica. Reduce da un duplice infortunio alle ginocchia, infatti, un medico le negò l’autorizzazione a riprendere le gare, mentre invece un altro glielo consentì. Ed ecco perché la dichiarazione della ragazzina nella conferenza stampa con la medaglia d’oro al petto, domenica scorsa, suona una come una rivincita. “Sono e felice e orgogliosa di rappresentare l’Algeria – ha commentato in un francese impeccabile – Non riesco a credere che sia successo, è il sogno della mia vita”.

La grazia e la delicatezza di Kayila Nemour fanno a pugni (ovviamente!) con la figura di un’altra atleta algerina, di cui fin troppo si è parlato in queste olimpiadi per una polemica insensata e pretestuosa: la boxeur Imane Khelif, 27 anni, arrivata in semifinale (categoria 66 kili, medaglia di bronzo come minimo assicurata) dopo aver sconfitto l’italiana Angela Carini e l’ungherese Anna Luca Hamori.

Khelif, come noto, è stata accusata, senza prove biologiche di essere…uomo! Per la nostra compatriota si sono mossi a livello governativo e perfino mamma Meloni è corsa a consolarla. La pugile magiara. invece, si era limitata a riempire di insulti l’algerina alla vigilia del match. Poi però l’ha affrontata sul ring, ha combattuto, si è presa la sua dose di pugni, ha accettato la sconfitta e ha abbracciato la vincitrice.

Costantino Muscau
muskost@gmail.com
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Apartheid e razzismo infiammano le scuole in Sudafrica

Dalla Nostra Corrispondente
Elena Gazzano
Città del Capo, agosto 2024

La Pinelands High School è finita sotto i riflettori a seguito della diffusione di un video che ha sollevato gravi preoccupazioni sulla presenza di razzismo nelle scuole sudafricane.

“Vendita all’asta” di ragazzini in un scuola sudafricana

La realtà ha superato ogni distopiaquesto filmato mostra infatti una simulazione di un’asta di schiavi, in cui studenti neri sono messi dietro un cancello mentre altri studenti di etnia mista simulano offerte per acquistarli. Tutto ciò è avvenuto nella tranquilla Pinelands, un quartiere abitato da famiglie di Città del Capo.

Intitolato La schiavitù a scuola è pazzesca, il video ha scatenato una vasta ondata di indignazione, sollevando una discussione pubblica su quanto sia radicato il razzismo nelle istituzioni educative del Paese. Alcuni studenti avrebbero fatto offerte tra i 50.000 e 100.000 Rand (circa 2.500 – 5.000 euro), e uno dei ragazzini più all’avanguardia avrebbe tentato addirittura di proporre la criptovaluta Bitcoin per l’acquisto di un compagno di classe. Uno spettacolo successivamente descritto non solo come una manifestazione di odio, ma anche come un macabro riflesso di un razzismo che si nutre di indifferenza, che continua ad affliggere la società.

Le autorità scolastiche e il Dipartimento dell’Educazione del Capo Occidentale (WCED) hanno avviato un’indagine, e promesso di adottare misure come la sospensione degli studenti coinvolti. Secondo esponenti del EFF (Economic Freedom Fighters), tali provvedimenti non possono però cancellare la gravità di quanto è accaduto.

Il partito politico di estrema sinistranoto per le sue posizioni decise contro il razzismo e l’ineguaglianza, chiede azioni più severe. L’EFF ha proposto non solo l’espulsione degli studenti dal sistema scolastico per almeno due anni, ma ha anche suggerito che i ragazzi e i genitori debbano impegnarsi in lavori socialmente utili negli slums di etnia nera. Secondo il partito, questo comportamento discriminatorio non è innato e riflette piuttosto le influenze provenienti dalle famiglie e dalle comunità degli studenti coinvolti.

La situazione alla Pinelands High School non è un incidente isolato, ma un sintomo di un male più profondo e radicato. Gli studenti hanno raccontato di episodi di razzismo quotidiano che non si limitano al singolo incidente dell’asta di schiavi. Insulti razzisti, bullismo e discriminazioni sono all’ordine del giorno. 

Studenti neri – per fare un esempio – sono stati soprannominati con il termine “load shedding” (cioè perdita di carico elettrico, ndr), dispregiativo che si riferisce alle frequenti interruzioni di corrente nel Paese, creando un parallelismo offensivo tra il colore della pelle e il buio. Un alunno ha inoltre rivelato che solo due anni fa, un’insegnante bianca è stata licenziata per aver usato un termine dispregiativo nei confronti di uno ragazzo nero, la conferma che il razzismo è un problema endemico, non un fatto sporadico.

Secondo l’EFF, affrontare questo tipo di razzismo richiede impegno e azioni concrete sia da parte delle istituzioni, sia della società nel suo complesso, e arriva ad affermare che il partito sarebbe pronto a lottare per la chiusura della scuola se non vengono prese misure adeguate.

Inoltre il partito sottolinea che la messa in scena all’asta è un chiaro esempio del fatto che la discriminazione razziale in Sudafrica non solo persiste, ma sta guadagnando terreno. E la storia è ancora una volta maestra, dimostrando che se la mentalità dell’apartheid non viene completamente estirpata, rischia di essere trasmessa di generazione in generazione come una fiamma pronta a divampare.

L’episodio accaduto alla Pinelands High School non è una questione di sola disciplina scolastica. La messa in scena di un’asta di schiavi è un chiaro segnale della corrosiva realtà di un razzismo sistemico. Ad aggravare il problema sono le risposte ritenute insufficienti da parte delle istituzioni, che sollevano dubbi sulla loro capacità di affrontare il razzismo istituzionale con la gravità necessaria. La società sudafricana è chiamata ad agire non solo per punire gli attori responsabili, ma anche per affrontare le cause profonde di un problema che continua a corrodere l’umanità.

Fino a quando le radici dell’apartheid non verranno affrontate e smantellate, la società continuerà ad essere il palcoscenico degli orrori del passato che ritornano e si rinnovano con forza inquietanteChissà quanto tempo dovrà passare prima che la vera libertà e uguaglianza diventino realtà concreta.

Elena Gazzano
elenagazzano6@gmail.com
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Videocredit: SABCNews

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Quotidiano etiopico denuncia: il traffico di esseri umani nel Corno d’Africa è in mano a gruppi mafiosi

Africa ExPress
4 agosto 2024

Una lunga indagine di The Reporter, quotidiano etiopico in lingua inglese, ha denunciato un traffico di esseri umani da Asmara ad Addis Abeba passando per il Tigray: il racket coinvolge ONG e alti ufficiali e funzionari governativi.

Generalmente le guardie di confine eritree aprono il fuoco contro coloro che voglio uscire illegalmente dal Paese. Ma i trafficanti facilitano la traversata, pagando profumatamente gli addetti ai controlli sia in Eritrea, sia in Etiopia.

Kibrom Berhe, presidente di Baitona, partito all’opposizione in Tigray, in una intervista al quotidiano etiopico cita i trafficanti come “gruppi mafiosi”. “Tali organizzazioni – ha spiegato Kibrom – operano sia in Etiopia sia in Eritrea. Quelle eritree, in particolare, hanno una lunga storia nel settore. Tra i loro ranghi ci sono generali e ufficiali dei servizi segreti. Ora sono entrati in Etiopia e ‘le mafie governative’ eritree, etiopiche e tigrine lavorano insieme”.

Gli esodi di giovani non sono nuovi specie nel Corno d’Africa, dove fame, oppressione, violazione dei diritti umani, violenze e conflitti locali spingono sempre più persone a partire, sia verso i Paesi del Golfo, sia verso la Libia per poi raggiungere l’Europa oppure sono diretti verso altre nazioni nel continente stesso, come Uganda o Sudafrica.

Basti pensare agli ultimi naufragi che si sono consumati recentemente sulla cosiddetta rotta orientale, utilizzata da coloro che vogliono raggiungere i Paesi del Golfo, considerata dall’OIM (Organizzazione Internazionale per i Migranti) une delle vie di fuga più complesse e pericolose dell’Africa e del mondo. Si calcola che nel 2023 durante la traversata di  Bāb el-Mandeb  (Porta del lamento funebre tradotto in italiano), lo stretto tra  il Mar Rosso e il Golfo di Aden e quindi con l’Oceano Indiano, siano morte almeno 700 persone  Ai due lati delle sue sponde si trovano Gibuti, sulla costa africana e lo Yemen, nella Penisola Arabica. Le cifre dei morti e dispersi durante i naufragi sono certamente sottostimate, visto che spesso le tragedie passano inosservate.

Nuovo naufragio a largo di Gibuti

Molti migranti in fuga, invece, scelgono di andare in Uganda utilizzando una rotta che passa per Addis Abeba. Basti pensare che nella sola Kampala, capitale dell’Uganda, dall’inizio dell’anno alla fine di giugno è stato registrato l’arrivo di oltre 11mila eritrei, mentre gli etiopi hanno superato i 2.500.

Ancora oggi parecchi rifugiati che approdano in Libia sono eritrei, di frequente soggetti al traffico e ridotti in schiavitù, subiscono torture, abusi di ogni genere e anche violenze sessuali per costringere i familiari a pagare un riscatto per il loro rilascio. Ma spesso i soldi richiesti non arrivano in tempo e le famiglie non riescono a ritrovare i propri figli nemmeno dopo aver inviato ingenti somme di denaro ai rapitori. Se riescono a fuggire dai lager e a raggiungere il Mediterraneo, rischiano di essere intercettati e rispediti in Libia o di morire in mare, ma questo succede anche a migranti di altre nazionalità.

Migranti nei centri di detenzione in Libia

Nel mese di luglio la polizia del Kenya ha arrestato quasi cento etiopi: erano diretti in Sudafrica o nei Paesi del Golfo. Intercettazioni di migranti e conseguenti arresti sono fatti che succedono sempre più frequentemente, la rete di traffici di esseri umani si sta espandendo vertiginosamente.

Migranti etiopici arrestati in Kenya

Va inoltre ricordato che alcuni mesi fa ci sono stati almeno due naufragi sul lago Turkana, che marca il confine nella parte settentrionale tra Kenya e Etiopia. Le vittime erano per lo più persone in fuga dai regimi al potere ad Asmara e Addis Abeba.

In Malawi, Paese di transito per chi fugge dal Corno d’Africa, le forze armate hanno fatto irruzione nel campo per rifugiati di Dzaleka per smantellare una attività particolarmente redditizia: il trasporto di giovani provenienti da zone rurali dell’ Etiopia in cerca di lavoro nelle grandi città sudafricane. I militari hanno arrestato oltre 200 persone nella notte del 18 luglio scorso.

Il sito The New Humanitarian spiega nel suo lungo rapporto, pubblicato il 1°agosto, che sono stati fermati molti tra coloro che hanno aiutato – e stanno ancora aiutando – i trafficanti etiopici presenti nel campo. Si suppone però che solo 5 o 6 soggetti implicati direttamente nel contrabbando di esseri umani siano finiti dietro le sbarre. Quelli più potenti sono sempre a piede libero e proseguono indisturbati i loro loschi traffici.

Campo per rifugiati in Malawi

Il raid di luglio era stato affidato ai militari; gli agenti di polizia, che si lasciano corrompere con estrema facilità dai trafficanti erano stati tenuti all’oscuro.

I migranti etiopici trascorrono mesi in viaggio, passando da una banda di contrabbandieri di esser umani all’altra, e in Malawi i fuggiaschi vengono chiamati “katundu” (merce). E sono decine di migliaia di giovani che ogni anno cercano di arrivare in Sudafrica per trovare lavoro, spesso in negozi informali, presso parenti o amici. E’ un viaggio lungo, pericoloso, pieno di insidie e come succede in tutte le rotte e vie di fuga, molti muoiono strada facendo e la famiglia raramente viene informata.

Africa ExPress
X: @africexp
© RIPRODUZIONE RISERVATA

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Malawi: scoperta fossa comune con migranti etiopici diretti in Sudafrica

Africa in pista: è partita la grande atletica alle olimpiadi con uno squillo dell’Uganda

Dal Nostro Corrispondente Sportivo
Costantino Muscau
3 agosto 2024

Fate largo, fate pista. Nell’ottavo giorno dei Giochi Olimpici Parigi 2024 edizione n. 33, l’Africa è scesa in campo ed è stata strabiliante. Nella prima finale della più importante gara di resistenza su pista, i 10 mila metri, l’ugandese Joshua Cheptegei, 27 anni, si è imposto allo Stade de France in 26’43”14, record olimpico. Alle sue spalle sono giunti l’etiope Berihu Aregawui Teklehaimanot, 23, e lo statunitense (nato in Canada), Grant Fisher, 27, unico bianco a insidiare la marea nera (14 su 27 corridori) e a salire sul podio dopo decenni.

L’ugandese, Joshua Cheptegei, medaglia d’oro 10000 metri olimpiadi Parigi

La battaglia nella finale maschile è stata epica, come la definisce il sito ufficiale delle Olimpiadi francesi: se le sono date di santa ragione – sportivamente s’intende – il campione olimpico in carica (Selemon Barega, 23 anni, etiope), giunto poi settimo, e Joshua Cheptegei, campione del mondo in carica e detentore del record mondiale. La gara, venerdì sera, è stata incredibilmente veloce, con i primi 13 classificati tutti con un tempo superiore al precedente primato olimpico, che durava dal 2008.

I dominatori della corsa sono stati per un lungo tratto i 3 etiopi (Yomif Kechelcha, Berihu Aregawui, Selemon Barega) che hanno condotto un efficace gioco di squadra. Per poi vedersi sopravanzare nell’ultimo chilometro dall’ugandese, che, per una volta ha tradito la sua proverbiale riservatezza, esultando in modo insolito – per lui– dopo il traguardo. Figlio di due insegnanti di Kapchorwa, Joshua in nove anni ha costruito una carriera strabiliante. Al punto che in Uganda è stato dichiarato personalità dall’anno per tre volte: nel 2018, 2019 e 2021.

Secondo di 9 fratelli, ha cominciato a correre nel 2015, nel 2021 ha sposato Carol, un’ingegnere civile da cui ha già avuto tre figlie (Jethan, Janaya e Jemima). La delusione più cocente però l’hanno avuta i tre keniani, che non sono mai stati in lizza per i primi posti. Kibet Bernard è arrivato quinto, Daniel Mateiko undicesimo e Nicholas Kipkorir quattordicesimo.

Avranno modo di rifarsi – sperano – nelle prossime sfide. Dagli 800 metri ai 1500 ai 5 mila… Ne vedremo delle belle. La festa è appena cominciata ieri sera allo Stade de France.

Fino a ieri, l’unica sportiva africana finita sulle cronache era legata al sesso non degli angeli, ma della pugile (o pugilessa?) algerina Imane Khelif, 25 anni, che ha fatto piangere di dolore l’italiana Angela Carini per i pugni troppo pesanti. Per consolarla delle botte è intervenuta addirittura la presidente del consiglio italiano. La Khelif non era stata ammessa ai campionati mondiali di boxe, a causa – si dice – del livello eccessivo di testosterone. Il Comitato Olimpico invece ha dichiarato era nella norma.

Ora, con l’arrivo della grande atletica, di certi dibattiti probabilmente (ma non è detto….) non ci sarà bisogno. Ma anche di certi sport dei 45 ammessi ai Giochi. Si pensi ad alcune novità di questa edizione, tipo l’arrampicata sportiva, la Breaking o break dance(?), lo Skate board.., a quando il tiro alla fune o l’albero della cuccagna? È giusto rispettare tutte le discipline, ma non sono certo tutte uguali. Non è un caso se l’Atletica è la vera regina con 2132 rappresentanti (1041 sono donne), seguite dal nuoto con 857 esponenti (393 donne).

La presenza africana a questi giochi olimpici è massiccia, fra gli oltre 10 mila atleti iscritti ai 206 comitati olimpici che aderiscono al Comitato Olimpico Internazionale.

Tutti i 54 Paesi del Continente nero, infatti, hanno inviato a Parigi una propria delegazione. E una delle più numerose è quella di Nairobi: più di 80, il doppio di quanti ne abbia portato l’Etiopia. In coda la Somalia con un solo concorrente. Tanti anche gli atleti del continente nero che non sotto la bandiera del proprio Paese, ma rappresentano la squadra dei rifugiati. Come detto, la festa è appena cominciata. Altri 8 giorni ci aspettano e l’Africa potrà farsi sentire ancora.

Costantino Muscau
muskost@gmail.com
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