Dalla Nostra Corrispondente Simona Fossati Nairobi, 22 settembre 2024
A metà agosto il ministero dell’Ambiente, Foreste e Turismo di Windhoek ha dato il via libera alla caccia di 700 capi di bestiame che vivono nei parchi nazionali, per far fronte a una siccità senza precedenti che ha causato una grave penuria di cibo. Nell’elenco degli animali in questione ci sono ippopotami, gnu, impala, zebre e anche 83 elefanti e le carni della fauna selvatica abbattuta potranno poi essere distribuite alla popolazione maggiormente colpita dalla calamità.
Con l’uccisione autorizzata diun tale numero di capi selvatici, il governo di Windhoeck vuole anche ridurre la pressione sui pascoli e sulla disponibilità di acqua nei parchi nazionali. La mancanza di cibo porta gli animali a uscire dalle riserve e invadere i campi coltivati, causando così un antagonismo per la sopravvivenza di entrambi.
Tali giustificazioni non sono state ben accettate da tutti. Infatti, una ONG locale, Elephant Human Relation Aid ha chiesto di trovare una soluzione alternativa al problema e ha lanciato una petizione in tal senso.
L’abbattimento degli elefanti in Namibia è stato condannato dagli ambientalisti e dal gruppo animalista PETA (People for the Ethical Treatment of Animals) come “miope, crudele e inefficace”.
Ma secondo il governo, l’uccisione di 83 elefanti, rappresenterebbe di fatto solo una minima parte dei 20.000 stimati esemplari presenti nel Paese.
Ora anche il governo di Harare ha autorizzato il massacro di 200 elefanti a Hwange, il più grande parco nazionale del Paese e area di maggior conflitto “uomo-elefante”. Nella riserva vivono 65mila pachidermi, e, secondo Parks and Wildlife Authority dello Zimbabwe, quattro volte la sua effettiva capacità.
Una decina di giorni fa il ministro dell’Ambiente, Nqobizitha Mangaliso Ndlovu, ha dichiarato in Parlamento che il Paese “ospita più elefanti del necessario”. Come Windhoeck, anche Harare ritiene che il provvedimento sia necessario, vista la difficile convivenza tra i pachidermi e la popolazione residente.
Intanto lo Zimbabwe, come lo Zambia e il Malawi, ha dichiarato lo stato di calamità per la siccità. Le autorità stimano che circa sei milioni di zimbabwani avranno bisogno di aiuti alimentari da novembre a marzo. La carne di elefante è quindi destinata anche all’alimentazione della popolazione.
L’idea di cacciare gli elefanti per alimentare i residenti in difficoltà è stata criticata da alcuni, anche perché ritengono che gli animali siano un’importante attrazione per i turisti e dunque entrate importanti per il Paese.
Va poi ricordato che la primavera scorsa il Botswana aveva minacciato di inviare 20mila elefanti in Germania dopo la critica mossa da Berlino sulla caccia ai pachidermi e l’esportazione di trofei. Mokgweetsi Masisi, presidente del Paese aveva giustificato tale misura per regolamentare e ridurre la forte presenza di questi mammiferi, che hanno raggiunto gli oltre 130.000 esemplari.
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Speciale per Africa ExPress Cornelia I. Toelgyes
20 settembre 2024
Sabato scorso un tribunale militare della Repubblica Democratica del Congo ha condannato 37 persone alla pena capitale. Su 51 imputati solo 14 sono stati assolti, mentre gli altri sono stati ritenuti colpevoli di aver partecipato a un tentativo di colpo di Stato a Kinshasa lo scorso 19 maggio.
Gran parte dei condannati a morte sono congolesi, ma tra loro ci sono anche tre cittadini statunitensi, un canadese, un inglese e un belga. Il verdetto è stato letto dal maggiore Freddy Ehuma, trasmesso in diretta TV: “La Corte emette la più severa delle sentenze: pena di morte per associazione a delinquere, pena di morte per attentato, pena di morte per terrorismo”.
La pena capitale, abolita de facto nel 2003 in Congo-K, è stata ripristinata a marzo di quest’anno e finora sono state emesse 130 condanne alla pena di morte, ma nessuna è stata eseguita fino ad oggi. Secondo Espoir Masamanki Iziri, dell’Università di Kinshasa, tale verdetto è una risposta al deterioramento della situazione nell’est della RDC, sconvolto da un conflitto con i ribelli del Movimento M23, supportati da uomini e attrezzature dall’esercito ruandese, come è stato dimostrato in diversi rapporti delle Nazioni Unite. Il gruppo armato prende il nome da un accordo firmato dal governo del Congo-K e da un’ex milizia filo-tutsi il 23 marzo 2009.
Tra i tre condannati statunitensi (tutti nati negli USA) c’è anche il figlio di Christian Malanga, ideatore del fallito golpe di maggio e ucciso quando ha tentato di entrare nel Palais de la Nation, Kinshasa. Il 21enne Marcel ha sostenuto di essere stato costretto dal proprio genitore a partecipare all’impresa. Tale versione è stata sostenuta anche da Brittney Sawye, madre del giovane, ma non così secondo diverse testimonianze. Anzi, il tribunale ha sostenuto che sarebbe proprio stato lui a convincere gli altri due americani a unirsi a loro.
L’amicizia tra Tyler Thomson Jr – un altro dei tre statunitensi condannati – e Marcel risale ai tempi del liceo. Erano anche membri della stessa squadra di football di Salt Lake City, Utah. Mentre la famiglia di Tyler era convinta che il proprio congiunto fosse in vacanza in RDC, lo hanno ritrovato sul banco degli accusati in uno dei processi più mediatici del Congo-K.
Subito dopo la lettura del verdetto, la famiglia ha dichiarato ai media americani: “Continuiamo a credere nell’innocenza di Tyler e perseguiremo tutte le possibili vie d’appello”.
Molti altri ragazzi, compagni della squadra sportiva, hanno dichiarato di essere stati contattati da Marcel Malanga, invitandoli a trascorrere una vacanza in famiglia in RDC, di costruire pozzi d’acqua nell’ambito del servizio civile. Altri ancora erano quasi tentati di recarsi nella ex colonia belga perché gli era stato offerto un lavoro nel settore “sicurezza”, per una ricompensa di 100.000 dollari.
Mentre il terzo americano, il 36enne, Benjamin Zalman-Polun, era partner in affari di Christian Malanga.
Il portavoce del dipartimento di Stato americano, Matthew Miller, ha dichiarato che l’ambasciata statunitense in RDC “continuerà a monitorare la situazione” e qualsiasi appello.
Jean-Jacques Wondo, esperto militare e in possesso della nazionalità belga, si era recato a Kinshasa a febbraio, dietro invito dell’allora capo di Agence National de Renseignements (ANR, servizi congolesi), il medico-colonnello Daniel Lusadisu Kiambi, dunque ben conosciuto dalle autorità del Paese.
Wondo si è diplomato all’ École Royale Militaire di Bruxelles, poi ha conseguito un master in criminologia presso l’Università di Liegi e ha in tasca anche un diploma post-laurea in scienze politiche presso la Libera Università di Bruxelles. E’ inoltre autore di numerosi libri e articoli sull’esercito congolese,
Lusadisu Kiambi, un medico che ha lavorato a lungo in un ospedale di Bruxelles, gli aveva chiesto di aiutarlo a riformare l’ANR, revisione richiesta del presidente Felix Tshisekedi.
Il Belgio non si rassegna alla pena inflitta al proprio connazionale, che la Corte militare ha ritenuto essere ideatore e autore intellettuale del mancato putsch.
Ilministero degli Esteri di Bruxelles non è intervenuto nel contesto per rispetto della separazione dei poteri e della sovranità di ciascuno Stato. Ma domenica scorsa, la ministra Hadja Lahbib, ha chiamato la sua omologa congolese, Thérèse Kayikwamba Wagner, per informarla di quanto sia preoccupato il suo governo per il verdetto emesso dal tribunale militare, sottolineando che il Belgio è assolutamente contrario alla pena di morte. Inoltre, durante il processo sarebbero state fornite poche prove di colpevolezza nei confronti del proprio connazionale. Una critica in modo nemmeno troppo velato al sistema giudiziario di Kinshasa per non aver rispettato il diritto alla difesa. Lunedì scorso il ministero ha poi convocato l’ambasciatore di Kinshasa accreditato a Bruxelles per protestare contro la condanna capitale del proprio connazionale.
Dall’arresto di Jean-Jacques Wondo sono già stati lanciati numerosi appelli dalla sua famiglia al Presidente congolese Félix Tshisekedi.
Sul cittadino inglese, un congolese naturalizzato, non sono disponibili informazioni ufficiali. Un portavoce dell’Ufficio degli Esteri, il Commonwealth e lo Sviluppo del Regno Unito ha dichiarato: “Stiamo fornendo assistenza consolare a un britannico detenuto nella RDC, siamo in contatto con le autorità locali e abbiamo presentato le nostre rimostranze sull’uso della pena di morte e continueremo a farlo”.
Anche del cittadinocanadese, un congolese di nascita, non si conoscono dettagli. Global Affairs Canada (agenzia di Ottawa che gestisce le relazioni diplomatiche e consolari) ha fatto sapere via email a CBC News di essere a conoscenza che un loro connazionale è stato condannato a morte nella Repubblica Democratica del Congo. I funzionari canadesi starebbero fornendo assistenza consolare.
In un comunicato stampa di sabato 14 settembre, l’organizzazione per i diritti umani La Voix des sans voix ha esortato le autorità a commutare in ergastolo la pena di morte, ritenuta disumana.
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La cronistoria dello scorso ottobre ha facilitato il lavoro di nazificazione portato avanti da Israele contro i palestinesi, ravvivando la memoria collettiva e tenendo vivo il trauma intergenerazionale dell’antisemitismo. È naturale che gli ebrei, sia in Israele che nella diaspora, cerchino ancora spiegazioni della violenza antisemita, negli scorci di storia.
Ma la memoria può alimentare anche la cecità. Il popolo ebraico occupa oggi una posizione unica nella memoria del mondo occidentale. Le sue sofferenze vengono messe in luce e tutelate giuridicamente, come se gli ebrei dovessero sempre essere soggetti a una legislazione speciale. Questo mentre lo Stato israeliano non onora il diritto internazionale radendo al suolo quartieri di Gaza e massacrando intere famiglie.
Gli abitanti di Gaza, non solo sono costretti a pagare per le azioni di Israele, ma anche, ancora una volta, pagano per i crimini di Hitler. E l’imperativo di invocare l’Olocausto è diventato la vera cupola di ferro ideologica di Israele, il suo scudo contro qualsiasi critica alle sue azioni.
Ma stiamo attenti. Nessuno si riprenderà dalla barbarie guidata dall’egoismo o dalla codardia. Ciò che accade in Palestina avviene oggi in un contesto di sopruso globalizzato. Accettare il massacro perpetrato dallo Stato di Israele significa prepararsi ad altre tragedie a venire, in un’inestinguibile corsa all’orrore guidata da mostri convinti che la forza sia l’unico potere.
La storia giudica severamente coloro che assumono il ruolo di meri osservatori quando si verificano grandi danni e ignora coloro che rimangono neutrali di fronte a crisi morali. Più che mai, la pace è essenziale. Va detto senza timore di discorsi di odio.
In un’epoca di sconfitta e smobilitazione, in cui le voci più estremiste sono amplificate dai media, vince il culto della forza, cortocircuitando ogni forma di empatia. Il razzismo, l’odio, il risentimento, il desiderio di vendetta non possono alimentare una guerra di liberazione. L’odio non può costituire un programma.
Netanyahu davvero crede di poter costringere i palestinesi a consegnare le armi o a rinunciare al loro ideale di uno Stato, bombardandoli fino alla sottomissione? Questo è già stato tentato, e più di una volta. Il risultato inevitabile è stato l’emergere di una nuova generazione di palestinesi ancora più forti. Perché non abbandonare Gaza e fuggire? Figli della Nakba, i palestinesi di Gaza sono in realtà prigionieri di un territorio che è stato tagliato fuori dal resto della Palestina. Ma è la terra delle loro vite.
Israele, invece, è sempre più incapace di cambiare rotta. Alla sua classe politica mancano l’immaginazione e la creatività necessarie per perseguire un accordo duraturo, per non parlare del senso di giustizia e della dignità dell’altro.
Lungi dal normalizzare lo Stato di Israele considerandolo uno Stato come gli altri – soggetto alle stesse regole di diritto internazionale degli Stati sovrani – il sostegno della Comunità Internazionale cade in una relazione malata che consiste nel rendere lo Stato ebraico – Lo Stato -. Una sorta di mostro geopolitico che ci asteniamo dal criticare.
Nulla spiega perché i Paesi che possono rivendicare un’influenza sulle autorità israeliane siano così assenti e rassegnati a un falso status quo. Gli anni di banalizzazione di una situazione inaccettabile hanno reso Gaza un territorio perduto dalla coscienza internazionale. Un giorno dovremo pagare il prezzo morale dell’inazione.
L’unico quadro che può salvare Israele e Palestina ed evitare una nuova Nakba – che è diventata una possibilità reale, mentre una nuova Shoah è solo un’allucinazione di origine traumatica – è una soluzione politica che garantisca ad entrambi i popoli uguali diritti di cittadinanza e permetta loro di vivere in libertà.
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Ho riesumato dal mio archivio questo articolo scritto nel maggio 1988, oggi più che mai attuale dopo l’attentato in Libano organizzato da Israele che ha fatto “saltare” circa tremila cercapersone con 11 morti, compresi parecchi civili.
EDITORIALE Massimo A. Alberizzi
maggio 1988
Le pietre lanciate dai giovani palestinesi contro l’esercito d’occupazione israeliano, stanno colpendo il segno molto più delle pallottole dei mitra sparati dai fedayn esperti e ben addestrati. Gerusalemme con la sua politica di repressione violenta si sta pian piano alienando le residue simpatie internazionali che ancora gli restano.
L’assassinio di Abu Jihad, a Tunisi il 16 aprile 1988, ha poi danneggiato gravemente l’immagine di Israele soprattutto quando si è saputo che anche i laburisti avevano appoggiato l’operazione del Mossad in terra tunisina.
Gli israeliani hanno una strana idea del terrorismo. Loro credono che terrorista sia solo chi piazza una bomba in un mercato (peraltro fu proprio l’Irgun* a inaugurare la stagione degli attentati in Medio Oriente). Considerano legittimo, invece, violare la sovranità di uno Stato per colpire i nemici. Applicano le regole bibliche del “dente per dente” alla perfezione. Anzi, l’hanno adeguata ai tempi, trasformandola nel più immediato “il fine che giustifica i mezzi”.
Certo, Israele si sente aggredita. E’ logico che i suoi governanti soffrono di una sindrome dell’accerchiamento. Meno facile e capire perché, invece di cercare una soluzione pacifica al conflitto che insanguina la regione, si richiudono su se stessi e sparino alla cieca. Una politica folle che si ritorce proprio contro chi l’ha ideata e voluta. L’assassinio di Abu Jihad per esempio, giova solo alla causa dei falchi palestinesi, a quelli che continuano a ripetere che con gli israeliani non si può avere dialogo, che lo Stato ebraico va distrutto.
Gerusalemme getta benzina sul fuoco della guerra e dà respiro ai più radicali dei suoi amici proprio mentre un lento processo di revisione sta portando la dirigenza dell’OLP verso posizioni meno intransigenti.
Degli anni ‘70 nessuno avrebbe immaginato che Arafat avrebbe potuto ammettere un esplicito riconoscimento di Israele. Oggi questa possibilità è assai concreta; i dirigenti palestinesi attendono da parte avversaria gesti distensivi che invece tardano. All’OLP che chiede un riconoscimento reciproco – il che mi pare logico giacché al tavolo da gioco siedono due avversari – viene risposto con un secco “no, con i terroristi non si tratta”, uno slogan che espresso in questo modo chiude qualunque prospettiva di pace.
Deludono anche i socialisti di Perez che quando accettano l’ipotesi di una conferenza di pace, limitano la partecipazione palestinese a una delegazione mista con i giordani che escluda tassativamente rappresentanti dell’OLP.
Volenti o nolenti, l’organizzazione di Arafat rappresenta la maggioranza dei palestinesi (e lo si è visto dal numero delle bandiere che spuntano quotidianamente durante le manifestazioni nei territori occupati). Una pace senza di essa e il raggiungibile e il solo proporla è una presa in giro.
Proviamo immaginare uno scenario nel quale al tavolo dei negoziati siedono tutti, tranne l’OLP. Come si fa a pensare che un eventuale accordo raggiunto posso trovare una reale applicazione senza l’approvazione della centrale palestinese le cui mani, al pari di quella israeliane, impugnano le leve della guerra?
C’è da chiedersi se Israele abbia mai perseguito seriamente progetti di pace. I suoi governanti credono di essere al di sopra delle regole che governano la convivenza civile. I benpensanti nostrani ci sarebbero certamente indignati se un comando di 007 sovietici avessero rapito in Italia che so io, un dissidente fuggito da Mosca per riportarlo in patria.
Nessuno invece ha protestato quando gli agenti del Mossad il 30 settembre 1986 hanno sequestrato a Roma il fisico Mordechai Vanunu e l’hanno ricondotto a Gerusalemme. L’idea che a Israele, poveretta, aggredita e accerchiata sia permesso tutto, francamente non ci convince. Anzi proprio per questo atteggiamento da gendarme che siamo schierati con i palestinesi e non con gli israeliani.
Esattamente come sempre abbiamo cercato di sostenere gli oppressi contro gli oppressori, i neri sudafricani contro il governo dell’apartheid, le derelitte popolazioni africane contro le dittature sanguinarie e dispotiche.
I sostenitori di Israele si permettono di lanciare contro chi osa criticare la politica di Gerusalemme un’accusa degna dei tempi oscuri e ormai passati: antisemitismo. Una parola che fa paura solo al pronunciarla.
È bene sgombrare una volta per tutte – e definitivamente – il campo da un simile imbroglio. Le critiche piovono su un governo, su una politica, su una filosofia non su un popolo o su una razza. Non è mai stato accusato di essere razzista anti-bianco chi condanna il regime sudafricano, né razzista anti-etiopico chi sostiene le legittime aspirazioni del popolo eritreo contro la sanguinaria dittatura di Addis Abeba, né infine razzista anti-tedesco chi è o è stato ferocemente contrario al nazismo. Che dire poi di quegli ebrei (e sono tanti!) Che puntano il dito accusatore contro il governo israeliano: sono per questo anch’essi antisemiti? No, chi rivolge queste accuse ai suoi critici sa di essere a corto di argomenti, sa di sbagliare ma, chissà perché, intende perseverare nell’errore.
JNIM (Gruppo di sostegno dell’Islam e dei musulmani), ha rivendicato due attacchi a Bamako questa mattina.
Alle 05.00 ora locale si sono sentiti i primi spari nella capitale maliana, dove i jihadsisti hanno assalito contemporaneamente: la scuola di gendarmeria nel quartiere Faladié, dove la sparatoria si è prolungata per tre ore e l’aeroporto Bamako-Sénou. Colpi di arma da fuoco sono stati sentiti fino a tarda mattinata.
Nel pomeriggio sono ripresi i combattimenti. Dall’aeroporto, avvolto da una densa nube nera, echeggiavano proiettili e granate. Adiacente all’aerostazione civile a meno di un chilometro dai terminal commerciali, c’è un’istallazione militare, la Base 101, che oltre ai droni, ospita anche aerei e elicotteri dell’aviazione militare maliana; alcuni di essi sarebbero stati danneggiati durante l’attacco.
In un breve comunicato l’esercito maliano ha rassicurato la popolazione che la situazione è sotto controllo, spiegando che un gruppo di terroristi ha cercato di infiltrarsi nella scuola di polizia. “Grazie alle operazioni di rastrellamento sono stati effettuati diversi arresti”, ha sottolineato Oumar Diarra, capo di Stato maggiore generale durante un suo intervento sul canale della TV di Stato alle 13.00. “Gli infiltrati sono stati neutralizzati”. Sono poi state mostrate immagini di una ventina di persone fermate e di un sospettato morto.
Un altro comunicato, emesso però dal ministero della Sicurezza e della Protezione Civile, parla di attacchi terroristici contro punti sensibili della capitale.
Diverse fonti di sicurezza di Bamako hanno confermato che oltre alla scuola della gendarmeria è stata presa di mira la Base 101, situata nella zona dell’aeroporto. Da questa installazione vengono lanciati i droni dell’esercito maliano e in una caserma sono ospitati anche gli uomini del African Corps (ex Wagner).
Il ministero dei Trasporti ha fatto sapere che tutti i voli previsti nella mattinata sono stati cancellati fino a nuovo ordine. Anche l’accesso all’aeroporto è momentaneamente limitato per evitare eventuali rischi.
Katiba Macina, gruppo terrorista che fa parte di JNIM, ha rivendicato gli attacchi nella capitale di oggi e precisa di aver ucciso parecchie persone e di aver causato danni materiali enormi. L’esercito e altre fonti ufficiali del governo di Bamako finora non hanno parlato di vittime, tantomeno di perdita di equipaggiamento militare. Sta di fatto che per ore c’è stato un via vai di macchine dei pompieri che hanno fanno la spola tra la scuola di gendarmeria e gli ospedali. E, secondo alcune fonti che non hanno voluto rivelare la loro identità, oltre ai feriti ci sarebbero stati anche parecchi mori.
JNIM è stato costituito nel marzo 2017. Il movimento ora è guidato da Iyad Ag-Ghali, vecchia figura indipendentista tuareg, diventato capo jihadista e fondatore di Ansar Dine, in italiano: ausiliari della religione (islamica). Il “consorzio” comprende diverse sigle, tra questi Ansar Dine, Katiba Macina, AQMI (al Qaeda nel Magreb Islamico) e altri.
E, secondo quanto riferito da RFI, in alcuni video postati sui social network, si vede un uomo carbonizzato vicino a La Tour d’Afrique. Nel filmato non si distinguono agenti di polizia. Pare sia stata la folla ad aver ucciso un uomo perché sospettato di aver partecipato all’attacco. Una pericolosa giustizia popolare.
La giunta militare di transizione ha subito oggi una nuova battuta d’arresto, dopo la sconfitta a fine luglio a Tinzaouatène, nel nord del Paese, dove i ribelli indipendentisti hanno dichiarato di aver ucciso 47 soldati maliani e 84 mercenari russi. Il gruppo jihadista, che oggi ha attaccato siti militari a Bamako, aveva ovviamente preparato con cura questa complessa operazione, mobilitando numerosi combattenti e ingenti risorse.
Non va dimenticato che nel novembre 2015 c’è stato un terribile attacco all’albergo Radisson Blu, in pieno centro della capitale maliana. Allora l’aggressione era stata rivendicata da due sigle: Kātiba al-mulaththamīn (battaglione mascherato), capeggiato da Muktar Belmuktar e da al Qaeda nel Magreb islamico (AQIM). Qualche mese prima era stato preso di mira un noto night club, La Terrasse, nella zona dell’ippodromo. Mentre l’ultimo assalto a Bamako risale al 2016, quando è stato preso di mira Hôtel Nord-Sud, la sede della missione di formazione dell’Unione Europea per l’esercito maliano.
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Speciale per Senza Bavaglio Ettore Vittorini
17 settembre 2024
La guerra in Medio Oriente ormai minaccia anche il Libano: dal Sud di questo piccolo Paese gli Hezbollah lanciano missili su Israele e da qui si risponde con duri bombardamenti che costringono la popolazione a fuggire verso Nord e a rifugiarsi a Beirut.
Il Libano è divenuto un territorio nel quale si combattono le guerre altrui. Eppure questa giovane nazione, ex Mandato francese, divenne indipendente nel 1943 con un regime democratico che contribuì al suo benessere. Venne definita la “Svizzera del Medio Oriente”.
Ma quei tempi d’oro durarono poco più di quarant’anni sino allo scoppio nel ’75 des evéneménts, come i libanesi di lingua francese definiscono l’inizio della sanguinosa guerra civile durata 15 anni, che attirò gli eserciti della regione, dall’Olp a Israele, dalla Siria all’Hezbollah.
Oggi la popolazione del Libano è ostaggio di quest’ultima organizzazione terroristica ben armata dall’Iran nata nel 1982 e radicatasi nel Paese, da dove, a Sud, tiene la Galilea israeliana sotto il tiro di continui attacchi con missili, droni ed incursioni. Ovviamente la risposta dello Stato ebraico è molto dura: come accade a Gaza la popolazione civile ne subisce le tragiche conseguenze.
I libanesi si aspettano da un giorno all’altro l’invasione delle truppe israeliane: ormai il loro Paese ha perso il fascino e la ricchezza di un tempo.
A questo proposito riporto alcune frasi di una recente intervista di Repubblica a due signore d Beirut appartenenti al mondo laico della cultura del Paese. “La vita è impossibile per noi libanesi, sempre in guerra e costretti al silenzio – afferma Rasha Al Amir, responsabile di una Casa editrice. – Tutti stanno fuggendo via verso la montagna, verso Nord. La gente qui ha paura, non di Israele ma di Hezbollah. Criticarli significa rischiare: questa è gente che uccide. Chi critica riceve prima un avvertimento, poi muore, come è successo a mio fratello Lockman che era scomodo, autorevole e parlava. Aveva puntato il dito contro Hezbollah per la strage nel porto di Beirut del 2021.Lo hanno assassinato”.
“Oggi il Paese non è governato da persone normali; noi cittadini siamo le loro vittime – dice la scrittrice Alawyah Sobh. – Non siamo stati noi a chiedere questa guerra; la religione domina questa regione ed io come tanta gente detesto chi usa la religione per far politica sulla nostra pelle: musulmani, ebrei, cristiani. Con la mia età posso ricordare il Libano di prima della guerra civile. Era un posto unico, bellissimo dove cristiani e musulmani vivevano insieme”.
Le do ragione perché conobbi il Libano di quei tempi nel luglio del 1973 e vi rimasi per una decina di giorni, inviato dal settimanale Tempo. Un periodo sufficiente per poter, almeno in parte, conoscere il Paese, una fascia di 10 mila Kmq (quanto l’Abruzzo) stretta tra il Mediterraneo e la catena montuosa dei Monti del Libano.
Il titolo dell’articolo che scrissi fu “Col sorriso e il benessere il Libano evita la guerra”. La guerra, quella del Kippur, arrivò il 6 ottobre dello stesso anno quando Egitto e Siria attaccarono nel giorno della più importante festività ebraica.
Il Libano non fu toccato dal conflitto seppur confinante con la Siria a Nord e ad Est, con Israele a Sud. Ma i venti di guerra soffiavano anche sul piccolo Paese. La sede dell’Olp si era istallata a Beirut dopo che nel settembre del 1970 il re di Giordania, Hussein, aveva imposto con la forza all’organizzazione di Arafat di lasciare il Paese. Ad Amman intervenne l’esercito che attaccò i campi profughi e i miliziani dell’Olp. Quel conflitto, che provocò 10 mila morti prese il nome di Settembre nero e costrinse i profughi palestinesi a fuggire in Libano.
Una settima prima della mia visita un commando israeliano sbarcato di notte sulla spiaggia di Beirut raggiunse la sede dell’Olp con lo scopo di catturare o eliminare Arafat. Ci fu un breve scontro a fuoco, ma Arafat non c’era: forse avvertito, si era rifugiato altrove. In Occidente e all’Onu non ci furono reazioni sul fatto che Israele avesse violato i confini di un Paese neutrale.
Quando arrivai in Libano non riscontrai segnali di tensione: nell’aeroporto la solita tranquilla routine; al controllo un agente mi timbrò il passaporto sorridendomi e salutandomi con un “Bienvenue au Liban”.
Alloggiai in un bell’albergo vicino al favoloso Hotel Phoenicia che ospitava nelle suites i magnati dell’Arabia Saudita, i ricchi affaristi europei e americani, con vista sul Mediterraneo e sul porto turistico dov’erano attraccati panfili di gran lusso.
Il Phoenicia aveva ospitato due transfughi italiani: nel 1967 Felice Riva, il “re del tessile”, fuggito dopo la condanna a sei anni per bancarotta fraudolenta, e nel 2014 Marcello dell’Utri condannato dalla Cassazione per rapporti con la mafia e altro. Entrambi vennero estradati in Italia dalle autorità libanesi.
Il tassì mi portò dall’aeroporto all’albergo percorrendo la Corniche, un lungomare che non aveva niente da invidiare a quelli di Cannes e di Nizza. Passammo dalla Hamra, nel centro di Beirut, il corso pieno di negozi di lusso che, per la sua eleganza somigliava alla via Roma di Torino.
Davantial mio albergo vidi con meraviglia parcheggiata una Alfa Romeo Giulia targata Milano. Apparteneva a una coppia di giovani sposi in viaggio di nozze che aveva percorso senza problemi Jugoslavia, Grecia, Turchia e Siria per arrivare in Libano. A quei tempi si poteva fare, come arrivare, sempre in macchina, in Iran e Afghanistan. Qualcuno lo faceva anche con l’autostop.
Quella libertà di viaggiare da quelle parti potrebbe apparire oggi come una delle favole di un moderno Le mille e una notte, difatti poco tempo i venti di guerra si trasformarono in cicloni che tornarono a portare morte e distruzioni.
Il conflitto del Kippur, dopo l’ultimo del ’67 accese la miccia che porterà nella regione anni ed anni di guerre.
Ma tornando a quel luglio del ’73, fui accompagnato in giro per il Paese, con altri colleghi, da Renata una giovane libanese che parlava benissimo l’Italiano.
Vidi il Casino du Liban elegante come quello di Montecarlo pieno di arabi che facevano grosse puntate, nonostante la loro religione lo vietasse.
Mi colpì moltissimo la favolosa Baalbek, nella valle della Bekaa, con le sue monumentali rovine che risalgono all’epoca romana e a periodi precedenti, come il tempio del dio Baal, eretto duemila anni prima di Roma dai Fenici, gli antenati dei libanesi.
Baalbeck, dichiarato nel 1984 dall’Unesco Patrimonio dell’umanità, ha subito gravi danni nel corso delle varie guerre che hanno colpito il Libano,. Vi hanno contribuito soprattutto gli aerei israeliani che la bombardarono nel 1982 e nel 2006.
Nel Tempio di Bacco, nel cuore di Baalbeck, uno dei siti archeologici più importanti e meglio conservati del Medio Oriente, si svolge ogni anno il Festival internazionale con spettacoli teatrali, di musica classica di opera lirica e di jazz, tranne ovviamente nei periodi di guerra. Quell’estate del ’73 fui spettatore di un’opera di Rossini.
Ma visitai anche luoghi meno “affascinanti”: un collega libanese insieme a un deputato socialista di etnia araba mi portarono nei campi di Tall el Zaatar e Sabra e Chatila, dove vivevano 400 mila profughi cacciati dalla Giordania. In quei luoghi lo splendore di Beirut era scomparso per lasciare il posto a baraccopoli simili alle favelas brasiliane. Per i vicoli giravano miliziani dell’Olp ben armati.
Dopo la nascita di Israele quei campi avevano ospitato gran parte dei palestinesi costretti a fuggire dallo Stato ebraico e che negli anni successivi si erano integrati nella società libanese.
I guai per il Piccolo Paese sono arrivati assieme alla seconda ondata dei profughi e all’insediamento dell’Olp con il suo “esercito”, una invasione di musulmani che ha condizionato la Costituzione libanese nata nel 1943.
Quell’anno il Libano – un Mandato francese dal 1919 – ottenne l’indipendenza. Durante la seconda guerra mondiale era sotto il controllo del governo di Vichy, ma con le pressioni della Gran Bretagna e della France Libre di De Gaulle il governatore si convinse a concedere l’indipendenza al Paese.
A quei tempi il Paese aveva appena 600 mila abitanti, il 40 per cento dei quali era di religione cristiano maronita, il trenta, arabo musulmana, il resto era costituito da cattolici della Chiesa di Roma, greco ortodossi, armeni, kurdi.
Quella fascia di terra che da secoli era appartenuta all’impero Ottomano, si era sempre distinta dal mondo arabo musulmano mantenendo forti contatti commerciali con le Repubbliche di Genova e Venezia che vi avevano insediato sedi commerciali e banche. Nei commerci si inserì anche Livorno, città e porto franco costruito dai Medici tra il ‘400 e il ‘500. Lungo uno dei canali della città vecchia esiste ancora un grande magazzino chiamato il fondaco dei libanesi.
L’Italia è rimasta sino ai nostri giorni il primo partner commerciale. I miei accompagnatori mi dissero che a Beirut vivevano da secoli ancora circa duemila famiglie con cognome italiano.
Tornando alla Costituzione dello Stato, questa fu redatta saggiamente sul principio che stabiliva la divisione delle massime cariche istituzionali tra i principali gruppi religiosi. Alle elezioni Il Presidente della Repubblica doveva essere un cristiano maronita; il Primo ministro un musulmano sciita; il Presidente della Camera un musulmano sunnita. Alle minoranze erano riservate cariche nei tribunali, nei ministeri e in altre istituzioni.
Ma negli Anni Settanta, quell’equilibrio venne messo in crisi dal grande afflusso di palestinesi e dall’Olp provenienti dalla Giordania. I musulmani diventati la maggioranza della popolazione facevano pressioni per ottenere più potere e la presidenza. Tra l’altro chiedevano un censimento che attestasse cambiamenti tra le etnie. i Cristiani filooccidentali per cultura e costumi (le lingue ufficiali erano l’arabo e il francese) consideravano i musulmani un pericolo per il Paese.
Inoltre la presenza dell’Olp era diventata politicamente più invadente.
Il risultato fu che Beirut e l’intero Paese si trasformarono in un campo di battaglia che il piccolo e inefficiente esercito non riuscì ad evitare. La scintilla della guerra civile scoccò quando il 13 aprile del 1975, mentre un gruppo di cristiani che partecipavano a una cerimonia davanti a una chiesa vennero colpiti da colpi di mitra sparati da un’auto di miliziani dell’Olp. Ci furono 4 morti e molti feriti.
La risposta arrivò poche ore dopo quando la Falange maronita, il gruppo armato dei cristiani, attaccò un autobus carico di membri dell’Olp e ne uccise 27. L’escalation delle vendette tra le due parti si trasformò in una guerra che non risparmiò la popolazione civile.
I massacri in larga scala iniziarono alla Quarantina, una baraccopoli musulmana della periferia di Beirut dove le milizie cristiane massacrarono 1500 musulmani. La rappresaglia palestinese fu compiuta nel quartiere cristiano di Damur con 500 morti.
Il tentativo di riportare la pace fu affidato dalla Lega Araba a un corpo di dissuasione siriano che peggiorò la situazione. Nel ’76 la Falange attaccò il campo profughi di Tall al Zaatar mentre i siriani che avrebbero dovuto proteggerlo guardavano dall’altra parte. Ci furono 10 mila morti.
Nell’82 vennero attaccati sempre dai falangisti quelli di Sabra e Shatila con altre 10 mila vittime. Allora il Libano era stato occupato quasi completamente da Israele, in risposta agli attacchi dell’Olp che lanciava missili in Galilea. Le truppe israeliane permisero che l’eccidio avvenisse.
Finalmente l’ONU decise di intervenire e inviò truppe multinazionali compresi i bersaglieri italiani comandati dal generale Angioni. Gli italiani lavorarono molto bene attirandosi il favore della popolazione dei due fronti contrapposti. Il ritiro di Israele avvenne poco dopo e la guerra civile terminò nel 1990.
Ci sarebbe molto altro da aggiungere sugli avvenimenti successivi sino ad oggi. Forse in una seconda puntata e non credo che la storia del Libano avrà un lieto fine.
Ettore Vittorini*
*Ettore Vittorini è esperto do politica internazionale. Ha lavorato al Tempo illustrati e poi al Corriere della Sera per oltre trent’anni. E’ stato corrispondente, inviato e infine vice caporedattore nel settore esteri.
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Speciale Per Africa ExPress Marcello Ricoveri*
Windhoek (Namibia), 15 settembre 2024
Nonostante il Sudafrica continui la sua politica di consolidamento della propria posizione di preminenza in seno al BRICS – ancorché il presidente Cyril Ramaphosa, rieletto alle ultime elezioni, sia distratto non poco dalle vicende di politica interna – le crisi che affliggono sia l’Europa che il Medio Oriente che l’Africa hanno causato ripercussioni sull’economia del Paese che conosce una fase di stanca.
Nel frattempo, a seguito della loro richiesta di adesione, il BRICS sì è arricchito di quattro Paesi: Iran, Emirati Arabi Uniti, Etiopia ed Egitto. Mentre L’Argentina ha ritirato la propria domanda di adesione e l’Arabia Saudita ancora non ha deciso cosa fare.
È innegabile, peraltro, che il commercio di beni all’interno delle economie del BRICS abbia superato di parecchio gli scambi fra il gruppo e i Paesi aderenti al G7.
Sempre dal punto di vista economico uno sviluppo significativo dell’organizzazione ha rappresentato la creazione della nuova Banca di Sviluppo (New Development Bank) che sarà destinata a finanziare e promuovere progetti infrastrutturali e di sviluppo sostenibile, soprattutto nei Paesi africani. Il Sud Africa dunque continua a incrementare i propri rapporti economici e commerciali all’interno del BRICS, principalmente con la Cina, anche se la propria bilancia commerciale presenta un notevole deficit di rand (la valuta sudafricana, ndr) che nel 2023 ha raggiunto quasi i 178 miliardi, ovvero poco più di 9 miliardi di euro).
Forse anche a causa di tali sviluppi economico-commerciali, oltreché per motivi politici di equidistanza fra Oriente ed Occidente, La Turchia ha inoltrato domanda di adesione al gruppo dei BRICS.
Il 2 settembre scorso – secondo quanto riporta l’agenzia Bloomberg – un portavoce del partito di Erdogan, Omar Celik, ha riferito che finora non vi sarebbero “ sviluppi concreti ”al riguardo. Non vi sono dubbi, tuttavia, sulla volontà di aderire al BRICS da parte della Turchia. In un discorso del 1 Settembre, lo stesso Presidente Erdogan ha affermato “ la Turchia può diventare un Paese forte, prospero, prestigioso ed efficace, se migliora le sue relazioni con l’Oriente e l’Occidente, simultaneamente”.
Secondo questa stessa fonte in definitiva questa iniziativa a favore dei BRICS, farebbe seguito alla mancanza di uno sviluppo positivo dell’annosa richiesta turca di aderire all’Unione Europea ed alle recenti crescenti crepe, in seno alla NATO, a causa dei legami troppo stretti della Turchia con la Russia e dell’allineamento turco con Hamas nel conflitto israelo-palestinese.
Peraltro anche il ministro degli Esteri, Hakan Fidan, non nasconde che la Turchia continuerà sia a perorare la propria causa per aderire all’Unione Europea, sia per partecipare al BRICS, dimostrando che Ankara vuole avere “la sua torta e anche mangiarla”. Anche se questa posizione politica non appare realistica e rivela che la Turchia di Erdogan è un alleato dell’Occidente soltanto nella forma.
Sempre in tema di BRICS è da sottolineare la recente iniziativa di uno dei suoi nuovi membri, l’Iran, che sta attivamente lavorando con la Russia per lanciare una nuova moneta di scambio, che valga per tutta l’area economica rappresentata dai BRICS.
Non sembra che tale iniziativa venga per ora condivisa dagli altri membri del gruppo, ed in particolare dal Sudafrica, in seno al quale si sono levate voci secondo cui una nuova moneta di scambio, condivisa all’interno del gruppo, può essere un’iniziativa rischiosa e non necessaria, perché potrebbe allontanare partner fondamentali della stragrande maggioranza del BRICS, come l’Unione Europea, il Regno Unito e gli Stati Uniti.
Sempre in Sudafrica autorevoli economisti considerano che sarebbe molto più opportuno e sensato avere una moneta di scambio unica per la SADC (la comunità economica dei Paesi dell’Africa australe, Southern African Development Community) in virtù della vicinanza geografica dei sedici Stati che ne fanno parte e del fatto che già ora molti di questi Paesi usano il rand, oppure hanno la loro moneta agganciata al Randr
Inoltre si fa rilevare come il Sudafrica abbia già ora una bilancia commerciale molto sfavorevole nei confronti degli altri partners del BRICS, mentre chiaramente vi siano vantaggi commerciali evidenti dagli scambi con l’Unione Europea, gli Stati Uniti ed il Regno Unito. Recentemente membri del governo sudafricano hanno sottolineato l’importanza per questo Paese di incrementare l’esportazione di prodotti finiti e non materie prime, specialmente in seno alle relazioni commerciali con il colosso cinese. Il Sud Africa deve creare una economia export oriented, ha detto il vice ministro, Andrew Whitfield, ed un’economia centrata sullo sviluppo di un’industria manifatturiera faciliterà anche lo sviluppo delle esportazioni.
Tornando alla Turchia è innegabile che gli screzi all’interno dell’Alleanza Atlantica e la crisi Mediorientale la stiano spingendo ad adottare una politica di espansione in Africa. Questo si sta verificando non solo in Nord Africa (Libia) ma soprattutto nel Sahel dove recentemente pare sia stato firmato un accordo di cooperazione militare con il Niger, ed è presente ed attiva un’Ambasciata in Ciad.
Solo nel Sudan la Turchia è più timida, data la soverchiante presenza di attori sunniti ben più importanti, quali l’Arabia Saudita, gli Emirati e l’Egitto.
In definitiva questa politica ambivalente della Turchia, con sottostanti nostalgie imperiali mai sopite e sostenute dalla maggioranza conservatrice anatolica che continua a votare per il Presidente Erdogan, potrà proseguire solo se il presidente rimarrà al suo posto. Ma dubito che l’interesse attivo della Turchia nei confronti dell’Africa possa anche in futuro venire meno.
*Marcello Ricoveri ha rappresentato l’Italia come ambasciatore in Uganda (accreditato anche in Ruanda, anche durante il genocidio, e Burundi), Etiopia, Nigeria (con competenze sul Benin) e prima ancora come primo consigliere della nostra legazione a Pretoria con competenze anche sulla Namibia. Vive a Windhoek. A Roma, per 7 anni circa, si è occupato di Cooperazione allo sviluppo, di Unione Africana, di ECOWAS e di G8 per l’Africa. Grazie alla sua esperienza conosce molto bene l’intero continente e continua ad essere un attento e un acuto osservatore delle dinamiche socio-politiche del sud del mondo.
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Speciale per Africa ExPress Cornelia I. Toelgyes
14 settembre 2024
Bamako non ha certamente applaudito per la rielezione del presidente algerino, Abdelmadjid Tebboune; le relazioni tra i due Paaesi sono sempre più tese. Finora Assimi Goïta, leader delle giunta militare di transizione in Mali, non ha inviato le congratulazioni al suo omologo, che ha vinto la tornata elettorale del 7 settembre scorso con il 94,5 per cento delle preferenze.
Già a gennaio i rapporti tra l’Algeria e il Mali hanno iniziato a inasprirsi, quando il governo di Goïta ha dichiarato nullo l’accordo di pace e riconciliazione, siglato sotto l’egida dell’Algeria nel 2015, tra le autorità maliane dell’epoca e i tuareg indipendentisti dell’Azawad. Allora Bamako aveva accusato il governo di Tebboune di ingerenza e ostilità, criticandolo aspramente per ospitare i ribelli
Algeri aveva risposto alle accuse in modo pacato, proclamando la sua buona fede e solidarietà con il Mali, ma ovviamente non è servito per ricucire i rapporti tra i due Paesi, tantomeno a convincere Bamako ad abbandonare azioni militari contro gli indipendentisti del nord. Esperti affermano che “Algeri rimane fedele al principio di un accordo di pace e di una soluzione negoziata”, e ciò non corrisponde alla linea adottata da Bamako.
A fine agosto, dopo la battaglia di Tinzaouatène, zona nel Mali settentrionale al confine con l’Algeria, i toni tra Bamako e Algeri sono peggiorati ulteriormente.
A Tinzaouatène, durante l’operazione dei militari maliani (FAMa) e i mercenari Wagner (ora African Corps) contro i tuareg, considerati ormai terroristi da Bamako, sono morti sia soldati dell’esercito regolare, sia paramilitari russi. La battaglia è stata vinta dai ribelli anche grazie a informazioni ricevute dai servizi ucraini.
L’Algeria ha denunciato al Consiglio di sicurezza dell’ONU che, mentre erano ancora in atto i combattimenti, sarebbero morti almeno 20 civili durante un attacco di droni perpetrato da FAMa nella zona frontaliera. Denuncia ovviamente non gradita dai maliani, che categoricamente hanno negato di aver ucciso vittime civili.
Attualmente l’Algeria è impegnata in un complesso braccio di ferro su più fronti: oltre al Mali ha come obiettivo anche la Libia, dove i soldati di ventura russi sono presenti da anni.
Come sempre, è la popolazione civile che paga il prezzo più alto nei conflitti. Dall’estate scorsa, circa 50.000 maliani del nord in fuga dai nuovi combattimenti tra l’esercito maliano, i suoi ausiliari Wagner e i tuareg, si sono rifugiati al confine con Algeria, altri sono entrati nel Paese confinante. Gli sfollati sono attualmente senza alcuna assistenza, in quanto l’UNHCR non è stato autorizzato ad assisterli. Il Mali nega l’accesso agli operatori umanitari dell’organizzazione nelle aree in cui l’esercito sta conducendo operazioni militari e l’Algeria, pur non avendo chiuso le porte, non vuole registrare le domande dei richiedenti perché potrebbero portare allo status di rifugiato.
Le autorità maliane hanno chiesto ai civili di tornare nelle proprie case, ma secondo RFI, che ha contattato alcuni sfollati in Mali e rifugiati in Algeria, le persone temono ancora per la propria sicurezza.
Durante la recente battaglia al confine con l’Algeria, anche JNIM (Gruppo di sostegno dell’Islam e dei musulmani), affiliato a Al-Qaeda, ha fatto la sua parte. Infatti ha affermato di aver teso un’imboscata a un convoglio dell’esercito maliano e dei suoi alleati Wagner a sud di Tinzaouatène. Il gruppo terrorista ha anche ammesso la propria collaborazione con la Francia.
Pochi giorni fa il giornale online Contre-Poison ha intervistato Mohamed Elmaouloud Ramadane, portavoce di Cadre Stratégique Permanent pour la Défense du Peuple de l’Azawad (CSP-DPA), guidata da Bilal Ag Acherif, una delle figure chiave del movimento dei ribelli.
Ramadane ha confermato che recentemente CSP-DPA ha preso contatti con diversi Stati, tra questi anche l’Ucraina. “Siamo in contatto con Kiev dall’inizio dell’anno. Le autorità ucraine ci hanno ascoltato perché abbiamo un denominatore comune: i mercenari russi di Wagner, che stanno combattendo anche nel loro Paese. E noi di Azawad stiamo ugualmente affrontando i paramilitari, causa di disgrazie e distruzione in molti Paesi, tra cui Libia, Siria, Repubblica Centrafricana, Sudan e naturalmente Ucraina”. Il portavoce ha poi concluso: “La cooperazione tra il CSP-DPA e gli ucraini è nella sua prima fase. È troppo presto per svelare come l’Ucraina ci abbia aiutato”.
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Dal Nostro Corrispondente Sportivo Costantino Muscau
13 settembre 2024
“Prima le ha gettato la benzina in faccia, sugli occhi, poi sul resto del corpo. E intanto con un machete minacciava di fare a pezzi chiunque tentasse di avvicinarsi e soccorrerla”. Orribili dettagli emergono sulla morte di Rebecca Chepetegei, 33 anni, la maratoneta ugandese bruciata viva in casa, il 1° settembre, dal convivente Dickson Ndiema Marangach a Kinyoro, nella contea di Trans Nzoia in Kenya.
A rivelarli ai media locali è la sorella più giovane, Everlyn Chelangat, alla vigilia dei funerali di Rebecca, previsti per il 14 settembre a Kapkoros, (distretto di Bukwo, Uganda), paese natale della sfortunata atleta che si trova al confine con il Kenya, a circa 380 chilometri a nord-est della capitale ugandese Kampala.
Ricoverata con l’80 per cento di ustioni al Moi Teaching and Referral Hospital (MTRH) di Eldoret, la giovane è sopravvissuta cinque giorni: è spirata giovedì 5 settembre, all’alba.
A pochi metri da lei era ricoverato il femminicida, che le è sopravvissuto 4 giorni. Anche lui, infatti, è deceduto, lunedì 9 settembre. Nel tentativo di uccidere la sua donna, si era inavvertitamente cosparso di carburante, aveva preso fuoco e aveva riportato ustioni a 40 per cento su tutto il corpo. “In terapia intensiva ha sviluppato insufficienza respiratoria a causa delle gravi ustioni alle vie aeree e della sepsi che lo hanno portato alla morte lunedì alle 18:30 nonostante le misure salvavita”, ha affermato il dottor Philip Kirwa, amministratore delegato del Moi Teaching and Referral Hospital.
L’ennesimo caso di femminicidio in Kenya era avvenuto in seguito a una discussione sulla proprietà del terreno su cui si trovava la casa di Cheptegei. I genitori della maratoneta, Joseph e Agnes, avevano acquistato un terreno a Trans Nzoia affinché la figlia potesse essere più vicina ai numerosi centri di allenamento sportivi della contea. Famosa per essere la culla dei campioni del fondo e del mezzofondo.
La trentatreenne aveva gareggiato anche in Italia il 24 aprile 2022, vincendo la maratona di Padova, mentre nel 2023, il 26 novembre, era giunta seconda in quella di Firenze. Ancora nel 2022, con il tempo di 2:22:47, aveva stabilito il record dell’Uganda sui 42,195 km. Aveva rappresentato Kampala in numerose altre competizioni internazionali, tra cui i Campionati mondiali di corsa campestre IAAF e i Campionati mondiali di atletica leggera. L’ultima sua esibizione era stata alle Olimpiadi di Parigi: era giunta 44° nella maratona, gara conclusiva dei Giochi, l’11 agosto scorso.
La sua morte, descritta dalle Nazioni Unite come un “omicidio violento”, ha scatenato una condanna e un cordoglio diffusi e (sembra) sentiti.
Di certo uno dei gridi più sinceri e allarmanti è quello di Viola Cheptoo Lagat che ha creato una fondazione in memoria di Agnes Tirop, assassinata in Kenya nel 2021.
Da allora Viola si è schierata contro la violenza domestica. Ha affermato che alla base degli attacchi alle donne potrebbero esserci i premi in denaro.
“I fidanzati vogliono i loro soldi vinti nelle gare e poi vanno a sprecarli – ha detto –. Un altro problema è la società. Abbiamo permesso che accadesse, tanto che non lo condanniamo nemmeno più: consideriamo normale vedere una donna picchiata, qualcuno che ruba la proprietà di qualcun altro… e noi non urliamo finché qualcuno non si è perso”.
Il presidente della World Athletics, Sebastian Coe ha dichiarato: “Il nostro sport ha perso un atleta di talento nelle circostanze più tragiche e impensabili. Rebecca era una runner incredibilmente versatile che aveva ancora molto da dare su strada, in montagna e sui sentieri di cross country”. Coe ha affermato di essere in trattative con i membri del Consiglio direttivo della World Athletics “per valutare come potenziare le tutele per includere gli abusi al di fuori dello sport”.
“Profondamente scossa dalla notizia della tragica morte di nostra figlia Rebecca Cheptegei, dovuta alla violenza domestica” si è dichiarata anche la first lady e ministro dell’Istruzione ugandese, Janet Kainembabzi Museveni.
Il ministro dello Sport keniano, Kipchumba Murkomen, ha affermato che si tratta di un “duro promemoria” del fatto che è necessario fare di più per combattere la violenza di genere. “Solo nel mese di gennaio, almeno 14 donne in Kenya sono state uccise dai loro partner”, ha ricordato su RFI il giornalista Kelvin Ogome.
Gli organizzatori delle Olimpiadi di Parigi hanno espresso profonda indignazione e tristezza per la morte della runner. La sindaca della capitale francese, Anne Hidalgo, ha assicurato: “Le dedicheremo un impianto sportivo affinché la sua memoria e la sua storia rimangano con noi e contribuiscano a portare avanti il messaggio di uguaglianza, un messaggio che è anche quello dei Giochi olimpici e paralimpici. Parigi non la dimenticherà”.
Speriamo che il cordoglio e le promesse non durino lo spazio dell’emozione momentanea. Per non tradire Rebecca e tutte le donne vittime di violenza. E non mettersi a urlare fino a che un’altra donna non si sia persa.
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Il testo originale in inglese in fondo, dopo la tradizione in italiano
A undici mesi dall’inizio della guerra, si può affermare che i pretesti utilizzati da Israele per giustificare l’esclusione dei media da Gaza non sono più validi e che ora deve consentire l’ingresso di giornalisti stranieri affinché possano coprire la guerra in modo adeguato.
A causa del controllo israeliano sui valichi di frontiera, che è diventato ancora più stretto dopo la conquista di Rafah, nessun giornalista straniero può mettere piede nella Striscia senza l’approvazione dello Stato. Il divieto generalizzato di ingresso ai giornalisti stranieri senza la scorta dell’Unità portavoce dell’IDF danneggia enormemente la capacità di fare informazione in modo indipendente e il diritto del pubblico in Israele e nel mondo di sapere cosa sta accadendo a Gaza.
Il ruolo di un giornalista è quello di essere sul posto, di parlare direttamente con le persone e non solo attraverso i portavoce per conto di interessi acquisiti, di sentire l’atmosfera e di riferire sugli eventi. Non c’è paragone tra il reportage non mediato sul campo e quello realizzato da terzi, le interviste telefoniche e le analisi condotte con l’ausilio di immagini fisse o video.
Quando Israele impedisce ai giornalisti di recarsi a Gaza, non solo nega loro di raccontare gli orrori della guerra, ma anche di esaminare in tempo reale le affermazioni di Hamas – un chiaro interesse israeliano. Quando Israele proibisce ai giornalisti stranieri di coprire ciò che sta accadendo a Gaza, dobbiamo chiederci: cosa ha da nascondere lo Stato? In che modo trae vantaggio dal fatto che i giornalisti non entrino a Gaza?
Il risultato di impedire ai giornalisti stranieri di fare il loro mestiere è che il duro lavoro di cronaca ricade sulle spalle dei giornalisti palestinesi, che a loro volta soffrono per la guerra e le sue dure condizioni.
Secondo i dati del Committee to Protect Journalists, almeno 111 giornalisti e operatori dei media palestinesi sono stati uccisi durante la guerra (tre di loro, secondo l’esercito israeliano, militavano in Hamas o nella Jihad islamica palestinese) – il che rende ancora più urgente la necessità che altri giornalisti entrino a Gaza.
In ogni caso, proprio in tempo di guerra è molto importante permettere l’ingresso di giornalisti che non siano parte in causa nel conflitto: persone che possano coprire l’evento senza temere pressioni da parte della propria società o del proprio governo. Oggi, in tempo di guerra, quando ogni immagine rischia l’accusa di essere stata generata dall’intelligenza artificiale, il ruolo del giornalista sul campo è più importante che mai.
Non è vero che le forze armate sostengono che consentire l’ingresso di giornalisti incorporati nelle forze israeliane sia un’alternativa adeguata all’accesso indipendente. Nulla può sostituire l’accesso indipendente, in cui i giornalisti possono parlare liberamente con i residenti locali e recarsi nelle aree di interesse per il pubblico e i media.
Non possiamo accettare una situazione in cui i militari dettano la natura della copertura giornalistica. Israele deve permettere ai giornalisti di entrare nella Striscia di Gaza, in modo che tutti possano comprendere meglio ciò che sta accadendo e che la nebbia della guerra possa essere diradata, anche se solo leggermente.
Haaretz
L’articolo sopra riportato è l’editoriale principale del quotidiano israeliano Haaretz, pubblicato in ebraico e in inglese in Israele.
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Original text in English
Editorial/Why Is Israel Afraid to Allow Foreign Journalists in Gaza? What’s It Hiding?ù
By blocking journalists from Gaza, Israel not only prevents coverage of the war’s horrors but also hinders real-time scrutiny of Hamas’ claims – a key Israeli interest
Eleven months into the war, it’s possible to say that the circumstances Israel used to justify barring the media from Gaza are no longer valid, and that it must allow the entry of foreign journalists so they can cover the war properly.
As a result of Israel’s control of the border crossings, which has become even tighter since the capture of Rafah, no foreign journalist can set foot in the Strip without the state’s approval. The blanket ban on entry to foreign journalists without an IDF Spokesperson’s Unit escort greatly damages the ability to report independently as well as the right of the public in Israel and around the world to know what is happening in Gaza.
The role of a journalist is to be on the ground, to speak directly to people and not just through spokespeople on behalf of vested interests, to feel the atmosphere and report on events. There is no comparison between unmediated reporting in the field and reporting via a third party, telephone interviews and analysis conducted with the aid of still or video images.
When Israel prevents journalists from going into Gaza it prevents them not only from reporting on the horrors of the warfare, but also from examining the claims of Hamas in real time – something that is a clear Israeli interest. When Israel prevents foreign journalists from covering what is happening in Gaza we must ask: What does the state have to hide? How does it benefit from journalists not entering Gaza?
The result of keeping foreign journalists from doing their jobs is that the hard work of reporting rests on the shoulders of Palestinian journalists, who are themselves suffering from the war and its harsh conditions.
According to data from the Committee to Protect Journalists, at least 111 Palestinian journalists and media workers have been killed during the war (three of them, according to the Israeli military, activists in Hamas or in Palestinian Islamic Jihad) – which makes the need for other journalists to enter Gaza even more urgent.
In any case, precisely during wartime there is great importance to permitting the entry of journalists who are not a party to the conflict: people who can cover the event without fear of pressure from their own society or government. In wartime today, when any image risks the accusation of having been generated using artificial intelligence, the role of the journalist in the field is more important than ever.
There is no truth to the military’s claim that allowing in journalists who are embedded with Israeli forces is an appropriate alternative to independent access. Nothing can replace independent entry, in which journalists are allowed to speak freely with local residents and travel to areas that are of interest to the public and the media. We cannot accept the situation in which the military dictates the nature of journalistic coverage. Israel must allow journalists into the Gaza Strip, so that everyone can better understand what is happening there and so that the fog of war can be cleared, if only slightly.
Haaretz
The above article is Haaretz’s lead editorial, as published in the Hebrew and English newspapers in Israel.
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