Special for Africa ExPress The refugees from Negad detention centre Djibouti
Nairobi, 21 January 2014
The detained people in Negad refugees camp in Djibouti (the majority of them are from Eritrea) wrote this appeal to Africa ExPress. The people detained in the camp (120 refugees) escaped from one of the most terrible and authoritarian regime in the world, described by many organizations as an hell. This message that we publish is coming from inside the prison and has been sent to us under very difficult and eventful means. The people who sent us this story asked us to share widely. Africa ExPress
Nostro Servizio Particolare Cornelia I. Toelgyes
19 gennaio 2014
La Nigeria è una confederazione di 36 stati; i cristiani rappresentano il 40 per cento della popolazione, i musulmani il 50 per cento, mentre gli animisti il 10 per cento. Molto spesso i vari gruppi religiosi sono in lotta tra loro. Migliaia di morti ogni anno (vedi anche nostri articoli su africa-express.info: Boko Haram e altre guerre di religione), ma questa volta sono tutti – o quasi – d’accordo: il 90 per cento della popolazione nigeriana – secondo un sondaggio – è contraria alle unioni tra persone dello stesso sesso.
Forte dell’opinione pubblica, il presidente nigeriano Goodluck Jonathan ha firmato le nuove draconiane norme anti-gay nei giorni scorsi. “Questa legge è in linea con ciò che il nostro popolo ha espresso. Rappresenta i nostri credo religiosi, i nostri valori e la nostra cultura”, conferma Reuben Abati, portavoce del presidente.
La corruzione sfrenata è endemica nel Paese, ma il presidente non ci pensa neanche a varare una legge che possa severamente punirla. No, la priorità sono le norme per colpire gli omosessuali, mentre il Paese è governato da una classe politica rapace quanto imbelle.
Amensty Internatonal ed altri gruppi che operano nella difesa dei diritti umani hanno subito preso posizione. E’ una legge discriminante che porta conseguenze catastrofiche per gay, lesbiche, bisessuali, trans. La legge prevede fino a 14 anni di detenzione per coloro che contraggono unioni dello stesso sesso anche all’estero e 10 anni per coloro che sono iscritti ad associazioni gay o mostrano la loro “diversità” in pubblico.
Anche il segretario generale dell’ONU Ban-Ki-Moon ha espresso le sue preoccupazioni a proposito delle leggi anti-gay nigeriane e sottolinea che la minoranza dei cittadini con preferenze sessuali diverse sono a rischio di non poter usufruire dei diritti civili essenziali.
La polizia dello stato del Bauchi ha già arrestato 11 uomini gay nelle ultime settimane, come confermato dal capo della commissione per la Sharia, Mustapha Baba Ilea, il quale però sottolinea (bontà sua) che nessuno di questi 11 uomini è stato torturato o picchiato.
Mentre Dorothy Aken’Ova, direttore esecutivo dell’International Centre for Reproductive Health and Sexual Rights, centro che, tra l’altro, da anche assistenza legale agli omosessuali, riferisce che durante il periodo di Natale la polizia ha arrestato quattro uomini, torturandoli, per estorcere nomi di altri, appartenenti a gruppi ed organizzazioni gay.
Non ha dato dettagli sulle torture subite dai detenuti, ma aggiunge che nel frattempo ne sono stati arrestati altri 38 e altri 168 sono ricercati.
La Nigeria è un paese con una forte incidenza di AIDS. I più colpiti sono i cittadini con preferenze sessuali diverse. Con la nuova legge i sieropositivi potrebbero non poter più accedere alle cure essenziali, alla prevenzione, senza essere segnalati.
Siamo tornati al periodo dell’Inquisizione in molti paesi africani. Inquisizione in chiave moderna, i risultati saranno forse anche peggiori.
Cornelia I. Toelgyes corneliacit@hotmail.it twitter @cotoelgyes
Antonio Mazzeo
15 gennaio 2014
Sei milioni e mezzo di euro in nove mesi per addestrare gli uomini della Guardia costiera libica a contrastare le imbarcazioni di migranti in fuga dal continente africano. È quanto è stato stanziato dal governo Letta con i due decreti approvati, rispettivamente, il 5 dicembre 2013 e il 10 gennaio 2014, e che hanno consentito di prorogare la partecipazione delle forze armate e di polizia italiane in missioni operative all’estero.
Dalla Nostra Inviata Speciale
EDITORIALE Federica Iezzi
Gaza City, 20 dicembre 2024
In Medio Oriente il fronte di guerra aspetta solo di espandersi. Non è passato inosservato al Cairo il delirante piano di Netanyahu sulla creazione di un Grande Israele. In nome della lettura vaneggiante dei testi biblici, è uno Stato che comprende parti di Libano, Siria, Iraq, Giordania, Arabia Saudita ma anche Egitto orientale, oltre al Sinai.
Il massacro orrendo ed esecrabile del 7 ottobre è l’inesorabile risultato di 76 anni di pulizia etnica che il popolo palestinese ha subito per mano di Israele dal 1948. E’ il risultato di 57 anni di occupazione militare israeliana di Cisgiordania, Gerusalemme Est e Striscia di Gaza, che si è evoluta nel peggior sistema di apartheid della storia moderna.
Politica assertiva
E’ il risultato di una politica israeliana assertiva che ha portato alla scomparsa del piano di partizione della Palestina in due Stati, in cui i palestinesi avrebbero dovuto costruire uno Stato sul 22 per cento del loro territorio, mentre la risoluzione 181 delle Nazioni Unite concedeva loro il 44 per cento di terra, quando in realtà possedevano l’82% della terra della Palestina storica.
Questa politica è il risultatodella legge sullo Stato-Nazione del parlamento israeliano – risalente al 2018 -, che riserva al solo popolo ebraico il diritto all’autodeterminazione nella Palestina storica – in ebraico Erétz Yisra’él (Terra di Israele).
Affermazioni nauseanti
A questo seguono le nauseanti affermazioni di Bezalel Smotrich, ministro delle finanze israeliano, secondo cui Israele colmerà illegalmente la Cisgiordania di insediamenti israeliani finché i palestinesi non perderanno ogni speranza di avere un proprio Stato e dovranno dunque scegliere tra immigrazione (pulizia etnica), sottomissione agli israeliani (apartheid) o morte (genocidio).
La realtà è che né Nazioni Unite né governi occidentali sono stati in grado di far rispettare a Tel Aviv l’attuazione di oltre 84 risoluzioni del Consiglio di Sicurezza e di circa 800 risoluzioni dell’Assemblea Generale a sostegno dei diritti dei palestinesi.
Oltre 84 risoluzioni
Né i milioni di profughi palestinesi parcheggiati nei campi, né il naufragio di un intero popolo nel 1948 hanno mai spostato un’Europa traumatizzata dalla seconda guerra mondiale. Dopo il 1967, la solidarietà globale inizia ad avere una flebile voce. Ma ci sono voluti l’invasione israeliana del Libano nel 1982 e la prima Intifada nel 1987 perché la solidarietà con la Palestina giocasse un vero ruolo.
L’assassinio di Stephen Biko, studente e attivista, da parte della polizia del regime sudafricano nel 1977 – un anno dopo le rivolte di Soweto – suscitò più indignazione dell’eliminazione di migliaia di oppositori da parte del dittatore etiopico Mengistu. Ma perché?
Macabra conta
L’opinione pubblica internazionale non misura le proprie reazioni esclusivamente con il metro della macabra conta. Perché in uno specifico momento storico, un conflitto può esprimere la verità di un’epoca, superando il quadro ristretto della sua collocazione geografica, per acquisire una portata universale.
La storia del secolo scorso ha visto come assoluta protagonista l’emancipazione dal giogo coloniale e nonostante le differenze, Vietnam, Sudafrica e Palestina si trovano tutti sulla linea di gestazione di un nuovo mondo basato sul principio di uguaglianza tra i popoli.
Mezzo milione di coloni
E’ vero la copertura del conflitto israelo-palestinese segue regole diverse. Infatti, quale altro esempio si conosce di un’occupazione condannata per più di quarant’anni dalle Nazioni Unite senza risultati né sanzioni? Quale altro caso esiste in cui un Paese possa installare illecitamente più di 500.000 coloni nei territori che occupa senza che la comunità internazionale emetta altro che condanne verbali senza effetto?
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Speciale Per Africa ExPress Raffaello Morelli
Livorno, 12 dicembre 2024
(1 – continua)
Di fronte alla guerra tra Russia ed Ucraina, in Occidente urge una riflessione accurata sull’applicare il principio cardine del proprio esistere: l’uso nei conflitti quotidiani della libertà individuale tra i cittadini, valorizzando la loro strutturale diversità. E’ molto importante nell’ottica liberale.
Serve a rivedere la tesi secondo cui lo scontro armato dipenderebbe solo dall’invasione russa cominciata il 24 febbraio 2022.
Dissidi
In Ucraina, indipendente dalla Russia con il referendum del 1991, scoppiarono subito forti dissidi tra filorussi e indipendentisti. Poi, da quando i filorussi vinsero le presidenziali (Viktor Janukovyc, 2010), da una parte fu ripristinato l’affitto del porto di Sebastopoli alla Russia, dall’altra gli indipendentisti intensificarono la protesta e il collegamento con i servizi occidentali (leggi NATO).
All’epoca, il dissenso era provocato dallo stato disastroso dell’economia e dalla corruzione dilagante. Verso fine 2013, il presidente ottenne dalla Russia un prestito di 15 miliardi di dollari, un prezzo ridotto del gas, l’abolizione delle dogane; invece a favore degli indipendentisti, il parlamento votò l’adesione all’UE, poi bloccata dal capo dello Stato.
Movimento Euromaiden
Il contrasto sfociò nel movimento Euromaidan (nome della piazza di Kiev più prefisso filo UE), una protesta assai consistente, in gran parte costituita da giovani laureati, agguerrita sui social (con un’ala di esplicita destra estrema), pacifica, che dilagò nel Paese.
Janukovich strinse sui diritti fondamentali. Nel febbraio 2014, a Kiev, le forze di sicurezza spararono sui cortei (un centinaio di vittime). Il parlamento reagì subito, ridusse i poteri del Presidente e lo rimosse (una procedura contestata da Janukovich, il quale scappò in Russia) con un sostituto provvisorio (il presidente fu eletto a fine maggio al primo turno).
UE a Kiev
Simili eventi, attrassero in Ucraina molti funzionari occidentali, per sollecitare sia le elezioni anticipate che l’integrazione con l’UE. Presenza contradditoria, visto che tanti ucraini (specie ad est) erano contro Euromaidan, anche per i rischi che potevano correre i cittadini russofoni se il Paese fosse entrato nell’orbita occidentale.
Putin si riservò la risposta. A metà marzo, i filorussi assunsero il controllo della Crimea, il cui Parlamento convocò un referendum per separarsi dall’Ucraina. Una volta vinto, con proteste ucraine ed occidentali, la Russia annesse la Crimea.
Donbass e Crimea
Subito dopo, nell’est dell’Ucraina (Donbass) nacquero le repubbliche filorusse di Donetsk e Lungansk, che presero le armi contro l’Ucraina. Intanto, in ambito NATO, Stati Uniti e Inghilterra presero ad addestrare le truppe ucraine nel centro di Yavoriv (ovest). Nessuna sorpresa. Fin dal 1999 la NATO ha in Ucraina un Ufficio di consulenza a livello strategico.
Divamparono scontri armati e violenze degli estremisti di Euromaidan, con picco a luglio, seguiti da trattative di tregua a Minsk, promosse dall’OCSE (con Francia e Germania), tra Ucraina, Donetsk, Lungansk, Russia, concluse ad inizio settembre legando l’integrità territoriale ucraina allo status speciale del Donbass.
Scontri armati
Ma il Parlamento di Kiev aggirò questa clausola, e a metà ottobre le elezioni approvarono. Seguirono nuovi scontri armati mentre Donetsk e Lungansk confermarono la separazione il 2 novembre.
Nuovo protocollo
A Minsk ripresero serrate trattative tra Francia, Germania, Russia, Ucraina e l’11 febbraio 2015 fu redatto un secondo protocollo. Che ribadì ed ampliò il primo, dettagliando che l’Ucraina avrebbe introdotto, riformando la Costituzione entro l’anno, l’autonomia permanente di Donetsk e Lugansk.
Esaminare gli eventi focalizza un Occidente segnato dai rapporti di potere internazionale, incline a mettere il becco ovunque, pronto (la NATO in particolare) a stuzzicare il nemico, ma disattento al far maturare la libertà in Ucraina.
Dove il presidente eletto, filo occidentale e pro UE, tentò di stabilizzare l’economia ma non introdusse un nuovo sistema per gestire gli appalti pubblici, non isolò gli oligarchi e non rimosse i conflitti con il Donbass.
Così restarono le tensioni tra indipendentisti e separatisti, mentre l’Ucraina violò il Minsk2 sull’autonomia al Donbass nel 2015. Nel 2016 a Varsavia la NATO, continuando nella linea di illudere, avviò l’assistenza all’Ucraina in appoggio alle sue aspirazioni di adesione, ma tra i membri dell’Alleanza atlantica non c’era l’unanimità per realizzarla.
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Dall’inizio di settembre 2024 è attivo il Centro Ostetrico “S. Antonio da Padova” a Kraké, un quartiere nella periferia di Cotonou, città situata nella parte sud-orientale del Benin.
50 parti
La nuova struttura è stata finanziata dall’associazione MMIA ODV (Medici e Maestri in Adozione onlus), il cui presidente è il medico Mario Mariani. In soli due mesi di attività, cinquanta donne hanno scelto di partorire nella nuova struttura. Una neo mamma ha persino dato alla luce tre gemelli.
Le visite pre e post parto sono state oltre 80. Inoltre sono state effettuate anche una settantina di ecografie da un medico formato grazie un programma di specializzazione sostenuto dall’associazione.
Pannelli fotovoltaici
Tutto ciò è stato possibile anche grazie a pannelli fotovoltaici, installati e donati da EF Solare La società è tra i principali operatori fotovoltaici in Europa. Gode di una partecipazione del 70 per cento di fondi di F2i Sgr (più grande gestore indipendente italiano di fondi infrastrutturali, ndr) e del 30 per cento da Crédit Agricole Assurances.
Grazie ai pannelli, collegati ad un sistema di accumulo, il centro ostetrico è operativo 24 ore su 24. Il sistema è “stand alone” ed è sufficiente per assicurare il 100 per cento del fabbisogno energetico della struttura.
Nuove sale
Il “S. Antonio da Padova” punta in alto. Non si accontenta dei risultati ottenuti in così breve tempo. Vorrebbe diventare un centro d’eccellenza per la salute femminile a Kraké. Infatti sta progettando, in collaborazione con una ONG locale, ELEP (Enfance Libre et Epanouie), la costruzione di tre nuove sale per la radiologia (con un mammografo già disponibile), microbiologia e piccola chirurgia, compresi interventi cesarei.
Basta spostamenti
Tutta la zona dispone di pochi servizi per mancanza di fondi. Ma, grazie la realizzazione del centro ostetrico, la popolazione femminile può ora godere di cure in loco, senza dover affrontare faticosi spostamenti e relativi costi di viaggio.
MMIA ODV è attiva non solo in Benin. Ha allestito scuole e centri medici nella Repubblica Centrafricana, a Zanzibar e persino in Amazzonia, in Buthan (in Asia) e ora sta terminando la realizzazione di centro odontoiatrico a Haiti.
Africa ExPress @africexp
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Dal Nostro Corrispondente Sportivo Costantino Muscau
17 dicembre 2024
Un festival panafricano. In Arabia, Europa, Asia, imperversano i maratoneti, non proprio tutti di prima fascia, ma pur sempre di buon livello.
Abu Dhabi – Africa
La sesta edizione della Adnoc Abu Dhabi Marathon, sabato 14 dicembre, si è vestita tutta di…nero. Nella gara maschile dei 42,195 km al vincitore etiope Chala Ketema Regasa, 27 anni, col tempo di 2h06’33”, sono seguiti 4 keniani, un eritreo, un sudafricano e altri due etiopi. L’unico estraneo fra i primi 10 è stato il secondo classificato, Ibrahim Hassan, 27 anni, di Gibuti. Terzo è giunto Wilfred Kirwa Kigen (2h06:47).
Nella competizione femminile, alla spalle della kenyana Catherine Reline Amanang’Ole , 22 anni, si sono piazzate – per limitarci alle prime 8 – l’eritrea Dolshi Tesfu Teklegergish, 25 anni, la keniota Aurelia Jerotich KIPTUI, 28 anni, e ben sei altre etiopi.
Record di presenze
L’evento sportivo della capitale degli Emirati Arabi Uniti (e dell’ omonimo emirato) è “giovane” ma in continua crescita: quest’anno ha attirato 33 mila iscritti, record di presenze in 6 anni.
È pur vero che i top runners l’hanno disertato, ma sul piano tecnico, nell’insieme, non ha deluso: i primi tre sono scesi sotto le 2 ore e 7 minuti e il monte premi è pur sempre stato sostanzioso, 300 mila dollari, di cui 50 mila ai vincitori.
“Sono molto orgoglioso e onorato di essere il primo etiope a vincere questa maratona – ha dichiarato Regasa – Ora tiro un po’ il fiato e poi riprendo gli allenamenti per portare gloria al mio Paese”.
Bronzo mondiale
Fra le donne, c’era un’osservata speciale – ha scritto la Fidal nel suo sito – la giovanissima keniana Catherine Reline Amanang’ole, bronzo mondiale sulla mezza maratona (1h05:39), quest’anno a Copenhagen.
All’ombra degli iconici grattacieli di Abu Dhabi, Catherine ha fatto il suo esordio vero sui 42 km con successo, fermando il cronometro su un tempo buono ( 2h20’ 34”) e distaccando di 3 e 6 minuti le immediate inseguitrici.
Fino a sabato aveva percorso la distanza altre due volte, a Londra, ma facendo la pacemaker, ovvero da apripista per atlete più titolate. “Sono eccitata e incredula per questo successo – ha commentato Catherine sul traguardo – le condizioni climatiche e il percorso piatto mi hanno favorito, ma non pensavo davvero di vincere!”.
Europa
Dalla penisola araba corriamo in Europa, alla penisola iberica: altro festival, altre triplette. A Malaga, in Spagna, domenica 15 dicembre, alla 14a edizione della General Malaga Marathon, (16 mila iscritti, col 60 per cento di stranieri!), primo è stato il keniota ventiquattrenne Vincent Kipkorir Kigen (2h08:05), che ha staccato il compatriota Micah Kipkosgei Chemweno (2h09:21) e l’ugandese Andrew Rotich Kwemoi (2h10:20), 24 anni, campione nazionale sui 10 mila metri.
Al femminile, un altro terzetto sul podio, ma tutte delle ragazze etiopi: sul gradino più alto, Aynalem Desta Gebre (2h25:10), con a fianco Adanech Mesfen Mekonen (2h26:01) e la 19enne Gojjam Tsegaye Enyew (2h26:13), all’esordio in maratona e nota per il quinto posto alla Stramilano del marzo scorso. Una stella emergente, viene definita.
Giornata gloriosa
Dalla Spagna alla Turchia, il 15 dicembre è stata un’altra giornata gloriosa per i runners africani. A Mersin (sud della Turchia), la favorita ugandese Juliet Chekwel, 34 anni, ha rispettato il pronostico con un successo in 2h29:18 sulle keniane Deborah Sang (2h30:29) e (altra trentaquattrenne) Truphena Chepchirchir (2h31:06).
E nella corsa maschile, chi riporta il titolo? Un keniano, al suo primo trionfo in carriera. Bethwell Kipkemboi, 31 anni, in 2h08:13 la spunta sul connazionale Boaz Kipkemei (2h08:24).
Terzo il turco ex-keniano Ilham Tanui Özbilen, 34 anni, con il personale portato a 2h08:36, migliorando il 2h08:59 del sesto posto nella maratona di Milano 2024. Ma veramente pare che sul dominio dei runners africani non tramonti mai il sole. Voliamo a Taipei, nell’Asia più lontana.
Pure a Taiwan
Qui ha tagliato solitario il traguardo, il keniano Brimin Kipkorir Misoi in 2h11:41, che ha superato l’etiope Gadisa Birhanu, 32 anni, e il trentottenne eritreo Okubay Tsegay.
Maratoneta contadino
Brimin, 35 anni, non è un maratoneta qualunque. Originario di Kapkitony, si considera un contadino, perché quando non gareggia aiuta la famiglia a coltivare i campi per far crescere piselli e mais e curare il bestiame.
Tra le difficoltà a trovare un manager che lo assistesse e tanti guai fisici, aveva pensato di ritirarsi dalle corse. Poi ha resistito e negli m ultimi anni ha trionfato per due volte di seguito a Francoforte, poi a Sydney e a Nairobi. E ora in Cina, nella capitale di Taiwan.
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Speciale per Africa ExPress Sandro Pintus 16 dicembre 2024
Due multinazionali sono responsabili della disfunzione erettile degli uomini namibiani e degli aborti delle donne. Le aziende sono la svizzera IXMetals (IXM) e la canadese Dundee Precious Metals (DPM) che da 14 anni in Namibia gestisce l’impianto per conto IXM.
Trecentomila tonnellate di veleno
Il giornale svizzero Ticino on line riporta che si tratta una megadiscarica nella quale sono state sversate 300 mila tonnellate del micidiale veleno, residuo dell’estrazione del rame e dei lavori in fonderia. Succede nell’area di Tsumeb, capitale della regione di Oshikoto, Namibia settentrionale, un centinaio di km a sud-est del Parco nazionale Etosha.
Sia i dipendenti che i residenti di Tsumeb, (11.000 abitanti) hanno alti tassi di avvelenamento da arsenico dovuto alle infiltrazioni nelle falde acquifere. La denuncia viene dalla Svizzera, portata avanti dalla “Coalizione per multinazionali responsabili”, unione composta da 96 organizzazioni della società civile.
Impedita la pubblicazione dei dati
Eppure i dati dell’avvelenamento da arsenico erano conosciuti già dal 2011. Il governo della Namibia aveva cofinanziato uno studio che mostrava una situazione allarmante: tra la popolazione della regione quasi una persona su sei aveva livelli di arsenico superiori al limite fissato dall’OMS.
Uno dei ricercatori, che vuole rimanere anonimo, ha confessato alla Coalizione che gli è stata impedita la pubblicazione dei dati.
Non solo impotenza e aborti
Oltre alla disfunzione erettile gli abitanti di Tsumeb, avvelenati dal metalloide, soffrono di altri sintomi. Tra questi anche “cecità temporanea o permanente e il loro corpo è colpito da eruzioni cutanee con pustole che esplodono e sanguinano”, scrive il quotidiano svizzero.
L’attivista namibiana Lisken Claasen: “Qui siamo tutti avvelenati. Siamo seriamente preoccupati per la nostra salute, i nostri uomini stanno diventando impotenti – ha raccontato il giornale ticinese -. Molte persone soffrono di diabete o pressione alta, ci sono tanti aborti spontanei e neonati con disabilità. Devono almeno garantirci cure gratuite”.
Discarica venduta ai cinesi
Dopo 14 anni di inquinamento e gravissimi danni alla salute della popolazione le due multinazionali volevano liberarsi del “problema” e hanno venduto ai cinesi.
Ci sono voluti mesi di trattative e, nel settembre scorso, la cinese Sinomine Resource Group ha acquisito la fonderia e la discarica. I canadesi di DPM avevano fatto un investimento vicino ai 500 milioni di dollari e il tutto è stato svenduto a Sinodine per 15,9 milioni. Come dire: “Sbarazziamoci prima possibile del problema”. Anche perché nuovi gestori si assumeranno la responsabilità legale della discarica.
Il business di Sinomine
Molti si chiederanno perché Sinomine Resource Group si è voluta impelagare nella grana creata da IXP e DPM. Sicuramente il prezzo di acquisto è stato molto conveniente. Secondo l’agenzia Reuters la discarica contiene 746 tonnellate di germanio. Questo è un metalloide utilizzato nei semiconduttori e nella produzione di chip, nella tecnologia a infrarossi, nei cavi a fibre ottiche e nelle celle solari.
Il germanio è solo uno dei metalloidi presenti nella discarica. Secondo una relazione tecnica le code di fusione contengono anche circa 410 tonnellate di gallio metallico e oltre 209 mila tonnellate di zinco metallico. Ma anche 14.300 tonnellate di rame, 5.300 di molibdeno, 743 di antimonio e 61.700 di piombo.
Un tesoro che speriamo non vada solo nelle tasche degli azionisti ma che sia anche utilizzato per bonificare l’area inquinata e risarcire equamente e curare la popolazione avvelenata di Tsumeb.
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Il passaggio del ciclone Chido, che si è abbattuto ieri su Mayotte, ha lasciato dietro di sé distruzione e morte.
Mayotte, situata nel canale di Mozambico, è un dipartimento francese oltremare, ed è la più povera delle regioni d’oltralpe. Comprende due isole principali, Grande-Terre et Petite-Terre.
Morti sepolti
Secondo il prefetto del dipartimento francese, François-Xavier Bieuville , sarebbero morte centinaia di persone, forse anche migliaia, anche se finora le vittime ufficiali sono solamente 11. Anche il ministro degli Interni francese dimissionario, Bruno Retailleau, teme che le perdite di vite umane possa essere davvero pesante.
Ma, sempre quanto riferito da Bieuville, “sarà difficile aver un bilancio definitivo, visto che secondo la tradizione musulmana, i morti devono essere seppelliti entro 24 ore dal decesso. E l’islam è molto diffuso nelle baraccopoli, quasi completamente divelte dal ciclone.
Soccorsi difficili
Il giorno dopo, 15 dicembre, la scena che si presenta nell’arcipelago è a dir poco apocalittica. Anche le scuole e gli ospedali sono stati colpiti, per non parlare delle povere case. “Il fenomeno non ha risparmiato nulla sul suo cammino”, ha spiegato il sindaco di Mamoudzou, Ambdilwahedou Soumaila. “La situazione degli abitanti delle baraccopoli è complicata, perché i servizi di emergenza non hanno potuto raggiungere la zona del disastro a causa dell’allerta viola” (cioè, evento meteorologico estremo, con conseguente pericolo di vita e notevoli danni a cose), ha aggiunto il sindaco.
Niente elettricità
Nel 101esimo Dipartimento francese manca la corrente elettrica quasi ovunque, anche le linee telefoniche funzionano a singhiozzo. “Mayotte è praticamente tagliata fuori dal mondo” ha riferito il gestore di un albergo all’emittente Mayotte 1ère.
Non solo Baraccopoli
Ma non sono state distrutti solo i quartieri poveri. Chido si è portato via anche i tetti di strutture solide, come quello del Consiglio di Dipartimento, il Consiglio di Contea, il municipio, l’aeroporto. Si possono contare gli edifici che sono rimasti indenni.
Sul molo che collega Petite-Terre a Mamoudzou, il cartello tricolore con la scritta “Mayotte è francese e lo rimarrà per sempre” non c’è più. Ma la Francia ha promesso il suo sostegno. Il nuovo primo ministro di Parigi, François Bayrou, ha affermato di “mobilitare tutte le risorse” dello Stato per affrontare la situazione.
Anche Emmanuel Macron, che oggi era in Corsica in occasione della visita del Papa, ha assicurato che il governo interverrà quanto prima.
Aiuti attivati
Parigi ha già attivato un ponte aereo e marittimo per portare personale e attrezzature di soccorso e acqua e cibo dall’isola francese di La Riunione a Mayotte.
Gran parte degli abitanti vive da sempre in condizioni precarie, non hanno ottenuto dalla Francia i benefici e il tanto sperato progresso.
Bisognosi da sempre
La povertà è endemica, le disuguaglianze sociali sono abissali. Le infrastrutture sono assolutamente insufficienti. La popolazione residente è passata da 40 mila nel 1978 a quasi 290.000 mila. Cifra sicuramente sottostimata. Il 50 per cento della popolazione è straniera, tra loro il 95 per cento proviene dalle vicine Comore, un terzo degli abitanti sono migranti “irregolari”.
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Speciale per Africa ExPress Cornelia I. Toelgyes 14 dicembre 2024
L’esercito francese ha iniziato il ritiro dal Ciad con due Mirage 2000. Gli aerei da combattimento hanno lasciato la base di Adji Kossei a N’Djamena già martedì scorso e sono volati in direzione Francia, accompagnati da un aero da rifornimento MRTT.
Partenza immediata
Parigi non ha perso tempo a preparare i bagagli dopo l’annuncio a sorpresa del 28 novembre 2024 del governo ciadiano di voler interrompere quanto prima gli accordi di cooperazione di difesa e sicurezza con la Francia.
Inizialmente il ministro degli Esteri di N’Djamena, Abderaman Koulamallah, aveva fissato un termine di 6 mesi per il ritiro delle truppe di Parigi. Ma due giorni più tardi il primo ministro, Allamaye Halina, ha chiesto di accelerare la partenza. E così la Francia “sta obbedendo” agli ordini imposti dal governo ciadiano.
Commissione speciale
Mercoledì 4 dicembre, il Ciad ha istituito una commissione speciale per supervisionare la cessazione dell’accordo militare tra Parigi e N’Djamena, per un “ritiro ordinato degli impegni bilaterali”.
La commissione, presieduta dal ministro degli Esteri, ha il compito di “notificare ufficialmente alle autorità francesi la fine dell’accordo di cooperazione militare attraverso i canali diplomatici”, secondo un decreto firmato dal Primo Ministro.
Richiesta inaspettata
La decisione di voler mandare a casa i francesi, era stata annunciata poche ore dopo una visita del capo della diplomazia di Parigi, Jean-Noël Barrot. Tale comunicato ha sbalordito il governo francese, in quanto fino a pochi giorni prima non ci sono state contestazioni o critiche contro il contingente d’oltralpe.
Il Ciad, uno tra i Paesi più poveri al mondo, è ancora in fase di transizione politica, dopo la presa del potere di Mahamat Déby Itno nel 2020, alla morte del padre Idriss. Le contestate presidenziali del maggio scorso intendevano legittimarlo come capo dello Stato.
Profughi, sfollati, terroristi
Attualmente il Paese è ancora sotto attacco da parte del gruppo jihadista Boko Haram nel nord-ovest del suo territorio. Inoltre è invaso da un afflusso enorme di rifugiati dal vicino Sudan, in guerra da quasi 18 mesi. Per di più, i danni causati da una stagione delle piogge senza precedenti, ha provocato un’ondata di sfollati, più di 2 milioni.
Nei giorni scorsi nella capitale ciadiana si è tenuta una manifestazione a sostegno dell’interruzione della cooperazione militare con la Francia.
Come Mali, Burkina Faso e Niger – i tre Paesi del Sahel, governati da una giunta militare di transizione dopo i colpi di Stato – ora anche il Ciad ha messo alla porta i francesi.
Anche il presidente del Senegal, Bassirou Diomaye Faye, vuole chiudere la basi francesi nel Paese, dove attualmente sono presenti 300 militari d’Oltralpe.
No ai russi
Ma, al contrario dei suoi vicino golpisti (Burkina Faso, Mali e Niger) il ministro degli Esteri ciadiano ha affermato che dopo la partenza dei francesi non arriveranno altri militari stranieri nel Paese, compresi i russi.
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Speciale per Africa ExPress Cornelia I. Toelgyes
12 dicembre 2024
Ieri ministero delle Finanze e dello Sviluppo del Somaliland ha inaugurato nel porto di Barbara un centro per lo smistamento e il transito delle merci provenienti dall’Etiopia o destinate all’Etiopia.
Accesso al mare
Una tappa importante nel partenariato economico tra Somaliland ed Etiopia. Quasi un anno fa l’allora presidente del Paese, Musa Bihi Abdi, e il primo ministro etiopico, Abiy Ahmed, avevano siglato un Memorandum of Understanding (MoU) per l’utilizzo del porto di Berbera.
Da quando l’Eritrea ha ottenuto l’indipendenza, l’Etiopia è senza sbocchi al mare. Ha quindi chiesto e ottenuto da Hargeisa, in concessione per 50 anni, 20 chilometri di costa intorno al porto somalilandese, che si trova sul Golfo di Aden.
Autoproclamata indipendenza
Va ricordato che il Somaliland, ex colonia britannica ha proclamato l’indipendenza dal Regno Unito il 26 giugno 1960 (si chiamava Stato del Somaliland), e, dopo 5 giorni si è unita alla Somalia Italiana, indipendente dal 1° luglio dello stesso anno. Dopo lo scoppio della guerra civile somala il 30 dicembre 1990, e il conseguente collasso della Somalia, il 18 maggio 1991 il Paese si è ritirato dall’unione. Ma il suo governo non è stato riconosciuto dalla comunità internazionale, tanto meno dalla Somalia.
L’autoproclamata Repubblica ha un proprio governo, una propria moneta e le proprie strutture di sicurezza. Tuttavia, non essendo riconosciuta da nessun Paese del mondo, l’accesso ai finanziamenti internazionali multilaterali e le possibilità di viaggiare dei suoi abitanti sono limitati.
Recentemente nel Somaliland si sono tenute le elezioni presidenziali vinte dal leader dell’opposizione, Abdirahman Mohamed Abdullahi. Durante la campagna elettorale il candidato poi eletto si era espresso in modo diplomatico sul MoU siglato tra i due Paesi.
MoU non ratificato
Visto che ora la collaborazione tra Addis Abeba e Harghesia sta facendo i primi passi, anche se l’accordo tra le parti non è stato ancora ratificato, pare evidente che il neopresidente abbia messo da parte le proprie iniziali riserve.
Abdiresheed Ibrahim, direttore generale del ministero del Commercio e del Turismo del Somaliland, ha sottolineato l’importanza di questa prima tappa: “Si tratta di una grande pietra miliare nei rapporti commerciali e di investimento tra i nostri due Paesi. Questo accordo dimostra l’impegno del Somaliland per rafforzare i partenariati regionali ed economici”.
Violazione sovranità
La Somalia sin dall’inizio ha considerato il MoU come una violazione della propria sovranità. La tensione tra Addis Abeba e Mogadiscio era salita alle stelle, tantoché la nostra ex colonia aveva persino minacciato di espellere le truppe etiopiche di stanza nel Paese per combattere i sanguinari miliziani al Shebab.
La Turchia è il principale alleato di Mogadiscio, con cui ha firmato un accordo di difesa marittima, e agisce come mediatore per ridurre le tensioni nel Corno d’Africa. E ieri ad Ankara è stato finalmente trovato un accordo tra Abiy Ahmed, primo ministro etiopico, e il presidente somalo, Hassan Cheikh Mohamoud.
In passato la Turchia ha agito anche in qualità di mediatore tra la Somalia e il Somaliland.
Accordo
“È la fine di un incubo, spero che sia il primo passo verso un nuovo inizio basato sulla pace e sulla cooperazione”, ha dichiarato Recep Tayyip Erdogan, dopo diverse ore di negoziati tra le parti.
I leader dei due Paesi hanno di fatto dichiarato di voler trovare accordi commerciali per consentire all’Etiopia “un accesso affidabile, sicuro e sostenibile da e verso il mare”.
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E’ terminata pochi giorni fa una nuova campagna di reclutamento per giovani kenioti desiderosi di andare a lavorare all’estero. Un’ iniziativa fortemente voluta dal governo di Nairobi per combattere l’elevata disoccupazione nella ex colonia britannica. William Ruto, presidente del Kenya, ha fatto sapere che è sua intenzione di inviare settimanalmente 5mila lavoratori in altri Paesi.
Dal 18 novembre al 6 dicembre le autorità competenti di Nairobi hanno organizzato in tutte le contee il reclutamento di giovani interessati a un’occupazione fuori dal continente africano. Il portavoce del governo, Isaac Mwaura, ha evidenziato che i richiedenti in possesso delle qualifiche richieste potranno andare a lavorare anche in Russia, Polonia, Giordania e in molti altri Paesi, compresa l’Arabia Saudita.
Accordo con Germania
Recentemente Nairobi ha siglato anche un accordo con Berlino, che ha accettato di far entrare in Germania lavoratori kenioti qualificati e semi-qualificati. Il Kenya ha enormi difficoltà nel fornire in patria lavoro e reddito sufficiente ai suoi giovani professionisti, mentre la Germania sta affrontando una carenza di manodopera qualificata.
Il 6 dicembre scorso le autorità del Kenya hanno espressamente invitato giovani donne a presentarsi per un colloquio di lavoro come bambinaie in Arabia Saudita. Il Paese del Golfo è alla ricerca di almeno 500 tate.
“Venite pulite e ben vestite ed esprimetevi in inglese perfetto”, ha precisato il ministro del Lavoro del Kenya, Alfred Mutua.
Il Kenya ha annunciato che solo tre settimane fa sono stati modificati gli accordi di lavoro con gli Stati del Golfo.
Moderna schiavitù
In parecchi Paesi arabi, molti lavoratori, specie per quanto riguarda i collaboratori domestici, come appunto le bambinaie, viene ancora applicata la Kafala. Tale norma vincola la residenza legale alla relazione contrattuale con chi li ha assunti. Ciò significa che un migrante non può cambiare impiego senza autorizzazione del datore di lavoro. Se un dipendente rifiuta, decide di abbandonare l’abitazione senza il consenso del padrone, rischia di perdere il permesso di soggiorno e di conseguenza il carcere e l’espulsione.
Tale regolaequivale a una forma di moderna schiavitù. Per poter lasciare il Paese, tale meccanismo prevede un visto di uscita, per ottenerlo il datore di lavoro deve dare il suo benestare.
Numerosi abusi
Dunque ci sono dubbi sulle condizioni di lavoro degli africani negli Stati del Golfo. Un rapporto della Commissione per la giustizia amministrativa del Kenya, pubblicato nel 2023, segnala numerosi abusi: sfruttamento, confisca dei passaporti, violenze, stupri, e quant’altro. Tra il 2019 e il 2021, 90 cittadini kenioti sono morti in questi Paesi e sono state registrate quasi 2.000 richieste di soccorso.
La Commissione per la giustizia amministrativa chiede quindi un quadro giuridico migliore. Una proposta di legge sul lavoro dei connazionali all’estero è pendente in Parlamento di Nairobi da oltre due anni.
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Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes 9 dicembre 2024
Centinaia di mercenari colombiani sono stati arruolati con l’inganno per combattere in Sudan nei ranghi delle Rapid Support Forces del generale Mohamed Hamdan Dagalo “Hemetti”, gli ex janjaweed Il Paese sudamericano da cui arrivano i militari dista oltre 11.500 chilometri dall’ex protettorato anglo-egiziano.
In mezzo al deserto
Alla fine di novembre, i mercenari, una quarantina, sono caduti in un’imboscata, tesa da combattenti alleati dell’esercito sudanese (SAF), in mezzo al deserto tra Libia e Sudan. I colombiani facevano parte di un convoglio che trasportava anche armi.
Alcuni di loro sono stati catturati dalle forze alleate governative, diversi altri sono stati uccisi. I passaporti dei colombiani sono comparsi in un video che è finito in rete.
E, come riferisce il giornale online colombiano La Silla Vacía, i combattenti delle forze alleate sudanesi non hanno voluto credere ai propri occhi quando hanno scoperto l’identità delle persone che facevano parte del convoglio. “Ma sono colombiani – ha esclamato un sudanese, dopo aver ispezionato i passaporti -. E cosa ci fanno qui questi mercenari? Sono loro che continuano a uccidere la nostra gente?”
Salario 3 mila dollari
Sempre secondo il giornale sudamericano, gli ex soldati colombiani sarebbero stati reclutati a Bogotà dalla International Services Agency A4SI per la messa in sicurezza di infrastrutture petrolifere negli Emirati Arabi Uniti (UAE).
Il contratto con la società prevedeva un salario minimo di 3.000 dollari mensili. Molto per gli ex soldati messi a riposo dal governo. La loro pensione spesso non supera i 300 dollari.
UAE – Libia – Sudan
International Services Agency A4SI non ha mantenuto le clausole d’impiego circa la destinazione. Una volta giunti negli Emirati, i colombiani sono stati trasportati via Dubai o Abu Dhabi in Libia, dove sono stati presi in carica dai paramilitari delle RSF.
Pare che oltre 300 soldati di ventura provenienti da Bogotà stiano combattendo in Sudan accanto ai paramilitari sudanesi. Ma c’è chi sostiene che siano molti di più. Il dispiegamento dei sudamericani coinvolge le autorità di Abu Dhabi, Khalifa Haftar e il suo clan da sempre vicini alle RFS e naturalmente i paramilitari sudanesi.
I malcapitati colombiani, prima di andare sul fronte in Sudan, devono frequentare un corso di addestramento in un campo segreto di Haftar, nell’area di Bengasi, capoluogo della Cirenaica. Tutt’ora altri 120 aspiranti mercenari si trovano in Libia per la loro formazione, sembra però che 40 di essi si rifiutino di andare a combattere in Sudan.
Pratica vietata
La questione dei mercenari in Sudan è stata riportata ampiamente dai giornali locali del Paese sudamericano. Gustavo Petro, presidente della Colombia, ha scritto sul suo account X (ex Twitter) “Tale pratica deve essere vietata”.
Di fatto lo è già, secondo la Convenzione Internazionale dell’ONU del 2001 contro il reclutamento, l’uso, il finanziamento e l’addestramento dei mercenari.
Anche l’Unione Africana ha adottato clausole contro il mercenariato. Eppure soldati di ventura sono presenti in diversi Paesi del continente.
Scuse di Bogotà
Il governo di Bogotà si è scusato ufficialmente con Abdel Fattah Abdelrahman al-Burhan, de facto presidente e capo dell’esercito del Sudan, per il coinvolgimento di connazionali nel conflitto.
Spediti a Mosca
Ex soldati colombiani sono stati reclutati come mercenari anche dall’Ucraina. Due di loro sono attualmente in una prigione moscovita.
Di ritorno dal fronte ucraino, dove avevano combattuto con le truppe di Kiev, i due mercenari avevano fatto uno scalo in Venezuela, perché il biglietto aereo costava meno su quella tratta. Una volta arrivati all’aeroporto di Caracas, sono stati arrestati dalla polizia venezuelana e rispediti a Mosca. Per giorni e giorni le famiglie sono rimaste con il fiato sospeso, perché non avevano più notizie dei loro congiunti.
Galera in Russia
Finalmente, dopo alcune settimane di totale silenzio, è stato scoperto che il Venezuela aveva spedito i poveracci in Russia senza avvertire i familiari. Il presidente venezuelano, Nicolas Maduro, ha dimostrato così la sua lealtà verso Mosca, che aveva riconosciuto senza indugiare la sua rielezione.
Mentre Petro aveva preso immediatamente le distanze dal suo omologo venezuelano dopo le tanto contestate presidenziali della scorsa estate. E, alla fine di agosto, Mosca ha fatto sapere che i due colombiani sono rinchiusi in una galera russa e rischiano una condanna di 15 anni per aver combattuto come mercenari in Ucraina.
La Colombia ha vissuto un lungo conflitto armato e i militari hanno grande esperienza in fatto di combattimenti armati. Lo stesso vale per gli ex paramilitari e guerriglieri. Secondo gli esperti, sono circa 4.000 i mercenari colombiani coinvolti negli attuali conflitti. Recentemente Bogotà ha ammesso che in Ucraina sono morti una cinquantina colombiani.
Crisi umanitaria
Dall’aprile 2023 il Sudan è devastato da una terribile guerra civile tra i due generali Hemetti e al-Burhan. Decine di migliaia di persone sono morte in quasi 20 mesi di guerra, ma non solo sotto le bombe: anche per fame, perché gli aiuti umanitari tardano ad arrivare. Oltre 25 milioni di persone necessitano di aiuti alimentari, tra questi 755 mila sono in condizioni di fame acuta. Nel Paese si sta consumando la peggiore crisi umanitaria.
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