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La famiglia di Elisa Claps vicina agli sfollati del Congo-K

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
Kinshasa, 11 settembre 2024

Il conflitto che si consuma da decenni nell’est della Repubblica Democratica del Congo è una delle tante guerre dimenticate dalla comunità internazionale. Finora non si intravede una fine alle atrocità, violenze e sofferenze della popolazione, costretta a fuggire dalla proprie case a causa delle continue aggressioni dei gruppi armati e i combattimenti tra le forze armate congolesi (FARDC) e i loro alleati, per tentare di sconfiggere i ribelli.

Campo profughi Goma e sullo sfondo ambulatorio VIS

Un barlume di speranza, una piccola, ma potente fiaccola arriva ora da Potenza direttamente a Goma, capoluogo del Nord-Kivu, nell’est del Congo-K, provincia pesantemente colpita dalla incessanti aggressioni, in particolare dai miliziani di M23. Il gruppo armato in questione prende il nome da un accordo firmato dal governo del Congo-K e da un’ex milizia filo-tutsi il 23 marzo 2009, appoggiato dal Ruanda e in forma minore rispetto a Kigali, anche dall’Uganda.

Domani, 12 settembre 2024 a Potenza e a Goma, si terranno due manifestazioni in contemporanea legate al progetto Il Cuore di Elisa nel Cuore dell’Africa. E chi non si ricorda di Elisa Claps, uccisa appunto a Potenza a soli 16 anni nel 1993? Già da giovanissima la ragazza aveva espresso il desiderio di studiare medicina per poi prestare servizio in Africa.

E domani ci sarà l’inaugurazione di un ambulatorio medico a Goma, dedicato a Elisa. Con il Volontariato Internazionale per lo Sviluppo (VIS) – ONG di ispirazione salesiana – la famiglia Claps, in ricordo di Elisa, porta avanti un programma nutrizionale dedicato ai bimbi dai 0 ai 5 anni, in particolare per coloro che vivono a ridosso del dispensario Don Bosco Ngangi, Goma, nel campo per sfollati, che ospita quasi 30mila persone. Gran parte dei bambini tra o e 5 anni soffrono di malnutrizione.

Le continue aggressioni dei vari gruppi armati sta devastando le regioni orientali della ex colonia belga. Alla fine del 2023 gli sfollati interni erano 6,9 milioni in tutto il territorio nazionale. Alla fine di maggio, nel solo Nord-Kivu, altri 1,77 milioni sono scappati dalle proprie case per fuggire alla furia dei miliziani M23.

Il 2 settembre, durante una breve cerimonia, organizzata dalle autorità congolesi allo Stade de l’Unité, situato al centro di Goma, sono stati celebrati i funerali di oltre 200 sfollati, morti negli ultimi mesi per fame e/o malattie nei campi attorno a Goma. Centinaia di persone che sono state costrette a lasciare le proprie case, tra loro anche molti parenti dei deceduti, hanno dato l’ultimo saluto a chi non ce l’ha fatta.

Goma: cerimonia per 200 vittime nei campi per sfollati

“Siamo scappati dalla guerra, ma l’abbiamo ritrovata nei nostri luoghi di rifugio. Siamo fuggiti dalla morte, ma ci ha inseguito nei campi. Chiediamo la fine delle ostilità per poter tornare a casa”, ha detto in lacrime una giovane mamma, il cui figlio è rimasto ben 5 mese nella camera mortuaria. Le salme sono state sepolte nel cimitero di Genocost, a circa dieci chilometri da Goma, vicino alla linea del fronte tra l’esercito e i ribelli dell’M23.

Ma le disgrazie non vengono mai sole. Ora il Congo-K è stato colpito pesantemente anche dal vaiolo delle scimmie (già Monkeypox, ora Mpox) e dall’inizio dell’anno sono morte almeno 635 pazienti.

Ogni giorno vengono registrati nuovi casi, ha raccontato un medico di un ospedale del Sud-Kivu, epicentro dell’epidemia, ai reporter della BBC. “Non ci sono letti a sufficienza, molti pazienti sono costretti a dormire per terra. Manca il materiale protettivo per medici e paramedici. I medicinali a diposizione sono pochi”, ha aggiunto il dottore.

Congo-K: le pustole provocare dal vaiolo delle scimmie MPOX

Settimana scorsa l’Unione Europea ha spedito 200mila dosi di vaccino a Kinshasa, ma ora ci vorranno settimane prima che arrivino nel Sud-Kivu, per mancanza di infrastrutture. Molte strade sono in condizioni pessime e trasportarli in elicottero graverebbe sul già povero bilancio del Paese.

La direttrice generale dell’ONG Medici senza Frontiere (MSF), Tejshri Shah, pediatra specializzata in malattie infettive, è stata recentemente nel Nord-Kivu e durante la sua visita ha ricordato che sarà impossibile contenere il virus nei siti degli sfollati interni se non migliorano le loro terribili condizioni di vita.

Cornelia I. Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
X@cotoelgyes
© RIPRODUZIONE RISERVATA

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Di fronte alla repressione nelle strade, le proteste africane si diffondono online

Abbiamo chiesto a Keith Richburg, che recentemente
è tornato a Nairobi, il permesso di pubblicare
questo articolo già uscito sul Washington Post.
E lui gentilmente ce l’ha concesso.

 

Keith B. RichburgWashington Post
Keith B. Richburg*
6 settembre 2024

Morara Kebaso sr è un keniota che si descrive nel suo profilo online come “Un avvocato pericolosamente intelligente. Vescovo della pace spietata e cancelliere capo delle promesse non mantenute”. È un attivista contro la corruzione e ha attirato più di 137.000 follower su X viaggiando per il Paese e postando video di progetti “elefanti bianchi” per mostrare come i fondi pubblici vengono sprecati o rubati.

Kasmuel McOure in una manifestazione a Nairobi

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“È un grande scherzo!” esclama Kebaso in un video, mentre si trova lungo una pista per lo più sterrata che può percorrere solo a piedi e spiega come sono stati pagati quasi 2 milioni di dollari all’appaltatore per costruire una strada importante. In un altro, si trova sul sito di un costoso progetto di diga annunciato in pompa magna sei anni fa, che oggi non è altro che cespugli di tè. In una scuola elementare rurale, i funzionari hanno speso più di 7.000 dollari per una sola porta in un campo sportivo vuoto.

“Ditemi se i leader che abbiamo in questo Paese sono davvero interessati al buon governo – dice davanti alla telecamera -. Posso sicuramente dirvi che non sono interessati”.

I post di Kebaso lo hanno reso una sorta di star dei social media. Ma non è solo. Una nuova generazione di attivisti e influencer online africani sta ora guidando la narrazione politica del continente. Questi guerrieri digitali stanno denunciando la corruzione, chiedendo conto ai leader di governo, fornendo notizie in diretta durante gli eventi più importanti e, per la prima volta, dando ai giovani africani una nuova voce potente per gridare la verità al potere.

Alla fine di giugno, i giovani africani della generazione Z, stufi della corruzione dilagante, della cattiva gestione economica e della disoccupazione diffusa, sono scesi in piazza in Kenya per protestare contro il previsto aumento delle tasse, ora annullato. Manifestazioni analoghe sono scoppiate in Nigeria, Uganda, Tanzania e altrove, spesso provocando risposte brutali da parte delle forze di sicurezza. Di fronte alla repressione, i giovani attivisti si sono spostati sempre più online.

La domanda è se le proteste online possano tradursi in una riforma reale della politica africana.

Le proteste di strada sono state definite “senza leader”, e in un certo senso è vero: i politici tradizionali e i leader tribali non sono in prima linea. Ma le proteste stanno trovando ossigeno online, dove i “commando da tastiera” possono usare brevi video, musica, arte e satira per mantenere vivo il movimento.

Uno di questi commando è Moses Kiboneka, attore, comico e popolare YouTuber ugandese con più di 73.000 abbonati, che ha creato un personaggio comico chiamato “Uncle Mo”, un meccanico d’auto di tutti i giorni. In un video, intitolato “Fighting Corruption in Africa – Uganda Chapter”, lo Zio Mo è seduto nella sua autofficina e spiega la corruzione con buon senso. “Combattere la corruzione in Africa – dice – è come denunciare finalmente tua madre perché è una strega. Poiché molti ugandesi sono cresciuti con la corruzione, è difficile denunciarla”.

Definisce le recenti proteste in Uganda “un enorme passo nella giusta direzione”, aggiungendo: “Non vediamo l’ora di tagliare i ponti con la mamma”.

La giornalista e commentatrice nigeriana Adeola Fayehun offre una visione satirica delle notizie nel suo programma su YouTube “Keeping It Real With Adeola”, che conta più di 700.000 iscritti. In un post, visualizzato 465.000 volte e che ha generato migliaia di like, aggiorna in modo esuberante sulle proteste in Kenya, paragonando le loro rimostranze a “ciò che stiamo affrontando in Nigeria in questo momento”. L’attivista affronta anche questioni come il crescente debito dei Paesi africani nei confronti della Cina e i manifestanti antigovernativi nel nord della Nigeria che sventolano bandiere russe.

Keith è stato prima corrispondente da Nairobi e da Seul per ill Washington Post di cui poi è diventato vicedirettore

Un’altra popolare attivista nigeriana, Aisha Yesufu, è conosciuta soprattutto come una delle co-fondatrici del movimento #BringBackOurGirls, che ha messo in luce il rapimento di oltre 200 studentesse dalla città di Chibok nel 2014. Con 2 milioni di follower su X, Yesufu ha evidenziato casi di persone scomparse e ha anche messo alla gogna il presidente Bola Tinubu, che sta affrontando un movimento anticorruzione chiamato #EndBadGovernance. “Se impedite le proteste pacifiche – ha scritto domenica – date spazio a rivolte violente”.

Uno dei commentatori sociali online più popolari del Sudafrica è l’influencer di bellezza Kay Yarms, che ha usato la sua piattaforma Instagram per ingannare i suoi giovani follower affinché si registrassero per votare alle elezioni dello scorso maggio, facendo loro credere che stessero cliccando su un link al suo nuovo blog.

In Kenya, lo spazio online si è riempito di post che chiedono le dimissioni del presidente William Ruto, alcuni dei quali sotto l’hashtag #RutoMustGo. Un attivista keniota, Kasmuel McOure, musicista e artista, ha cercato di colmare il divario tra il mondo virtuale e quello reale presentandosi alle proteste vestito in modo impeccabile con i suoi caratteristici abiti a tre pezzi e cravatte. Ha circa 50.000 follower su Instagram, 155.000 su X e 227.000 su TikTok.

Se tutto questo avrà un impatto reale è una questione aperta. A metà degli anni 2000, in Cina, ho assistito e scritto di un’ondata simile di attivismo digitale. È stato esaltante, fino a quando il Partito Comunista Cinese non ha imparato attraverso una maggiore censura e un più stretto monitoraggio di Internet, regole che richiedono la registrazione del nome reale per gli utenti online e severe leggi sulle fake news che hanno visto imprigionati molti attivisti e blogger. I leader africani potrebbero presto imparare dall’esempio cinese come controllare lo spazio online.

Anche la Primavera araba è motivo di cautela. I social media hanno giocato un ruolo così importante nella mobilitazione delle rivolte del 2010-2011 in tutto il Medio Oriente, che a volte sono state chiamati “la rivoluzione di Facebook”.

Alcuni osservatori si sono chiesti, forse prematuramente, se le attuali proteste africane possano essere una “primavera africana”. Ma ricordate: La Primavera araba è riuscita a portare la democrazia in Tunisia, ma ha fallito clamorosamente nel portare una migliore governance nella regione. Gli attivisti online africani dovrebbero prenderne atto. E muoversi con cautela.

Keith B. Richburg*

*Keith B. Richburg è un giornalista americano ed ex corrispondente estero che ha lavorato per oltre 30 anni per il Washington Post. Attualmente è professore di giornalismo presso l’Università di Princeton, mentre dal 2016 al 2023 è stato direttore del Journalism and Media Studies Centre dell’Università di Hong Kong. Dal febbraio 2021 è stato presidente del Club dei corrispondenti esteri di Hong Kong fino al maggio 2023.
Keith Richburg è originario di Detroit, Michigan. Ha frequentato la Liggett School dell’Università del Michigan (BA, 1980) e la London School of Economics.
È stato corrispondente estero del Washington Post nel Sud-Est asiatico dal 1986 al 1990, in Africa a Naironi dal 1991 al 1994, a Hong Kong dal 1995 al 2000 e a Parigi dal 2000 alla metà del 2005. È stato redattore estero del Post e capo dell’ufficio di New York del Post dal 2007 al 2010. Dal 2009 al 2012 è stato corrispondente dalla Cina per il Post con sede a Pechino e Shanghai. Ha anche coperto le guerre in Iraq e Afghanistan, attraversando a cavallo l’Hindu Kush, un viaggio che ha raccontato nella sezione Style del Post. È autore di Out of America, che racconta le sue esperienze di corrispondente in Africa, durante le quali ha assistito al genocidio del Ruanda, alla guerra civile in Somalia e a un’epidemia di colera nella Repubblica Democratica del Congo. Il libro di Richburg ha suscitato polemiche nella comunità afroamericana a causa della critica percepita nei confronti degli africani.

Photocredit: Reuters

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Testo originale in inglese:

Opinion: Facing repression on the streets, Africa’s protests spread online

Morara Kebaso Snr is a Kenyan who describes himself in his online profile as “A Dangerously Intelligent Lawyer. Bishop of Merciless Peace & Chief Registrar of Broken Promises.” He is a campaigner against corruption and has attracted more than 137,000 followers on X by traveling around the country and posting videos of “white elephant” projects to show how public funds are being wasted or pilfered.

Leading anti-government protester Kasmuel McOure attends a demonstration in Nairobi on Aug. 8.

“It’s a big joke!” Kebaso exclaims in one video, as he stands along a mostly dirt track that he can straddle with his feet and explains how nearly $2 million was paid to the contractor to build a major road. In another, he’s at the site of a costly dam project announced with fanfare six years ago that today is nothing but tea bushes. At one rural primary school, officials spent more than $7,000 for a single goal post on an empty sports field.

“Tell me whether the leaders we have in this country are actually interested in good governance,” he says to the camera. “I can most assuredly tell you that they are not interested.”

Kebaso’s posts have made him something of a social media star. But he’s not alone. A new generation of African online activists and influencers is now driving the continent’s political narrative. These digital warriors are exposing corruption, holding government leaders to account, providing live news feeds during key events and, for the first time, giving young Africans a powerful new voice to speak truth to power.

In late June, African Gen Zers fed up with rampant corruption, economic mismanagement and widespread unemployment took to the streets — first in Kenya to protest a planned, now disbanded, tax hike. Copycat demonstrations broke out in NigeriaUgandaTanzania and elsewhere, often prompting brutal responses from security forces. In the face of repression, the young activists have increasingly moved online.

The question is whether online protests can translate into real-world reform for Africa’s politics.

The street protests have been called “leaderless,” and in one sense this is true: Traditional politicians and tribal leaders are not at the forefront. But the protests are finding oxygen online, where keyboard commandos can use short videos, music, art and satire to keep the movement alive.

One of those commandos is Moses Kiboneka, an actor, comedian and popular Ugandan YouTuber with more than 73,000 subscribers, who created a comic character named “Uncle Mo,” an everyman car mechanic. In one video, called “Fighting Corruption in Africa — Uganda Chapter,” Uncle Mo sits in his auto repair garage giving his common-sense explanation of corruption. “Fighting corruption in Africa,” he says, “is like finally calling out your mother for being a witch.” Because many Ugandans were raised on corruption, it has been difficult to denounce.

He calls recent protests in Uganda “a huge step in the right direction,” adding, “We just can’t wait to cut ties with mom.”

Nigerian journalist and commentator Adeola Fayehun offers a satirical take on the news on her YouTube show “Keeping It Real With Adeola,” which has more than 700,000 subscribers. In one post, viewed 465,000 times and generating thousands of likes, she boisterously updates the Kenya protests, comparing their grievances with “what we are facing in Nigeria right now.” She also takes on issues such as African countries’ mounting debt to China, and anti-government protesters in northern Nigeria who wave Russian flags.

Another popular Nigerian activist, Aisha Yesufu, is best known as one of the co-founders of the #BringBackOurGirls movement, which spotlighted the 2014 kidnapping of more than 200 schoolgirls from Chibok town. With 2 million X followers, Yesufu has highlighted cases of missing persons, and also pilloried President Bola Tinubu, who is facing an anticorruption movement called #EndBadGovernance. “If you prevent peaceful protests,” she posted on Sunday, “you give room for violent riots.”

One of the most popular of South Africa’s online social commentators is beauty influencer Kay Yarms, who used her Instagram platform to trick her young followers into registering to vote in last May’s elections — by making them think they were clicking on a link to her new vlog.

In Kenya, the online space has been filled with posts demanding the resignation of President William Ruto, some under the hashtag #RutoMustGo. One Kenyan activist, Kasmuel McOure, a musician and artist, has tried to bridge the gap between the virtual and real worlds by showing up at protests impeccably dressed in his trademark three-piece suits and neckties. He has about 50,000 followers on Instagram, 155,000 on X and 227,000 on TikTok.

Whether all this will have any real impact is an open question. In China in the mid-2000s, I saw and wrote about a similar wave of digital activism. It was exhilarating — until the Chinese Communist Party learned to crush it through heightened censorship, tighter internet monitoring, rules requiring real-name registration for online users and strict “fake news” laws that saw many activists and bloggers jailed. African leaders could soon learn from China’s example how to rein in the online space.

The Arab Spring also gives reason for caution. Social media played such a big role in mobilizing those 2010-2011 uprisings across the Middle East, they were sometimes called “the Facebook revolution.”

Some observers have asked, perhaps prematurely, whether Africa’s current protests might amount to an “African Spring.” But remember: While the Arab Spring did manage to bring democracy to Tunisia, it failed spectacularly to bring better governance to the region. Africa’s online activists should take note — and tread carefully.

Keith B. Richburg**

**Keith B. Richburg is an American journalist and former foreign correspondent who spent more than 30 years working for The Washington Post. Currently serving as the Ferris Professor of Journalism at Princeton University, he was the director of the Journalism and Media Studies Centre of the University of Hong Kong from 2016 to 2023. From February 2021, he has been President of the Hong Kong Foreign Correspondents’ Club until May 2023.
Keith Richburg is a native of Detroit, Michigan. He attended the University Liggett School, the University of Michigan (BA, 1980) and the London School of Economics (MSc. 1985)
He served as a foreign correspondent for The Washington Post in Southeast Asia from 1986 until 1990; in Africa (NAIROBI) from 1991 through 1994; in Hong Kong from 1995 through 2000; and in Paris from 2000 until mid-2005. He was Foreign Editor of The Post, and was chief of the New York bureau of The Post from 2007 until 2010. He was a China correspondent for The Post based in Beijing and Shanghai from 2009 to 2012. He also covered the wars in Iraq and Afghanistan, riding a horse partway across the Hindu Kush, a journey he chronicled in The Post’s Style section.
He is the author of Out of America, which detailed his experiences as a correspondent in Africa, during which he witnessed the Rwandan genocide, a civil war in Somalia, and a cholera epidemic in Democratic Republic of Congo. Richburg’s book provoked controversy in the African American community[3] due to its perceived criticism of Africans.

Governo italiano ossessionato dai migranti, fornisce alla Tunisia (zero in diritti umani) motovedette guardacoste

Speciale per Africa ExPress
Antonio Mazzeo
9 settembre 2024

Violazioni dei diritti umani, deportazioni di migranti nel deserto, repressioni di ogni forma di dissenso interno. ma il governo italiano decide di rafforzare la partnership diplomatica e militare con il regime tunisino.

Unità navali italiane alla Tunisia

Il 28 agosto scorso, nel corso di una cerimonia ufficiale nel porto di Marina de Gammarth, a pochi chilometri da Cartagine e Tunisi, l’ambasciatore d’Italia in Tunisia, Alessandro Prunas e il funzionario del settore immigrazione della Polizia di Stato presso l’ufficio diplomatico, Sebastiano Bartolotta, hanno consegnato alla Garde Nationale tre motovedette già in dotazione all’Arma dei Carabinieri e della Guardia di finanza. 

“Le unità navali verranno utilizzate per il rafforzamento della capacità della Guardia nazionale del ministero dell’Interno tunisino nelle attività di sorveglianza delle frontiere marittime”, riporta l’agenzia Nova. Nei prossimi mesi il Viminale trasferirà alle autorità del Paese nord africano altre tre motovedette “restaurate” nell’ambito del memorandum firmato a dicembre 2023 con la Tunisia per cui sono stati stanziati 4,8 milioni di euro.

Le unità sono tutte della classe Guardacoste Litoraneo G.L. 1400 (già MV800 con i Carabinieri) e sono contraddiste dalle sigle identificative G.L.1400, G.L.1401, G.L.1402, G.L.1403, G.L.1404 e G.L.1405. Costruite negli anni ‘90 dai Cantieri Navali del Golfo di Gaeta, hanno una lunghezza di 17 mt, una larghezza di 5,10 ed un dislocamento a pieno carico di 28 tonnellate. I motori marca Iveco Aifo consentono alle motovedette di raggiungere una velocità massima di 35 nodi.

Il trasferimento delle tre unità è stato enfatizzato con un tweet dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi. “Esse contribuiranno a rafforzare le attività di salvataggio in mare e le azioni di contrasto ai trafficanti di esseri umani, nel quadro della cooperazione che il governo italiano ha avviato con la Tunisia sui temi migratori e sul controllo delle frontiere”, spiega il titolare del Viminale, volutamente ignaro dei crimini commessi dalle forze armate e di polizia tunisine nel corso delle attività di “contrasto” alla migrazione interna ed esterna.

Tunisia formalizza la propria zona SAR

Tre mesi fa la Tunisia ha formalizzato la propria zona SAR (Search and Rescue) nel Mediterraneo centrale: si tratta di un’area di mare estesissima che nella sua parte settentrionale sfiora la Sicilia occidentale fino al Sud della Sardegna, davanti alla regione del Sulcis. Le coordinate della nuova zona SAR hanno ricevuto l’approvazione da parte dell’Organizzazione Marittima Internazionale (Imo) e, come ricorda ancora l’agenzia Nova, è stato creato il Centro nazionale per il coordinamento delle operazioni di ricerca e salvataggio marittimo (TNMRCC), sotto il Servizio nazionale di sorveglianza costiera del ministero della Difesa, con il compito di “rafforzare l’efficacia dei servizi di ricerca e salvataggio in mare e di coordinare le operazioni”. Al TNMRCC sono state assegnate diverse unità navali e aeree delle forze armate e del ministero dell’Interno.

Il trasferimento delle sei imbarcazioni anti-migranti alla Garde Nationale è stato predisposto dal governo Meloni nel dicembre del 2023. Contro il provvedimento alcune organizzazioni non governative (ASGI, ARCI, ActionAid, Mediterranea Saving Humans, Spazi Circolari e Le Carbet) hanno presentato un ricorso al Tar denunciando le “gravissime violazioni dei diritti umani commesse dalle autorità tunisine, in particolare respingimenti in pieno deserto che hanno causato la morte di donne e bambini”. Il Tribunale amministrativo ha rigettato il ricorso, ma il 18 giugno 2024 il Consiglio di Stato ha sospeso in via cautelare l’invio delle prime tre motovedette ritenendo “prevalenti le esigenze di tutela rappresentate da parte appellante (le ONG, nda)”. 

Con ordinanza del 4 luglio, il Consiglio di Stato ha però rigettato l’istanza con cui le organizzazioni della società civile chiedevano la sospensione del trasferimento delle motovedette, rinviando al 21 novembre 2024 la decisione definitiva sul merito. Accogliendo le motivazioni dell’Avvocatura dello Stato, l’organo di giustizia amministrativa ha ritenuto che il trasferimento delle unità e le relative iniziative di formazione del personale della Garde Nationale tunisina possano contribuire “all’innalzamento dei livelli di tutela e salvaguardia dei migranti in mare, tanto più necessari dopo l’istituzione della zona SAR della Tunisia, tenuto conto dell’alto livello di professionalità di cui dispone la Guardia di Finanza nello svolgimento delle attività in questione”. 

La decisione di rimettere in efficienza le sei imbarcazioni già in uso alla Guardia di Finanza per cederle poi alla Tunisia è frutto di uno specifico accordo di collaborazione tra il Dipartimento della Pubblica Sicurezza del Ministero dell’Interno e il Comando Generale della Guardia di Finanza, firmato l’11 dicembre 2023, per sostenere “iniziative a favore dei Paesi non appartenenti all’Unione Europea finalizzate al rafforzamento delle capacità nella gestione delle frontiere e dell’immigrazione e in materia di ricerca e soccorso in mare”.

Nello specifico l’accordo prevede lo stanziamento di 4.800.000 euro per lo “svolgimento di attività di assistenza tecnica e capacity building a favore delle competenti autorità della Tunisia, segnatamente della Garde Nationale del Ministero dell’Interno tunisino, consistenti nella fornitura di mezzi e materiali, nell’erogazione di corsi di formazione e nella prestazione di servizi di supporto tecnico-logistico (ivi incluso l’approvvigionamento di carbo-lubrificanti per l’esecuzione di prove tecniche, verifiche e addestramento degli equipaggi in mare, nonché per il trasferimento delle unità navali sino alla destinazione in Tunisia), consulenza, assistenza e tutoraggio”. Oltre alla rimessa in efficienza delle unità navali della classe Guardacoste Litoraneo G.L. 1400, l’accordo tecnico prevede anche la formazione specifica (in territorio tunisino e presso la Scuola nautica di Gaeta) del personale della Garde Nationale alla loro conduzione ed impiego operativo.

Sempre secondo il memorandum tra il Ministero dell’Interno e il Comando Generale della Guardia di Finanza, i lavori di ammodernamento e ripristino dell’efficienza delle motovedette sono assegnati al Reparto Tecnico di Supporto del Centro Navale della GdF con sede a Miseno (Napoli), che “laddove necessario, potrà avvalersi di soggetti privati per la fornitura e l’installazione di equipaggiamenti e componentistica, previa analisi degli interventi tecnici necessari da concordare eventualmente con le autorità tunisine per soddisfare le loro specifiche esigenze operative”. I militari delle fiamme gialle si impegnano infine a “supportare le autorità tunisine negli interventi di manutenzione ordinaria sulle suddette unità navali e sulle altre unità navali già in uso alla Garde Nationale”.

Per la cronaca, lo scorso 28 agosto il Centro Navale di Formia della Guardia di Finanza ha messo a gara il servizio di refitting delle altre tre unità navali destinate alla Tunisia. Il relativo avviso è stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale e specifica che il valore della commessa è stimato in 4 milioni di euro. Il termine per il ricevimento delle offerte è posto per l’1 ottobre prossimo.

Nell’ultima decade, le autorità italiane hanno consegnato ai militari tunisini pure numerosi pattugliatori veloci e motovedette, impiegati tutti nelle operazioni di controllo delle frontiere marittime e di blocco e/o respingimento delle imbarcazioni dei migranti. Tra il 2014 e il 2015 sono stati donati alla Garde Nationale sei unità navali specializzate P350TN, mentre alla Marina Militare sono stati riservati sei pattugliatori modello P270TN. 

Questi ultimi sono pattugliatori veloci lunghi 27 metri e larghi 7,20, con 90 tonnellate di dislocamento ed un sistema di propulsione che assicura una velocità massima di 35 nodi e un range di 500 miglia nautiche. I pattugliatori classe P350TN hanno invece un dislocamento di 140 tonnellate, la lunghezza di 35 metri e la larghezza di 7,20; il sistema di propulsione è garantito da due motori diesel con un range di 600 miglia e una velocità massima di 38 nodi. Sulle unità possono essere imbarcati fino a 14-16 membri di equipaggio.

I dodici pattugliatori sono stati realizzati dalla Cantiere Navale Vittoria, società cantieristica con sede ad Adria, in Veneto e sono divenuti operativi dopo il loro trasferimento nella sede della Marina tunisina a La Goulette. Secondo la rivista specializzata britannica del settore difesa, IHS Jane’s, l’operazione di acquisto e invio delle unità navali alla Tunisia è costata al governo italiano 16,5 milioni di euro.

Il 3 agosto 2016 ancora il Cantiere Navale Vittoria ha consegnato ai militari di Tunisi la nave scuola Zarzis A710, un’imbarcazione di supporto alle immersioni subacquee e alle operazioni di “sicurezza negli spazi aeromarittimi”, commissionata dal Ministero della Difesa tunisino nell’ambito degli accordi di cooperazione internazionale tra l’Italia e la Tunisia siglati nella primavera del 2015. Lunga 36 metri, la nave scuola può raggiungere una velocità massima di 17 nodi ed ospitare un equipaggio di 12 persone, più 18 sommozzatori; è dotata di una campana di immersione in grado di condurre i sub fino a 100 metri di profondità. L’unità viene impiegata principalmente per l’addestramento dei sommozzatori e delle unità d’élite presso il Centro di formazione subacquea di Zarzis.

Nel maggio 2011, l’Italia aveva fornito alla Garde Nationale quattro motovedette “Carabinieri” classe 700 (18 tonnellate di dislocamento), realizzate a Gaeta dai Cantieri Navali del Golfo. Tra il 2009 e il 2011 erano stati consegnati ai militari tunisini anche due imbarcazioni Classe 500, 13 sistemi radar di pattugliamento e 38 motori marini.

Antonio Mazzeo
amazzeo61@gmail.com
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Fiori d’arancio a Eswatini: una figlia dell’ex presidente sudafricano sarà la 16esima moglie del re

Africa ExPress
Mbabane, 8 settembre 2024

L’amore non conosce età. La 21enne Nomcebo, una delle figlie di Jacob Zuma, ex presidente sudafricano, si è innamorata pazzamente di Mswati III, re di Eswatini (ex Swaziland), che di anni ne ha 56. E pare che il trasporto amoroso sia corrisposto, tant’è vero che i due piccioncini hanno annunciato il loro fidanzamento ufficiale in occasione dell’annuale Reed dance festival. La ragazza dovrebbe dunque diventare la 16esima moglie del monarca.

Nomcebo, la 21enne figlia di Zuma, diventerà la 16esima moglie del monarca di Eswatini

Durante il festival si esibiscono centinaia di ragazze, spesso in topless, davanti alla famiglia reale. Una specie di sfilata delle “più belle del Paese”, che permette al re Mswati III, l’unico monarca assoluto dell’Africa ancora al potere, di scegliere ogni anno una nuova consorte o concubina. La manifestazione dura 8 giorni e è considerato l’evento dell’anno nel piccolo regno.

Nomcebo, la cui madre, Nonkululeko Mhlongo, è fidanzata da una vita con Jacob Zuma, nell’ultimo giorno della cerimonia, che si è tenuta lunedì scorso al palazzo reale, era vestita con i colori vivaci del regno di Eswatini

Il portavoce del regno, Alpheous Nxumalo, ha respinto fermamente qualsiasi insinuazione che il matrimonio tra il re e la figlia di Zuma possa essere visto come un’alleanza politica. Anzi, ci sono forti legami tradizionali tra Eswatini e la monarchia zulu del Sudafrica, il cui attuale re, Misuzulu ka Zwelithini, è nipote di Mswati III.

Il re è nato nel 1968 a Manzini – la città più importante della piccola nazione (la capitale è Mbabane) – situata tra il Mozambico e il Sudafrica – con il nome di Makhosetive. Il padre morì quando il giovane aveva solo quattordici anni. Benché il vecchio monarca avesse avuto centoventiquattro mogli, solo sua madre è stata nominata regina. Fino alla sua maggiore età gli affari di Stato sono stati appunto affidati a lei, Ntombi Tfawla, mentre il futuro re terminava gli studi all’International College a Sherborne in Gran Bretagna. E’ stato incoronato nel 1986 all’età di diciotto anni.

Mswati III
Mswati III, re di eSwatini

In quanto monarca assoluto, governa solamente con decreti legge e non di rado viene criticato per il suo stile di vita sfarzoso, pur sapendo che gran parte della popolazione vive in miseria. Eswatini conta solamente un milione e duecentocinquantamila abitanti. Il reddito annuo pro capite supera di poco i quattromila dollari. Un Paese povero, e un terzo degli abitanti è affetto da infezione HIV. L’aspettativa di vita è di 61,5 anni.

Il monarca è stato criticato in passato per l’età delle sue mogli. Nel 2005 aveva scelto come sposa la diciassettenne Phindile Nkambule, pochi giorni dopo aver revocato il divieto di avere rapporti sessuali con ragazze di età inferiore ai 18 anni. Tale norma era stata istituita nel 2001, ufficialmente per contrastare  l’HIV/AIDS. Due mesi dopo aver abrogato la legge, il re si era auto multato con una mucca, avendo sposato una minorenne, la sua nona moglie.

Non tutti matrimoni del re, che ha decine di figli, sono andati a buon fine. Alcune mogli sono state espulse dal Paese per presunto adulterio, un’altra si è addirittura suicidata.

Anche l’ultima futura sposa del re proviene da una grande famiglia poligama. Jacob Zuma, 82 anni, si è sposato sei volte e attualmente ha quattro mogli e più di 20 figli.

Zuma è stato presidente del Sudafrica dal 2009 al 2018. E’ stato costretto alle dimissioni dal suo stesso partito, l’African National Congress, dopo una serie di accuse di corruzione. L’astuto politico è stato poi la sorpresa delle elezioni del Paese che si sono svolte all’inizio di quest’anno: il suo nuovo partito, uMkhonto we Sizwe, è arrivato terzo, con il 14,6 per cento delle preferenze.

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Ondata di omicidi senza precedenti sconvolge il Sudafrica

Dal Nostro Inviato Speciale
Elena Gazzano
Città del Capo, settembre 2024

Il Sudafrica è intrappolato in una crisi che nessuna nazione dovrebbe conoscere in tempi di pace: un’epidemia di omicidi fuori da ogni controllo. In soli tre mesi (aprile-giugno), quasi 6.200 persone sono state uccise, un dato che non solo sconvolge, ma getta un’ombra oscura sulla nazione, rivelando una realtà di violenza straziante e pervasiva.

Sudafrica: guerra contro le gang

Sebbene vi sia stata una lieve diminuzione degli omicidi rispetto all’anno precedente a livello nazionale, in quattro delle nove province sudafricane è stato registrato un aumento. In particolare, nel KwaZulu-Natal si consumano quasi un quarto degli omicidi complessivi, seguito dalle province di Gauteng e Western Cape, entrambe caratterizzate da livelli di violenza che sembrano inarrestabili e sempre più intensi.

Diversi fattori contribuiscono a questa situazione. La circolazione di armi da fuoco non controllata gioca un ruolo cruciale. Molte delle armi sequestrate erano scomparse dalle stazioni di polizia nei mesi precedenti ad aprile per poi ricomparire nelle mani delle gang. Povertà diffusa e un sistema di giustizia che fatica a gestire il sempre crescente tasso di criminalità, complicano ulteriormente la situazione. Il Sudafrica presenta uno dei tassi di omicidi per abitante più alti al mondo.

L’aumento degli omicidi di donne e bambini rappresenta un altro aspetto preoccupante della crisi. Nel corso dei tre mesi analizzati, sono state uccise quasi mille donne, con un aumento del 7,9 per cento rispetto all’anno precedente. Inoltre, oltre 300 bambini hanno perso la vita, con un incremento del 7,2 per cento.

Donne e bambini sono le prime vittime degli omicidi in Sudafrica

La paura della violenza è una realtà quotidiana per milioni di sudafricani; ogni rumore nella notte potrebbe significare la fine. Secondo una testimonianza di Mitchells Plain, operatrice comunitaria, i residenti vivono nel timore di essere coinvolti in sparatorie tra bande, anche durante attività quotidiane, come uscire di casa o portare i bambini a giocare nei parchi.

In Sudafrica le gang stanno rapidamente espandendo il loro potere, reclutando nuovi membri e rifornendosi di armi in modo incontrollato. Preoccupazioni sono state sollevate riguardo a possibili legami tra queste bande e membri corrotti delle forze dell’ordine e del sistema giudiziario, il che potrebbe spiegare la facilità con cui le gang continuano a ottenere risorse e armi.

Le autorità e le forze dell’ordine sono state sollecitate a implementare misure più efficaci per contrastare la criminalità e disarmare i gruppi illegali, con l’obiettivo di smantellare le reti di traffico di droga e ripristinare la fiducia nella società. Un intervento necessario per affrontare i problemi della crescente insicurezza.

Alcune comunità di Città del Capo hanno proposto il coinvolgimento delle Forze Armate Sudafricane (SANDF) per confiscare armi illegali e ristabilire l’ordine nelle aree particolarmente colpite dalla criminalità. Tale operazione dovrebbe essere indipendente dalle forze di polizia locali, ritenute da alcuni come non sufficientemente efficaci a causa di presunti casi di corruzione.

I dati relativi agli omicidi nel Paese vengono utilizzati per evidenziare una situazione di crisi in corso. La gestione della sicurezza richiede misure che affrontino direttamente le cause principali del problema. Il rischio, senza interventi mirati, è quello di un aumento dell’insicurezza e dell’instabilità sociale.

Il Sudafrica, che in passato ha affrontato sfide significative, si trova ora di fronte alla necessità di tutelare i propri cittadini e garantire loro una maggiore sicurezza.

Mentre se il Sudafrica affronta un’ondata di omicidi di proporzioni devastanti, è utile considerare la situazione in Italia per comprendere le diverse sfide legate alla sicurezza. Dal 1 gennaio al 9 giugno 2024, in Italia sono stati registrati 113 omicidi, di cui 37 vittime sono donne. Questi dati sono stati forniti dal ministero degli Interni, Dipartimento della Pubblica Sicurezza, Direzione Centrale della Polizia Criminale, Servizio Analisi Criminale.

Elena Gazzano
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La guerra infinita del Sudan: da oltre un anno la gente muore sotto le bombe e di fame

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
6 settembre 2024

In Sudan si sta consumando uno dei peggiori disastri umanitari a memoria d’uomo, quasi totalmente ignorato dalla comunità internazionale. L’attenzione del mondo è per lo più concentrata sugli altri due grandi conflitti in atto: Russia–Ucraina e Israele–Striscia di Gaza. Peccato, perché vent’anni fa, il mondo si era indignato per la guerra in Darfur. Una mobilitazione di massa aveva costretto governi e istituzioni internazionali a agire. Oggi guardiamo dall’altra parte, come se la sofferenza di questo popolo non ci riguardasse.

Crisi umanitaria in Sudan

A tutt’oggi non si vede uno spiraglio di pace all’orizzonte. La sanguinosa guerra, iniziata il 15 aprile 2023 tra i due generali, Mohamed Hamdan Dagalo “Hemetti”, leader delle Rapid Support Forces (RSF), e il de facto presidente e capo dell’esercito, Abdel Fattah Abdelrahman al-Burhan, ha costretto alla fuga quasi 11 milioni di persone. I morti non si contano più.

Entrambe le parti in causa hanno commesso abusi che potrebbero equivalere a crimini di guerra e le potenze mondiali devono inviare forze di pace e ampliare l’embargo sulle armi per proteggere i civili, ha dichiarato venerdì una missione di esperti su mandato delle Nazioni Unite.

Gli esperti in diritti umani, incaricati di indagare dalle Nazioni Unite, hanno chiesto l’invio di una “forza indipendente e imparziale” in Sudan e l’estensione dell’embargo sulle armi per proteggere i civili nell’escalation del conflitto. Secondo il team la situazione sta deteriorando di giorno in giorno.

Il gruppo, composto da tre esperti, nominato dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU nell’ottobre 2023, ha riportato le prove di attacchi aerei e bombardamenti  indiscriminati contro obiettivi civili, come scuole, ospedali e quant’altro.

Le RSF e le milizie alleate sono state accusate di aver commesso numerosi crimini contro l’umanità: omicidi, torture, schiavitù, stupri, schiavitù sessuale, abusi sessuali, persecuzioni su base etnica e di genere e sfollamenti forzati.

Gli esperti hanno anche chiesto di estendere l’embargo sulle armi dalla regione occidentale del Darfur all’intero Paese, sottolineando che la guerra cesserà quando terminerà il flusso di armi. Il team non ha fatto menzione dei Paesi che potrebbero essere complici dei crimini commessi sostenendo le parti in conflitto.

E’ risaputo che gli attori esterni in causa sono parecchi: EAU mandano munizioni e droni alle RSF, mentre Iran e Egitto armano SAF. Dal canto suo la Russia ha inviato i mercenari di Wagner e le forze speciali ucraine combattono accanto all’esercito di Khartoum contro i soldati di ventura di Mosca.

Finora i vari tentativi messi in campo per raggiungere un cessate il fuoco sono tutti falliti. L’ultimo in ordine di tempo, l’iniziativa di pace fortemente voluta dagli Stati Uniti, che si è tenuta a Ginevra (Svizzera) il mese scorso. Malgrado le pressioni esercitate dalla comunità internazionale, al-Burhan si è rifiutato di inviare una delegazione, mentre Hemetti – ex capo dei janjaweed – ha inviato una rappresentanza delle RFS.

Le autorità di Khartoum hanno contestato la presenza degli EAU, che – secondo loro – sostengono le RFS. Inoltre non hanno visto di buon grado che l’invito al convegno di Ginevra sia stato inviato alle forze armate sudanesi (SAF) e non al Consiglio sovrano.

Invece di annullare la conferenza, sono proseguiti i colloqui diplomatici con gli altri ospiti (Arabia Saudita e Svizzera) e gli osservatori (Egitto, Emirati Arabi Uniti, Nazioni Unite, Unione Africana).

Alla fine del meeting, il rappresentante di Washington per il Sudan, Tom Periello, ha annunciato la formazione del gruppo Aligned for Advancing Lifesaving and Peace in Sudan (ALPS), il cui fine è quello a ampliare l’accesso alle rotte umanitarie. L’iniziativa si concentra sulla creazione di un’azione internazionale congiunta per portare aiuti nei luoghi prioritari della catastrofe umanitaria che si sta consumando in Sudan.

Secondo Periello, grazie a questa iniziativa sono stati riaperti  il valico di Adré lungo il confine con il Ciad e la strada di Dabbah che parte da Port Sudan per permettere ai convogli che trasportano beni di prima necessità a raggiungere la popolazione affamata. Inoltre le RSF hanno promesso di applicare un codice di condotta tra i suoi combattenti.

Camion carichi di aiuti umanitari attraversano nuovamente il valico di Adré

Intanto la guerra continua. Oltre la metà della popolazione è allo stremo e in alcune zone la mancanza di cibo uccide quanto bombe e pallottole. La fame è un’arma da guerra, antica quanto il mondo.

Pochi giorni fa il vice amministratore di USAID (Agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo Internazionale), Isobel Coleman,  ha invitato la comunità internazionale e i membri della diaspora sudanese a intensificare gli sforzi per sostenere il popolo sudanese:  “Non basta aumentare l’assistenza umanitaria, bisogna assolutamente far pressione ma anche per porre fine a questo violento conflitto una volta per tutte”.

Martedì è stato lanciato un altro appello alla comunità internazionale dal Consiglio Norvegese per i Rifugiati (NRC) e il Mercy Corps (un’organizzazione globale non governativa di aiuto umanitario): “Bisogna affrontare la terribile crisi della fame in Sudan”.

“Il silenzio è assordante. Mentre le persone muoiono di fame ci si concentra sui dibattiti semantici e definizioni legali”, ha sottolineato Mathilde Vu, portavoce di NRC ai reporter di Dabanga News. Eppure il ministro dell’Agricoltura sudanese, Abubakr El Bishri, nega qualsiasi segnale di carestia nel suo Paese. Ha persino respinto tutti i rapporti dell’ONU e di altre organizzazioni internazionali. Secondo il ministro tutti discorsi sulla carestia sono volti a far riaprire le frontiere con il solo scopo per contrabbandare armi e equipaggiamento militare per i ribelli e per far entrare forze straniere”.

“Le risorse ci sono, l’unico problema è il trasporto, vista l’insicurezza che vige in tutto il Paese, in particolare nelle aree controllate dalle RSF”, ha poi aggiunto El Bishri.

Cornelia I. Toelgyes
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SUDAN: altri articoli li trovate QUI

Uganda: Bobi Wine, oppositore del regime, lascia l’ospedale dopo assalto della polizia

Africa ExPress
5 settembre 2024

Robert Kyagulanyi, in arte Bobi Wine, maggiore oppositore di Yoweni Museveni, presidente dell’Uganda dal 1986, già in passato è stato spesso soggetto a intimidazioni da parte del regime. Secondo quanto riferisce il partito dell’ex cantante, The National Unity Platform (NUP), Wine sarebbe stato ferito due giorni fa da una granata lacrimogena dalla polizia. Inizialmente circolava voce che gli agenti delle forze dell’ordine gli avessero addirittura sparato.

Uganda: Bobo Wine ferito

Sta di fatto che Wine è stato trasportato immediatamente all’ospedale per ricevere le cure necessarie. Il sindaco di Kampala, Erias Lukwago, ha poi riferito a AFP nella serata di mercoledì che il 42enne oppositore è stato sottoposto a un intervento chirurgico per rimuovere alcuni frammenti della granata lacrimogena. “Poco fa è stato dimesso dall’ospedale”, ha poi aggiunto.

George Musisi, l’avvocato di Wine, ha spiegato che il suo cliente è stato ferito quando la polizia ha sparato una bomboletta di gas mentre si stava recando a un incontro con i suoi sostenitori a Bulindo, città che si trova una ventina di chilometri dalla capitale.

Il leader di NUP, poco prima di arrivare a destinazione, ha voluto procedere a piedi con i suoi supporter per raggiungere la città, malgrado il divieto della polizia. Di conseguenza sono intervenuti gli agenti e è nata una breve colluttazione tra le parti in causa.

Ben diversa la versione della polizia, che in un breve comunicato ha affermato: “Gli agenti presenti sul posto hanno riferito che il leader dell’opposizione è inciampato salendo in auto. Sarà comunque aperta una inchiesta per chiarire l’intera faccenda”.

Il portavoce del NUP, Joel Ssenyonyi, ha poi dichiarato che le radiografie hanno evidenziato alcuni pezzettini di un candelotto lacrimogeno conficcati nella gamba di Bobi Wine. I medici di Nsambya Hospital in Kampala hanno confermato ai giornalisti che Wine dovrà essere sottoposto a un intervento chirurgico per rimuovere alcuni frammenti.

Bobi Wine è stato dimesso dall’ospedale

Uganda Radio Network ha riferito che Ssenyonyi ha chiesto che Wine fosse dimesso dall’ospedale perché, secondo lui, da mercoledì sera agenti in abiti civili avrebbero cercato di accedere alla stanza del paziente.

Bobi Wine è stato eletto per la prima volta in Parlamento nel 2017. Si è candidato poi alle presidenziali del gennaio 2021, vinte da Museveni, al potere da quasi 40 anni.

Il leader di NUP è molto popolare tra i giovani ed è stato arrestato e malmenato numerose volte dalla polizia, ben nota per le persecuzioni contro gli oppositori politici del presidente.

Africa ExPress
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https://www.africa-express.info/2021/01/16/uganda-museveni-ho-vinto-e-bobi-wine-denuncia-brogli-e-violenze/

https://www.africa-express.info/2021/01/20/kampala-accusa-ambasciatrice-usa-di-sovversione-perche-ha-voluto-incontrare-wine/

Pugno di ferro in Uganda: la polizia vieta manifestazione contro la corruzione, e arresta oltre 40 dimostranti

Israele: mille modi per far cadere il governo Netanyahu

 

Speciale per Africa ExPress
Alessandra Fava
4 settembre 2024

Per far cadere il governo Netanyhau basta che si dimettano una trentina di parlamentari dell’opposizione nella Knesset. Lo scrive il quotidiano Haaretz in un commento in cui si legge anche che “le uniche forme di opposizione recenti sono state le manifestazioni di massa contro le riforme costituzionali e questo giornale” e che l’opposizione in Parlamento è debole e frammentata.

Dopo il ritrovamento di altri sei ostaggi morti, infuriano le polemiche e le manifestazioni in diverse città israeliane hanno ormai scadenza quotidiana e durano ore e ore. Secondo il governo, gli ultimi sei ostaggi, tra cui un cittadino statunitense, sono stati uccisi da Hamas, mentre Hamas dice che è stato l’esercito israeliano a farli fuori nell’ennesima incursione a Gaza. L’Onu chiede un’indagine indipendente.

Intanto Netanyhau ha indetto una conferenza stampa lunedì per dire che è dispiaciuto della morte degli ultimi ostaggi, ma che il suo piano sul corridoio Philadelphi va avanti e che la liberazione degli ostaggi fa rima con lo sdradicamento di Hamas: le stesse parole dal 7 ottobre, con bare di ostaggi che continuano a tornare nel Paese. Il governo insomma non ha intenzione di cambiare idea sull’occupazione permanente del confine tra Egitto e Gaza. Il premier dice che solo così si tagliano le forniture ad Hamas, celando le risorse e i milioni transitati per Israele negli anni direzione Gaza.

Il premier israeliano Netanyhau in conferenza stampa lunedì 2 settembre illustra l’occupazione del confine tra Gaza ed Egitto

La questione delle trattative interrotte o inceppate inquieta parecchi governi. Anche il ministro degli esteri britannico David Lammy col suo governo ha deciso di sospendere 30 delle 350 licenze di esportazione di armi verso Israele per il fatto che possono essere usate per violazione del diritto internazionale.

Critiche piovono anche dagli americani, che continuano a finanziare uno Stato che non ha più i soldi neppure per pagare il contratto agli insegnanti delle scuole (è stato proposto al ministro dell’Istruzione un pagamento rateizzato fino al 2027 invece del contratto annuale firmato coi sindacati degli insegnanti a settembre 2023, prima dell’attentato).

Per la Francia, uno dei primi esportatori di armi al mondo, il quotidiano online Mediapart ha avuto accesso e pubblica un rapporto del Ministero della Difesa al Parlamento sulla vendita di armi del governo Macron nel 2023 dal quale si deduce che a Israele la Francia ha venduto armi per 30 milioni di euro. Il giornale non è riuscito ad sapere dal Ministero della Difesa se la vendita è avvenuta prima o dopo il 7 ottobre, particolare non secondario, visto che le armi vendute dovrebbero essere solo strumento di difesa.

A Gaza la situazione è oltre ogni limite: secondo l’ultimo report delle Nazioni Unite, sono stati evacuati e spostati di qui e di là il 90 per cento dei gazawi e alcuni di loro diverse volte. Solo ad agosto l’esercito israeliano ha dato 12 ordini di evacuazione, in media uno ogni due giorni, forzando 250 mila persone a muoversi per l’ennesima volta. Ogni spostamento include portare meno cose possibile e trovarsi in un’area sovraffollata, senza acqua e senza medicine.

A Deir al Balah l’acqua potabile rimasta è il 30 per cento rispetto all’inizio della guerra, gli impianti di desalinizzazione e l’acquedotto sono in tilt. Epatite A, polio e infezioni sono relative anche alla mancanza di cloro per ripulire l’acqua. In questo quadro le vaccinazioni in corso in una parte della Striscia contro la polio dei bambini diventano quasi una beffa.

Intanto le famiglie degli ostaggi (101 rimasti vivi) continuano le proteste. L’ultima contestazione riguarda un evento organizzato dal governo per il 7 ottobre. Un centinaio di ex-ostaggi e familiari hanno scritto al ministro dei trasporti Miri Regev che sta organizzando la cerimonia a Ofakim nel sud del Paese, che i nomi dei loro cari e le loro foto non possono essere utilizzati: “siamo contrari all’uso cinico dei nomi degli ostaggi che lo Stato ha abbandonato per quasi un anno”.

Regev ha risposto che la cerimonia avrà luogo e si prevede che siano proiettati film sull’assalto di Hamas. In un editoriale su Haaretz, Gideon Levy scrive che Israele “è la nazione delle cerimonie” e che c’è una disputa in corso su quali cantanti andranno di qua o di là. “Era parecchio tempo che non si discuteva con toni così accessi – rimarca Levy – Per di più l’argomento è una cerimonia per una guerra che non è ancora finita. Inoltre il 7 ottobre non ha bisogno di essere ricordato, è presente ogni momento col pensiero agli ostaggi morti e vivi”.

Alessandra Fava
alessandrafava2015@libero.it
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Qui gli articoli sulla Guerra a Gaza pubblicati da Africa Express

 

 

 

Paralimpiadi 2024: la disabilità delle atlete incoraggia le donne africane

Dal Nostro Corrispondente Sportivo
Costantino Muscau
3 settembre 2024

Le nostre disabilità siano la forza per le donne africane”. Sottoposte a discriminazioni nello sport e nella vita familiare. È il messaggio che viene dalle atlete nere che hanno conquistato l’oro ai Giochi Paralimpici di Parigi 2024, edizione numero XVII (28 agosto-8 settembre).

Lo ha detto a chiare lettere la tunisina Raoua Tlili, 34 anni, vincitrice della gara di peso (nella categoria F41, quella di bassa statura), con un lancio di 10,40 metri.

La vittoria è valsa alla Tunisia e al mondo arabo la prima medaglia d’oro alle Paralimpiadi francesi. “Il messaggio che mando alle donne tunisine, alle donne arabe e alle donne in generale è di credere nelle loro capacità e potenzialità – ha dichiarato l’atleta a www.paralympic.org  – e di cercare di trasformare la debolezza in forza, indipendentemente dal campo in cui eccellono”. Ed ecco, un esempio: Raoua, che è disabile, ha sfidato gli ostacoli della disabilità e ha ottenuto buoni risultati.

Tlili, alta 1,33 metri, è l’incarnazione della caparbietà, della volontà di non arrendersi, tanto che è diventata la tunisina più titolata nella storia dei Giochi paralimpici e indicata, dalle Nazioni Unite, modello da seguire.

La tunisina Raoua Tilli, medaglia d’oro lancio pesi

Questa è stata la sua quarta vittoria nella categoria F41 alle Paralimpiadi. Le altre medaglie d’oro (a cui ha…dedicato il colore dei suoi capelli!) nel getto del peso sono state Londra, Rio e Tokio. “Non è facile per una persona di bassa statura e della mia età – ha aggiunto – soprattutto se gareggi contro avversarie che hanno 22, 25 anni. Devi avere una personalità forte e aggrapparti ai tuoi sogni perché fallirai molte volte nella tua vita, ma devi avere pazienza e determinazione per superarli. Afferrali saldamente, tienili bene, evita la disperazione, e poi gradualmente avrai successo>.

Il coraggio di provarci ha scritto altre “storie controvento”. Soprattutto da parte delle donne. Non è un caso se delle 8 medaglie d’oro conquistate dall’Africa in questa edizione francese (almeno fino al momento in cui scriviamo) 5 sono femminili. “Un successo particolarmente gratificante – ha scritto Ethiopian Observer – è quello di Tigista Gezahagn Menigstu, 24 anni, perché a differenza delle Olimpiadi , l’Etiopia non è abituata a brillare ai Giochi Paralimpici”.

Tigista, infatti, ipovedente, 3 anni fa a Tokyo aveva fatto la storia come la prima donna etiope in assoluto a vincere una medaglia al concorso. Sabato scorso allo Stade de France, davanti a un foltissimo pubblico, ha concesso il bis: ha assicurato il primo prestigioso podio al suo Paese nei 1500 metri corsi con un tempo impressionante di 4:22.39.

Lahja Ishitile, vince l’oro nei 400 m per la Namibia

Dalla Namibia viene un terzo oro femminile, quello di Lahja Ishitile, 27 anni, sui 400 metri, che ha dato l’occasione per sottolineare la differenza di trattamento tra “abili e disabili” e la necessità di scardinare discriminazioni e pregiudizi. Lahja è una studentessa dell’Università della Namibia, ha affermato il suo allenatore Hamhola Letu intervistato da The Namibian, “ha una storia interessante da raccontare, fatta di determinazione e perseveranza: una vera gladiatrice e coraggiosa figlia della terra”.

La giovane, infatti, cominciò a perdere la vista a 7 anni e divenne completamente non vedente a 11. Dopo l’iniziale disperazione della mamma (“piangeva giorno e notte”) e sua (“vivere al buio è terribile”) i familiari, i medici la scuola Eluwa Special School in Ongwediva le assicurarono tutto il supporto possibile. Lahja cominciò a gareggiare fino a diventare una campionessa nella categoria con la guida. E a diventare la seconda namibiana, dopo la pioniera Johanna Benson, a salire sul gradino più alto del podio ai Giochi Paralimpici.  A Parigi, lo scorso anno, insieme alla sua fidata guida Sem Shimanda, battè il record africano tre volte e si aggiudicò la medaglia d’argento ai Campionati mondiali di atletica paralimpica.

Hamhola ha approfittato del successo olimpico per chiedere una migliore allocazione delle risorse sportive per disabili, per garantire agli atleti un’ adeguata assistenza.

“Rispettiamo, onoriamo e premiamo loro e le loro strutture di supporto – ha tuonato Hamola -. Come dice il proverbio, ‘alle Olimpiadi si creano gli eroi e alle Paralimpiadi gli eroi arrivano… è ingiusto che gli atleti paralimpici siano trattati come cittadini di seconda categoria e sopravvivano con le briciole. E’ ora che si dia il dovuto rispetto alle nostre leggende paralimpiche. Il paragone con i compensi degli altri è stridente. Chi ha ricevuto di più e chi noccioline. Gli “abili” trovano lavoro grazie allo sport, le nostre devono implorare un’occupazione. Le ricordiamo solo ogni quattro anni”.

Il mal-trattamento delle donne, però, non si limita ai riconoscimenti pubblici o monetari, come ricorda la tragedia avvenuta in Kenya durante questi giochi (para)olimpici.

L’ugandese Rebecca Chepetgei, ridotta in fin di vita in Kenya dal compagno

La fondista ugandese, che vive in Kenya, Rebecca Chepetgei, 33 anni, è gravissima nell’ospedale “Moi Teaching e Referral” di Eldoret, nella contea Uasin Gishu (ovest del Kenya), con l’80 per cento di ustioni dopo essere stata cosparsa di benzina e bruciata dal partner, Dickson Ndiema Marangach.

Rebecca è un ufficiale dell’Uganda People’s Defence Force e detiene il record ugandese della maratona femminile (2:22:47), stabilito ad Abu Dhabi il 17 dicembre 2022. Appena tre settimane fa aveva partecipato alla maratona delle Olimpiadi di Parigi con le compagne Stella Chesang e Mercyline Chelangat e si era classificata al 44 posto.

Domenica scorsa, nella contea di Trans Nzoia, (dove Rebecca aveva comprato una casa per potersi allenare), al ritorno dalla chiesa, nel primo pomeriggio, si è trovata di fronte il compagno. Aveva una tanica di 5 litri di carburante che ha versato sulla donna, sui figli e, involontariamente, su sé stesso. Quando ha acceso un fiammifero, ha preso fuoco pure lui. E’ finito nello stesso ospedale, ma non in gravi condizioni. Non sono state fornite notizie sui figli.

Questa folle aggressione è l’ultimo orribile episodio di violenza di genere nel Paese

Un rapporto dell’Ufficio nazionale di statistica del Kenya, pubblicato nel gennaio 2023, ha rilevato che “il 34 percento delle donne in Kenya ha subito violenza fisica dall’età di 15 anni. Le donne sposate hanno molte più probabilità di aver subito violenza: il 41 per cento di esse ha denunciato episodi di violenza, rispetto al 20 percento delle non maritate”.

Un sortilegio sembra incombere su quella parte del Kenya dove nascono, crescono e si affermano i grandi del fondo e del mezzofondo. Nel 2023 aveva avuto una fine violenta il mezzofondista ugandese Benjamin Kiplagat, 34 anni. Era stato trovato senza vita, nella notte di fine anno, nell’auto del fratello a Eldoret con ferite mortali da coltello.

Kiplagat era nato in Kenya, ma aveva gareggiato per l’Uganda nei 3000 siepi alle Olimpiadi e ai Mondiali.

Due anni fa era stata strangolata a Iten (la patria dei campioni, appunto), Damaris Mutua Muthee, 28 anni, che correva per il Bahrein. L’anno prima era stata uccisa a coltellate, sempre in casa e sempre a Iten, un’altra celebre runner, Agnes Tirop, 25 anni. Sotto accusa e sotto processo il marito separato di Tirop, Emmanuel Ibrahim Rotich.

Costantino Muscau
muskost@gmail.com
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Madagascar: entra in vigore la castrazione chirurgica per chi stupra un bambino

Africa ExPress
2 settembre 2024

Tempi bui per gli stupratori sui minori. La scorsa settimana il governo del Madagascar ha fatto sapere di aver emanato un decreto che impone la castrazione chirurgica ai criminali rei di stupro su bambini.

Madagascar: governo emana decreto per castrazione chirurgica per stupratori sui minori

Lo Stato insulare, il cui Parlamento lo scorso febbraio ha adottato il nuovo testo legislativo molto controverso, diventa così uno dei pochi Paesi al mondo ad autorizzare l’orchiectomia bilaterale (asportazione chirurgica di entrambi i testicoli). Tuttavia, il decreto attuativo, emanato molto discretamente martedì 27 agosto, non è ancora stato reso pubblico.

La violenza sui minori è una vera e propria piaga nel Paese. A febbraio, quando la nuova legge è stata approvata dal Parlamento di Antananarivo, il ministro della Giustizia aveva sottolineato: “Abbiamo dovuto prendere questa decisione per lottare contro la recrudescenza di questo crimine. Basti pensare che nel solo mese di gennaio 2024 sono stati denunciati ben 133 stupri e oltre 600 in tutto il 2023”. Cifre forse anche sottostimate, non tutti gli stupri vengono segnalati alle autorità.

Va poi sottolineato che l’aborto non è autorizzato, è considerato un crimine. Inimmaginabili le pene di una ragazzina rimasta incinta dopo una violenza sessuale. Ora le autorità sperano che con la castrazione chirurgica si possa mettere un freno a questo terribile crimine. In effetti, potrebbe davvero avere un certo impatto su questi orchi, tenendo conto che nell’uso e costume malgascio al momento del funerale la salma deve essere integra e non mutilata.

Finora non sono ancora stati chiariti alcuni punti sulla castrazione chirurgica: non è dato sapere quale struttura sarà incaricata dell’intervento e chi pagherà il conto dell’operazione e della degenza. E ancora, in che modo il sistema giudiziario deciderà chi saranno i primi a doversi sottoporre all’esecuzione della pena inflitta. Domande che troveranno risposte solamente con la pubblicazione del testo da parte del governo. Va inoltre precisato che il Parlamento si era espresso solamente per l’orchiectomia bilaterale, in quanto la castrazione chimica era stata giudicata anticostituzionale.

La nuova legge è ancora nell’occhio del ciclone e sta dividendo l’opinione pubblica e gli esperti di tutto il mondo, sia per la sua applicazione dal punto di vista etico, sia per la sua efficacia.

Nell’isola Stato sono contrari persino molte ONG in difesa dei diritti delle vittime di stupro, nonché la Conferenza episcopale malgascia. Anche Amnesty International ritiene la nuova legge disumana e crudele, incompatibile con le norme internazionali sui diritti umani. In tal senso si era espressa anche Laure Delattre-Burger, ambasciatrice dell’Unione Europea accreditata a Antananarivo. Critica non apprezzata dal governo e ritenuta un’interferenza negli affari interni. E per questo motivo il ministro degli Esteri malgascio aveva chiesto a Bruxelles la sostituzione della rappresentante diplomatica.

Presunti colpevoli attendono la loro sentenza nelle prigioni in Madagascar

Intanto i presunti colpevoli sono in attesa di sentenza nelle carceri malgasce.

Africa ExPress
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