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martedì, Dicembre 24, 2024

Distribuzione del cibo in Nigeria: nella calca morte schiacciate oltre 30 persone

Speciale per Africa ExPress Cornelia I. Toelgyes Dicembre 2024 Sabato...

Un algometro per misurare il dolore del mondo

dal Centro per la Riforma dello Stato Giuseppe...

La pace può attendere: bloccati colloqui tra Congo-K e Ruanda

Speciale per Africa ExPress Cornelia I. Toelgyes 21 dicembre...
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Madagascar: entra in vigore la castrazione chirurgica per chi stupra un bambino

Africa ExPress
2 settembre 2024

Tempi bui per gli stupratori sui minori. La scorsa settimana il governo del Madagascar ha fatto sapere di aver emanato un decreto che impone la castrazione chirurgica ai criminali rei di stupro su bambini.

Madagascar: governo emana decreto per castrazione chirurgica per stupratori sui minori

Lo Stato insulare, il cui Parlamento lo scorso febbraio ha adottato il nuovo testo legislativo molto controverso, diventa così uno dei pochi Paesi al mondo ad autorizzare l’orchiectomia bilaterale (asportazione chirurgica di entrambi i testicoli). Tuttavia, il decreto attuativo, emanato molto discretamente martedì 27 agosto, non è ancora stato reso pubblico.

La violenza sui minori è una vera e propria piaga nel Paese. A febbraio, quando la nuova legge è stata approvata dal Parlamento di Antananarivo, il ministro della Giustizia aveva sottolineato: “Abbiamo dovuto prendere questa decisione per lottare contro la recrudescenza di questo crimine. Basti pensare che nel solo mese di gennaio 2024 sono stati denunciati ben 133 stupri e oltre 600 in tutto il 2023”. Cifre forse anche sottostimate, non tutti gli stupri vengono segnalati alle autorità.

Va poi sottolineato che l’aborto non è autorizzato, è considerato un crimine. Inimmaginabili le pene di una ragazzina rimasta incinta dopo una violenza sessuale. Ora le autorità sperano che con la castrazione chirurgica si possa mettere un freno a questo terribile crimine. In effetti, potrebbe davvero avere un certo impatto su questi orchi, tenendo conto che nell’uso e costume malgascio al momento del funerale la salma deve essere integra e non mutilata.

Finora non sono ancora stati chiariti alcuni punti sulla castrazione chirurgica: non è dato sapere quale struttura sarà incaricata dell’intervento e chi pagherà il conto dell’operazione e della degenza. E ancora, in che modo il sistema giudiziario deciderà chi saranno i primi a doversi sottoporre all’esecuzione della pena inflitta. Domande che troveranno risposte solamente con la pubblicazione del testo da parte del governo. Va inoltre precisato che il Parlamento si era espresso solamente per l’orchiectomia bilaterale, in quanto la castrazione chimica era stata giudicata anticostituzionale.

La nuova legge è ancora nell’occhio del ciclone e sta dividendo l’opinione pubblica e gli esperti di tutto il mondo, sia per la sua applicazione dal punto di vista etico, sia per la sua efficacia.

Nell’isola Stato sono contrari persino molte ONG in difesa dei diritti delle vittime di stupro, nonché la Conferenza episcopale malgascia. Anche Amnesty International ritiene la nuova legge disumana e crudele, incompatibile con le norme internazionali sui diritti umani. In tal senso si era espressa anche Laure Delattre-Burger, ambasciatrice dell’Unione Europea accreditata a Antananarivo. Critica non apprezzata dal governo e ritenuta un’interferenza negli affari interni. E per questo motivo il ministro degli Esteri malgascio aveva chiesto a Bruxelles la sostituzione della rappresentante diplomatica.

Presunti colpevoli attendono la loro sentenza nelle prigioni in Madagascar

Intanto i presunti colpevoli sono in attesa di sentenza nelle carceri malgasce.

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Hamilton, fuoriclasse della formula 1, ora in pista in Africa sulle strade degli ultimi

Dal Nostro Corrispondente Sportivo
Costantino Muscau
1° settembre 2024

Nel giorno della resurrezione della Ferrari a Monza, con il successo di Charles Leclerc, 26 anni, domenica 1° settembre, Lewis Hamilton non ha vinto, come ha fatto ben 5 volte.

Eppure, eppure… inevitabilmente l’attenzione era puntata anche su di lui, il baronetto Hamilton, 39 anni.

Formula 1, Mercedes: il pilota Lewis Hamilton

Il prossimo anno, infatti, il sette volte campione del mondo in Formula 1, considerato uno dei più grandi piloti di tutti i tempi, lascerà la Mercedes e si metterà al volante della Rossa di Maranello.

Hamilton, però, qualche settimana fa, si è rivelato al mondo (e non solo a quello motori-donne-champagne dei Gran Premi) come un campione anche nella vita. Ha utilizzato i 14 giorni della sosta estiva di Formula 1 per la riscoperta dell’Africa, o almeno di una parte di essa: “Per visitare musei di storia, vivere esperienze culturali in ciascuno dei Paesi che visito: nel 2022 ero stato nel continente come turista. Stavolta non più”.

Prima è andato in Marocco, poi in Senegal. Qui ha voluto mettere piede nell’isola di Gorée al largo della costa della capitale, Dakar: è stato il più grande, infame, centro del commercio degli schiavi dal XV al XIX secolo. Ora è monito del brutale sfruttamento subito dai neri e santuario per la riconciliazione.

Una tappa imprescindibile per il campione, unico pilota nero nel circo delle 4 ruote, che nella sua vita ha subito – da bambino in Gran Bretagna, dove è nato da mamma caraibica – dolorosi e odiosi atti di bullismo e, da adulto, sulle piste automobilistiche, vigliacchi insulti razzisti. Al punto che la Federazione internazionale automobilistica ha dovuto prendere severi provvedimenti per evitare il ripetersi di simili episodi.

Mozambico: Maratane Refugee Settlement

Proprio per le sue origini, Lewis Hamilton si è fatto anche portavoce del movimento Black lives matter, che si batte per i diritti civili delle persone di colore. Dopo l’assassinio da parte della polizia, negli Stati Uniti, degli afroamericani Breonna Taylor e George Floyd (maggio 2020), il pilota si è presentato in gara indossando magliette recanti messaggi contro il razzismo e a Londra è sceso in piazza per manifestare.

Hamilton, da anni, è impegnato sia sul fronte dei diritti umani, sia in quello di difesa dell’ambiente e degli animali.

Lewis Hamilton

Nel 2021 ha aderito (con 20 milioni di euro) alla fondazione dell’ente benefico Mission44, per i giovani sfortunati del mondo. “Sostenere le ambizioni dei giovani provenienti da minoranze è sempre stato importante per me – spiegò a Vanity Fair – e Mission 44 rappresenta il mio impegno a creare un vero cambiamento all’interno di questa comunità. Nella mia vita ho sperimentato in prima persona come provenire da un background sottorappresentato possa influenzare il tuo futuro”.

Non a caso la tappa che nel tour africano ha maggiormente impressionato il re dei motori è quella del Maratane Refugee Settlement nel nord del Mozambico.

E’ un insediamento dell’agenzia l’UNHCR che ospita oltre 33.000 rifugiati (prevalentemente dalla Repubblica Democratica del Congo, Burundi e Ruanda), soprattutto bambini, giovani e vedove. Il pilota li ha incontrati, si è fatto fotografare con loro e un suo post sui social è stato visionato da almeno un milione di persone.

Il soggiorno lo ha toccato profondamente e ha avuto un’eco mondiale. “Un conto è leggere sui giornali o vedere in televisione queste situazioni, ben altra cosa è viverle direttamente – ha commentato Hamilton –  Vedere, parlare con bambini che percorrono a piedi10 chilometri per andare a scuola e altri 10 chilometri per tornare a casa, che non hanno cibo… E poi in giro per il campo ho incontrato pochi uomini… la prove che troppi ne sono stati uccisi in diverse aree di conflitto”.

Al termine della sua esplorazione dell’Africa del dolore, il pilota prima di tornare a gareggiare ha commentato: “C’è tanto da imparare da queste realtà. Sto ancora elaborando quanto ho vissuto. È stato davvero pesante sia in Senegal sia in Mozambico. Mi son detto: come posso aiutare?”

A parte il suo contributo di immagine e finanziario, il pluri iridato ha lanciato una proposta: un Gran Premio da correre in Africa: “Non  possiamo continuare a ignorare l’Africa, da cui il resto del mondo prende tanto e nulla dà in cambio”.

Dopo il Mozambico, Lewis ha effettuato una visita a sorpresa in Benin. Alla riscoperta delle sue origini in questo Paese, dove ha incontrato il re.

E su Instagram ha concluso: “Ogni volta che vado in Africa mi sento a casa mia più che in ogni altra parte del mondo”.

Una fatto è certo: i tifosi della Ferrari il prossimo anno non troveranno solo un campione sul paddock, ma un uomo, un fuoriclasse che vuole sfruttare la Formula 1 per contrastare il razzismo, difendere l’ambiente e dare una mano a quei ragazzi che sono rimasti ai box. Si spera che i fans, oltre al rombo dei motori. ascoltino anche la sua voce.

Costantino Muscau
muskost@gmail.com
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Niger: dopo Francia e USA, via anche il contingente tedesco, resistono le truppe della missione italiana

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
31 agosto 2024

Il mese di agosto ha segnato le partenze di due contingenti militari occidentali dal Niger. All’inizio del mese è stata sgomberata definitivamente la Air Base 201 degli Stati Uniti a Agadez e ieri hanno lasciato il Paese anche gli ultimi soldati tedeschi. La loro partenza definitiva era stata annunciata da Berlino i primi di luglio. L’unico contingente occidentale ancora presente nel Paese sono gli italiani nell’ambito della Missione bilaterale di supporto nella Repubblica del Niger (MISIN).

Truppe tedesche lasciano il Niger

Il 16 luglio, durante la sua visita a Abidjan, il ministro degli Affari Esteri tedesco, Annalena Baerbock, aveva puntualizzato che il suo governo aveva deciso di interrompere la cooperazione militare con il Niger per mancanza di affidabilità e garanzie da parte del governo di transizione di Niamey, salito al potere con un colpo di Stato un anno fa. Di fatto, Berlino non aveva alcun accordo di cooperazione con la giunta militare. La Baerbock ha poi aggiunto: “Non abbiamo però interrotto gli aiuti umanitari, il popolo nigerino non è responsabile di quanto sta accadendo”.

Dopo 8 anni, la Bundeswehr ha concluso ieri la propria missione in Niger e le truppe tedesche hanno lasciato la base di trasporto aereo di Niamey, inaugurata nel 2018 dall’allora ministro della Difesa di Berlino, Ursula von der Leyen. Un aereo militare con gli ultimi 60 soldati di Berlino è atterrato al Wunstorf, in Bassa Sassonia, venerdì sera. Mentre il materiale è stato riportato da Niamey con un aereo da trasporto A400M.

Mentre il 5 agosto scorso, le Forze Armate USA avevano annunciato: “Tutti i nostri soldati sono partiti, abbiamo svuotato la base anche di tutto il materiale. Non resta più nulla”. E, durante una breve cerimonia, presenziata da ufficiali nigerini e USA, l’infrastruttura è stata consegnata ufficialmente alle autorità di Niamey con oltre un mese di anticipo.

La base 201 di Agadez è costata più di 100 milioni di dollari. Dista quasi 1000 chilometri dalla capitale ed è stata progettata per l’utilizzo di voli di sorveglianza con e senza equipaggio e altre operazioni. Ma dal golpe militare dello scorso anno era già praticamente inattiva, la maggior parte dei droni, che un tempo monitoravano le attività jihadiste nei Paesi africani instabili, erano già stati messi negli hangar.

Il 16 marzo il governo golpista di Niamey aveva chiesto agli Stati Uniti di ritirare le proprie truppe dal Paese africano. Così Washington ha cominciato a sgombrare il campo, operazione che doveva essere completata entro il 15 settembre prossimo, secondo un accordo siglato a maggio tra il ministro della Difesa nigerino, Salifou Modi e l’assistente segretario alla Difesa statunitense per le operazioni speciali e i conflitti a bassa intensità (LIC, low intensity conflict), Christopher Maier.

A novembre, Niamey ha posto fine anche alla sua principale cooperazione con l’Unione Europea (UE), abrogando la legge del 2015 sul traffico di migranti. Allora l’UE aveva adottato provvedimenti per assistere e sostenere le autorità nigerine, sia quelle del governo centrale che quelle locali, per sviluppare politiche, tecniche e procedure per gestire e combattere il traffico dell’immigrazione irregolare.

Come i suoi vicini golpisti di Burkina Faso e Mali, anche la giunta militare del Niger, dopo aver cacciato i francesi alla fine dello scorso anno, si è rivolta alla Russia per ottenere sostegno. E, nell’ambito di una cooperazione in svariati campi, compresa quella militare, pochi giorni dopo aver notificato lo sfratto agli americani, sono arrivati i russi con i loro equipaggiamenti.

Ora, sotto il sole rovente del Niger, le tempeste di sabbia del Sahara e le inondazioni dovute ai cambiamenti climatici, tra gli occidentali stanno resistendo solamente le truppe italiane di MISIN.

Il generale Bonfigli in visita alla base di MISIN

La nostra Missione è presente in Niger con circa 300 militari. Ha una propria base, inaugurata nel 2023, all’interno dell’aeroporto di Nimey. All’inizio di marzo Francesco Paolo Figliuolo, Comandante Operativo di Vertice Interforze (COVI) e l’Ambasciatore Riccardo Guariglia sono stati ricevuti dai vertici delle autorità militari di transizione a Niamey. Mentre alla fine dello stesso mese Giovanni Caravelli, direttore dell’Agenzia Informazioni e Sicurezza Esterna (AISE), cioè lo spionaggio, ha incontrato il presidente del regime di transizione, Abdourahmane Tchiani, che ha elogiato l’operato dei nostri soldati nel Paese. Almeno per il momento, nessuno sfratto in vista per i nostri militari.

Qualche mese fa il governo italiano ha deliberato il nuovo finanziamento per la missione MISIN (Niger). L’11 aprile il comandante del Comando operativo di vertice interforze (COVI), Francesco Paolo Figliuolo, in audizione davanti alle commissioni Esteri e Difesa di Camera e Senato ha spiegato che “prosegue l’impegno della Difesa nel Sahel, dove lo sforzo operativo è focalizzato principalmente sul Niger. L’Italia ha una posizione di interlocutore privilegiato nel Paese, che continua ad essere il crocevia di tutti i flussi migratori sia dal Sahel sia dal Corno d’Africa”.

Secondo Figliuolo è di importanza primaria consolidare la presenza italiana con la missione MISIN e ha precisato: “Complessivamente nel Sahel prevediamo di impiegare un contingente massimo di quasi 800 unità, un’unità navale e fino a 6 assetti tra aerei e elicotteri”.

Cornelia Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
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Photocredit: Tagesschau

https://www.africa-express.info/2024/05/04/i-russi-entrano-nella-base-americana-a-niamey/

https://www.africa-express.info/2024/06/10/gli-americani-se-ne-vanno-by-by-niger/

https://www.africa-express.info/2024/03/31/litalia-non-vuol-ritirare-il-contingente-militare-dal-niger-e-manda-il-capo-degli-007-a-trattare-con-i-golpisti/

 

Glencore condannata in Svizzera per corruzione in Congo-K: implicato magnate Israeliano

Africa ExPress
30 agosto 2024

La Glencore, multinazionale anglo-svizzera, con sede a Baar (Canton Zugo, Svizzera), il 5 agosto scorso è stata condannata dal Tribunale Federale della Confederazione Elvetica al pagamento di una multa di 152 milioni di dollari e a un risarcimento di 150 milioni di dollari per non aver cercato di impedire il pagamento di tangenti in relazione all’acquisizione di diritti minerari nella Repubblica Democratica del Congo.

Il magnate israeliano Dan Gertler è implicato in questa faccenda: nel corso degli anni ha ricevuto ripetute accuse di corruzione. Nel 2011 il multimiliardario, in veste di mediatore, ha negoziato gli accordi minerari tra la Glencore e il governo di Kinshasa.

Dan Gertler

L’uomo d’affari israeliano, con un accordo siglato nel 2022 con il governo del Congo-K, ha concordato di versare circa 2 miliardi di dollari di diritti di estrazione mineraria e di trivellazione petrolifera ottenuti negli ultimi due decenni. In cambio, il governo congolese ha accettato di pagare alle società di Gertler 260 milioni di dollari e di aiutarlo a fare pressioni su Washington per ottenere la revoca delle sanzioni. La mossa consentirebbe a Kinshasa di rivendere i diritti minerari a nuovi investitori.

Ma la società civile congolese non ci sta. Dopo la condanna della Glencore in Svizzera, una settimana fa l’organizzazione anti-corruzione Le Congo n’est pas à vendre (Il Congo non è in vendita), ha chiesto alle autorità di Kinshasa di annullare gli accordi con Gertler e di condannare tutte le personalità implicate in queste transazioni.

Organizzazione congolese anti-corruzione

“Grazie alla sentenza emessa da un tribunale svizzero, ora le prove di corruzione ci sono. Di conseguenza, il governo di Kinshasa deve aprire un’inchiesta e arrestare tutti coloro che sono stati complici in questo affare. In poche parole, la popolazione congolese deve essere risarcita delle royalities e dei beni acquistati con pactum sceleris” , ha dichiarato Jimmy  Munguriek, membro dell’associazione anti-corruzione, ai reporter di RFI.

Nel maggio 2013, un rapporto pubblicato da Kofi Annan, ex segretario generale delle Nazioni Unite, ha rivelato le enormi perdite subite dalla ex colonia belga a causa dei rapporti con le società estere di Gertler, facendo luce per la prima volta sull’entità di questo ingente danno economico.

Dan Gertler al matrimonio di Jospeh Kabila, ex presidente del Congo-K

Gertler, multimiliardario israeliano attivo nel ramo minerario nel Congo-K dal lontano 1997, oltre ad essere in ottime relazioni con l’ex presidente congolese Joseph Kabila, ha anche stretti rapporti con il governo di Tel Aviv. Nel 2019, non appena salito al potere il presidente Felix Tshisekedi, Yossi Cohen, ex direttore del Mossad, si è recato per ben tre volte a Kinshasa per intercedere a favore del tanto discusso uomo d’affari Gertler.

A tutt’oggi, il magnate è nell’occhio del ciclone negli USA. Nel 2017 Gertler e le sue società sono stati sanzionati dal dipartimento del Tesoro americano per corruzione ad alto livello nel Congo-K, in base al Magnitsky Act (prende il nome dal legale russo anticorruzione Sergei Magnitsky) approvato del Congresso nel 2012.

Africa ExPress
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Dossier Gaza/4a – Israele finanzia la guerra con le miniere del Congo in mano a un sionista, protetto da Netanyahu

 

Dossier Gaza/4b – Miniere e guerra: i rapporti inquietanti che legano Israele al Congo-K

La Glencore accetta di risarcire 180 milioni di dollari per corruzioni commesse in Congo-K

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Zambia, contaminazione di aflatossine nel mais, morti 400 cani, terrore nella popolazione

Speciale per Africa ExPress
Sandro Pintus
29 agosto 2024

Al momento, l’unica cosa certa è che la contaminazione da aflatossine è nel cibo per animali. Ma potrebbe essere anche nella farina di mais per consumo umano. Intanto il pet food, preparato industrialmente anche con farina di mais avvelenata, ha ucciso 400 cani.

Ma se la morte dei cani è considerata allarmante per l’alto numero di decessi, un’altra questione terrorizza la popolazione dello Zambia e preoccupa il governo. E i risultati delle analisi sulla farina di mais di 25 aziende molitorie fanno tremare l’intero Paese.

La metà dei campioni di farina di granturco analizzata, secondo Elijah Muchima, ministro della Salute zambiano, conteneva “livelli estremamente elevati di aflatossine. I risultati dei test sono molto preoccupanti a causa delle numerose implicazioni per la salute della popolazione”, ha dichiarato il ministro.

mais contaminato da aflatossine
Mais contaminato da aflatossine

Lo scandalo aflatossine

Lo scandalo è scoppiato la settimana scorsa quando l’emittente zambiana, Diamond TV, ha scoperto che decine di cani erano morti per avvelenamento da aflatossine.

Il ministro Muchima ha ricordato che la siccità dei primi mesi dell’anno e i cambiamenti climatici hanno fatto aumentare la presenza di aflatossine.

Un enorme problema visto che il mais è l’alimento base dell’alimentazione umana dello Zambia – e di gran parte dell’Africa sub-sahariana -. In Zambia il cereale fornisce circa il 60 per cento dell’apporto calorico giornaliero della popolazione.

La pressione dell’opinione pubblica e della società civile è stata comprensibilmente forte. Hanno preteso di sapere quali aziende sono responsabili dell’avvelenamento dei cani e quale pericolo c’è per gli esseri umani.

“Nascondere i nomi delle aziende coinvolte in questo scandalo protegge solo i colpevoli e mette in pericolo gli innocenti. Il governo deve agire rapidamente per prevenire ulteriori danni”, ha dichiarato a Zambia Monitor Maggie Mwape, direttore Centro per la Giustizia Ambientale (CEJ). “Il governo deve dare priorità alla salute e alla sicurezza dei cittadini, essendo trasparente sui marchi contaminati”.

Le pressioni dell’opinione pubblica hanno avuto effetto. Il Ministero dell’Informazione e dei Media (MIM) ha comunicato i nomi di una decina di aziende che avevano lotti di farina di mais con aflatossine. Il MIM ha confermato ai media che i lotti contaminati sono stati ritirati e ne è stata pianificata la distruzione pubblica.

frutta secca contaminata da aflatossine
Frutta secca contaminata da aflatossine

Cosa sono le aflatossine

L’Enciclopedia britannica descrive l’Aflatossina come “complesso di tossine formate da muffe del genere Aspergillus. Spesso contaminano noci (soprattutto arachidi), cereali, farine e alcuni altri alimenti conservati in modo improprio”.

Queste tossine sono state scoperte in Inghilterra nel 1960 dopo un’epidemia di ‘malattia del tacchino X’ che aveva ucciso 100.000 pulcini. Le aflatossine possono causare malattie epatiche, cancro e possono scatenare la sindrome di Reye. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) le aflatossine, negli esseri umani, possono portare il cancro al fegato.

Secondo la Partnership for Aflatoxin Control in Africa (PACA), si stima che le aflatossine causino tra il 5 e il 30 per cento di tutti i tumori al fegato nel mondo. In Africa incide per il 40 per cento dei casi.

Sandro Pintus
sandro.p@catpress.com

X (ex Twitter):
@sand_pin
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Crediti foto aflatossine
Gianpiero Radano – Opera propria
Fluorescenza emessa da aflatossina sottoposta a luce ultravioletta a destra. Stesso soggetto ma a luce naturale sulla sinistra. CC BY-SA 4.0

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Zambia: 4 coppie croate bloccate in Zambia con l’accusa di traffico di minori

 

 

Studente zambiano, in carcere a Mosca, ucciso in Ucraina mentre combatteva con i russi: Lusaka chiede chiarimenti

Il nuovo presidente dello Zambia promette: nessun cittadino dovrà andare a letto affamato

 

Gaza e West Bank: trattative di pace in bilico su due corridoi di cui Israele vuole il controllo

 

Speciale per Africa ExPress
Alessandra Fava
27 agosto 2024

Mentre infuria la guerra nel Nord di Israele tra Hezbollah libanese e Israele, sono ripresi al Cairo domenica e lunedì i colloqui di pace tra Hamas e la delegazione israeliana guidata dal capo del Mossad, David Barnea. Le due delegazioni stavano in due compound separati ma vicini e diplomatici di Stati Uniti, Qatar ed Egitto passavano il tempo andando dagli uni e dagli altri con proposte diverse.

Nuovi attacchi mentre le fazioni in causa erano riuniti a Il Cairo per colloqui di pace

Parliamo al passato perché la delegazione israeliana dopo 48 ore è tornata a Tel Aviv e, secondo gli americani, riprenderà il rimpallo di accuse con conseguente rallentamento delle trattative.

Secondo Israele sono ancora attivi i tunnel tra Egitto e Gaza per il passaggio di armi. L’Egitto dice che sono tutti inattivi e comunque monitorati. Quindi secondo i portavoce israeliani c’è bisogno del controllo militare di tutto il confine verso il Sinai, la Philandelphi Route, ipotesi che lascia perplessi anche gli egiziani. Uguale nessuno uscirebbe più verso l’Egitto senza il controllo israeliano e nessuno creerebbe nuovi tunnel verso sud con cui far passare merci legali, mucche addormentate, medicine, armi e oggetti più o meno legali.

Il Corridoio tra Gaza e Sinai, al confine con l’Egitto, che Israele vuole controllare

Ma questo non basta. Israele vuole anche dividere la parte a nord e creare un altro corridoio est/ovest, detto Netzarim Corridor. Per altro già in costruzione secondo le immagini satellitari. Insomma l’esercito potrà pattugliare varie zone della Striscia, ma sopratutto sarà impossibile per i normali cittadini palestinesi percorrerla da nord a sud come prima.

Osama Hamdan, uno dei mediatori di Hamas, ha detto alla tv Al-Aqsa: “Non accetteremo punti o nuove condizioni rispetto a quanto abbiamo concordato il 2 luglio”. Temono che le richieste israeliane non finiscano mai. 

Il corridoio Netzarim da quanto si vede dai satelliti è già completato

E’ da marzo che gli Usa promuovono senza successo colloqui per il cessate il fuoco. Perchè i colloqui di pace per Gaza non funzionano? Se lo chiedono in tanto a livello globale. La risposta sta nella volontà di Israele di creare dei bantustan sia a Gaza che in Cisgiordania per demolirli in futuro poco alla volta e nei decenni far sparire la questione palestinese.

A Gaza ci sono ancora circa due milioni di palestinesi; 40.435 sono stati uccisi dall’attacco di Hamas del 7 ottobre e metà erano bambini. Che fare con i sopravissuti? L’importante è dividerli geograficamente. Israele sta cercando di frammentare i chilometri quadrati della Striscia, prigione a cielo aperto da decenni, senza un porto, un aeroporto, senza una frontiera controllata. Non uno Stato, ma un bantustan, come quelli sudafricani di triste memoria.

Secondo uno scoop della Reuters basato sulle dichiarazioni di tre diplomatici occidentali e due mediatori di Hamas, Israele sta affossando ogni ipotesi di pace, dopo che la proposta Usa promossa da Biden è stata accettata da Hamas a maggio. Secondo le cinque fonti suddette, l’idea dei due corridoi sarebbe saltata fuori di recente, anche se bisogna ricordare che è dall’inizio della guerra che il premier Netanyhau parla del controllo militare della Striscia e della necessità di agire militarmente in qualsiasi momento in quel territorio, anche dopo l’eventuale fine della guerra guerreggiata. Ergo la presenza dell’esercito israeliano, IDF, non sarà mai da togliere e la guerra non deve finire. Per altro la guerra infinita per Bibi significa continuare a stare al potere.

La tregua fa rima con il rilascio degli ostaggi. Alcuni membri dei servizi segreti hanno fatto trapelare che con questo governo non ci sono speranze per i rapiti, 109, di cui 36 dichiarati morti. La scorsa settimana, nell’ennesimo incontro tra i parenti degli ostaggi e Netanyahu, all’affermazione di uno di loro “firmi un accordo che li riporti a casa”, lui ha risposto: “Accordo? E che accordo?”, lasciando tutti scioccati. Per altro della famosa commissione d’inchiesta sui fatti del 7 ottobre il premier non parla più.

Intanto il partito di estrema destra di Ben-Gvir, nel weekend ha pagato pagine di giornali israeliani per dire che è contro qualsiasi accordo per la liberazione degli ostaggi. Nello stesso annuncio se la prendono anche col capo dello Shin Bet, i servizi interni, Ronen Bar, che nei giorni scorsi aveva sostenuto che il terrorismo ebraico mette a rischio Israele: “I capi del terrorismo ebraico vogliono che il sistema perda il potere di controllo, causando un danno inimmaginabile per Israele”. Ha anche aggiunto che appena messi in prigione i “terroristi” vengono liberati dai membri del parlamento, riferendosi chiaramente alla liberazione dei coloni responsabili di violenze.

Il quotidiano Haaretz in un editoriale il 26 agosto titola “L’organizzazione jihad ebraica” e scrive: “Itamar Ben-Gvir supporta i terroristi ebrei. Come ministro della sicurezza nazionale, usa il suo potere, autorità e risorse che sono a sua disposizione per proteggerli. I terroristi ebraici sono l’ala militare dell’organizzazione cui Ben-Gvir appartiene…è fedele all’idea Kahanista della Grande Israele”. Di recente Ben-Gvir è andato infatti a trovare in carcere un estremista che ha lanciato in una casa palestinese una molotov uccidendo un bambino di 18 mesi e i suoi genitori nel villaggio di Duma.

Mentre si moltiplicano i bombardamenti tra Hezbollah e l’esercito israeliano sul fronte nord, al confine col Libano e gli israeliani del Nord, che non sono mai tornati a casa da ottobre, si lamentano dell’abbandono del governo, non cessa la lotta per il territorio in Cisgiordania, soprattutto nelle aree sotto controllo palestinese. Infatti lo stato di Israele si prepara ad acquisire 23 chilometri quadrati di terre prima palestinesi dove piazzare anche cinque nuovi insediamenti.

La scelta di cacciare i palestinesi anche dalle terre più rurali a nord, dai villaggi vicini a Qualkilya, Nablus e Jenin, piace a una fetta di popolazione israeliana. Un recente sondaggio di Pew Research Center dice che il 40 per cento degli israeliani pensa che gli insediamenti rendano Israele più sicura, undici anni fa lo pensava solo il 27 per cento.

Il 35 per cento pensa invece che gli insidiamenti indeboliscano la sicurezza del paese. Secondo le Nazioni Unite dal 7 ottobre ci sono stati 1.270 attacchi dei coloni contro palestinesi nella West Bank. Non che la situazione in Cisgiordania abbia mai avuto una vera pace: nel 2022 gli attacchi erano stati 856 ed erano notevolmente aumentati ben prima del massacro del 7 ottobre, già nel gennaio/febbraio 2023. 

Secondo B’Tselem, associazione israeliana contro l’occupazione nei Territori, da ottobre ad oggi in Cisgiordania sono stati sgomberati almeno 18 villaggi palestinesi con 586 morti. Di questi, a detta delle Nazioni Unite, almeno 11 sono stati uccisi direttamente dai coloni, gli altri dall’esercito nazionale. Morale, oggi gli insediamenti, considerati illegali dal diritto internazionale sono 130.

Nella West Bank vivono 500 mila israeliani e tre milioni di palestinesi, esclusa Gerusalemme est. I tre milioni di palestinesi stanno avendo vita sempre più difficile per spostarsi e lavorare. Gli insediamenti frammentano il territorio, specie nelle zone a maggioranza araba e l’opinione pubblica israeliana, pur nel mezzo di una terribile guerra, resta divisa tra chi pensa che solo la pace sia la soluzione e chi per paura continua a pensare che la soluzione sia la guerra oggi al 326 esimo giorno. Lo spettro di una guerra civile si aggira.

Alessandra Fava
alessandrafava2015@libero.it
©️ RIPRODUZIONE RISERVATA

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Il giornale liberale americano The Nation attacca Biden e Kamala: “Troppo morbidi sul genocidio a Gaza”

The Nation* è il più prestigioso giornale
liberal progressista americano.
Pubblica ininerrottamente dal 6 luglio 1865

EDITORIALE
Jack Mirkison
Washington, settembre 2024

Il cambio di orientamento verso Gaza

L’energia positiva intorno alla campagna di Kamela Harrys non proteggerà i palestinesi dalle bombe di fabbricazione statunitense

Quando Kamala Harris ha scelto il governatore del Minnesota Tim Walz come compagno della sua corsa verso la Casa Bianca, molti progressisti sono stati felicissimi. Oltre all’entusiasmo generale per Walz, la sua scelta è stata vista come una prova di forza della loro campagna per bloccare la nomina a candidato vicepresidente del governatore della Pennsylvania, Josh Shapiro.

Kamala Harris e Tim Walz

La campagna anti-Shapiro si basava sull’opposizione alle sue posizioni su Israele e Palestina in generale e sul genocidio a Gaza in particolare. I progressisti hanno preso la nomina di Walz come un segnale che la Harris non voleva inimicarsi apertamente il movimento pro-Palestina – un calcolo che quasi certamente non avrebbe fatto se non ci fosse stato negli ultimi 11 mesi un forte attivismo dei gruppi filopalestinesi.

Dietro le quinte, anche alcuni democratici hanno tirato un sospiro di sollievo.

Come ha dichiarato a NBC News uno stratega vicino al campo della Harris, “riportare Gaza in primo piano sarebbe stato terribile per tutti. Nessuno lo voleva”.

Shapiro sarebbe stato una pessima scelta come vicepresidente per ragioni che vanno oltre la sua inquietante risposta ai manifestanti anti-genocidio o il suo appoggio alle campagne in malafede contro alcuni presidenti di università per come hanno gestito le manifestazioni per il cessate il fuoco nei campus. È un bene che non sia stato scelto.

Ma la citazione di NBC News evidenzia un rischio derivante dall’ondata di euforia che sta attualmente investendo parte della sinistra: che, mentre la malinconia provocata dalla campagna di Joe Biden lascia il posto allo sfarzo di quella del ticket Harris-Walz, la guerra di Israele contro Gaza rischia di svanire dall’agenda politica. Nonostante gli sforzi degli organizzatori pro-palestinesi, ciò è già cominciato, anche se il genocidio non mostra segni di rallentamento.

Alcuni commentatori hanno sostenuto che il “tono” di Harris differisce da quello di Biden quando si parla di Gaza. Ma questa idea non è affatto in linea con i fatti. Harris ha occasionalmente suonato qualche nota critica, ma se si osservano le recenti dichiarazioni di Biden e Harris, si scopre che i sentimenti – e persino molte delle parole – sono identici. Entrambi parlano della “sofferenza” dei palestinesi. Entrambi hanno detto di volere un cessate il fuoco. L’idea di una profonda divisione nell’uso del linguaggio è una fantasia.

Inoltre, concentrarsi sulle parole di Harris distrae dalla realtà di fondo: la candidata presidente non ha dato alcun segnale di voler fare qualcosa di diverso da Biden su Gaza. Sostiene la continuazione dell’invio di armi statunitensi a Israele, una posizione recentemente confermata dal suo consigliere per la sicurezza nazionale, Phil Gordon.

Non ha mai accennato alla volontà di porre fine alla politica di protezione di Israele alle Nazioni Unite o di ripristinare i finanziamenti per gli aiuti delle Nazioni Unite alla Palestina. In questo momento, l’idea che rispetterà un mandato di arresto internazionale per Benjamin Netanyahu o che farà qualcosa di significativo per fermare l’espansione degli insediamenti in Cisgiordania è risibile.

Come Harris, Walz non ha fatto di Israele una priorità politica. Sebbene sia stato un po’ più gentile nei confronti del movimento dei “non impegnati” rispetto a molti dei suoi colleghi, non c’è motivo di credere che rappresenti una rottura significativa con la linea democratica standard sulla Palestina.

Si potrebbe dire che non è realistico aspettarsi molto di più da Harris e Walz – che stanno valorosamente cercando di unire un partito diviso e che le cose potrebbero cambiare una volta entrati in carica. Alcuni democratici sono anche chiaramente infastiditi dal fatto che la questione di Gaza non sia destinata a scomparire. L’ostilità mostrata dalla Harris nei confronti dei manifestanti filo-palestinesi che hanno interrotto il suo comizio del 7 agosto a Detroit – e le lodi ricevute da gran parte dei commentatori liberali per averli bloccati – ne sono state la prova.

Ma la questione non è destinata a scomparire, e il motivo è semplice: Il genocidio non è finito, e nemmeno la complicità dell’America. Israele uccide decine di palestinesi ogni giorno, spesso con armi statunitensi. La carestia dilaga e i principali politici israeliani parlano pubblicamente del loro desiderio di affamare tutti a Gaza. I prigionieri palestinesi raccontano orribili esperienze di tortura e violenza sessuale per mano delle forze israeliane. E l’amministrazione Biden è coinvolta in queste atrocità oggi come ieri.

Gaza

I palestinesi di Gaza non hanno il lusso di aspettare o di andare avanti. Non possono nutrirsi di ritocchi retorici. Un tono più duro non li proteggerà dalle bombe prodotte dagli Stati Uniti. Ammiccamenti e cenni non porranno fine al genocidio. Solo un’azione di forza da parte degli Stati Uniti lo farà. E la Harris non è una figura marginale: è la vicepresidente in carica del Paese e si candida a diventarne presidente.

Quindi, piuttosto che permettere ad Harris e Walz di cullarci nella passività nei confronti di Gaza, dovremmo raddoppiare i nostri sforzi per ritenere gli Stati Uniti responsabili della loro partecipazione ai crimini di guerra di Israele.

Non è accettabile lasciare che l’amministrazione Biden-Harris continui a inviare armi a Israele senza ostacoli. Non è accettabile permettere ad Harris e Walz di passare questa campagna elettorale senza che, come minimo, vengano messi alle strette sui loro piani specifici per fermare i crimini di guerra di Israele. Non è accettabile accontentarsi di uno spostamento di vibrazioni.

Jack Mirkison
*https://it.wikipedia.org/wiki/The_Nation

ORIGINAL TEXT IN ENGLISH

The Gaza vibe shift

The positive energy around Kamela Harrys’s campaign will not protect Palestinians from US-made bombs


When Kamala Harris chose Minnesota
governor Tim Walz to be her running mate, many progressives were overjoyed. Beyond their general enthusiasm about Walz, his selection was seen as proof of the strength of their campaign to block Pennsylvania Governor Josh Shapiro from the ticket.

And given that the anti-Shapiro push was grounded in opposition to his views on Israel and Palestine in general and the genocide in Gaza in particular, progressives took Walz’s elevation as a sign that Harris didn’t want to overtly antagonize the pro-Palestine movement — a calculation that she almost certainly would not have made if not for the past 11 months of activism.

Behind the scenes, some Democrats also breathed a sigh of relief. As a strategist close to the Harris camp told NBC News, “Bringing Gaza back into the foreground would just be awful all the way around. Nobody wanted to return to that.”

Shapiro would have been a bad vice presidential pick for reasons beyond his disturbing response to anti-genocide protesters or his endorsement of the bad-faith campaigns against some university presidents over their handling of campus ceasefire demonstrations. It’s good that he wasn’t chosen.

But that NBC News quote highlights a risk from the wave of euphoria currently washing over parts of the left: that as the melancholia of the Joe Biden campaign gives way to the razzle-dazzle of the Harris-Walz ticket, Israel’s war on Gaza will fade from the political agenda. Despite the efforts of pro-Palestinian organizers, that has already started—even though the genocide shows no signs of slowing.

Some commentators have claimed that Harris’s “tone” differs from Biden’s when it comes to Gaza. But this idea hardly squares with the facts. Harris has
occasionally sounded some critical notes, but if you look at the recent statements from Biden and Harris, you will find that the sentiments—and even many of the words—are identical. Both talk about the “suffering” of Palestinians. Both have said that they want a ceasefire. The notion of some deep divide in their use of language is fantasy.

Plus a focus on Harris’s words distracts from the underlying reality: She has sent no signal that she would actually do anything different from Biden on Gaza. She supports the continued shipment of US weapons to Israel, a position recently confirmed by her national security adviser, Phil Gordon. She has never hinted that she would end the policy of protecting Israel at the United Nations or that she wants to restore funding to the UN’s Palestine aid relief efforts.

Right now, the idea that she would respect an international arrest warrant for Benjamin Netanyahu or do anything significant to stop settlement expansion in the West Bank is laughable.

Like Harris, Walz has not made Israel a political priority. While he has been a bit kinder to the “uncommitted” movement than many of his peers, there’s no reason to believe that he represents a significant break with the standard Democratic line on Palestine.

You might say that it’s unrealistic to expect much more from Harris and Walz—that they’re valiantly trying to unite a divided party and that things might change once they get into office. Some Democrats are also clearly annoyed that the Gaza issue won’t just go away. The hostility Harris showed to pro-Palestinian protesters who disrupted her August 7 rally in Detroit—and the praise she received from much of the liberal commentariat for shutting them down—was evidence enough of that.

But the issue won’t go away, and the reason is simple: The genocide has not ended, and neither has America’s complicity in it. Israel is killing scores of Palestinians every day, frequently with US weapons. Famine is rampant, and leading Israeli politicians are speaking publicly about their desire to starve everyone in Gaza. Palestinian prisoners are recounting hideous experiences of torture and sexual assault at the hands of Israeli forces. And the Biden administration is just as implicated in these atrocities today as it was yesterday.

Palestinians in Gaza do not have the luxury of waiting or of moving on. They cannot feed themselves on rhetorical tweaks. A harsher tone will not protect them from US-made bombs. Winks and nods won’t end the genocide. Only force- ful action from the United States will. And Harris is not a tangential figure — she is the country’s sitting vice president, and she is running to be its president.

So rather than allow Harris and Walz to lull us into passivity around Gaza, we should redouble our efforts to hold the United States accountable for its participation in Israel’s war crimes.

It is not acceptable to let the Biden-Harris administration carry on sending weapons to Israel unimpeded. It is not acceptable to allow Harris and Walz to skate through this campaign without, at the bare minimum, pinning them down about their specific plans to stop Israel’s war crimes. It is not acceptable to be satisfied with a vibe shift.

Jack Mirkison
*https://en.wikipedia.org/wiki/The_Nation

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Cooperazione militare Russia-Guinea Equatoriale: sbarcati i primi istruttori a Malabo

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
25 agosto 2024

Da poco più di una settimana sono sbarcati in Guinea Equatoriale i primi istruttori russi, secondo accordi siglati tra Mosca e Malabo il 6 giugno scorso. Una folta delegazione russa, capeggiata dal vice-ministro per la Difesa, Yunús-bek Yevkúrov, è stata ricevuta a Malabo dal vice-presidente del Paese, Théodorin Obiang Nguema Mangue, figlio dell’82enne capo di Stato, Teodoro Obiang Nguema Mbasogo. Durante i colloqui sono stati definiti i dettagli di questa cooperazione militare.

Guinea Equatoriale: mercenari dell’African Corp

Il partenariato strategico consentirà agli istruttori russi di recarsi in Guinea Equatoriale per addestrare i soldati di vari reparti dell’esercito nazionale, rafforzando così le capacità operative delle truppe. Ma c’è chi mormora che durante l’incontro i due interlocutoria abbiano discusso anche della possibilità della costruzione di una base militare.

E come previsto secondo l’accordo, i primi istruttori inviati da Mosca sono sbarcati a Malabo pochi giorni fa. Altri, secondo una fonte che per questioni di sicurezza ha preferito mantenere l’anonimato, dovrebbero arrivare nelle prossime settimane.

Come si evince dalla foto, che abbiamo potuto postare per cortese concessione del giornale online Diario Rombe, i russi – probabilmente si tratta di mercenari dell’African Corps (ex Wagner) – stanno circolando nella capitale con Toyota bianche senza immatricolazione.

Nel novembre 2023 l’anziano presidente euqatoguineano si era recato a Mosca, dove è stato ricevuto dal suo omologo russo, Vladimir Putin. Le relazioni diplomatiche tra Malabo e Mosca sono di lunga data, risalgono a subito dopo l’indipendenza ottenuta nel 1968. Attualmente la Federazione russa ha solamente un consolato nel Paese, ora sembra che Putin sia intenzionato ad aprire nel prossimo futuro anche un’ambasciata. Una strategia ben mirata, volta a contrastare il dominio occidentale e a rafforzare i legami con le nazioni africane.

Teodoro Obiang Nguema Mbasogo, presidente della Guine Equatoriale e Vladimir Putin, presidente della Federazione Russa

Intanto la Guinea Equatoriale si sta avvicinando anche alla Bielorussia. Il ministro della Difesa di Malabo, Victoriano Bibang Nsue Okomo, si è recato a Minsk lo scorso maggio, dove è stato ricevuto dal suo omologo, Viktor Khrenin. I colloqui si sono concentrati sulla possibilità di una cooperazione militare tra i due Paesi.

Già negli anni ’90 truppe russe sono state avvistate nella ex colonia spagnola. Mentre nel 2015 Repubblica della Guinea Equatoriale e la Federazione Russa hanno siglato un accordo per facilitare l’ingresso di navi da guerra nel porto di Malabo.

La Guinea Equatoriale è governata con pugno di ferro da Teodoro Obiang, salito al potere nel 1979 con un sanguinoso colpo di Stato contro lo zio Francisco Macìas Nguema, fatto fucilare poco dopo.

Ora il dittatore sta spianando la strada al figlio Teodorin, attualmente suo vice. Già nel 2016 l’anziano capo di Stato aveva promesso che non si sarebbe più ricandidato. Allora aveva spiegato ai giornalisti: “La Guinea Equatoriale non è una monarchia, ma non posso farci niente se mio figlio ha talento”.

Ma per due elezioni presidenziali consecutive (2016 e 2022) Obiang si è ripresentato di nuovo, escludendo il figlio. Teodorin, noto per il suo stile di vita lussuoso, è stato tra le persone ricercate dall’Interpol, ma la richiesta del mandato di arresto internazionale è stato poi cancellata. Teodoro Obiang ha fatto risultare le proprietà sequestrate in Francia come beni della Guinea Equatoriale e non del figlio. Nonostante le accuse e i processi in contumacia in USA e Francia e il sequestro dei suoi beni, continua a esercitare le funzioni di vice-presidente del suo Paese e a girare indisturbato il mondo.

La Guinea Equatoriale è uno dei regimi più spietati di tutto il continente. La famiglia Obiang gestisce le ricchezze del piccolo Stato africano come se fossero personali. Invece gran parte degli abitanti vive al di sotto della soglia di povertà.

Obiang è ricchissimo, ha una guardia presidenziale composta da forze speciali marocchine, la sua sicurezza personale è garantita da ex-agenti del Mossad israeliano e ha l’imbarazzo della scelta quando deve decidere in quale palazzo andare a riposare la sera.

La moglie, Constancia Mangue, detiene una buona fetta del potere economico nel ramo degli appalti pubblici e il suo nome è persino più temuto di quello del marito.

I diritti umani sono un vero e proprio optional nella ex colonia spagnola. Human Rights Foundation (HRF) ha fatto sapere pochi giorni fa che nelle scorse settimane sono state arrestate 33 persone sull’isola di Annobón, situata nel Golfo di Guinea e dista quasi 500 chilometri dalle coste continentali della Guinea Equatoriale.

Guinea Equatoriale, Isola di Annobon

I cittadini sono stati arrestati perché hanno manifestato pacificamente contro le continue detonazioni effettuate dalla società marocchina SOMAGEC incaricata della costruzione del porto e dell’aeroporto sull’isola. Infrastrutture realizzate con la scusa di attività estrattive. Ma per gli abitanti avrebbero trasformato terreni fertili e produttivi in aree e inadatte all’agricoltura, oltre a causare un serio rischio di crollo per le loro case.

Intanto nelle luride galere di Malabo è rinchiuso ancora un italiano, di origini equatoguineane, il 53enne ingegnere Fulgencio Obiang Esono, residente a Pisa. Nato in Guinea Equatoriale, da oltre 30 anni in Italia, nel 2018 è stato rapito a Lomè, in Togo, dal servizi di Malabo. Senza prove è stato accusato di un tentativo di colpo di Stato del 2017.

Fulgencio Obiang Esono, nella lista "Con Danti per pIsa"
Fulgencio Obiang Esono, nella lista “Con Danti per pIsa”

Nel giugno 2019 è stato condannato a 60 anni di prigione e le uniche informazioni che si hanno sono che è rinchiuso nella terribile prigione di Playa Negra, nella capitale Malabo. Il carcere è famoso in tutta l’Africa per le torture più terribili e per la scarsità di cibo dato ai detenuti. Ora sembra aprirsi uno spiraglio per Esono. Le autorità italiane, secondo quanto riferito dal suo avvocato, Corrada Giammarinaro, si stanno occupando del suo caso, anche grazie al lavoro incessante di Amnesty International con cui Unità Migranti, l’associazione fondata dallo stesso Fulgencio, è in perenne contatto.

Cornelia Toelgyes
cotoelgyes@gmail.com
X: @cotoelgyes
© RIPRODUZIONE RISERVATA

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Fotocredit: Diario ROMBE

GUINEA EQUATORIALE: altri articoli li trovate cliccando QUI

“Kiev sostiene terrorismo nel Sahel”: Mali,Burkina Faso e Niger chiedono intervento del Consiglio di sicurezza

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
24 agosto 2024

In una lettera congiunta indirizzata al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, i tre ministri degli Esteri di Mali Burkina Faso e Niger hanno chiesto di prendere misure appropriate contro l’Ucraina, perché Kiev – sostengono – aiuterebbe il terrorismo internazionale, in particolare quello nel Sahel.

I presidenti di fatto di Niger, Burkina Faso e Niger durante una riunione a Niamey

Niger, Mali e Burkina Faso – che recentemente hanno siglato un nuovo documento, Confederazione degli Stati del Sahel per una collaborazione ancora più stretta in svariati campi – sono intervenuti in tal senso dopo le recenti dichiarazioni del portavoce dei servizi di Kiev, Adrey Yusov.

In una intervista Yusov ha affermato che i servizi ucraini hanno passato informazioni importanti ai ribelli tuareg del CSP-DPA (Cadre Stratégique Permanent pour la Défense du Peuple de l’Azawad) durante la battaglia di Tinzaouatène, non lontana dal confine con l’Algeria. Indicazioni passate ai tuareg dall’intelligence di Kiev per contrastare i “criminali di guerra russi”, i mercenari di Africa Corps (ex Wagner) che hanno combattuto accanto all’esercito di Bamako (FAMa) durante l’operazione contro i ribelli.

Battaglia di Tinzaouatène

Subito dopo le rivelazioni del portavoce dell’intelligence di Kiev, Bamako e Niamey hanno rotto le relazioni diplomatiche con l’Ucraina. Il ministero degli Esteri maliano ha anche dichiarato l’ambasciatrice svedese, Kristina Kühnel, come persona non grata, ha dovuto lasciare il Paese entro 72 ore.

Bamako non ha gradito le critiche di Johan Forssel, ministro svedese per la Cooperazione allo Sviluppo Internazionale e il Commercio con l’Estero. Sul suo account X (ex Twitter) Forssel aveva espresso disappunto per l’avvicinamento del Mali alla Russia.

Sta di fatto che già mesi fa Stoccolma aveva deciso di chiudere le sue rappresentanze diplomatiche a Bamako e Ouagadougou entro la fine dell’anno per questioni di sicurezza e per ridefinire i propri aiuti ai due Paesi.

Sebbene il CSP-DPA abbia sempre sostenuto di aver agito da solo, senza l’aiuto di nessuno, il GNIM (Gruppo di sostegno dell’Islam e dei musulmani), affiliato a Al-Qaeda, ha rivendicato un’imboscata a sud di Tinzaouatèn contro i soldati FAMa e i mercenari russi.

Da alcuni mesi il governo di Bamako ha riqualificato gli indipendentisti dell’Azawad come terroristi. Per questo motivo, in particolare il Mali, accusa Kiev di sostenere il terrorismo internazionale, in violazione dello Statuto delle Nazioni Unite.

Burkina Faso, Mali e Niger hanno inoltre sottolineato che tali azioni sovversive rappresentano una violazione della sovranità e integrità dei tre Paesi, minacciando così la sicurezza nel Sahel e in Africa.

Sta di fatto che Kiev sta rafforzando la propria presenza in Africa. Questa primavera ha aperto ben 6 nuove ambasciate nel continente: RD Congo, Mozambico, Costa d’Avorio, Ruanda, Botswana e Ghana. Ma l’Ucraina cerca anche di affrontare militarmente i russi, come in Sudan, dove in un video sono state riprese forze speciali di Kiev mentre combattono a fianco delle truppe di Khartoum (SAF) contro le Rapid Support Forces (RSF), capitanate da Hemetti.

Intanto sono in atto colloqui per liberare i mercenari russi (sarebbero almeno due) presi in ostaggio dai ribelli tuareg. Non è chiaro chi siano gli interlocutori – autorizzati a negoziare anche da Mosca -; qualcuno parla di intermediari provenienti da un Paese vicino al Mali. Finora non sono trapelate le condizioni poste dai ribelli dell’Azawad per la liberazione degli uomini dell’African Corps. Fonti diplomatiche hanno solamente fatto sapere che i russi sarebbero in buona salute.

Mentre la diplomazia del Sahel denuncia gli interventi dell’Ucraina, in Mali le aggressioni dei jihadisti non si arrestano. Il 7 agosto scorso una nuova incursione di miliziani appartenenti a Katiba Macina, che fa parte del raggruppamento terrorista GNIM, sono entrati a Kouakourou, nella regione di Mopti, nel centro del Paese. Il villaggio ospita un distaccamento militare situato vicino alle rive del fiume Niger. Sul calar della sera gli uomini armati sono arrivati in sella alle loro moto, seminando il terrore tra gli abitanti, che per tutta la notte sono rimasti rinchiusi nelle loro povere case. Per ore si sono sentiti spari dal vicino accampamento delle truppe di Bamako e il gruppo armato ha incendiato baracche militari e saccheggiato buona parte del materiale presente.

Dieci giorni dopo, durante un’imboscata tesa a un convoglio di FAMa da miliziani appartenenti al raggruppamento jihadista GNIM, sono stati uccisi 15 militari maliani nei pressi di Diallassagou, nella regione di Mopti.

Nel 2017 Kouakourou è rimasto sotto embargo totale per diversi mesi, perché gli abitanti si sono sempre rifiutati di sottomettersi al diktat dei terroristi. Una volta terminato il blocco, i residenti hanno chiesto la presenza permanente di truppe militari.

Questa volta la popolazione è stata risparmiata dalla ferocia dei jihadisti, ma la situazione umanitaria in Mali è preoccupante. Proprio in questi giorni la ONLUS francese, Action Contre la Faim (ACF) ha lanciato un nuovo allarme. Nel suo rapporto, pubblicato il 20 agosto scorso, ACF denuncia una escalation della malnutrizione infantile: il peggiore degli ultimi 10 anni. Ne sono particolarmente colpiti i piccoli sotto i 5 anni che vivono nei campi per sfollati nel nord-est del Mali. In alcune zone ha colpito il 30 per cento dei bambini, tra questi l’11 percento soffre di malnutrizione acuta grave.

Rifugiati in Mali

Secondo la ONLUS francese una delle maggiori cause di questo grave fatto sono i vari conflitti che si consumano da oltre 10 anni nel Paese. Le popolazioni in fuga dalle aggressioni, sono costrette a lasciare a casa tutti i loro averi, rimanendo così senza mezzi di sostentamento.

La situazione umanitaria è ancora peggio per migliaia di rifugiati, scappati dalle incessanti violenze che si consumano nel vicino Burkina Faso. Secondo quanto evidenziato dal Norwegian Refugee Council (NRC), l’afflusso di persone provenienti dal Paese limitrofo rappresenta un peso enorme per le comunità locali, che accolgono già molti sfollati. L’organizzazione ha chiesto aiuto alla comunità internazionale, poiché le ONG e le popolazioni locali sono sopraffatti dalla mancanza di fondi e risorse.

Cornelia Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
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MALI: altri articoli li trovate qui

Gulag Eritrea: ex ministro Berhane Abrehe è morto in galera

Africa ExPress
22 agosto 2024

Berhane Abrehe, ex ministro dell’Economia dell’Eritrea, sarebbe morto in una delle terribili galere del Paese. Lo ha reso noto Voice of America nella sua edizione in lingua tigrigna.

Berhane Abrehe

Poco prima del suo arresto nel settembre 2018, Berhane aveva pubblicato Hagerey Eritrea (Il mio Paese. L’Eritrea), un libro in due volumi, contenenti aspre critiche al regime eritreo e accuse ben mirate al ruolo del presidente Isaias Afewerki. Nella sua opera aveva sollecitato l’istituzione di un ordinamento democratico e aveva persino osato chiedere al dittatore di presentarsi a un dibattito pubblico.

Hagerey Eritrea di Berhane Abrehe

La ex colonia italiana è governata dal 1991 con pugno di ferro da Isaias Afeworki. Le Nazioni Unite hanno riconosciuto l’Eritrea come Stato indipendente nel 1993 dopo il referendum al quale ha partecipato il 99 per cento della popolazione.

La dittatura non perdona le critiche, non tollera quelle che giungono dall’estero, figuriamoci cosa succede se qualcuno osa esprimere giudizi nel Paese stesso. Il coraggioso ex ministro delle Finanze, in carica dal 2001 al 2012, ha scritto e pubblicato le sue dure e mirate osservazioni mentre viveva nella sua casa a Asmara.

La moglie dell’ex ministro, Almaz Habtemariam è finita dietro le sbarre già mesi prima. Avrebbe aiutato uno dei loro figli a fuggire dal Paese. Non è dato sapere se a tutt’oggi è ancora detenuta. Oppure è morta.

Come migliaia e migliaia di altri prigionieri in Eritrea, anche Berhane, classe 1945, non è mai stato accusato formalmente di alcun crimine, tantomeno ha visto l’aula di un tribunale. E’ stato sbattuto in galera semplicemente per aver osato esprimere critiche nei confronti del regime. E così l’ex ministro è morto in prigione senza aver potuto godere del diritto fondamentale di un equo processo. E come moltissimi altri detenuti, durante gli anni di prigionia anche Berhane non ha mai potuto avere contatti con l’esterno. Ha vissuto in totale isolamento e finora non sono trapelate notizie sulle cause della sua morte, tantomeno l’ora e la data esatta.

Secondo quanto riportato in un articolo firmato da Paolo Lambruschi su Avvenire nell’ottobre 2018, Ephrem, figlio di Berhane, fuggito dal Paese, già allora era molto preoccupato per l’anziano padre, che qualche anno prima aveva subito un trapianto di fegato proprio in Italia.

Africa ExPress
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https://www.africa-express.info/2024/07/08/svizzeragli-eritrei-respinti-se-ne-devono-andare-berna-alla-ricerca-di-un-paese-dove-sistemarli/

https://www.africa-express.info/2024/08/05/quotidiano-etiopico-denuncia-il-traffico-di-esseri-umani-nel-corno-dafrica-e-in-mano-a-gruppi-mafiosi/